Micol e Konnie

Konnie era un ragazzetto di sei o sette anni, quando lo conobbe, frequentava la scuola elementare, dove aveva imparato qualche rudimento di italiano, che non aveva avuto molte occasioni di usare prima dell’arrivo di Micol.
Era biondissimo con occhi azzurri slavati, molto più alto di lei, che era di statura bassa e fragile come una sopramobile di cristallo. Lei aveva i capelli nerissimi con due splendidi occhi verdi che davano luminosità ad un viso anonimo.
Suo padre, Rubens, si domandava da quale componente della famiglia avesse acquisito quegli occhi, poiché loro e i parenti li avevano nocciola o una tonalità leggermente più scura. Rideva quando diceva questo a Vittoria, sua madre, che si rabbuiava in viso prima di esplodere come un vulcano in eruzione. Micol allora non capiva perché la madre alzasse il tono della voce prima di andarsene di sopra nella sua stanza sbattendo le porte.
Adesso che era vecchia, ripensando a quelle esplosioni di ira, capiva che suo padre pensava che lei avesse un genitore sconosciuto, perché la madre avrebbe avuto una relazione con un altro uomo. Eppure ritornando su questi episodi vecchi di molti anni, era convinta che il suo vero padre fosse proprio lui, perché aveva percepito sempre, fino a quando non l’aveva lasciata per sempre, un amore autentico, intenso ed incondizionato. Inoltre doveva riconoscere che molti tratti della sua personalità si combinavano alla perfezione con quelli di lui, come aveva ereditato dalla madre la determinazione a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Quando Micol arrivò in paese, Konnie la adottò immediatamente e la impose agli altri bambini, che vedevano in lei un’intrusa, un corpo estraneo alla loro cultura.
Lei lo ricambiò con altrettanta devozione e pur essendo piccola in tutti i sensi lo difendeva dagli attacchi verbali di chi lo canzonava, perché si sforzava di parlare in un italiano corretto e decente.
Divennero presto due compagni inseparabili: dove c’era l’uno, c’era anche l’altra. Si divertirono a sfidare il vecchio Kurt salendo sul melo posto nell’orto per rubargli le poche mele agre e piccole che produceva. Micol stava di vedetta per avvertire Konnie, quando avvistava il vecchio che urlando ed agitando un bastone nodoso minacciava chi sa quali supplizi per i due bambini, perché lei sentiva solo strepiti inarticolati senza capire una sola parola.
Come due gnomi dispettosi sparivano col loro carico di mele rubate nel bosco, che circondava la parte bassa del paese, dove non visti ridendo per avere beffato ancora una volta Kurt le mangiavano tutte con voracità e soddisfazione.
Più di una volta vide il vecchio bussare alla porta di casa per parlare animosamente con sua madre, che rispondeva con altrettanta fermezza, mentre Micol, non vista, sbirciava curiosa attraverso la fessura dell’ingresso, cercando di cogliere inutilmente qualche frammento. Parlavano un linguaggio sconosciuto per le sue orecchie, mentre loro si capivano perfettamente. Poi sua madre, ancora rossa in viso ed alterata nella voce per la litigata feroce sostenuta e combattuta senza esclusione di colpi, le diceva che avrebbe fatto i conti con suo padre, perché rubava le mele di Kurt. Non aveva mai capito se lo diceva per incuterle paura o per burlarsi di lei, perché l’argomento non veniva più ripreso fino alla prossima visita del vecchio.
Tra i due bambini cominciò un gioco strano diverso da quello che facevano con gli altri bambini, ma era molto divertente, perché consisteva nel trovare il vocabolo giusto per ogni oggetto che avevano in mano. Naturalmente Konnie doveva pescare dal suo dizionario di italiano scarso e sdrucito, Micol da quello di tedesco parimenti deficitario. E il pegno da pagare per ogni errore era una manciata di liquerizie, che abbondavano sempre nelle loro tasche, mentre il premio consisteva in un casto bacio sulle labbra. Questo permise di migliorare la conoscenza della lingua più ostica per loro e di far sbocciare un tenero amore infantile.
Micol cresceva ed era sempre più integrata nel tessuto del paese, perché non era considerata più una forestiera venuta dal profondo sud, ma una di loro che ragionava in tedesco e parlava la loro lingua. Per i paesani tutto quello che stava al di sotto delle montagne verso sud erano persone che minacciavano la loro tranquillità, che li volevano italianizzare, quindi erano i nemici da combattere, da tenere lontani dalle loro case.
Micol faticava ad inquadrare i motivi di tanto astio, non tanto verso lei o i genitori, che dopo un primo approccio di diffidenza erano entrati a far parte della comunità a pieno titolo, ma verso i turisti che nel periodo estivo sciamavano nei boschi rumorosi e chiassosi lasciando dietro di sé carte e altro sudiciume.
I due bambini d’estate avevano il loro punto segreto d’appuntamento: il nocciolo enorme posto sulla biforcazione tra il sentiero 1 e 1b. Lì pazientemente aspettavano l’arrivo dell’altro, prima di correre felici per mano tra rovi di more selvatiche e grandi felci verdi alla ricerca di una spiazzo al sole, dove potevano distendersi e chiacchierare spensierati su cosa fare il giorno dopo.
Micol quando era con Konnie si sentiva librare leggera come un pappo dondolante nell’aria, mentre lo osservava dal basso verso l’alto. Percepiva sicurezza e serenità, esattamente come all’interno della sua casa, era pronta a seguirlo in qualsiasi prova temeraria nella quale lui voleva cimentarsi. Lo seguiva scalando con incoscienza alberi che si piegavano pericolosamente sotto il peso lieve dei due bambini, scendendo per dirupi sdrucciolevoli per il fitto muschio verde ed umido fino sul limitare del ruscello che scorreva placido nella forra.
Una lacrima salata scivolò lieve sulla guancia di Micol, mentre ricordava Konnie e lei bambina quel giorno di agosto di molti anni prima, quando aveva sette od otto anni senza rammentare quanti erano con precisione.
Come tutti i giorni lei aveva raggiunto quel misterioso posto segreto, che poi segreto non era, ma per loro era come se lo fosse, ed aveva atteso con pazienza l’arrivo dell’amico.
Passò del tempo, che sembrò una giornata intera, mentre lei era seduta su un piccolo masso sporgente ad osservare i movimenti del bosco. Si sentiva inquieta perché era la prima volta che Konnie tardava ad arrivare, quando sentì in lontananza portata dall’eco la voce angosciata e stridula della madre “Micol! Dove sei?”.
Nessuno sapeva, tanto meno sua madre, che loro si incontravano il quel punto del bosco e si domandava perché la cercava con tanto impeto ed affanno. Si alzò per andare incontro a quel suono, che non sapeva con precisione da dove provenisse, perché ogni anfratto, ogni roccia rifletteva quel rumore di parole affannate e dolenti in tutte le direzioni.
Dopo aver vagato alla ricerca della sorgente per il bosco, la vide in una radura che correva ad abbracciarla. Non comprendeva il senso di quell’agitazione e il motivo per cui la stringeva al petto come se avesse il timore che volasse via col primo refolo di vento.
Le lacrime adesso scendeva sfacciatamente copiose e numerose sul viso di Micol, mentre riandava col pensiero all’atmosfera di casa tesa, nervosa ed agitata, alla cappa di inquietudine che aleggiava fra le abitazioni del paese, al andirivieni di persone note e sconosciute che si affacciavano sull’uscio.
La madre la teneva abbracciata, mentre suo padre, insolitamente tornato presto, le accarezzava i capelli neri, senza che lei comprendesse il motivo di tutte le premure ed attenzione di cui era oggetto. Aveva la testa confusa perché Konnie aveva mancato l’appuntamento, perché i suoi genitori la coccolavano in maniera inusuale, perché percepiva un silenzio carico di dolore.
Frastornata ed intimidita prese il coraggio di chiedere: “Konnie doveva venire..”, ma la madre le chiuse la bocca e disse:”Micol, sii forte. Konnie è volato via..” prima che la voce si incrinasse per l’emozione.
Si divincolò, urlò e si rifugiò nella sua stanza nel sottotetto, mentre in Micol adesso il singhiozzo divenne un urlo di dolore.

