La passione brucia la carne

“Kanntest jeder Zug in meinem Wesen,
  spaetest wie die reinste Nerve klingt,
  konntest
mich Einem Blicke lesen
  den so schwer ein sterblich Aug durchdringt.
  Tropftest Maessigung den heissen Blute,
  richtetest den wilden irren Lauf,
  und in deinen Engelsarmen ruhte
  die zerstoerte Brust sich wieder auf,
  hieltest zauberleicht ich angebunden
  und vergaukeltest ihm manchen Tag.”

Goethe declamava questi versi, mentre Angelica sistemava la propria persona prima di uscire dall’appartamento.
Lei rispose cantando con la sua bella voce forte, soave e molto sensuale un Lieder dolce, che parlava d’amore.
Il poeta la ascoltava in silenzio: “E’ veramente brava sia come pittrice, sia come cantante. Ha delle doti fuori del comune. Penso che trasformerò Ifigenia da opera di prosa in versi da potere essere rapresentata a teatro. Angelica potrebbe disegnare le scene. Sarebbe una bella idea”.
Il poeta osservava Angelica con gli occhi della passione mentre senza falsi pudori si rivestiva dopo il rapporto amoroso lungo ed inebriante.
“E’ bella e sa accendere il sacro fuoco della passione! E’ sensuale, misteriosa ed eccitante. Come ho potuto essere così cieco e sordo ai suoi richiami?”
Lei disse al termine del canto: “Wolfgang, questo Lieder l’ho cantato per te, per farti assaporare la soddisfazione che porto nel cuore. E’ stato tutto dolce ed inebriante dopo tanta astinenza! Vorrei che questi momenti rimanessero fermi per gustare con calma il calice dell’amore”.
Goethe si alzò e avvicinandosi la baciò con passione, mentre Angelica si abbandonava tra le braccia.
Con dolcezza la portò nuovamente sul letto perché sentiva ancora il desiderio di lei.
Angelica lasciò fare, perché non si sentiva ancora appagata, mentre pensava: “Il piacere è intenso, ma l’amore verso di te è sublime. Vorrei essere posseduta per godere le gioie dell’essere amata! Mi sento tua, ma il sacro fuoco dell’amore arde dentro di me! Mai prima d’ora ho provato sensazioni così intense. Mai prima d’ora ho desiderato un uomo!”
Era pomeriggio inoltrato quando i due amanti emersero dall’appartamento e si avviarono verso Trinità dei Monti, da dove potevano ammirare lo spettacolo di Roma illuminata dal caldo sole di Giugno.
Si sentivano felici come due ragazzini tanto era stato il loro appagamento.
Scesero la scalinata verso la sottostante piazza di Spagna tra i saluti dei passanti e dei conoscenti: Angelica era conosciuta da tutti per la sua fama e la sua bellezza.
Passeggiarono a lungo andando verso il Tevere e da lì a San Pietro, parlando fitto di poesia, di pittura e di musica.
La giornata volgeva al termine, mentre un bel tramonto incendiava la città. Non erano stanchi, né sentivano i morsi della fame, anche se non avevano mangiato nulla dalla mattina.
Stavano tornando indietro verso il Pincio, quando videro sotto un pergolato i tavoli pronti per la sera. Si sedettero e chiesero all’oste di servire loro qualcosa.
“Lo sappiamo che siamo molto in anticipo e voi non siete ancora pronti, ma ci va bene qualsiasi cosa abbiate pronta” disse Goethe alla moglie che con un grembiule bianco si era avvicinata per sentire cosa volevano quest’uomo e questa donna dall’aria distinta.
“Non c’è nulla sul fuoco” rispose la donna un po’ mortificata, “ma se avete pazienza possiamo prepararvi una cenetta a base di agnello ed erbette. Nel frattempo vi posso portare pecorino fresco, pane di giornata e un generoso vino rosso per ingannare l’attesa”.
“Va benissimo. Oltre al vino portateci anche una brocca di acqua fresca, perché abbiamo la gola secca per il caldo” rispose Goethe.
Angelica era radiosa e bella con i capelli scomposti per la lunga giornata trascorsa nell’appartamento, mentre guardava il poeta con intensità.
La donna rientrata in cucina parlò al marito, dicendo: “Quella signora, non ricodo dove l’ho vista. Il viso mi è noto, m non riesco mettere a fuoco chi è”.
“Non ti ricordi? E’ la famosa pittrice Angelica Kauffmann! Per noi è un onore averla al nostro tavolo! Dobbiamo preparare una cena coi fiocchi, perché chissà quando potremmo averla ancora qui!”
“Ora ricordo! Si, è proprio lei! E’ una donna bellissima ed affascinante! Però il suo accompagnatore è un bel giovane”, disse mentre preparava quanto richiesto.
I due amanti parlavano e ridevano, raccontandosi gli ultimi avvenimenti: ne avevano di eventi da descrivere.
Goethe ispirato dal luogo e da Angelica disse ad alta voce: “ Questi sono versi che scrivo in tuo onore”.

Du hast mich rein, und wenn ich’s besser wuesste
so gaeb ich’s Dir; ich tue was ich sage.
So schliesst sie
mich an ihre suessen Brueste
als ob ihr nur an meine Brustbe hange.
Und wie ich Mund und Aug und Stirne kuesste
so war ich doch in wunderbarer Lage:
denn der so hitzig sonst den Meister spielet
wiecht schuleraft zurueck und abgekuehlet.

“Mi lusingate, Wolfgang! Sono davvero belli e tutti per me!” rispose Angelica arrossendo leggeremente.
Era stata una giornata memorabile, da rimanere impressa nelle loro menti e così terminò.

(parte sedicesima)

Per LU

Su una bella card c’erano dei miei versi ed io ho aggiunto questi a commento.

Sul petalo
scivolano leggere
delle gocce di rugiada.
Si raccolgono,
si disperdono,
scendono a terra.
Un minuscolo uccello
si disseta
nel tuo calice.
Un raggio di sole
buca la coltre di nubi
e illumina
il fiore.

