Oltremare

Oltremare

 Un’eco da lontano
giunge
sull’onda esotica

del mare.
Piccoli corrugamenti,
sospinti di sbieco
dal vento silenzioso,
cavalcano l’acqua.
Crespe bianche
spiaggiano
nella deserta spiaggia
della mente.
Brividi d’amore,
sensazioni indistinte
increspano la mia pelle,
mentre osservo te,
che scruta
l’orizzonte
là dove
il verde sfuma
nell’azzurro.
Rumori remoti
e note acquatiche
registrano
i pensieri
che sanno
d’oltremare.

Arcobaleno

Arcobaleno

Nella magia dell’arcobaleno,
che colora
il cielo ancora imperlato di pioggia,
vado alla ricerca
della radice della vita.
Inseguo un sogno,
la fantasia vola,
ma la radice non si trova.
Sfuma sull’orizzonte,
là dove declinano i campi,
tra alberi e campagna,
appena accennato.
Ma il sogno resta
e le radici della vita
si trovano,
là dove nasce l’arcobaleno.

Incipit da Pirandello

“Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro come una bestia bendata, aggiogata alla stanga di una noria o d’un mulino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva”.

Mattia depose il libro con le novelle di Pirandello e chiuse gli occhi, perché in qualche modo si  identificava col personaggio che stava leggendo.
Lui si era dimenticato di tutti e di tutto, impegnato solo nel lavoro dalla mattina alla notte, raramente interrotto dalla lettura di un libro.
Se il sabato non era in ufficio si sentiva come un pesce fuori dall’acqua, sperduto e spaesato con il cervello fuso e vuoto.
Viveva da single, ma si domandava chi era quella donna che lo avrebbe preso come compagno.
Sapeva tutto dell’azienda, ma proprio tutto. Aveva dedicato ogni energia, ogni attimo della vita all’azienda, per gli altri non c’era posto.
Non poteva dedicarsi agli altri, perché sarebbe stato distolto dalla missione che pensava che dovesse portare a compimento.
Era un povero illuso, se pensava così.
“Nessuno è indispensabile” recitava un bel cartello all’ingresso dell’azienda, ma lui fingeva di non averlo mai visto.
Così tutte le mattine da vent’anni entrava da quel portone prima dell’arrivo degli impiegati, che sguaiatamente ridevano e si burlavano di lui e dell’azienda.
Lo chiamavano amichevolmente ‘il sorcio’ perché assomigliava ad un topo, anche se a lui non sembrava.
L’altro ieri la segretaria del capo entrò sculettando tutta civettuola e gli disse: “Il capo ti manda questo” ed uscì lasciando dietro di sé una lunga scia vaporosa di Channel n.1.
Mattia la guardò con un po’ di cupidigia mentre teneva in mano il pacchetto. Non si era mai accorto che Mara, la segretaria, fosse così bella o almeno gli sembrava.
Aprì il pacchetto e trovò un libro intonso con le novelle di Pirandello.
Si domandò perché il capo si era preso la briga di comprare quel libro e regalarglielo.
Era fatica sprecata, ma soprattutto stava perdendo tempo.
Ripose il libro nella borsa, che immancabilmente gli faceva compagnia nel tragitto casa – azienda e azienda – casa sull’autobus n. 4.
L’avrebbe letto stasera prima di dormire, perché dapprima doveva svolgere il lavoro che non era riuscito a sbrigare in azienda mentre mandava in giù un boccone di pane e un po’ di formaggio.
Alla sera stava leggero, o meglio mangiava come un uccellino, perché potesse dormire bene durante la notte.
Però l’immagine di Mara lo tormentava, come il profumo che aveva impregnato la giacca e non riusciva a concentrarsi sul lavoro.
Quindi era meglio dedicarsi alla lettura del libro.

Il canto dell'amore

I racconti d’amore
popolano la mente,
mentre ascoltiamo
la voce del cuore.
Vediamo
il sereno,
udiamo
il canto degli uccelli,
ci scaldiamo
al sole.
Questo è amore.