Micol al Kindergarten

Micol aveva lasciato la grande pianura piatta quando aveva quattro anni seguendo i genitori a Bolzano, andando ad abitare in un minuscolo paese che non distava molto dalla città.
Era una tipica casa di montagna, parte in muratura e parte in legno con un piccolo fienile dove suo padre teneva un fuoristrada, e con un balcone di pino dove sua madre esponeva da aprile ad ottobre splendidi pelargonium rosso fuoco. Stava adagiata sul limitare del paese ai margini di un grande bosco che si espandeva misterioso verso il basso ed era circondata da un minuscolo giardino. Davanti e di lato c’erano arbusti bassi resistenti al freddo integrati durante la bella stagione da piante fiorite e colorate, mentre dietro un minuscolo orto procurava insalatina fresca e carote giganti deliziose e sugose.
Micol adesso era vecchia ed era tornata nella città della grande pianura piatta assolata e polverosa, ma nei suoi occhi conservava le istantanee di quando era bambina.
Rivedeva l’interno della casa dove durante i lunghi inverni stavano accoccolati intorno alla Kucheloefen, la grande stufa di maiolica posta nel centro della sala da pranzo, con le mattonelle bianche in ceramica di Thun decorate di fiori azzurri, con le ruvide e scomode panche di legno poste sui fianchi e il letto morbido e caldo sulla sommità.
Quello per tantissimi inverni fu la sua culla caldissima ed accogliente, dove cullava i sogni col dolce tepore della Stube. Ancora adesso sentiva nelle ossa vecchie e stanche il calore della legna di abete che bruciava silenziosa e crepitante nella grande bocca. Allora le sembrava tutto enorme: il letto, le panche di legno, la bocca nella quale suo padre introduceva i grossi ciocchi da bruciare, le assi che le impedivano di cadere giù.
Erano sensazioni strane le sue, perché era stata catapultata in un mondo diverso ed irreale. Gli altri bambini parlavano uno strano linguaggio che lei non capiva a parte Konnie, un ragazzino più vecchio di lei di un paio d’anni, che in un italiano stentato e pieno di errori cercava di comunicare. Poi l’ingresso alle Marcelline cambiò l’ immagine delle visioni e capovolse un mondo fatto di solitudine per l’incomunicabilità delle parole ed affidato al solo gesticolare.
Tutti i giorni suo padre la portava a Bolzano alla Kindergarten, dove trovava all’entrata la mitica Frau Leone, una signora non più giovanissima dall’aspetto imponente, perché ai suoi occhi anche lei era enorme.
La prima volta fu terrificante, perché era l’unica bambina che non conosceva una sillaba di tedesco, mentre l’energica Frau Leone la guardava come una bestia rara da conoscere e decifrare. Micol si sentiva confusa, impacciata, osservata da mille sguardi ironici e canzonatori, perché non sapeva dire “Willkommen, Frau Leone” oppure non comprendeva quando l’imponente Frau Leone la chiamava “Micol, kommt hier!”. Eppure leone era qualcosa che aveva sentito ancora da mamma e papà, che le ricordava una belva feroce dalla grossa criniera, ma adesso era una signora austera che non parlava per nulla l’italiano.
A stento aveva trattenuto le lacrime, doveva farsi forza, come si era raccomandata la mamma prima di salutarla quella mattina, e mostrare dignità e fierezza per essere l’unica italiana. E lei sopportò l’essere esclusa dai giochi e dal salmodiare le filastrocche, ma senza perdersi d’animo cercò tutto il primo giorno di farsi accettare, di intrufolarsi nei gruppetti, di fare amicizia, insomma di fare quello che fanno tutti i bambini: giocare e cantare in gruppo.
Quando suo padre l’accolse all’uscita liberò le lacrime che aveva trattenuto fino allora, mentre lui la faceva volare tra le braccia.
Nei giorni seguenti l’incubo era scendere dal letto, perché sapeva che l’avrebbe aspettata una nuova dura giornata di incomprensioni e stilettate pungenti, attenta ad osservare i movimenti dei compagni per ripetere gesti ed imprimere parole delle quali non comprendeva il significato.
Poi giorno dopo giorno con la tenacia e la testardaggine ereditata dalla madre cominciò a decifrare quel linguaggio ostico e dai suoni gutturali tanto diversi dalle parole conosciute fino a quel momento e finalmente poteva unirsi agli altri coetanei per recitare le Kinderreim, le brevi filastrocche che accompagnavano i giochi quotidiani.
 