L'amore sboccia

I due amanti si fermarono guardandosi a distanza, incerti sul da fare.
Goethe avrebbe voluto colmare in un attimo lo spazio che li divideva, ma rimase immobile, scrutando la reazione di lei.
“Come è bella!”, penso “Più la guardo, più mi sento attratto dalla sua personalità, da quell’aria sensuale che emana il suo corpo. Perché sono stato così sciocco da offenderla. Mi saprà perdonare e accogliere nuovamente presso di sé?”
Rimaneva fermo indeciso tra l’andarle incontro o aspettare che fosse lei a fare il primo passo.
Ad Angelica era svanita tutta la passione mattutina ed ora non sapeva se doveva tornare a casa oppure accettare l’incontro con Goethe.
“Mi sono svegliata con una grandissima voglia di vederlo, toccarlo, parlargli, di stare insieme a lui. Ora non vorrei vederlo, né averlo visto! Però lo desidero, lo voglio. Voglio sentire la sua voce che legge le sue opere. Sento dentro di me la passione troppo a lungo repressa. Cosa devo fare? Sono confusa, ma innamorata o forse sono una innamorata incerta ed indecisa. Mi muovo o resto qui ferma?”
Mentre Angelica rifletteva su cosa fare, Goethe prese l’iniziativa e la raggiunse. Ancora prima che lei potesse proferire parola, le afferrò la mano che baciò con grande calore e disse: “Mia cara Angelica, sono lieto di rivederti dopo un lungo silenzio. Ho fatto un lungo viaggio nel sud dell’Italia visitando posti incantevoli pensando sempre a te. Sarebbe stato meraviglioso se tu avessi potuto accompagnarmi, ma purtroppo non era possibile”.
Stette un attimo in silenzio per rifiatare e vedere le reazioni di lei, poi riprese senza consentirle di rispondere: “Sono stato maleducato ed insolente l’ultima volta che ci siamo visti. Accetta le mie scuse e chiedo di perdonare la mia insolenza”.
Poi tacque, guardandola negli occhi.
Angelica, colta di sorpresa dalle parole del poeta, rimase muta pensando alla risposta da dare.
“Venite, non è conveniente restare qui sulla pubblica strada a discutere e parlare. Saliamo nel mio appartamento sopra lo studio. Lì potremmo conversare e chiarirci i motivi del dissidio comodamente seduti sul divano”.
Lo prese per mano e con passo deciso si avviarono verso le stanze di lei.
Maria, con molta lungimiranza, aveva ordinato ai servi di sistemare l’appartamento con fiori e frutta per renderlo accogliente e confortevole.
Il sole inondava la stanza coi suoi raggi dorati giocando a rimpiattino con mobili e suppellettili.
Si sedettero sul grande divano posto di fronte al camino e tenendosi per mano cominciarono a parlare.
“Wolfgang, ti perdono l’insolenza delle parole usate ed accetto le tue scuse. In tutti questi mesi ho trepidato sperando che arrivasse un giorno come questo. Il mio cuore batteva per te, come ti ho già detto, ma non ha mai smesso in tutto il tempo di scandire l’amore che provo per te. Mi sei mancato. Mi sono mancate le tue parole. Sono stata sorda perché non sentivo la tua voce”.
Goethe l’abbracciò baciandola sulle labbra con ardore, mentre Angelica s’accostava a lui per sentire la presenza del suo corpo.
Il bacio durò a lungo, come i sospiri trepidanti di lei. Avrebbe voluto che continuasse all’infinito, anche se faticava a respirare premuta dal corpo di lui.
Il poeta si staccò e si raddrizzò, dicendo: “Sono stato sciocco a disprezzare il tuo sentimento. Sento dentro di te la passione che emana il tuo corpo. Sei sensuale e fatico a trattenere il desiderio di unirmi a te. Siete una donna splendida, raffinata e colta nel corpo e nella mente, che qualunque uomo vorrebbe avere al suo fianco. Come ho potuto essere così cieco e sordo, non vedendo e non percependo il tuo amore puro e sincero?”
Angelica mise un dito sulle labbra di Goethe per farlo tacere: “Non dite nient’altro. Non turbate questa atmosfera incantata con le vostre recriminazioni. Il tempo è passato, è fuggito via tra le nostre mani, non permettendo di ritornare a quell’epoca. Ora comincia un nuovo giorno. E’ splendido, caldo e voluttuoso. Aspetta solo noi per dare inizio al tripudio delle danze. Non temere, io ti ho aspettata fiduciosa in questi mesi per rendere possibile il miracolo del nostro incontro”.
Tacque ed aspettò che le mani di lui si posassero sul suo corpo per trascinarla sul letto, che alle loro spalle era pronto ad accoglierli.
Goethe capì che era giunto il momento di dare sfogo alla loro passione troppo a lungo repressa.
Un po’ goffamente cominciò a slacciarle il corsetto bianco con mano incerta e un po’ tremolante sperando di completare in fretta l’operazione.
Il letto ampio e a baldacchino li accolse amorevolmente tra le braccia ed assiste muto alle prove d’amore dei due amanti.
I raggi del sole frugavano la stanza alla ricerca dei loro corpi, nascosti sotto candide lenzuola.
Era pomeriggio inoltrato quando lasciarono le stanze per avviarsi verso la piazza vicina.

(parte quindicesima)

La satira

La satira ha una componente di moralismo e una componente
di canzonatura. Entrambe le componenti
vorrei mi fossero estranee, anche perché non le amo
negli altri. Chi fa il moralista si crede migliore degli altri e chi
canzona si crede più furbo, o meglio crede le cose più semplici
di come appaiono agli altri. In ogni caso, la satira esclude
un atteggiamento d’interrogazione, di ricerca. Non
esclude invece una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza
d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico
verso l’oggetto della sua satira…
Però apprezzo e amo lo spirito satirico quando viene fuori
senza una particolare intenzione, in margine a una rappresentazione
più vasta e più disinteressata. E certamente ammiro
la satira e mi faccio piccolo piccolo al suo cospetto quando
la carica dell’accanimento derisorio è portata alle estreme
conseguenze e supera la soglia del particolare per mettere in
questione l’intero genere umano, confinando con una concezione
tragica del mondo

(di Italo Calvino – tratto da “Definizioni di territorio: il comico” e fa parte dei “Saggi 1945-1985”,
volume I (Meridiani Mondadori 2001))


Quale è il confine tra satira ed etica? E’ labile, per non dire invisibile, come quello che separa comportamenti leciti da quelli illeciti. Inoltre questo confine (la cosiddetta border line) si sposta nel tempo  e nello spazio.
La satira è un genere letterario che nasce con l’umanità ed ha sempre rappresentato un gesto di sfida verso il potere.
Nell’antica Grecia non era un genere molto comune e non sono rimaste molte opere.
Aristofane con la sua "commedia greca" fa della satira politica un suo ingrediente. In modo similare Ippocrate, che è certamente più noto per le sue opere mediche, negli Aforismi trattando del riso e della follia prende lo spunto per pungere sui costumi e sulle credenze dell’epoca.