Ho cominciato camminando…

H

a cominciato camminando, poi ha accelerato, passi sempre più lunghi, rapidi e contratti. Uno di seguito all’altro.
Una maratona e poi di colpo, lo scatto: i fianchi che spingono verso l’alto, i muscoli delle gambe che si rattrappiscono e si slanciano in avanti.
Le suole disfatte dalle scarpe di tela che battano l’asfalto rugoso. I gomiti sollevati che oscillano avanti e indietro.
Non ha mai corso così. Non ricorda di averlo mai fatto. Non ricorda niente.
Ogni tanto, l’ululato di un clacson da un’automobile in corsa la sferza e la fa barcollare. Un urlo prolungato che si smorza e muore in avanti, in quel punto imprecisato dell’orizzonte verso il quale la donna corre.
Non solleva mai lo sguardo da terra. Vede la punta corrosa delle vecchie scarpe di tela bianca apparire e scomparire davanti a sé.

Simona continua a correre finché il fiato la sorregge, perché sa che deve allontanarsi il più possibile da quel luogo, dove è rimasta paralizzata dalla paura.
Cosa c’era in quel posto da incutere angoscia? Non lo sa nemmeno lei, è consapevole che là sta il male o meglio un uomo che personifica il male.
Perché si è recata da sola e a piedi nel deposito di uno sfasciacarrozze, avendo ben chiaro che quell’uomo avrebbe tentato di aggredirla e stuprarla?
“Sei stata una sciocca ragazza, mia cara Simona.” farfuglia col fiatone per la lunga corsa disperata “Lo sapevi che Mark voleva una cosa sola: il tuo sesso. E lo voleva con le buone o le cattive, lo voleva e basta! Cosa ti è venuta in mente di andare il quel deposito? Non avevi capito che il luogo era solitario e disabitato? Pensa alle indicazioni che ti ha dato alla mattina nel Central Park? Ti ha detto: ‘Vai alla stazione delle corriere Amtrack e prendi l’autobus per New Haven. Quando sei a New Rochelle scendi alla terza fermata dopo il paese. Fai cento passi oltre la fermata, sulla tua sinistra c’è un piccolo viottolo che porta ad un fabbricato. Io sarò lì ad aspettarti. Ricordi bene le istruzioni?’ Cosa pensavi che ci fosse lì? Il paradiso terrestre? O l’inferno? Ricorda che ti aveva detto come vestirti: una camicetta bianca leggera, una gonna corta e sotto solo slip in miniatura. Con un abbigliamento del genere dove credevi di andare? Ad una festa danzante? Sei stata una grossa ingenua non pensare che lui ti voleva fottere!”
Simona ricorda con terrore la faccia contratta dal ghigno di Mark che l’afferra per le spalle per sdraiarla sull’erba sudicia di olio e benzina pronto a sollevare la gonna e strappare lo slip di dimensioni ridottissime.
C’era quasi riuscito, ma ha perso tempo con la cerniera dei pantaloni e lei si era rialzata di scatto ed era corsa via dietro una pila di carcasse di gomme. Questa è stata la sua salvezza.
Mark ha cominciato ad imprecare nello slang del Bronx mentre cercava dove si era nascosta.  Lei lo sentiva vicino man mano che si spostava, cercando l’uscita in quel labirinto di carcasse arrugginite e corrose dal vento e dalla pioggia, di portiere e gomme accatastate in pile instabili, che parevano crollare al suolo ad ogni refolo di vento. Il cuore batteva impazzito per il terrore di finire nelle mani dell’uomo, deciso a farla sua a tutti costi.
Poi quando era in prossimità dell’uscita, che vedeva come il miraggio della fata Morgana, aveva capito che Mark era lontano da lei si era affrettata a correre sulla strada, dove non era al sicuro, ma poteva contare sugli automobilisti di passaggio.
Dopo la lunga corsa col cuore in gola e la paura come ombra dietro di lei è finalmente arrivata alla fermata dell’autobus, dove era discesa allegra e fiduciosa un’ora prima.
Scruta in lontananza la strada, pregando che la corriera gialla si stagli all’orizzonte.