Eins zwei drei vier fünf sechs sieben,
eine alte Frau kocht Rüben,
eine alte Frau kocht Speck
und Du bist weg.
 
Wenn die Kinder in den Gassen
wieder Kreisel tanzen lassen,
hopsa und juchheirassa !
ja, dann ist der Frühling da.

 
Ene, mene, miste,
es rappelt in der Kiste.
Ene, mene, meck,
und du bist weg.

 
Adesso non era più il brutto anatroccolo che stava a bocca aperta cercando di captare qualche segnale che giungeva sempre distorto alle sue orecchie, mentre i compagni sicuri che non comprendesse dicevano “italienische Dummenkopf!”. Aveva imparato a difendersi, rispondendo per le rime senza lasciarsi prevaricare.
Non era passato molto tempo dal quel primo giorno, quando era ormai una di loro, considerata e trattata con rispetto, perché aveva imparato in fretta il loro linguaggio, che le sembrava meno armonioso di quello che usava coi genitori,
Frau Leone era rimasta sorpresa dai suoi progressi in un tempo veramente breve, ricredendosi sulla possibilità che potesse sopravvivere in un ambiente tipicamente ostile verso gli stranieri.
Micol aveva capito che, se non  voleva essere emarginata, doveva sfoderare tutta la grinta che possedeva. E lo fece senza economie.

Micol

Era una sera di fine luglio, quando Micol prese la corriera “Korner Platz – Jenesien Gasthof Konig” come tutte le sere da due anni. Partì stracolma di persone dalla piazza sotto il monumento di Hofer come sempre a quest’ora della giornata.
Micol fu fortunata a trovare un posto vicino al finestrino abbassato passando sulle gambe di uno sconosciuto, che brontolò qualche parola in tedesco che non afferrò pienamente, quando si sedette dopo aver buttato lo zainetto sotto il sedile.
Lo guardò male senza aprire bocca, perché non le andava di parlare con uomini sconosciuti specialmente su questa corriera sempre piena di uomini e donne diversi.
La serata non prometteva bene, perché era rumorosa, piena di polvere ed offuscata dalla calura che opprimeva la città come una cappa di piombo fuso in attesa della brezza notturna. Le strade assolate erano invase da persone, che, abbandonati in fretta gli uffici torridi, cercavano ristoro nel loro appartamenti altrettanto infuocati. Quest’anno erano stati vietati i condizionatori per risparmiare energia, così la gente cadeva come mosche sotto il sole che picchiava implacabile. Per fortuna all’imbrunire un vento gelido incuneato tra le strette vallate di Sarnital raffreddava l’ambiente mentre alle persone era consentito di respirare.
Micol era giovane e robusta e sopportava meglio di altri la calura di una estate ardente come il fuoco che scoppiettava allegro nella stufa di maiolica posta nel centro della stanza da pranzo.
Era bello sedersi intorno appoggiando la schiena al caldo durante le lunghe veglie d’inverno, mentre fuori fioccava le neve e il vento disperdeva i fiocchi.
Aveva venticinque anni e da due sopportava quel viaggio che la portava tutti i giorni in centro città con qualsiasi tempo. Quando faceva molto freddo e le strade erano lucide lastre di ghiaccio sporco, incrociava le dita per scaramanzia e ringraziava il santo protettore che era sempre al suo fianco ad ogni tragitto.
Era tutto sommato una ragazza appena fuori dal bello col viso rotondo e paffutello, dove spiccavano due grandi occhi verdi, e dalla statura che tradiva le origini non tirolesi. Aveva imparato il tedesco alla scuola materna delle Marcelline, dove era stata accettata con grandi sforzi e suppliche perché era l’unica di lingua italiana. Aveva sempre mal sopportato quello sdoppiamento della personalità, ma adesso ringraziava di cuore quella scelta, perché era una bilingue perfetta.
Quella sera era cominciato male il viaggio di ritorno, perché la calura aveva eccitato gli animi, divenuti irritabili e irascibili per un nonnulla come le cime rosseggianti che facevano conca alla città. All’interno c’erano sicuramente oltre quaranta gradi, pensava mestamente Micol col sudore che appiccicava la camicetta alla pelle, e senza un alito di vento per allontanare quel lezzo di cipolla mischiato al disgusto del vino, che i vicini emanavano senza troppo ritegno.
L’uomo sconosciuto al suo fianco continuava a guardarla con un’intensità sospetta, come se la volesse spogliare, mentre lei imprecava contro tutta quella gente che si ammassava come bestiame sulla corriera.
Sporgeva la testa fuori dal finestrino per quel tanto che poteva dalla sua posizione cercando di captare qualche bava d’aria rovente. Si sentiva osservata, ma non poteva fare nulla per togliersi da dosso quelle punture che l’occhio generava sulla pelle.
Le sembrava di giacere nuda su un lenzuolo, su una lastra di metallo o di marmo, scrutata da mille sguardi di persone ignote e sconosciute, pronte a toccarla, a far scivolare le mani sulla pelle come le gocce di sudore che scendevano e rotolavano in minuscole perline bagnate tra i seni e dietro la schiena.
La lingua pareva ingrossata tanto faticava ad uscire dalla bocca per umettare le labbra screpolate e disidratate, perché aveva finito da tempo la scorta di acqua che portava nello zainetto.
Il viaggio fu lungo e penoso tra imprecazioni, bestemmie e rutti di gente ubriaca e nervosa che litigava col vicino senza ritegno, mentre Micol era riuscita a tenere abbassato il finestrino che faceva entrare a fiotti aria fresca che le scompigliava i capelli neri.
Lentamente l’uomo sconosciuto si avvicinava a lei, che si addossava al finestrino come un’acciuga marinata. Ormai era immobilizzata, mentre ansia e terrore scendevano come una cappa di gelo sul corpo accaldato e sudaticcio, ed avvertì una mano che frugava sotto la camicetta e l’altra che tentava di insinuarsi nei jeans.
Micol era un animale braccato dai cani e rintanato in un pertugio senza uscita, perché anche se avesse gridato nessuno l’avrebbe ascoltata.
Lo lasciò armeggiare per qualche istante, mentre studiava una via d’uscita: altri posti liberi non c’erano, ma vicino all’autista c’era un minuscolo spazio. Forse era lì la sua salvezza.
Con mossa improvvisa afferrò con una mano lo zainetto sotto il sedile e con l’altra abbrancò saldamente i testicoli dell’uomo che urlò dal dolore mollando la presa.
Tutti si girarono mentre i suoni svanivano fuori dai finestrini per capire chi aveva strillato quel rumore sguaiato.
In un baleno Micol si portò vicino all’uscita pronta a scendere per raggiungere la casa di corsa e con la speranza di sfuggirgli.
L’uomo accasciato sul sedile ululava dal dolore con gli occhi pieni di lacrime ed arrossati dalla collera, perché la preda era momentaneamente fuggita. Barcollando tra spintoni e bestemmie cercò di avvicinarsi a Micol, ma per sua sfortuna incrociò una persona alticcia che gli mise le mani addosso.
L’alterco durò quel tanto che le permise di scendere e vedere la chiusura della porta alle spalle, mentre si avviava col cuore in gola verso casa. Si fermò un istante per esaminare chi c’era alle spalle, mentre vide l’uomo sconosciuto che gesticolava con l’autista nel tentativo di aprire la porta.
Micol s’affrettò leggera come una piuma verso l’intrico dei vicoli stretti che la inghiottirono tra le ombre calanti della sera. Conosceva ogni anfratto, ogni pertugio tra case e staccionate, dove bambina aveva giocato a nascondino per molte estati, e si sentiva ormai al sicuro.
Chiuso il portone di casa con qualche affanno e sospiro di sollievo, rifletté che era ormai giunto il momento di sospendere quei viaggi.