"la vita è breve, l’arte lunga
l’esperienza ingannevole, il giudizio difficile.
Ippocrate"


Non era un genere letterario a se stante, ma nelle varie opere si introducevano elementi di satira politica o sui costumi.
Però è in età romana che il genere satirico raggiunge livelli superiori, quando punge e pungola la res publica per la rilassatezza dei costumi e i vizi della società.
Numerosa fu la schiera di autori di opere satiriche a cominciare da Lucilio (II sec. a.C.), che rese la satira un genere letterario autonomo codificandone la struttura e gli obiettivi. Prima di lui Ennio scrisse degli epigrammi, del tutto simili alle satire, di cui si conosce ben poco, essendo andati perduti nella quasi totalità
Orazio con i due libri di satire trasforma la satira dai toni aggressivi e degli attacchi personali in liriche più pacate e sorridenti, raffinate e pungenti. Hanno
un intento morale, quello di colpire, con ironia quasi sempre benevola, i più comuni vizi umani quali l’ambizione, l’avidità di ricchezza, la brama di ascesa sociale.Sempre con intenti fare satira compone gli epodi e le odi, dove il bersaglio e il tono sono diversi dalla satire.
Con Giovenale si chiude la grande epoca della satira latina.
E’ con Ariosto che la satira riacquista il suo rango di genere letterario, dove sono sempre i potenti, i costumi e la politica ad alimentare il filone satirico.
Così si arriva ai giorni nostri dove la satira spesso trascende nell’offesa in nome della libertà di espressione contro l’attività censoria delle istituzioni.
Qual’è il confine divisorio? Quando la satira da libertà di pensiero si trasforma in offesa personale? Il confine è incerto, labile e soprattutto mobile. Cambiano i tempi, cambiano le istituzioni e l’asticella si sposta.
Chi fa satira accusa l’attività censoria di essere al servizio del potente di turno, della persona oggetto degli strali satirici, di non potere esprimere liberamente il proprio pensiero.
I personaggi colpiti ovviamente accusano il satirico di farsi scudo dell’ironia per offenderli.
Chi avrà mai ragione?
Domanda dai mille volti e dalle mille risposte, ma nessuna certezza di essere nel giusto.

La passione riprende

Maria sentendo Angelica che la chiamava accorse immediatamente per servirla, aprì la porta e domandò: “Desidera alzarsi, mia Signora? Preparo la colazione o il bagno?”
“Maria, ho fretta. Devo uscire al più presto per raggiungere lo studio. Mi prepari entrambi.” Rispose nervosamente e proseguì “Mi metto quel vestito bianco e nero di organza e seta con il mantello azzurro. Non restare lì ferma, ma servimi immediatamente”.
Angelica aspettò che la governante liberasse la grandi finestre dai pesanti tendaggi notturni per osservare il cielo e l’ampio giardino, prima di uscire dalle candide lenzuola.
Era emozionata come una ragazza quando va al primo appuntamento galante, fremente di gioia e di passione. Avrebbe voluto già essere fuori sulla strada e volare allo studio per aspettare Goethe sulla porta.
Maria si muoveva freneticamente per assecondare la sua signora, ma non sapeva da dove cominciare, quale priorità doveva seguire, facendo innervosire Angelica. Chiese a gran voce di portare la colazione e dell’acqua calda, mentre lei toglieva dal guardaroba le vesti richieste.
Terminate frettolosamente colazione e lavaggi mattutini, l’aiutò a vestirsi e pettinarsi, sistemando con cura tutti particolari del vestito.
Angelica era resa splendente e radiosa dal vestito che metteva in risalto la bellezza delicata e dolce del viso e della figura.
La giornata era già calda anche se era mitigata da un venticello fresco e lo sarebbe diventata ancora di più col trascorrere delle ore: sembrava che preannunciasse il clima dei due amanti.
Anche la notte di Goethe era trascorsa agitata per effetto del messaggio ricevuto dai servitori di Angelica, che gli chiedevano di recarsi la mattina seguente nello studio di Via Sistina.
“Ci devo andare? Cosa mi dirà? Cosa dovrò dirle? Il messaggio è stato ambiguo perché mi ha chiesto solo di recarmi allo studio. Forse mi vuole dire che non dobbiamo più vederci, che è ancora adirata per il mio comportamento. Forse …, ma se io le recito questa poesia, forse …

Sah ein Knab’ ein Roeslein stehn,
Roeslein auf der Heiden,
war so jung und morgenschoen,
lief er schnell es nah zu sehn,
sah’s mit vielen Freuden.
Roeslein, Roeslein, Roeslein rot,
Roeslein auf der Heiden.

 
Oppure quest’altra

Kennst du das Land? Wo di Citronen bluehn,
Im dunkeln Laub die Gold-Orangen gluehn,
Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,
Die Myrte still und hoch der Lorbr steht,
Kennst du es wohl’
                        Dahin! Dahin!
Moecht’ ich mit dir, o mein Geliebter, ziehn.

No, no, non sono adatte! Devo pensare ad altro. Ma mi vorrà rivedere ancora?”
Eccitato ed ansioso uscì dalla locanda dirigendosi verso lo studio, mentre pensava a quali versi poteva ricorrere per farsi perdonare il modo indecoroso della sua ultima visita.
Camminava in fretta senza curarsi di chi incrociava, mentre recitava versi noti o altri nati lì per strada. Si fermava, riprendeva a camminare, si fermava nuovamente e poi ricominciava.
Non riusciva a trovare l’ispirazione giusta. Eppure doveva trovare le parole giuste per riconquistare il cuore di Angelica.
Stava salendo lungo il colle del Quirinale, quando si aprì l’interruttore dello stimolo poetico.
“Si, questi sono i versi giusti. Li devo tenere a mente, non posso dimenticarli, altrimenti sono perduto!”, così parlava ad alta voce giunto in cima alla salita, ansando un po’ per la fatica.
Ora aveva un passo più spedito e deciso ed ardeva dal desiderio di giungere in fretta allo studio, dove avrebbe aspettato Angelica.
Mentre Goethe camminava, pensava, parlava da solo ad alta voce, lei completava i preparativi della sua persona.
La pettinatura non andava bene, doveva essere rifatta, il corpetto era troppo stretto, la gonna era troppo ingombrante, la collana non si notava. Ogni cosa veniva fatta e rifatta una, due, tre … cento volte, mentre Maria pazientemente e senza proferire il minimo lamento dava seguito alle richieste, ai capricci di Angelica.
Così passò quasi un’ora prima che ogni particolare della persona fosse secondo i suoi desideri.
Accompagnata da Maria usci dal grande portone della casa e si incamminò verso lo studio in preda all’ansia e al timore che il sogno con cui si era svegliata svanisse come nebbia al sole.
Così lo vide, mentre il cuore accelerava i battiti e le gambe volevano rifiutarsi di obbedire alla mente.