Sente la camicetta aderire al seno, zuppa di sudore, che scivola lento verso la gonna, lo slip e ancora più giù verso le cosce, mentre i capezzoli scuri e duri si stagliano netti sulla stoffa bianca. Il sudore lascia una scia di odore animalesco, ma forse anche mascolino per la paura e la lunga corsa.
Si sente sporca dopo essere stata sbattuta sul lurido prato dello sfasciacarrozze, anche se non riesce a vedere la schiena e i capelli.  Però viste le condizioni della gonna, anche la camicia sarà ancora peggio ben imbrattata di grasso nero.
Si torce le mani in preda all’ansia perché la corriera tarda a venire, mentre le macchine sfrecciano davanti a lei. Finalmente la sagoma amica del bus si profila in lontananza sul lungo rettifilo nero ed argenteo approssimandosi alla fermata.
“Avanti!” sussurra ansiosa Simona “Muoviti! Tu sei la mia salvezza! Dio, ti prego, fa correre quella lumaca!” mentre vede il grosso lampeggiante giallo in azione, perché l’ha vista e si appresta ad accostare.
La porta anteriore si spalanca come una grande bocca per accoglierla sicura dentro il grande ventre della corriera, mentre scorge in lontananza la macchina di Mark, che lentamente sta scrutando i bordi della strada alla ricerca della preda sfuggita.
Infilata la moneta nella feritoia, si rannicchia sul sedile centrale per nascondersi alla vista del cacciatore, perché non è ancora in salvo. Spera che a Mark non venga in mente di salire sull’autobus ad una delle prossime fermate, mentre cerca di trovare un sistema per mettere più strada possibile tra loro. Gli occhi cadono sulla mappa dei trasporti urbani, che evidenziano che alla prossima fermata potrebbe scendere e prendere la metropolitna fino all’appartamento nelle vicinanze di Times Square a Manhattan.
Sbircia dietro e davanti nel tentativo di scorgere la Buick nera di Mark, poi allunga lo sguardo alla fermata. Tira un respiro di sollievo, forse riesce a farcela a tornare nel Residence Inn Marriot  dove alloggia da quando è arrivata a New York.
Quaranta minuti dopo è al sicuro nella sua stanza al 10 piano, che gurada il Bryant Park. Si guarda allo specchio: è in condizioni terribili. Toglie la camicetta, strappata in alcuni punti e nera di grasso, di fango ed altri sudiciumi, che getta nel cestino, come la gonna.
Rimane in mutandine, mentre controlla tutte le abrasioni del corpo prima di mettersi sotto la doccia bollente a togliersi odori e sozzure raccattati dallo sfasciacarrozze.
Era la fine di giugno, quando Simona era giunta a New York con un volo Air France via Parigi tre sere fa per incontrare Mark, con cui aveva chattato per oltre un anno. I genitori non volevano che volasse in America ad incontrare uno sconosciuto incontrato sul web, ma lei ormai aveva quarantanni e viveva single da una vita. Si era presa due settimane di ferie per andare a New York. Il viaggio e il soggiorno erano costati relativamente poco per via del dollaro debole e per di più si faceva una bella vacanza in una città per le mitica.
Finita la doccia ristoratrice, controlla i danni fisici subiti, mentre ripensa che ha fatto benissimo a non fornire a Mark l’indirizzo dell’alloggio a New York, altrimenti sarebbe già in preda all’ansia e al timore di vederselo sbucare dalla porta d’ingresso.
Dopo l’arrivo aveva trascorso i primi due giorni per sistemarsi e riprendersi dalle differenze di fuso orario, aveva contattato telefonicamente Mark, che con insistenza voleva sapere dov’era alloggiata, ma lei prudentemente aveva fatto finto di non capire la domanda. Si erano dati appuntamento in Central Park per la mattina e fare la prima conoscenza dopo tanto chiacchierare in inglese via chat.