Frammento su Sofia e Matteo

Sofia chiamò Matteo, che impaziente era in attesa, corrucciato ed irritato perché lo stava trattando come un vecchio straccio da buttare nel rusco.
“Ciao” esordì con naturalezza senza avvertire la necessità di giustificare il ritardo e proseguì secca e brusca che l’appuntamento era tra quindici minuti sotto casa, senza dar modo a Matteo di dire una qualsiasi parola.
Matteo, già in fibrillazione per l’attesa prolungata e senza giustificazioni, si innervosì per il comportamento sfacciato e dispotico di Sofia al punto di decidere di mandare all’aria l’incontro. Il pensiero di far saltare il banco lo sfiorò come una meteora impazzita, perché avrebbe anche potuto accettare la telefonata molto oltre l’orario concordato, ma non aveva gradito per nulla l’assenza di una giustificazione di facciata ed il tono sbrigativo e arrogante tenuto durante l’effimera conversazione.
“Se crede che io sia il suo tappetino, si sbaglia in maniera grossolana. Se non fosse stato per Paolo, a quest’ora sarei già nel mio letto a dormire” stava borbottando irato e furibondo.
Era visibilmente seccato perché ultimamente Sofia era diversa da quella conosciuta inizialmente, come se avesse mille grilli che danzavano furiosamente nella testa. Era giunto il momento di chiarirsi perché la relazione stava prendendo una piega per nulla buona.
Sofia intravide tra luci fugaci e precarie ed ombre in chiaroscuro il viso di Matteo irritato ed incavolato mentre stava parcheggiando nelle vicinanze.
Con tono di comando l’obbligò a salire in macchina al termine del parcheggio per andare su direttamente dal box.
Matteo continuava a ribollire come il mosto nel tino dopo la vendemmia, mentre Sofia rifletteva sulla serata appena trascorsa quasi dimentica della sua presenza.
“Non so che cosa mi ha preso stasera. Prima quel bacio appassionato e caldo con Marco, poi quello con Laura”.
Ripensandoci a freddo c’era mancato pochissimo per spogliarsi e fare all’amore con lui. E ridendo, pensò che non c’era molto da togliere, perché sarebbe stata sufficiente alzare la mini e tutti i giochi sarebbero stati fatti.
L’aspetto più inquietante e del tutto inaspettato era stato il bacio con Laura e le relative carezze intime. Era la prima volta che le capitava, ma la sensazione provata era stata fortissima: una vampata di calore aveva avvolto il corpo mentre la mente aveva comandato alla lingua e alle mani di ricambiare le attenzioni.
Il flusso dei pensieri furono interrotti dall’insistente ed impaziente picchiettare di Matteo, che si sentiva sempre più stizzito con lei.
“Pazienza”; esclamò, perché adesso doveva concentrarsi sul compagno per accoglierlo con calore e farsi perdonare il comportamento tenuto fino a quel momento.
Sofia si identificava fortemente con le sue idee e le sue opinioni in questo periodo della sua esistenza ed era facile alla lite; aveva l’impressione che un parere contrario al suo fosse un affronto personale. E questo era venuto a galla più volte nel corso della serata appena conclusa e per riflesso l’aveva riverberato su Matteo senza accorgersene.
Sapeva che non sarebbe stato facile rabbonirlo, perché era stata fino al questo momento prepotente, sfrontata e pochissima disponibile al dialogo. Percepiva di essere stata indisponente oltre misura come se l’altro lato della sua personalità avesse sopraffatto quello che la vedeva innamorata ed affettuosa con lui.
L’aspetto peggiore era la sensazione di turbamento interno, ma anche di eccitamento che la prendeva all’improvviso in modo travolgente ed incontrollato.
Doveva dunque mantenere sotto controllo le emozioni, non in modo repressivo, ma in maniera che le permettesse di avere uno sguardo più equilibrato e realistico sulla vita di relazione.
Lui si sistemò sul sedile mentre l’umore stava peggiorando come una tempesta tropicale in arrivo dal mare, non essendo per nulla disponibile ad ulteriori sgarbi.
I due amanti erano finalmente vicini e la notte prometteva scintille come una barra di ferro che veniva fresata.