(parte quattordicesima)

Il ritorno

Era una calda giornata di Giugno il sei, quando Goethe entrò a Roma dopo il lungo viaggio di ritorno dalla Sicilia.
Era stanco, accaldato e polveroso per via delle strade secche per la lunga siccità. Il viaggio sulla carrozza non consentiva molte distrazioni perché buche ed acciottolato provocavano continui sobbalzi tanto da rendere impossibile prendere appunti o fare disegni.
Finalmente era tornato alla locanda, che per tutti questi mesi gli aveva conservato la stanza e custodito il bagaglio non essenziale. Il padrone era sulla porta ad aspettarlo, facendogli grandi feste insieme ad alcuni amici fidati.
Goethe era talmente prostrato dal viaggio da Napoli a Roma che per diversi giorni rimase nella sua stanza per riprendersi.
Angelica seppe il giorno dopo che l’amato poeta era tornato e cominciò a fantasticare sul suo ritorno.
“Chissà se la nostra lite ha lasciato il segno? In tutti questi mesi non ho mai disperato che la nostra rottura si sarebbe ricomposta. Io sarò stata dura, ma lui ha oltrepassato il segno accusandomi di essere una donna di strada che mendica un po’ di sesso. Gli farò una sorpresa, donandogli il ritratto che che ho terminato nelle scorse settimane. Mi hanno detto che Tischbein gli ha fatto un quadro in cui Wolfgang appare come un dio che osserva l’agro romano con lo sfondo dei colli laziali. Però io l’ho ritratto come lo vedo: un giovane uomo intelligente e sensibile.”
Goethe era tornato pieno di brio, ispirato e pronto a riprendere la scrittura delle tante opere incompiute che erano state interrotte più volte.
Era ricercatissimo tanto che aveva l’agenda piena di impegni: tutti volevano sapere, sentire, ascoltare i suoi racconti.
“E’ stata impressionante la moltitudine di persone durante la processione della festa di Santa Rosalia. La devozione, le preghiere, i petali di rose  che cadevano dai balconi sono stato uno spettacolo magnifico, che ho potuto ammirare dal balcone del Viceré. Non avrei mai creduto che per un Santo si festeggiasse così intensamente.”
“ E’ una vera sfortuna, quando si è inseguiti e tentati da ogni sorta di fantasmi! Una mattina presto camminavo spedito, quando ho visto un giardino aperto e sono entrato. C’erano tutte le specie di piante del creato, anche di quelle che non avevo mai visto! Ho alzato gli occhi ed ho visto dietro il vetro di una finestra una splendida ragazza, che mi osservava incuriosita.  Non sapevo più cosa guardare quella meravigliosa visione o quello spettacolo naturale. Ero ancora lì incerto sul da farsi, quando un domestico uscì dal portone per invitarmi a salire in casa. Ho passato una splendida giornata con una guida che sembrava un angelo: mi ha spiegato e nominato uno per uno tutte le piante, i fiori e gli alberi presenti in quel giardino che sembrava il paradiso terrestre.”
Goethe però si stava stancando di raccontare tutte le meraviglie che aveva visto passando di salotto in salotto, di osteria in osteria, sentiva che gli mancava qualcosa, sentiva che doveva andare in Via Sistina da Angelica, la sua musa, colei che con pazienza ascoltava, dava pareri su quanto stava scrivendo. Poi aveva la necessità di ascoltare la sua voce, deliziosa e sensuale e forse anche di qualcosa d’altro.
“Come posso presentarmi al suo studio dopo la furiosa litigata che abbiamo avuto? Sono stato veramente indelicato nelle espressioni! Lei dichiara il suo amore per me, io la ripago dandole della donna di strada. Saprà perdonarmi? Saprà accettarmi ancora? Ah! Se avessi qualcuno che interceda per me!” così pensava una sera il poeta seduto davanti ad un bicchiere di vino rosso ed piatto di gustoso agnello.
Come per telepatia Angelica, seduta nella poltrona della camera da letto, mentre Maria scioglieva i capelli, pensava sospirando: “Wolfgang è tornato da due settimane, ma non è ancora venuto allo studio, né mi ha mandato qualche messaggio tramite amici comuni. Io l’amo e lo perdonerei se si presentasse davanti alla porta dello studio! Però temo che lui sia ormai perduto, perché preferisce i salotti delle nobildonne romane alla mia poltrona di raso rosso! Come posso attirare la sua attenzione?”
Così si struggeva mentre le lacrime salivano sugli occhi e da lì scendevano leggere sulle guance.
Maria sempre attenta a cogliere ogni sensazione di Angelica disse: “Mia Signora, perché piangete? Quale pena d’amore, se si tratta di amore, vi appanna gli occhi e la mente? Posso fare qualcosa per voi?”
“Maria, siete davvero gentile e premurosa, ma credo che non possiate fare nulla per me. L’uomo per cui piango è vicino fisicamente, ma lontano col pensiero.”
Si asciugò le lacrime con un fazzoletto di mussola bianca ricamato con le sue cifre, andò come il solito ad inginocchiarsi sotto la Madonna, dicendo le usuali preghiere serali e poi si coricò.
Maria rimboccò le lenzuola, spense i candelabri uscendo dalla stanza silenziosamente. Si recò nelle cucine alla ricerca di Manico, perché voleva affidargli il compito di rintracciare Goethe.
La ricerca ebbe successo, così il poeta seppe che Angelica stava aspettando con impazienza una sua visita nello studio.
Lei ebbe incubi e sogni quella notte: angeli e demoni si rincorrevano nella sua mente, mentre smaniava di passione ed amore.
Il viso del poeta era sempre lì etereo, impalpabile, sfuggente, mentre soffriva le pene d’amore. Non sapeva se era più desiderabile che il sogno perdurasse all’infinito o svanisse come una bolla di sapone.
Le ore della notte trascorsero veloci e ben presto l’alba di un nuovo giorno stava spuntando, facendo capolino tra le pieghe della tenda.
Si svegliò sapendo che Wolfgang sarebbe tornato da lei. Era una certezza che misteriosamente faceva capolino nella sua mente.
“E’ un sogno quello che penso oppure è realtà? Il mio cuore batte leggero ma impetuosamente. I miei sensi sono all’erta perché sentono i suoi passi che salgono le scale e quel bussare discreto ma deciso alla mia porta.” Così si esprimeva ad alta voce e chiamò: “Maria, presto venite! Desidero alzarmi per andare allo studio!”
Goethe era là davanti al portone in attesa di Angelica.

(parte tredicesima)