L’incontro non è stato dei migliori, anzi piuttosto deludente per via di Mark, che immaginava più alto e più giovane. La conversazione ha languito a lungo, perché lui mostrava più interesse alle forme di lei che a parlare, non faceva altro che toccarla un po’ ovunque con grande imbarazzo di Simona, che non si aspettava questa aggressività sessuale che gradiva poco almeno in questa fase della conoscenza.
Il suo viaggio non era un tour gastronomico sessuale, ma desiderava incontrare una persona dopo averla conosciuta solo virtualmente, ma sembrava che questo desiderio dovesse rimanere tale dopo l’esperienza del pomeriggio.
Si domanda perché si è cacciata in questa avventura che assomiglia più ad un maledetto pasticcio che a qualcosa di stimolante.
Ripensa a tutti gli uomini della sua vita che tra meteore e stabili sono stati invero troppi. Roberto con cui ha avuta la relazione più lunga è stato la persona più importante. Conosciuto negli ultimi anni del liceo ha avuto un rapporto, durato per tutta l’università e un paio di anni dopo tra passioni travolgenti e litigate altrettanto furiose. Dopo di lui il diluvio dei sentimenti ha travolto Simona, che ha visto passare nel suo letto tanti uomini, senza che nessuno di questi abbia saputo donare un briciolo di amore. Ricorda Enrico, con cui ha tentato inutilmente e con esiti a dir poco disastrosi di convivere, ma viene presa dallo sconforto.
Poi c’è stata la parentesi con Anna, la collega di lavoro lesbica, che per mesi aveva tentato di avere una relazione con lei, finché dopo la delusione di Enrico decide di accettare il corteggiamento. E’ stata un’altra esperienza infelice sotto tutti i punti di vista senza ricevere nulla in cambio, mentre conveniva che tra l’amore lesbico e quello etero la bilancia pendeva decisamente verso il secondo.
“Fortunatamente siamo rimaste tutte e due senza lavoro, perché la società ha chiuso i battenti. Così senza troppi traumi si è concluso quel legame che stava diventando troppo ingombrante. Cosa non funziona in me?” si domanda sconsolata, mentre si aggira nuda nella stanza del residence “Attiro uomini a profusione, ma il loro unico obiettivo è solo di fare sesso con me”.
Quando ormai si stava avviando verso i quaranta, che per molte donne sembrano essere l’apice della lora vita prima di affrontare la parabola discendente della vita, ha scoperto il blog e la chat e tanti amici virtuali con cui può scambiare osservazioni e commenti.
La scrittura di pezzi tra il personale e l’attualità riesce a fornirle un momento di serenità e tranquillità, facendole dimenticare le delusioni amorose.
Poi un anno e mezzo fa l’incontro fortuito su Twitter con Mark, poi l’uso di Messenger per parlare on line. Inizialmente era contenta perché poteva perfezionare il suo inglese scritto, poi è diventata come una droga, perché aspettava con ansia la sera per aprire il dialogo con Mark.
“E le lunghe telefonate su Skype, che mi hanno permesso di sentire la sua voce calda e sensuale.” ancora ricordi dell’altro ieri affollano la mente di Simona.
Il loro rapporto virtuale diventava sempre più saldo e vincolante, mentre lui diventava il confidente a cui doveva confessare i problemi, i desideri, le ansie e le gioie. Mark insinuante e malizioso cominciò a porre domande sempre più intime ed imbarazzanti per chiunque ma non per lei, che rispondeva alle sue domande con particolari sempre più dettagliati. Simona era diventato un libro aperto, mentre metteva a nudo la personalità.
Stava preparando la trappola per attirarla a New York. Prima aveva detto che sarebbe venuto a Roma, ma poi con scuse varie rimandava il viaggio finché non lo annullò definitvamente, mentre le chiedeva di raggiurgerlo nella grande Mela.
“Se vieni a fine giugno, troverai il clima ideale. “ disse suadente “Ed io avrò molto tempo da dedicarti”. Così organizzato il viaggio in tutti i dettagli, era partita fiduciosa verso la grande America.
Il resto è storia recente.