Nuovo frammento

Laura cercò di dimenticare sia Marco che Paolo, perché non se la sentiva di cominciare una nuova storia sentimentale dopo l’ultima cocente delusione, che aveva lasciato una ferita profonda e lacerante dentro di lei. Voleva metabolizzare la grande frustrazione che provava, analizzare cosa non aveva funzionato nel rapporto e le motivazioni recondite che avevano fatto sparire dalla sua esistenza Marco.
Adesso non voleva lasciarsi distrarre da altri pensieri e si concentrò sulle offerte ricevute, spedì altri curricula alla ricerca di un posto che fosse in grado di soddisfarla professionalmente oltre che economicamente. Per i problemi di cuore c’era tempo e potevano aspettare nell’anticamera dei sentimenti.
Non aveva fretta nella ricerca di un lavoro perché aveva la fortuna di poter scegliere tra le molte offerte sollecitate oppure no che stavano in bella mostra sul tavolo.
Inoltre non aveva problemi finanziari impellenti, che la obbligassero a selezionare in fretta qualche proposta. Era vero che desiderava affrancarsi economicamente e fisicamente dai genitori, come aveva fatto l’amica Sofia, ma tutto sommato stava bene in famiglia.
Dopo molti colloqui, scartò le proposte meno allettanti riducendo la scelta a tre offerte tutte interessanti e stimolanti. Però prima di prendere una qualsiasi decisione volle concedersi una settimana di ferie in montagna tra il silenzio dei boschi per ritemprare lo spirito e il corpo dopo gli stress subiti. Il clima era ancora invitante e caldo, mentre le giornate erano sufficientemente lunghe. Doveva solo scegliere la località.
Laura amava la montagna con i suoi silenzi, i suoi profumi, i suoi rumori, la trovava rilassante e tonificante per lo spirito.
Fino a diciotto anni aveva dovuto subire il rito del mare seguendo i genitori sulla Riviera ligure come tutti i milanesi doc nel mese di agosto. Come odiava quel mese trascorso sulla spiaggia, non potendo sopportare le grida dei bambini, tutti quei corpi seminudi, spesso orribili a vedersi, tutto quel miscuglio di odori sgradevoli, creme e sudore, la sabbia che s’insinuava maligna ovunque.
A diciotto anni disse ai genitori: “Se mi date la quota che spendete per me al mare, io vado in montagna con Sofia e ci rivediamo a casa”. E da allora trascorse un mese in montagna con l’amica di sempre, esplorando anno dopo anno varie località alpine. Questa tipo di vacanza proseguì anche dopo avere conosciuto Marco, che preferiva invece tornare a F… tra ricordi e sensazioni famigliari. Era un momento di distacco tra loro che serviva a rinsaldare il legame che come una tela di ragno li avvolgeva.
“Potrei andare in Valtellina a Bormio” disse mentre esaminava le diverse possibilità. Era una vallata bellissima con il parco dello Stelvio lì a portata di mano ed era l’occasione giusta per conoscere una zona della Lombardia. E senza prenotare partì.
Il viaggio fu un disastro, un autentico percorso di guerra tra strettoie, lavori in corso e deviazioni, ma alla fine stressata e stanca riuscì a raggiungere Bormio, dove parcheggiò l’auto nella centralissima Via Roma.
Cominciò a girarla a piedi per scegliere l’hotel che le sembrava il migliore ed il più accogliente, mentre pensava: “Settembre non è certamente un periodo del tutto esaurito, quindi mi posso permettere di scegliere quello che più mi aggrada”.
Girò il paese sempre col naso all’insù, osservando con cura alberghi e pensioni, si sentiva rinascere corroborata dall’aria frizzante e dalla tranquillità della cittadina. La stanchezza del viaggio era stata cancellata come una scritta sulla battigia, le tensioni interne si erano stemperate e sciolte come i minuscoli cristalli di brina al sorgere del sole.
Dopo il lungo passeggiare per le vie e le discrete domande a passanti alla fine optò per l’hotel Posta.
L’esterno era moderno, ma all’interno erano stati conservati particolari della vecchia struttura, dove un tempo si sostava negli spostamenti tra le vallate.
La stanza era accogliente ed i servizi eccellenti. “E’ un hotel di prim’ordine” si disse compiaciuta per la scelta effettuata.
Laura trascorse una settimana rigenerante tra passeggiate solitarie nei boschi ed escursioni nei dintorni, favorita da un tempo clemente e soleggiato abbastanza insolito per il mese di settembre. Alla sera frequentava le terme dove trovava tonificante la cascata termale, un’ebbrezza mai provata, ma nel complesso era tutto stimolante e rilassante, permettendole di scaricare lo stress accumulato nelle ultime settimane.
Sembrava rinata, distesa e rinfrancata quando riprese la strada verso Milano: aveva le idee più chiare quale offerta di lavoro avrebbe privilegiato, il ricordo di Marco stava sbiadendo anche se era ancora vivo e presente nel subconscio. La mente non era più quell’alveare impazzito dove i pensieri entravano ed uscivano come le api alla ricerca di pollini e profumi.
Era stata la vacanza giusta per rinascere e scacciare tanti fantasmi che si muovevano silenziosi dentro di lei.
Al rientro contattò le tre aziende che secondo lei erano meritevoli di interesse per l’ultimo e definitivo colloquio.
Scelse una grossa azienda, molto nota sul mercato, con diverse linee di prodotto. Fu assunta come assistente del product manager degli articoli per la montagna. Avrebbe dovuto occuparsi inizialmente della verifica della gestione dei prodotti per rilevare inefficienze e sprechi ed ottimizzare il loro ciclo di vita.
La prima settimana di ottobre avrebbe preso servizio per iniziare una vita diversa da quella vissuta fino ad ora. Le rimanevano ancora alcuni giorni di riposo prima di immergersi in un mondo completamente nuovo da scoprire esattamente come il viandante era alla ricerca della strada che portava a Roma, la mitica via Francigena.
L’ingresso nel mondo del lavoro avvenne per Laura dalla porta principale: aveva un bel ufficio luminoso tutto per lei accanto a quello del diretto superiore, veniva trattata con deferenza come se fosse una persona importante, anche se era l’ultima arrivata.
Laura ricambiò la fiducia riposta su di lei con impegno e professionalità facendosi subito ben volere da tutti per la cordialità, la gentilezza dei modi e il sorriso sempre presente sulle labbra.
Il nuovo lavoro, la concentrazione sulle mansioni ricevute fecero impallidire ulteriormente il ricordo di Marco e dimenticare la delusione subita. Psicologicamente si sentiva meglio, ma la ferita era lungi dal cicatrizzare completamente, perché era sufficiente un piccolo ricordo per farla sanguinare abbondantemente.
Non aveva tempo da dedicare alle attenzioni dei diversi corteggiatori che a turno cercavano di fare breccia nella sua mente. Non si sentiva pronta ad una nuova relazione stabile. Il suo cuore non batteva ancora di battiti accelerati, ma era come un vecchio diesel che si muoveva lentamente.