Durante l'attesa del ritorno

Angelica, mentre completava il ritratto di Goethe, ripercorse la sua vita, quando ancora una bambina osservava il padre Josef dipingere paesaggi, personaggi e soprattutto decorazioni religiose nelle chiese.
“Mio padre non è stato un pittore di gran talento o famoso, ma mi ha insegnato ad amare il bello e mi ha sostenuto ed incitato a diventare pittrice e scultrice. Se sono diventata quella che sono, io lo devo a lui”, così ricordava la figura paterna, che aveva segnato profondamente la sua esistenza.
Dalla cittadina svizzera di Chur era venuta in Italia una prima volta appena quattordicenne seguendo il padre, dove era rimasta per oltre dieci anni, acquisendo il gusto e la passione per l’arte, apprezzando la plasticità dei pittori e scultori più famosi da Michelangelo a Raffaello.
Con nostalgia ricordava i primi incarichi ufficiali: “Avevo solo undici anni, quando una signora mi ha commissionato quel ritratto di fanciullo. E’ stata un’esperienza memorabile, perché sono entrata a fare parte della cerchia dei pittori, accettata e benvoluta da tutti. Chissà dove sarà quel ritratto? E’ ancora appeso ad una parete o giace impolverato in un qualche scantinato?”
Gli occhi si inumidirono quando ricordò il primo soggiorno romano col padre: “Avevo solo venti anni quando l’Accademia di San Luca mi accolse tra i suoi membri. Io ero una bambina rispetto agli altri, molto più anziani di me”.
Fermatosi un istante mentre dipingeva il ritratto di Goethe, intonò una breve canzone: aveva una bella voce e sapeva comporre musica con testo di dialogo. “Lieber Gott, mi hai dato grandi doni: dipingere, comporre musica ed una notevole voce. Potevo eccellere in queste arti, ma la pittura e la scultura sono risultate vincenti nella sfida di essere una cantante. Quanti dubbi mi hanno assalita durante quegli anni ancora adolescente! Però il contatto con i grandi pittori e scultori italiani hanno fugato qualsiasi incertezza!”
Il suo carattere volitivo e deciso si era forgiato e maturato, quando ventiseienne era partita sola per l’Irlanda da dove si era trasferita presso lo studio londinese di Joshua Reynolds, famoso ritrattista.
“Devo tutto a Joshua, quando mi ha accolto nel suo studio. Mi ha formato graficamente e mi ha insegnato a miscelare i colori. Però soprattutto è stato per me un secondo padre, insegnandomi a stare in società, a respingere i pretendenti troppo insistenti, ad imporre le mie idee ai committenti. In quegli anni ho lavorato sodo e sono maturata artisticamente e come donna”.
“Mi hanno chiamata la poetessa del pennello” rammentava con una punta di orgoglio “ per l’abilità nel dipingere i ritratti della ricca borghesia e dei nobili londinesi. Ero io a dettare le mode e gli stili, ad influenzare gli altri artisti. Ero ricercata ed adorata dall’alta società di Londra. Ero talmente famosa che in un anno ho accumulato tanto denaro da potermi permettere l’acquisto di una comoda casa a Londra”.
Mentre ricordava Reynolds e i trascorsi londinesi, un pizzico d’orgoglio la colse nuovamente: “Che soddisfazione ho provato quando la Royal Academy mi ha accolta come membro. Io sono stata la prima donna ad entrare lì in quel ambiente maschilista! E questo lo devo a Joshua, che ha perorato la mia causa”.
La malinconia salì dentro di lei, mentre rammentava il doppio matrimonio, il primo con il Conte di Horn, un impostore, e il secondo con Antonio Zucchi, un pittore più vecchio di lei di ben 15 anni. Questo secondo non era stato un matrimonio d’amore, ma di convenienza, come spesso capitava. Nel periodo londinese aveva sposato un ciarlatano, che l’aveva raggirata con false credenziali aristocratiche, ma non era riuscita a liberarsene nonostante l’interessamento di Reynolds.  Pensava: “Come sono stata ingenua! Quell’impostore mi ha rovinato gli anni più belli della mia vita! Alla sua morte ho dovuto accettare come secondo marito Zucchi, solo perché ho girato con lui per convenienza, spacciandolo per mio marito!”
Aveva poco più di quaranta anni, quando l’aveva sposato, ma era troppo vecchio per lei, ancora bella e piacente, cercata dagli uomini ed odiata dalle donne. Però era stato un comodo paravento per respingere i corteggiamenti più assidui ed insistenti.
“Perché mi sono lasciata convincere a sposare Zucchi? Avrei dovuto resistere e cercare un altro uomo. Non mi ha donato mai un attimo di amore, uno slancio, un sentimento diverso dal formale. Ho bisogno di sentirmi donna, di amare ed essere riamata. Il sesso non è solo una necessità fisiologica, ma un modo di esprimere gli impulsi che nascono dentro di noi. Ora è vecchio senza più speranza che possa donarmi quello che cerco. Gli sono fedele a modo mio, senza mancargli di rispetto”.
Ormai erano cinque anni che abitava stabilmente a Roma, dove aveva comprato un bella e grande casa poco distante da Via Sistina, dopo avere vissuto per quindici anni a Londra, che aveva lasciata dopo il secondo matrimonio. In questa via posta nel cuore di Roma aveva il suo studio ed atelier con annesso un piccolo appartamento di servizio. Era diventata ben presto il crocevia di tutti i tedeschi che venivano a Roma, perché portavano notizie dalla Germania ed apprendevano le ultime novità di Roma e dei vari artisti che lì operavano.
Così attraverso amici comuni, riuscì a tenersi al corrente degli spostamenti di Goethe, prima a Roma, poi durante il viaggio in Sicilia.
“La Sicilia mi fa intendere l’Asia e l’Africa e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove sono diretti tanti raggi della storia universale” così diceva il poeta appena messo piede a terra dopo il disastroso viaggio in piroscafo da Napoli a Palemro. Aveva sofferto il mal di mare per quattro giorni, quanti erano stati quelli della traversata, aspettando solo il momento di potere calpestare nuovamente la terraferma.
Ancora una volta era ricorso allo stratagemma di viaggiare in incognito sotto il falso nome di Philippe Moeller, ma ben presto era uscito allo scoperto, perché il Viceré lo aveva mandato a prendere nella locanda dove alloggiava per averlo a corte.
Angelica ascoltava con attenzione ciò che gli amici le narravano del viaggio in Sicilia del poeta, che inviava lettere piene di entusiasmo per questa terra, tanto che scrisse in una dei primi messaggi recapitati a Roma: “L’Italia senza la Sicilia non lascia l’immagine nell’animo: qui, solo qui, è la chiave di tutto”.
Era entusiasta di questa terra, che il compagno di viaggio Kniep dipingeva con molta maestria. Sentiva rinascere dentro di sé una fresca sferzata di ispirazione poetica, annotando con cura tutto quello che vedeva e provava per tradurli in versi e poemi.
Era maggio quando Goethe carico di ricordi e di sensazioni cominciò il lungo viaggio che lo doveva ricondurre a Roma.