Quando riaprì gli occhi…

Q

uando riaprì gli occhi, Dagny vide il sole, le foglie verdi e il viso di un uomo. “So che cos’è tutto questo”, pensò.

Era il mondo che aveva che aveva sognato di vedere a diciasette anni… ed ora l’aveva raggiunto… le sembrava così semplice, così normale, che il sentimento che provava era come una benedizione impartita in due parole all’universo: Ma naturalmente.
Guardava il volto inginocchiato vicino a lei, e sapeva che in passato avrebbe dato la vita per poterlo vedere: una faccia senza segni di dolore, di paura o di colpa. Aveva la bocca più che orgogliosa: come se sentisse l’orgoglio di essere orgogliosa.
I lineamenti decisi facevano pensare all’arrogamza, alla tensione, all’ironia..eppure il viso non aveva niente di tutto questo, ma ne era la somma finale: un’espressione di serena decisione e sicurezza, un’innocenza spietata che non avrebbe chiesto né accordato pietà. Un viso che non aveva niente da nascondere…

 Chi era Dagny? Così si poneva la domanda Barbara. Aveva trovato un brandello di carta, tutto stropicciato e in parte consunto, tra le pagine di un vecchio diario scolastico, dove annotava con cura tutti i suoi pensieri.
Stava rovistando in soffitta, quando scorse tra libri ingialliti e malmessi e blocchi di carta pieni di scarabocchi una copertina di pelle blù o meglio il dorso blù di qualcosa che stonava lì in mezzo.
L’aprì e cominciò a leggere, tornando ragazza: i primi amori, le prime delusioni, i disegni un po’ infantili in stile Heidi dell’amica Serena, la sua compagna di banco, qualche fotografia in bianco e nero dai bordi seghettati, che faceva tenerezza, e poi quel pezzetto di carta.
Barbara girava e rigirava quel foglio, strappato malamente da un quaderno a quadretti, su cui erano scritte un paio di frasi, cancellate e scritte più volte. La scrittura non era la sua, ma era lineare e rotonda. La mano era femminile o maschile? Per alcuni svolazzi sulla A e sulla P era quasi certa che fosse femminile, ma il resto era neutro. Lei scriveva con caratteri minuscoli e leggermente inclinati verso destra, mentre la riga tendeva a salire verso l’alto tutta sbilenca. La grafia dell’ignota scrittrice era perfettamente dritta, come le cancellature e le riscritture.
Barbara continuava a girare e rigirare quel pezzo di carta ingiallito e con qualche taglio con delicatezza e un po’ di timore.
“Era il riassunto di un libro? No, non ne aveva l’aria.” pensava con aria smarrita “Forse era l’incipit di un racconto… ma quale racconto? Io personalmente non ci ho mai provato. Basta leggere poche righe di questo diario per capire il perché”.
Riaprì il diario alla ricerca di qualche indizio. Si accoccolò sui talloni, appoggiando la schiena al baule aperto mentre teneva il diario sulle gambe.
“Lunedì 7 maggio 19..    Oggi ho conosciuto Roby, finalmente! Gli ho parlato o meglio ho farfugliato qualcosa mentre le orecchie diventavano rosso fuoco! …” mentre leggeva, pensava che imbranata era a diventare un peperoncino rosso.
Ora ricordava chi era Roby, un ragazzo della V C del liceo scientifico Roiti, mentre faceva un rapido calcolo di quanti anni aveva nel 19…. Lei era in III A, quindi aveva all’incirca sedici anni. Non era il primo fidanzatino, né sarebbe stato l’ultimo, però lo ricordava perché era un vecchio per lei con i suoi diciotto anni. Arrivava a scuola su una rombante Fiat Abarth 500 rossa dagli scarichi cromati lucidi ed enormi, almeno ai suoi occhi, sempre attorniato da nugoli di ragazze che avrebbero fatto carte false pur di sedersi accanto a lui.
“Ero timida e faticavo a spiaccicare due parole in fila, quando dovevo parlare con un ragazzo che mi piaceva. E con Roby il copione era lo stesso!” disse mentre continuava a leggere quelle note scritte venti anni fa.
Era ancora single perché non era mai riuscita a domare la timidezza, che attirava gli uomini, come allora calamitava i coetanei, ma poi scivolava su indecisioni e mutismi.
Aveva paura del proprio corpo, delle parole che uscivano dalla sua bocca ed arrossiva sempre.