Nuovo frammento (2)

Paolo aprì gli occhi sentendo le mani intorpidite che faticavano a muoversi agili, mentre erano sorde ai suoi comandi.
“Dove sono?” si chiese turbato, vedendo le luci accese e lo screensaver del computer. Si domandava incerto perché era lì sulla scrivania a dormire anziché nel letto. Non ricordava nulla della notte appena trascorsa o meglio di come l’aveva trascorsa.
Osservava le immagini scorrere, dissolversi, salire e discendere in un caleidoscopio di forme che apparivano e sparivano.
“La notte stellata” gli compariva innanzi agli occhi ancora gonfi di sonno: era il quadro di Van Gogh che gli piaceva di più in assoluto. Gli suscitava inquietudine e commozione vedere quelle pennellate di nero e di blu notte interrotte da macchie di colore giallo, che sembravano muoversi, animarsi sotto la spinta della fantasia.
Ogni volta che compariva si fermava incantato a guardare.
“Cosa ci faccio” diceva a se stesso “di fronte al computer? Perché non sono a letto?”
Aveva dimenticato nel sonno mattutino le inquietudini della sera e della notte, Laura e i tormenti dell’amore.
Come un viandante che dopo aver camminato a lungo tutta la notte rimaneva abbagliato dal sorgere del sole e metteva una mano sopra gli occhi incerti nella luce mattutina per ripararli e per vedere dove posava i passi, così Paolo corrugava la fronte pensando all’essersi addormentato sul tavolo davanti al computer.
Non ricordava quali attività notturne avesse svolto, forse aveva letto la posta o forse no, forse aveva navigato alla ricerca di qualcosa che non rammentava.
Poi lentamente riemerse dalle nebbie del non ricordo mentre uno alla volta gli tornarono alla mente tutti i pensieri che l’avevano accompagnato dal giorno precedente. L’aspetto più difficile, e anche il più importante, era mantenere l’equilibrio tra sogno e realtà. Come altre facce della propria esistenza, anche le espressioni emotive abituali avrebbero potuto cristallizzarsi in una routine tale da eliminare la capacità di assaporare la vita nella sua interezza.
Guardò l’orologio e decise che era giunta l’ora di dare la sveglia a Matteo.

Nuovo frammento (1)

Agnese era stremata ed infreddolita quando riemerse dal sonno agitato e pieno di incubi sgradevoli e di sogni piacevoli.
Apri gli occhi impastati dal lungo dormire mentre pensava se il sole era già sorto o stava sorgendo, poiché dalle imposte filtrava una timida luce che sciabolava lungo le pareti.
Sperava che fosse una bella giornata perché le avrebbe consentito di fare un lungo giro in bicicletta col vento fresco in faccia; ne avvertiva la necessità dopo il lungo giorno precedente trascorso tra tensione e ansie su quello che le avrebbe riservato il futuro.
Si sentiva stanca e depressa dopo la lunga contesa con Giulio, ma adesso era timorosa di udire al telefono la voce di Marco, che le rendeva noto la sua indisponibilità.
Riascoltava con la mente la telefonata del giorno precedente, quando l’intuito femminile le suggeriva la speranza che lui avrebbe mantenuto la promessa. In misura analoga la paura, che fosse stata ingannata dall’intuizione, aleggiava pesante nei pensieri e non la voleva abbandonare.
Queste riflessioni discordanti avrebbero potuto avere diversi effetti su di lei tanto che avrebbe dovuto stare attenta, perché da un lato incoraggiavano un comportamento compulsivo e dall’altro le emozioni acquistavano tanto impeto che era difficile non cedere ad urgenze ed a impulsi improvvisi che col tempo avrebbero potuto rivelarsi negativi, se avesse cercato di razionalizzare i sentimenti.
Dunque era preferibile alzarsi e pensare ad altro piuttosto che rimanere nel letto a rimuginare timori e delusioni, speranze e pensieri opachi.
Lo stomaco a digiuno da un giorno reclamava qualcosa per saziare la propria fame.
Il sole illuminava il giardino di sbieco, allungando sul prato e sul muro sottili ombre quasi fossero modelle in sfilata sulla passerella. Giorno dopo giorno si sarebbe levato sempre più in alto sull’orizzonte fino a quando a maggio lo avrebbe inondato di piena luce.
Respirò rumorosamente mentre stiracchiava le braccia davanti alla finestra aperta e pensava: “Mi devo sbrigare se voglio essere di ritorno per mezzogiorno”.
Era sua intenzione andare in città per qualche acquisto rimandato più volte, ma che ora era diventato urgente come la voglia di incontrare Marco.
Lasciata la finestra aperta, si precipitò in cucina a prepararsi un caffè nero e bollente, che l’avrebbe svegliata completamente e poi via di corsa in bicicletta.