(Parte dodicesima)

Viaggio in Sicilia

Goethe passò di osteria in osteria furibondo per lo smacco subito, cercando di calmarsi con vino e allegre compagnie, ritornando alla locanda sul far dell’alba.
Dormì per tutto il giorno fin verso sera senza mangiare un sonno agitato e tempestoso con incubi e sogni in cui Angelica lo cacciava da qualunque posto si trovava.
Al risveglio, dopo essersi data una sistemata sommaria, andò a mangiare in una osteria poco distante da solo per riflettere sulla situazione.
Era stato scaricato da una donna, che gli piaceva, si trovava bene nello studio di lei, che per lui era come una seconda casa, la scenata della sera precedente rappresentava uno smacco, che aveva ferito il suo orgoglio. Questi erano i pensieri che frullavano nella testa del poeta, mentre mangiava un piatto di fettuccine sorseggiando del generoso vino rosso. Non aveva molta fame, ma lo stomaco brontolva per il lungo digiuno e reclamava un po’ di cibo.
Pensò: “E’ tempo che riprenda il mio viaggio in Italia, andando verso sud, verso quel mondo misterioso vicino all’Africa. Devo parlare con Johann Tischbein per sentire se è disponibile ad accompagnarmi. Preferisco avere un buon compagno di viaggio con cui posso parlare, scambiare le opinioni, annotare quel che vedo. Ho la necessità di non pensare più ad Angelica per un po’ di tempo! Devo riflettere sulla nostra relazione”.
Però il pensiero della donna dominava ancora la sua mente, perché sentiva una forte attrazione difficile da sradicare verso la personalità di Angelica.
Le settimane successive furono impiegate da Goethe per i preparativi del lungo viaggio, forse due o tre mesi, verso Palermo e la Sicilia con una lunga sosta a Napoli per conoscere meglio questa città descritta con tanto entusiasmo dagli amici tedeschi.
Si ritrovava con Tischbein quasi tutti i giorni nell’osteria vicino al Tevere tra le viuzze strette, dove stavano i mercanti d’arte, per discutere di arte, poesia e del viaggio, che aveva intenzione di programmare nelle prossime settimane, tra un piatto pasta e un bicchiere di vino.
Conosceva Johann da molti anni ed era riuscito a fargli ottenere un buon sussidio per consentire la sua permanenza in Italia, dove lavorava a Roma, non rifiutando delle puntate a Napoli.
“Wolfgang, non so se potrò accompagnarti nel viaggio in Sicilia, perché ho paura della traversata via mare. Vedrai che troverò qualcuno che ti farà da compagno nel lungo cammino verso quelle terre calde e misteriose”, così disse una sera Tischbein al poeta.
“Johann, vorrei che tu mi accompagnassi almeno fino a Napoli e mi tenessi compagnia durante la visita alla città, anche perché la conosci bene.” rispose Goethe “Però prima di partire vorrei vedere il carnevale romano e divertirmi tra le vie in festa”.
L’organizzazione lo teneva occupato così fortemente che dimenticò Angelica o almeno non era in cima alle sue preoccupazioni.
Arrivarono i giorni del carnevale romano, che era particolarmente festoso ed era permesso circolare per strada mascherati.
Il carnevale romano apparve agli occhi del poeta una grande festa, che non era concessa propriamente al popolo, ma piuttosto dava se stessa a tutti i popolani. Era una festa che ricordava i saturnali di molti secoli prima a ricordo della mitica “età dell’oro” del dio Saturno. Vide i signori servire i propri schiavi e questi dovevano avere il cuore sulle labbra, quando per una volta volevano dire la verità sui loro signori senza essere presi a bastonate. Tutti giravano in maschera lungo il Corso, la grande e larga via che passava attraverso il centro di Roma. Grandi feste e balli all’aperto animavano le vie intorno al centro e le osterie, dove si consumavano grandi libagioni di vino. Era anche periodo rischioso perché pericolose violenze avvenivano per le strade male illuminate a causa delle persone rissose ed alticce.
Per Goethe fu uno spettacolo che superò la sua immaginazione e i racconti che tanti visitatori  tedeschi avevano fatto al loro ritorno in patria.
La mattina del 22 Febbraio 1787 Goethe accompagnato da Tischbein lasciava Roma lungo la via Appia puntando verso Velletri su una carozza chiusa. La strada era dissestata e non consentiva al Goethe e al suo compagno di prendere appunti o fare schizzi dei paesaggi.
La campagna romana era incerta sotto il sole pallido del mattino, perché risentiva degli influssi dell’inverno morente e della primavera che cominciava ad annunciarsi. Tuttavia presentava un certo fascino che attirava i due viaggiatori.
Goethe disse: “Ora è difficile prendere appunti o fare qualche disegno. Poi con calma metteremo sulla carta le nostre impressioni”.
Goethe ammirava il paesaggio e commentava con l’amico: “La campagna sta timidamente togliendosi i vestiti invernali per indossare quelli della primavera. Tra l’erba che sta spuntando crescono i crochi bianchi come minuscoli puntini colorati. E’ una meraviglia osservare la natura che sta risvegliandosi dopo la lunga parentesi invernale”.
Il 26 febbraio dopo avere attraversato l’agro romano e quello pontino, acquitrinoso e malsano, raggiunse finalmente Napoli, ricordando i racconti del padre che 25 anni prima aveva visitato la città durante il viaggio in Italia.
Goethe passando per la campagna romana convinse Tischbein a fare un quadro, che fu realizzato in poco tempo a Napoli, dove era ritratto con lo sfondo della campagna romana. Ne rimase entusiasta, perché era simile ad un dio della mitologia greca-romana a differenza di quello che stava dipingendo Angelica.
Il poeta, che viaggiava come al solito sotto il falso nome di Phillipe Moeller, ben presto fu riconosciuto dalla folta colonia tedesca, tanto che rapidamente si diffuse la voce che era in città.
Kniep, un discreto paesaggista ad acquarello, non appena sentì che era a Napoli, si precipitò a conoscerlo accompagnato da una conoscenza comune.
“Sono Cristoph Heinrich Kniep e sono molto onorato di poterla incontare e conoscere di persona,” disse l’artista ormai più italiano che tedesco.
Da quel momento era sempre con loro, ovunque andassero facendo da cicerone ed interprete con la gente del luogo.
Un giorno disse: “Mi hanno detto che cercate un compagno di viaggio fino alla Sicilia. Bene ecco di fronte a Voi c’è la persona che cercate. Posso dipingere per voi tutti i posti che visiteremo”.
Così alla di fine Marzo 1787 si imbarcò sul piroscafo per Palermo con Goethe dove sarebbero giunti dopo un viaggio di quattro giorni, da qui cominciò un lungo giro per l’isola prima del ritorno a Roma.
Dopo quella sera tempestosa Angelica per diversi giorni non frequentò lo studio rimanendo chiusa nelle sue stanze piangendo e interrogandosi sul suo futuro.
La ferita inferta da Goethe era troppo profonda da rimarginarsi subito, lasciandola prostrata ed infelice senza alcuno stimolo per superare la crisi profonda in cui era caduta.
Poi facendosi forza per affrontare la delusione patita riprese la strada dello studio e pensava: “Wolfgang è stato davvero meschino nei miei confronti, dimostrandosi privo di tatto ed offensivo, dandomi della donna di strada. Non è stato capace di intuire l’amore che provo per lui. E’ stato egoista e maldestro pensando che tutto il mondo ruota intorno a lui. Devo dimenticarlo e riprendere a lavorare di buona lena per recuperare tutto il tempo perduto.”
Consegnò alla baronessa de Kruederer il quadro prima della partenza per Copenhagen, ricevendone elogi e ringraziamenti.
Poi cominciò altri quadri, mentre la delusione si stemperava con il tempo.