Aveva un bel corpo, così dicevano gli uomini incontrati finora, ma la mente rimaneva un mistero per loro, perché non sono mai stati capaci di sondarla fino in fondo. Aveva un’intelligenza pronta e capiva velocemente tutto, che riusciva ad esprimere con vivide immagini e pensieri profondi sulla carta, ma diventava tutto ingarbugliato quando parlava con qualcuno.
Di questo limite aveva sofferto durante il percorso scolastico superata da compagni e compagne nelle considerazioni dei professori, che la ritenevano una mediocre e non una super, come era in realtà. Di questa doppia personalità alla Dr. Jekill e Mr. Hide aveva dato prova quando affrontava i test attitudinali e i colloqui di assunzione, lasciando nello sconcerto gli esaminatori, incapaci di decifrare la personalità e la mente pronta ed acuta.
Dopo tanti tentativi infruttuosi era approdata in una casa editrice importante e famosa col compito non facile di approvare l’uscita di libri e di correggere le bozze, perché prevaleva l’uso della penna su quello della parola. Ben presto era cresciuta nella considerazione del responsabile della pubblicazione perché non aveva sbagliato un colpo, anzi aveva consentito alla casa di essere sempre in cima alle vendite.
Bastavano poche pagine lette per capire se manoscritto meritava di essere pubblicato oppure sarebbe stato un fiasco colossale.  Quindi non c’era testo italiano che non passasse dalla scrivania di Barbara, che lo portava a casa da leggere e commentare, prima di riempire la scheda di valutazione con le note ed osservazioni. Un corso di full immersion di inglese e tedesco le aveva consentito di padroneggiare anche i testi in queste lingue sicuramente più ostici da riconoscere come traducibili con successo.
Ben presto era divantata lo spauracchio di tutti gli autori italiani famosi o no, che cominciarono a tempestarla di inviti ed omaggi, che lei lasciava cadere senza tanti rimorsi.
Ancora seduta sui talloni si riscosse da questo fiume di ricordi e riprese la lettura del diario.
“Dove ero rimasta?” si chiese “Ah! Stavo leggendo di Roby” e si domandò dov’era in questo momento.
Roby aveva avuto un ruolo importante allora, perché era stato l’unico che invece di ridere delle parole arruffate che aveva spiaccicato le aveva detto: “Sei una bella ragazza! Esci con me oggi?”
Barbara ricordava ancora la scena con lei tra l’interdetto e la sorpresa, quando rispose con un sì appena percettibile prima di scappare in aula senza nemmeno sapere dove e quando. Aveva più l’aspetto di una cerbiatta che si rifugia nel folto del bosco per sfuggire ai cani che di una ragazza in cerca dei primi amori.
L’incontro fu un fiasco colossale, come ricordava bene e come le rammentava impietosa la sua scrittura davanti agli occhi. Non era riuscita a dire tre parole di fila senza farfugliarne altre tre incogruenti tra l’ilarità e la sorpresa di Roby, che in compenso gli scoccò un bacio mozzafiato da lasciarla tramortita a mezz’aria per tutta la serata.
Il loro rapporto andò avanti per qualche mese finché lui stanco della timidezza di Barbara in tutti i sensi non la scaricò senza troppi rimpianti per Eleonora, meno bella ed intelligente, ma in compenso molto più disinibita di lei.
Barbara chiuse il vaso dei ricordi, riponendo il diario dove l’aveva trovato, mentre portò con sé nello studio il foglio scritto fittamente per rileggerlo ancora una volta.
Viveva in una minuscola villetta con giardino nell’hiterland milanese arredato con cura ed eleganza, dove conduceva una vita solitaria da single. Non aveva grandi amicizie, o meglio semplici conoscenze, che raramente invitava nella casa. Una grande libreria ingombrava la parete dello studio, ricoprendola coi volumi riccamente colorati. Questa era la stanza favorita con una scrivania di legno ed una poltrona di pelle, dove leggeva e lavorava nelle lunghe serate deserte.
Si sistemò sulla poltrona per leggere per l’ennesima volta quelle poche righe vergate da una mano sconosciuta tanti anni fa.
Ebbe un flash e capì che il destino aveva scritto quel pezzo di carta in cui si specchiava amaramente.