E frammento sia

Laura e Marco, stanchi ma appagati da quel rapporto un po’ sofferto inizialmente e poi decollato nella giusta misura, erano vicini abbracciati teneramente, mentre le loro menti vagavano leggere per il piacere ricevuto.
Lei percepiva che qualcosa lentamente stava cambiando dentro e  che avrebbe voluto continuare il discorso sulle fobie nei confronti del proprio corpo per completare l’opera. Però aveva inopinatamente invitato Sofia, ed adesso ne era pentita, perché il discorso si sarebbe interrotto diventando monco e frammentario col rischio di perdere dei pezzi importanti o di ricominciare dall’inizio.
I pensieri turbinavano nella testa di Laura, come una tempesta di neve con i fiocchi che volavano da tutte le parti senza un disegno preciso, mentre ammirava Marco, che oltre ad un fisico eccezionale aveva una sensibilità ed un intuito fuori del comune. Come avrebbe desiderato che il tempo avesse retrocesso le lancette di sette mesi, così dubitava che sarebbe riuscita a trasformare il suo ADDIO in ARRIVEDERCI trasformando questo lasso temporale in semplice parentesi, spiacevole e temporanea da chiudere tra i ricordi da dimenticare.
“Io lo amo ed lui mi ama, ma i nostri mondi sono differenti” diceva sconsolata Laura, accostata a Marco, mentre faceva scivolare le mani cautamente fino all’inguine alla ricerca delle parti intime. Percepì un calore denso e sensuale salire da dentro, da sotto verso la testa, mentre le mani di Marco accarezzavano con dolcezza la schiena ed il collo. Sentì montare irrefrenabile il desiderio di ricevere nuovamente piacere, quando guardò l’orologio appeso al muro ed esclamò: “Accidenti! Perché ho invitata Sofia?”.
Proseguì, affermando irritata e indispettita che il suo arrivo fra dieci minuti avrebbe rovinato l’atmosfera magica che s’era creata nella stanza. Non c’era alcun dubbio che era ormai davanti al portone pronta a suonare il campanello, perché come un orologio svizzero non sgarrava un secondo.
“Marco, ho ancora voglia di te! Non vorrei vestirmi, ma lo dobbiamo fare” concluse amaramente e rassegnata a rimandare a dopo quello che desiderava con tutte le sue forze in quel momento.
Marco l’afferrò in silenzio con delicata decisione e la sdraiò sul letto, e mentre la sua lingua cercava la sua con passione, sussurrò dolcemente: “Se non siamo pronti, aspetterà!” e continuò a tenere premuto il corpo su di lei, che si abbandonò senza resistenza alla ricerca della passione.
Udirono un campanello in lontananza. Riluttanti si alzarono per aprire l’ospite indesiderato, si guardarono e risero, mentre si tenevano per mano.
“Sofia!” disse Laura allegra “non sono pronta. Conosci la strada. Mettiti comoda in salotto. Arriviamo subito”.
Andarono velocemente in bagno e poi nella stanza a rivestirsi, mentre Sofia si accomodava sul divano.
La ragazza aveva capito subito dal tono della voce e dalle parole di Laura che li aveva sorpresi nella loro intimità come il falco che vista una coppia di tortore in amore si getta su di loro sparigliandole.
La fantasia si accese come un film a luce rossa proiettando amplessi e gemiti, piacere e passione in un turbinio di immagini. Era sul divano tutta infoiata nelle fantasie di sesso e di desiderio, quando entrò Marco, che gli sembrò più un mitico guerriero antico da amare senza ritegno o pudore piuttosto che l’amico che non rivedeva da troppo tempo.
“Sofia, che piacere rivederti! Sei un vero spettacolo, lasciati ammirare!” disse galante e premuroso per stemperare il broncio della ragazza “e non fare quella faccia da offesa! Hai aspettato qualche secondo!”. E sorridente la salutava con un bacio pieno di passione sulle labbra.
Sofia, nera come la pece per l’attesa ma in calore per le fantasie erotiche, che la voce di Laura aveva scatenato, stava per dire qualcosa di piccante ed imbarazzante, quando quel bacio improvviso ed inaspettato le fece cambiare repentinamente umore. L’abbracciò e lo ricambiò, anzi andò molto oltre, insinuando la lingua tra le labbra a cercare quella di Marco, che rispose con uguale ardore.
Erano ancora abbracciati con le loro bocche unite, quando Laura fece il suo ingresso e li vide.
Un moto di stizza passò sul viso, che da sorridente diventò scuro ed imbronciato come un cielo che preannunciava tempesta.
“Avete finito?” disse con voce stizzita ed aspra “Sono arrivata! Sofia, …”.
Marco, staccatosi  prontamente, l’abbracciò con passione non lasciandole terminare la frase nella speranza di porre riparo alla situazione equivoca nel quale si erano venuti a trovare.
Sofia, rossa in viso per l’eccitazione, guardò Laura con gli occhi che chiedevano perdono, mentre disse con tono di scusa: “Volevo dare il bentornato a Marco! Ma credo di aver ecceduto ..” e tornò a sedersi sul divano indispettita ed irritata per essere stata colta mentre si stringeva con troppa foga a Marco.
“Non sarai gelosa di Sofia?” replicò Marco trascinando Laura maldisposta accanto a Sofia.
Si sentiva in dovere di spiegare quelle effusioni troppo manifeste, ben sapendo che c’era poco da chiarire.
Era ben conscio che, se non lo faceva, rischiava di peggiorare la situazione, se parlava, rischiava di accrescere i malumori delle due amiche, e comunque da qualunque lato si osservava il contesto correva il rischio di gettare nuova benzina sul fuoco della gelosia di Laura e dell’irritazione di Sofia.
Marco si trovava in una posizione delicata ed imbarazzante sia nei confronti di Laura, che si sentiva profondamente ingannata dopo le ore di intimità e di gioia, delle quale non si era ancora spento l’eco, sia di Sofia che gli addebitava un bacio troppo passionale e galeotto che l’aveva eccitata oltre ogni misura.
L’atmosfera da gioiosa era diventata pesante come una cappa di smog.