 (parte undecima)

Lo scontro

I due amanti si fronteggiavano senza vedersi, ma sentivano la reciproca presenza attraverso la pesante porta.
Goethe era più che mai deciso a chiedere ad Angelica il perché del suo comportamento di questa giornata, non riusciva a comprenderne le ragioni.
“Non le ho mai mancato di rispetto. L’ho trattata con dolcezza senza pretendere da lei nulla, che non fosse disposta a concedermi. Perché mi lascia fuori dall’uscio come se fossi un appestato?”, così ragionava il poeta incapace di cogliere le sfumature del rifiuto della donna. Era vero che si era comportato con correttezza senza mai eccedere o esigere la sua disponibilità, ma non aveva capito che la pittrice l’amava e lo desiderava, che il non avere rapporti sessuali era un’offesa alla  femminilità, perché lei si sentiva esclusa e tradita.
Goethe frequentava donne di strada quasi tutte le sere per soddisfare i suoi desideri sessuali, mentre sfiorava appena Angelica con qualche furtivo bacio e veloce tenerezza. Inoltre per giornate intere spariva senza dire nulla o giustificare le sue assenza, perché non poteva rivelarle che frequentava i salotti e le camere da letto di alcune nobili romane, che facevano carte false pur di averlo accanto loro.
Già a Weimar la relazione con Charlotte von Stein era stata burrascosa per i molti tradimenti con altre donne e la sua incapacità a restare fedele ad un’unica donna tanto che per sfuggire alle scene di gelosia era partito di nascosto per l’Italia.
Angelica era altrettanto decisa a non aprire la porta, finché non avesse licenziato quel quadro, perché era un impegno che aveva preso con se stessa ed intendeva mantenerlo.
Era sinceramente innamorata di Goethe, accettando i suoi tradimenti, ma desiderava maggiori attenzione verso di lei.
Dopo quell’unico rapporto avvenuto prima di Natale mai una volta il poeta l’aveva sfiorata, anche se lei aveva tentato più di una volta di volere fare sesso con lui.
Lei doveva ascoltare per ore quello che andava scrivendo dal Faust a Ifigenia in Tauride, a Egmont, a Torquato Tasso, pretendendo che lei prestasse la massima attenzione. Voleva sentire la sua opinione, a cui teneva moltissimo, mentre Angelica praticamente non lavorava quasi più.
Stava soffrendo tantissimo questa situazione di amante segreta senza sesso e voleva
riappropriarsi della sua vita. Da qui la decisione di escluderlo per un po’ di tempo dal suo studio, di non pensare più a lui, anche se questo le stava costando molte angosce d’amore.
Era un momento difficile per lei e il fatto che lui fosse lì, fuori dalla porta deciso ad entrare, la paralizzava e le impediva di trovare uno sbocco alla situazione.
Non le piaceva avere una vivace discussione lungo le scale male illuminate e con diverse orecchie indiscrete, né tanto meno in strada, come due popolani romani. Se fosse entrato, avrebbe infranto la promessa che aveva fatto qualche giorno prima di non vederlo lì, dove si era consumato l’unico atto d’amore.
Angelica aveva al piano superiore un paio di stanze, dove si fermava a dormire, quando tardava troppo nello studio.
“Ecco dove condurrò Goethe” pensò “e lì avremo il chiarimento”. Infilatosi il mantello e il capello, aprì la porta ben decisa a chiuderla immediatamente dietro di sé.
Goethe, colto di sorpresa, non riuscì a spingerla dentro e suo malgrado la seguì al piano di sopra, parlando fitto e senza interruzione, mentre Angelica in silenzio e con la grazia di un angelo saliva le scale.
Aperta la porta e accese le candele poste nell’ingresso, entrarono e si tolsero i mantelli e i capelli, che posarono sul divano dietro la porta.
Le stanze erano fredde, perché non aveva ordinato ai domestici di prepararle e illuminate da qualche candelabro, ma c’era ordine e silenzio.
Si sedettero sul divano che dava di spalle al letto posto al centro della stanza e davanti ad un camino impietosamente spento. Nessuno dei due pensò di accenderlo, ma forse non sapevano come fare, rimanendo al freddo.
Goethe cominciò a parlare con voce alta ed alterata, ma Angelica le mise un dito sulle labbra per farlo tacere.
“Wolfgang, ho deciso di non rivederti più, anche se questo mi costa un dolore profondo in fondo al cuore, perché io ti amo, come non ho mai amato nessun altro.
Tu avresti potuto possedermi quando volevi, ma mi hai trascurato con donne di strada e hai ignorato le sensazioni che provavo per te.
Mi hai ferita come donna e come amante e non posso perdonartelo. Mi stai facendo soffrire le pene d’amore con la tua indifferenza alla mia femminilità.
Ero disposta a diventare la tua amante segreta, ma mi hai deluso con la tua incapacità a comprendere l’amore che provo per te.”
Dette queste parole Angelica stette in silenzio, aspettando cosa Goethe aveva da dire.
Era una vera e propria dichiarazione d’amore la sua, cogliendo di sorpresa il poeta, che rimase zitto e senza parole.
Rimasero a guardarsi negli occhi per alcuni secondi e poi lui ritrovò la parola.
“Se mi ami, perché non mi vuoi rivedere più? Perché adesso siamo qui a parlare? Tu mi piaci, perché hai personalità e sei intelligente, non sei possessiva, ma accetti che io abbia la mia vita.
Mi vuoi come amante segreto, ma io voglio mostrarti a tutti, ma non posso, perché tu sei sposata.
Cerchi un uomo che ti possieda, ti dia le gioie e i piaceri del sesso? Vai per strada e ne trovi tanti!
Allora era vero quello che dicono di te, che sei una donna che ama passare da un letto ad un altro, gaudente e priva di vincoli morali, tradendo il marito!
Io invece ti ho trattata da donna seria rispettosa delle regole!”
Angelica dopo avere ascoltato quelle parole dette con tono indelicato si alzò da divano e furente per l’ira disse con tono duro: “Uscite immediatamente da queste stanze e non fattevi più vedere!”
Poi si diresse verso l’ingresso per indossare mantello e capello, lasciando Goethe sbigottito e adirato.
La prese per un braccio per farla girare verso di sé, ricevendo in viso uno schiaffo che sembrava uno schiocco di frusta nel silenzio della stanza.
Angelica per niente intimorita e decisa a farsi rispettare si divincolò dalla presa guardando dritto negli occhi Goethe e disse ancora una volta: “Uscite ed andatevene per la vostra strada. Mi auguro che non si incrocino più”.
Si avvolse nel mantello, spense le candele, lasciandolo al buio, mentre cercava affannosamente il mantello e il capello.
Goethe imprecava e pronunciava parole offuscate dall’ira, peggiorando la situazione.
Come una furia Angelica si precipitò giù per le scale uscendo sulla strada con il mantello svolazzante senza aspettare il poeta, che rischiò più di una volta di scivolare sui gradini.
Sembrava un angelo vendicatore mentre percorreva la breve distanza verso casa, dove si rifugiò senza mai voltarsi indietro.
Salita nella sua stanza si abbandonò sulla poltrona in preda ad una crisi di pianto, mentre Maria con delicatezza le toglieva mantello e capello.
La tavola era pronta per la cena serale, ma Angelica disse asciugandosi le lacrime: “Maria, portate via tutto. Stasera non ho fame. Vorrei coricarsi immediatamente. Portatemi dell’acqua fresca per rinfrescarmi il viso e le mani”.
La governante eseguì i suoi ordini e dopo avere atteso che lei dicesse le preghiere serali spense le candele, lasciando estinguere il fuoco del camino.
Goethe,dopo aver tirato il battente  dietro di sé, si avviò rabbioso e furente in cerca di compagnia per la sera.
Così i due amanti si lasciarono.