Sono nata il giorno di San Valentino..

“Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un ufficiale dell’esercito britannico ventiduenne ed una ballerina di flamenco innamorata, originaria delle Indie Occidentali, prevedevano una vita sentimentale per la loro primogenita. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione ed all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece, non ho fatto che essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: poco importava. Dovunque dirigessi i mie passi, qualcuno mi calpestava. Se Left fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina”.

Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre Paul, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini, che si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da assimilare se ne vanno svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.

Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.

Erano i primi anni sessanta quando Patricia e Paul si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale della Giamaica, Kingston, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale dell’esercito britannico nell’isola caraibica. Tutte le sere si recava con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Fin dalla prima volta era rimasto colpito da quel corpo flessuoso e sensuale che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco, senza mai riuscire a parlarle. Era alto, biondo e con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, il particolare senza trovarlo.

Era una sera fresca di fine marzo, quando il fato o meglio Eros decise che Patricia e Paul si incontrassero. E tutto capitò per caso. Lui era seduto al solito tavolo con John, David ed Eddie, quando lei passò nelle vicinanze. Un uomo bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio, ma lei cercò di divincolarsi inutilmente. Paul si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. Prima che l’altro potesse reagire, l’ubriaco fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti messo alla porta.

Fu un autentico colpo di fulmine e due mesi dopo erano sposi. Il 14 Febbraio del 1962 nacque Annie Valentine, la loro primogenita. Paul venne richiamato in patria, ma Patricia rimase con la piccola Annie a Port Royal per qualche tempo, poi la nostalgia del marito la portò a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima della Giamaica, dove Annie frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa. Paul congedatosi a trentacinque anni dall’esercito di Sua Maestà decise di tornare in Giamaica, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda in uno dei tanti centri turistici sorti nell’isola.

Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.
Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni a divenire, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.
Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione ed amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione ed amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.

Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso la grande vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava ad essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.
Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti, sentiva un brivido di piacere nella schiena il pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però presto il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.

La sua mente continuava a fantasticare questa avventura, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che invece lei pregustava nei minimi dettagli.

Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe aspettato tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.
Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.
Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro ed argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.
Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.
Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.

Il sole calava rosso ed infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che l’aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sulla sedia di vimini.
E pianse la sua solitudine.

Lo scoiattolo e Aloisa (parte prima)

Non passava giorno che lo scoiattolo se ne andasse in giro. Al mattino si lasciava cadere sul muschio giù dal faggio, oppure, a volte, dalla punta di un ramo finiva nello stagno proprio sul dorso di una libellula, che poi senza fiatare lo portava sull’altra riva. Prendeva sempre la prima strada che gli si parava davanti. Ma se poi gli capitava un viottolo laterale lo imboccava, e se gli riusciva di scordarsi dei progetti che aveva per la giornata, se li scordava. Così un giorno stava andando dall’elefante, che traslocava e aveva bisogno di aiuto, quand’ecco che vide un sentiero sabbioso tutto pieno di curve. Lo prese. C’era un cartello che diceva: STRADA VERSO IL LIMITE. E’ lì che voglio andare!, pensò lo scoiattolo. Ma con grande dispiacere incontrò subito un’altra deviazione…

….la prese e continuò a saltellare per il sentiero. Vide un cartello appeso al ramo più alto e prese l’ascensore per la cima sulle spalle di una farfalla gialla. – Ultimo piano, prego – disse lo scoiattolo alla farfalla e volò su dinnanzi al cartello, che lesse ad alta voce

Lo scoiattolo e Aloisa (parte seconda)

..’Che buffo cartello’ disse ad alta voce mentre si dirigeva nella deviazione di sinistra, ma poi andò verso destra all’ultimo momento.

Però era indeciso su quale deviazione prendere al prossimo sentiero, quando vide…

‘Uh! che delizioso pranzetto vedo davanti a me!’ e si diresse verso il nocciolo carico di frutti. Non fece tre passi, anzi tre saltelli, che si sentì tirare prima la coda, poi la pelliccia.