Altro frammento e basta

Erano le quindici e trenta quando Marco suonò il campanello con lo stesso tremore di quando il primo giorno di scuola a sei anni aveva varcato il portone della scuola elementare Montessori sul bastione delle mura cittadine.
Pensava alla reazione quando l’avrebbe rivista, mentre un rumore di passi si avvicinava al portone d’ingresso insieme all’ansia che montava dentro di lui.
“Riuscirò a trattenere l’emozione? Io l’amo ancora come il primo giorno” diceva a se stesso per rincuorarsi e darsi un contegno dignitoso. Agnese per il momento era ancora una conoscenza lontana, quasi una scommessa al buio senza nessuna certezza che potesse sostituire Laura nel cuore.
Aveva portato nel borsone la busta bianca con fotografie e lettere, ma non era sicuro che le avrebbe mostrate, e mentre la mente stava divagando libera nella prateria dei pensieri, la vide.
Tornò indietro di cinque anni, lasciò cadere a terra quanto teneva i mano e l’afferrò tra le braccia stringendola al petto quasi sollevandola da terra.
Le loro labbra si cercarono con passione tra gli sguardi divertiti dei passanti: sembrava che non dovessero staccarsi più per effetto della supercolla Attack spalmata sulle labbra. Lei era in punta di piedi, lui la faceva dondolare in qua e in là come una foglia sul ramo.
Era una fresca giornata di marzo soleggiata e ventilata, ma non era caldo a sufficienza per giustificare un vestito leggero  più adatto all’ assolato luglio: Laura indossava l’abito rosso ritrovato in soffitta. Una signora commentò ad alta voce: “Ah, l’amore cosa fa fare!” ed un’altra sorridente “I giovani hanno i bollenti spiriti!”.
A lei sembrava non sentire il freddo abbracciata a Marco, che trasmetteva tutto il calore dell’amore che provava.
Raccolse la borsa abbandonata sul marciapiede e stringendo Laura a sé entrò nella casa. Il portone si chiuse silenzioso alle loro spalle.
Nessuno dei due si aspettava una simile reazione da parte dell’altro: quel interminabile bacio aveva fatto palpitare i loro cuori e lievitare le loro azioni, tanto che i sette mesi di distacco parevano solo una piccola parentesi provvisoria durato un battito di ciglia.
Si sistemarono comodamente tenendosi per mano come se avessero paura di perdersi di nuovo.
“Mi sei mancato.” diceva la ragazza guardandolo fisso negli occhi “Mi sei mancato terribilmente tanto. Erano sette mesi che aspettavo questo momento, di rivederti, di parlarti, di assaporare le tue labbra. L’occasione è venuta. Grazie”.
Marco la fissava incredulo per via di quel vestito che appariva magico per averlo stregato una seconda volta. Taceva e osservava, non aveva altre parole per esprimere i pensieri  che confusi si ammassavano all’ingresso della mente. La folla delle parole si accalcava sulle labbra che rimanevano chiuse e silenziose.
Calmato il tumulto che la vista di Laura aveva provocato, cominciò a parlare. Era venuto perché il sentimento che provava per lei avevano avuto il sopravvento sulla parte razionale che avrebbe consigliato di rispondere “Grazie, ma non posso venire”. E si domandava ancora turbato dalla vista di Laura, se fosse stata una mossa giusta quella di precipitarsi da lei, se avrebbe trovato la forza di restare fedele alle convinzioni che lo volevano lontano da Milano e da lei.
Era seduto con gli occhi che divoravano la figura adagiata di fianco a lui, mentre l’ammirava come se stesse osservando la primavera del Botticelli.
Laura, intuendo i pensieri di Marco, si  alzò dalla poltrona e mise in mostra tutta la sua bellezza.
Marco era confuso ed indeciso tra sentimenti di amore e razionalità della mente, doveva decidere in fretta per non ingannare se stesso e Laura una seconda volta.
“Sei davvero splendida,” disse mentre la contemplava senza staccare un attimo lo sguardo “Lo sei sempre stata. Vieni qui vicino a me e raccontami tutto” e attese che lei parlasse, mentre si rannicchiava sicura fra le braccia protettive di Marco.
“Marco,“ iniziò Laura, “non so da dove dare inizio a quello che vorrei dirti. Mi ero preparata una scaletta di argomenti, ma ora sono confusa e frastornata. I pensieri si accavallano tra loro senza un ordine preciso come se riempissi alla rinfusa una borsa coi miei vestiti”.
Si fermò come per riprendere fiato dopo una lunga corsa e proseguì un discorso senza capo né coda passando da un argomento all’altro per la concitazione del momento. Non riusciva a resistere dal posare in continuazione lo sguardo su di lui, sulle sue mani, sul suo viso. Aggiunse che erano sette mesi che non si sentiva sicura di se e delle sue azioni come in questi istanti. Il tumulto interno, che aveva nascosto dentro di se, stava scemando con lentezza lasciando il posto ad una calma interiore che assomigliava alla natura dopo che si era placata la tempesta.
E concluse: “Capisci quello che voglio trasmetterti?”.
Marco baciò con dolcezza le labbra appena socchiuse ansiose di afferrare il sapore di lui, mentre le mani accarezzavano con leggerezza i capelli rossi appena mossi. Sentiva un profumo di donna, che lo inebriava, non un’essenza artificiale, ma qualcosa di vero e genuino. Era lo stesso odore che aveva fatto scattare cinque anni fa la molla dell’innamoramento. Adesso era diverso, capiva che sarebbe stato tremendamente difficile rinunciarvi per sempre, perché l’affetto non si era affievolito, ma era maturato e decantato con la lontananza.
Quel bacio aveva fatto venire i brividi a Laura, che aspettava da lui una risposta, che tardava ad arrivare.
Marco con lentezza scandendo le parole soppesò il pensiero che altrimenti sarebbe uscito prepotente senza freni dalla bocca: “Mi vuoi dire che mi ami ancora, anche se io ti ho detto addio?”.
Anche lui si sentiva confuso ed incerto, specialmente dopo averla ammirata con quel vestito rosso, che gli ricordava il 20 maggio di cinque anni prima. Poiché entrambi erano turbati ed insicuri per il tumulto interiore e l’emozione, che aveva reso poco lucidi i loro pensieri, Marco suggerì di stare in silenzio, mentre l’ansia si sarebbe placata lentamente e il cuore avrebbe ripreso i battiti regolari.
Si guardarono in silenzio, poi lei si rifugiò sul petto di Marco, mentre lui l’abbracciava con vigore. I rumori si dissolsero nell’aria, i respiri si chetarono pacatamente, mentre il trambusto interno si trasformava in placida quiete.
Laura sentendosi protetta dalle braccia e dal calore di Marco si appisolò serenamente, mentre lui continuava a riflettere sui motivi per i quali era venuto a Milano mentre non aveva avuto il coraggio e la forza di rifiutare con cortesia l’invito.
“Tutto diventa difficile ora.” pensava mentre teneva fra le braccia la ragazza addormentata “Tutto si complica. L’amore verso di lei si è risvegliato come un vulcano dormiente e non riesco più a tenerlo a bada. Quel vestito mi aveva fatto impazzire cinque anni fa e la magia si è ripetuta oggi quando l’ho vista. Io non posso tornare a Milano perché sento la città matrigna ed estranea alla visione che ho della vita. Lei non potrebbe vivere a F….., perché ha necessità di incontrare persone nuove, di girare il mondo, di vivere le novità, di sentire l’adrenalina salire nelle vene come la frenesia di questa città”.
Dopo un’ora Laura aprì gli occhi sgranandoli come se fosse stupita di essere lì fra le braccia di Marco a dormire placidamente.
“Ho dormito,” disse soavemente ed aggiunse che aveva dormito come non le era capitato da tanto tempo. Aveva ragione, quando diceva che un po’ di silenzio avrebbe rimesso a posto le idee.
Si stiracchiò come una gatta dopo essere stata al caldo sul calorifero, mentre si alzava in piedi, sbadigliando.
“Ti preparo un tè e poi parliamo”. Avevano molti argomenti da raccontarsi dall’ultima volta, ma lei doveva aprire l’anima con lui, perché solo Marco conosceva la soluzione del problema.