(parte decima)

I giorni successivi

I giorni trascorrevano tra lunghe attese e passioni ardenti,mentre Angelica si consumava nel fuoco dell’amore.
Il ritratto di Goethe procedeva a rilento, come altri lavori erano lì incompiuti sul cavalletto, perché era distratta dall’innamoramento verso il poeta, che a volte scompariva per diversi giorni senza dire nulla, lasciandola nell’angoscia.
Al poeta quel quadro non piaceva, perché era troppo semplice e quindi non voleva posare più nell’atelier di Angelica.
Goethe aveva a Roma molti amici tedeschi, con cui spesso trascorreva le serate all’osteria a bere in compagnia di donne per lo più sconosciute.
La pittrice era entrata in crisi, perché si sentiva trascurata, conoscendo le sue frequentazioni notturne.
“Mein Gott! Cosa devo fare per riconquistare l’attenzione di Wolfgang? Sono forse diventata inguardabile o indesiderabile? Lo ascolto con pazienza mentre mi legge ad alta voce quello che scrive, poi preparo degli schizzi per illustrare l’opera. Non mi bacia più, mi tratta con freddezza. Non abbiamo avuto più rapporti da quella sera di alcune settimane fa”, Angelica si lamentava ad alta voce sdraiata sul divano, dove aveva trascorso quella sera indimenticabile.
I suoi lavori tardavano a terminare tra le proteste dei committenti, che avrebbero voluto una maggiore celerità nella consegna dei quadri.
Sapeva che il suo comportamento non era corretto, ma l’ispirazione e la voglia di completare i quadri rimasti lì incompiuti era a livelli bassissimi. Doveva ritrovare la propria determinazione chiudendo con Goethe.
Così una sera decise che l’avrebbe lasciato fuori dal suo studio, finché non avesse finito quel ritratto della baronessa de Kruederer con il figlio Paul. La baronessa con il marito Alexis, ambasciatore di Russia a Copenhagen, era giunta a Roma nell’autunno del 1786 ed aveva voluto farsi ritrarre dalla celebre pittrice insieme al figlio Paul. Però l’arrivo di Goethe aveva di fatto bloccato il completamento del quadro, che doveva essere finito entro i primi giorni del 1787, perché il soggiorno romano della baronessa stava terminando.
Così due giorni dopo la decisione di non vedere il poeta fino al completamento del quadro, sentì bussare alla porta dello studio, che era chiusa a chiave. Sapeva che era Wolfgang, perché aveva riconosciuto i suoi passi e il modo di bussare, ma decise di non rispondere.
Goethe, pensando che fosse ancora a casa, si diresse là per chiedere alla sua governante dove fosse Angelica.
“Sono andato nello studio, ma ho trovato la porta sbarrata e nessuno rispondeva al mio bussare. Sai dove si trova la tua signora?” Chiese il poeta a Maria.
“Mio signore, Angelica è nel suo studio, intenta nel suo lavoro. Deve finire un quadro rapidamente, perché la committente sta per partire”, così la governante rispose a Goethe, che in preda all’ira ritornò allo studio.
Bussò con energia e disse con voce alterata e perentoria: “Angelica so che sei lì dentro! Aprimi immediatamente!”
Angelica con le lacrime agli occhi non degnò di una risposta quel bussare frenetico, continuando a lavorare.
Goethe visibilmente adirato continuò a bussare e in uno scoppio d’ira la minacciò: “Se non apri immediatamente, non mi vedrete mai più!”
La donna decisa più che mai a rispettare la promessa fatta con se stessa continuò a dipingere, mentre le lacrime sempre più copiose rigavano il suo delicato viso.
Il poeta, stanco di stare fuori dalla porta e colpito nel suo orgoglio di uomo, uscì dal portone scuro in volto e ancora più stizzito, borbottando oscure minacce: “Mi hai messo alla porta come l’ultimo dei tuoi servi, ma io non verrò più a cercarti. Anzi non frequenterò più il tuo studio. Sei una femmina stupida, che hai cercato un maschio più giovane di te!”
Poi ad ampie falcate tra lo svolazzare del mantello si diresse verso la zona delle osterie per annegare la sua ira nel vino e solazzarsi con qualche donna più accondiscente.
Angelica, avendo sentito che si era allontanato, diede sfogo alla sua disperazione e solitudine piangendo a dirotto: “L’ho perso per sempre! Gli ho chiuso la porta in faccia e lui se ne è andato via. Io devo finire questo quadro senza vederlo prima.
L’avevo promesso a me stessa e devo mantenerla anche se l’ho perduto per sempre!”
Lavorò intensamente per tutta la giornata tra crisi di pianto e determinazione nel mantenere la promessa.
All’imbrunire il quadro era ormai quasi concluso, domani avrebbe portato gli ultimi ritocchi e poi l’avrebbe consegnato alla baronessa.
Con calma ripulì i pennelli e le mani, ripose i colori, sistemò sommariamente la stanza e si preparò per uscire, quando sentì dei passi familiari.
S’irrigidì e aspettò che lui fosse dinnanzi alla porta, nel frattempo pensava intensamente: “Esco? Apro la porta e lo faccio entrare? Rimango qui, chiusa dentro aspettando che se ne vada?”
Aspettò il bussare, la voce che conosceva da tempo, ma nulla di tutto questo. Percepiva che stava lì ritto dinnanzi alla porta, aspettando che lei aprisse per farlo entrare.
Il panico si impossessò di Angelica, paralizzandola nei movimenti e nelle parole: “Lieber Gott! Cosa devo fare? AVE MARIA, gratia plena, Dominus tecum. Benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Iesus. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc, et in hora mortis nostrae. Amen”.
Il tempo si era fermato e non passava mai: lui fuori dalla porta in silenzio, probabilmente adirato e furioso, lei dentro la stanza intimidita e decisa.

 (parte nona)