Si voltò corrucciato e arrabbiato, ma non scorse nulla. Pensava che forse gli era sembrato che qualcuno avesse acchiappato la sua maestosa coda e riprese a saltellare.

Qualcuno voleva rovinargli la colazione. Così meditava lo scoiattolo, quando vide un essere indefinito tra le foglie del nocciolo.

‘Chi sei?’ borbottò l’affamato scoiattolo ‘Perché mi disturbi?’ Sembrava un bambino o un nanetto che stava per gioco a cavalcioni di un ramo o meglio di esile ramo che non pareva affatto sentirne il peso.

Lo scoiattolo vide un moscone e saltò sul dorso per farsi traghettare verso l’intruso. Provò a cogliere una nocciola, ma si sentì bacchettare la zampa. ‘Ohibo’! Come ti permetti?’ esclamò ancor più irritato tutto dolorante.

Non era un bambino o un nanetto, ma una singolare figura femminile piccola e grassottela ma leggera ed eterea. Un po’ bruttina, invero. ‘Che fai nelle mie terre senza pagare il pedaggio?’ chiese di malagrazia.

‘Non ho letto nessun cartello che vietava l’ingresso agli scoiattoli!’ rispose scortese ‘E poi perché dovrei pagare qualcosa!’

Lo scoiattolo sempre a cavalcioni del moscone che dava segni di insofferenza aspettava che l’intrusa se ne andasse dall’albero. Però dopo un’attesa infinita per lui tornò sul viottolo per cercare qualche altro albero non presidiato.

Alla biforcazione si chiese come al solito quale direzione prendere, tanto una valeva l’altra.

Seguì l’istinto ed andò a sinistra, ma il sentiero era sbarrato ancora dalla figura femminile che aveva appena lasciato sul nocciolo.

‘Io sono il fantasma Aloisa, che presidia questo parco. Tutti mi devono rendere omaggio!’ sussurrò non propriamente amica la figura femminile.

Lo scoiattolo la osservò di sbieco e pensava che quel simulacro di donna volesse intimidirlo per impedirgli di fare una scorpacciata di noccioline.

E poi omaggiare per che cosa? Perché era un fantasma femmina? Però lei rimaneva lì a sbarrargli il passo in attesa di qualcosa. Lui se era già dimenticato e poi non aveva nulla con sé.

Aloisa lo apostrofò in maniera poco cortese perché lo scoiattolo non voleva lasciare un piccolo ricordo di sé alla base della statua.

Lo scoiattolo si girò e rigirò ma il fantasma era sempre più irritato davanti a lui. Sbuffò perché trovava la situazione comica e sgradevole allo stesso tempo, senza trovare un sistema per uscire dall’impasse. Veramente non ci aveva pensato minimamente perché la memoria non era troppo ferrea.

Sbottò con ‘Uffa!’ e si guardo intorno per cercare un passaggio senza vedere niente. Si sedette sulla coda reggendo il capo mentre lo stomaco reclamava qualcosa brontolando minacciosamente.

La figura femminile, anzi il fantasma femmina, era sempre lì a braccia conserte in attesa.

Lo scoiattolo non sapendo cosa fare le domandò di raccontare la storia della sua vita.

Aloisa mossa a compassione permise allo scoiattolo di mangiare un paio di nocciole e tre ghiande prima di cominciare.

Era una storia triste di abbandoni e tradimenti da parte del marito. Poveretto lui, pensava lo scoiattolo, con una moglie così bisbetica non poteva certo starle accanto.

Il racconto annoiava lo scoiattolo che si guardava intorno per cercare un passaggio per tornare da dove era venuto.

Finalmente una bella farfalla bianca passò accanto a lui per raccoglierlo e depositarlo oltre il muro di cinta.

Lo scoiattolo ritrovò ill buon umore perché non ricordava nulla di quello che aveva fatto o sentito. Si sentiva felice e canticchiava mentre tornava al suo albero o almeno quello che credeva fosse il suo albero.

Che buffa storia era questa dello scoiattolo, che viveva con la testa tra le nuvole e scordava impegni e promesse come se fossero noccioline. Fortunatamente uno così farfallone vive solo nel mondo della fantasia.

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(FINE)