Rebecca

Lo skipjack fila leggero sulle acque della baia grigiastre striate leggermente di giallo. La prua taglia le piccole onde che increspano la superficie, lasciando alle spalle una scia che si allarga, si inerpica e discende placida sull’orizzonte.
Ellie continua rimanere vicino alla punta dell’imbarcazione, mentre sente il vento gelido che si insinua tra il collo e il pesante maglione. Una ventata fredda che scivola sulla pelle che reagisce con brividi lungo la schiena.
“Signorina Ellie, venga sottocoperta. Si prenderà un accidente se rimane ancora un minuto lì. Può osservare la baia attraverso i vetri della cabina al riparo del vento e degli spruzzi del mare”.
Il capitano l’osserva perplesso e timoroso, sperando che il suo appello venga raccolto.
Lei a malincuore si stacca dalla prua per scendere nella cabina, riparandosi dal vento invernale che spira da nord.
Lo skipjack è suo. L’aveva visto abbandonato in uno dei tanti piccoli approdi che si affacciano sulla baia. Era in cattive condizioni. Il bianco dello scafo era un pallido ricordo, tutto scheggiato e diventato un giallo sporco ricoperto dal verde delle alghe. L’albero sembrava un dito proteso verso il cielo. Si leggeva a malapena il nome: Rebecca.
Aveva letto che lo stato del Maryland aveva lanciato una crociata per salvare gli ultimi superstiti navigli che avevano fatto la storia dei pescatori di ostriche del Chesapeake Bay, chiedendo l’aiuto a privati e fondazioni.
Ne aveva sentito parlare dal nonno Pat, che le aveva raccontato storie fantastiche su questa imbarcazione, capace di solcare le acque in tempesta della baia, dragando i bassi fondali alla ricerca delle ostriche. Storie vecchie di decenni, ma sempre attuali nella sua mente.
“Che me ne faccio?” si domandò Ellie, osservando quello scafo spiaggiato su un fianco come un cetaceo morente.
“Non so manovrare una barca, né issare una vela. E poi è talmente messo male che forse non si riuscirebbe nemmeno a metterlo di nuovo in linea di galleggiamento. Oltre alle spese per rimetterlo in sesto, al rimessaggio nel porto di Wenona, mi devo trovare anche un capitano disposto a governare la barca. Una pazzia! Però … ha un fascino irresistibile”.
Lei allora aveva poco meno di ventotto anni e nessuna pratica di mare, ma non riusciva a staccare il pensiero da quello scafo corroso dal mare e dimenticato dagli uomini. Il nonno le aveva lasciato un bel deposito di dollari e buoni del tesoro nel conto presso la Hebron Saving Bank di Princess Anne dove abitava da sola in un piccolo cottage di legno. Quindi non doveva chiedere il permesso a nessuno, sarebbe stata autonoma, se voleva fare questa pazzia. Doveva solo cercare un marinaio disposto a prendersi cura della nave, affittare un posto barca nel porto e affidare a un cantiere il restauro dello skipjack.
E così fece. Trovò un vecchio marinaio che fu felice di gestire l’imbarcazione, assistendola nell’acquisto e procurandole gli artigiani che rimisero in sesto Rebecca per essere pronta a solcare ancora una volta le acque del Chesapeake Bay.
Il recupero fu costoso, forse anche fin troppo, ma alla fine la linea bassa e larga dell’imbarcazione faceva un effetto bellissimo ancorata al molo del porto. Aspettava solo che qualcuno la portasse nuovamente a solcare quelle acque che aveva conosciuto quasi cent’anni prima.
L’anno di costruzione era 1914, quando era nato il nonno Pat. Dunque era un segno del destino. Tutto sembrava congiurare a suo favore.
La prima uscita è stata nel 2009, dopo che tutte le pratiche burocratiche erano state espletate, e la destinazione è stata Holland Island. Era primavera, un giorno di marzo limpido e sereno dopo un inverno lungo e burrascoso. Quando il capitano Wade Krantz sciolse gli ormeggi per affrontare il primo viaggio, Ellie non sapeva se piangere o ridere per la felicità. Era un’emozione che non riusciva a quantificarla perché quel sogno, che era sembrato a tutti, familiari e amici, un’autentica pazzia, un gettare nell’immondizia un bel pacco di dollari, invece adesso era una realtà invidiata. Nessuno adesso aveva nulla da ridire.
Con dolcezza Rebecca si staccò dal molo, allargando la vela maestra per prendere velocità. Il capitano la condusse con perizia fuori dal porticciolo interno di Wenona per raffrontare le acque della baia, che stranamente non erano torbide. Sembravano festeggiare il suo ritorno alla vita ed erano in festa.
La forte chiglia scivolava leggera e veloce sospinta da una brezza leggera che spirava da sud est, mentre Ellie stava seduta a prua a prendere in viso l’aria pungente di inizio primavera.
Lei assaporava il gusto salmastro che la baia trasmetteva, mentre l’acqua sciabordava lungo le larghe fiancate dello skipjack.
“Signorina Ellie!” disse il capitano Krantz, richiamando l’attenzione della donna “Venga qui al timone della sua barca”.
Lei incerta si avvicinò a quella grande ruota lucida e scura, timorosa nel toccare quell’oggetto.
“Non ho mai preso in mano un timone” protestò flebilmente.
“E’ facile. Basta osservare questo strumento qui e tenere la rotta che fisso”.
“E come faccio?” rispose dubbiosa.
“Vede questa lancetta rossa?”.
“Sì”.
Deve rimanere fissa in questa posizione”.
“E se si sposta?”
“Vuol dire che lei ha mosso il timone. Quindi azionando la ruota dolcemente deve riportare la lancetta rossa in questa posizione. E’ tutto semplice. Poi non si preoccupi, ci sono sempre io a guidarla”.
E le cedette il comando della barca.
Ellie non credeva ai suoi occhi che fosse in grado di guidare una barca a vela.
“Sembra facilissimo!” urlò per la gioia.
“Non si distragga troppo! Basta un colpo di vento e ..” rispose pacato il capitano.
“E cosa succede?” domandò incuriosita e in apprensione la ragazza.
“La barca è solida, ma noi rischiamo di finire a mollo”.
E un largo sorriso comparve sul viso abbronzato del capitano. Ellie ebbe un moto di paura pronta a cedere il comando all’uomo.
“Basta leggere l’anemometro, osservare le vele che siano sempre gonfie e la strumentazione accanto alla bussola e..”
“E’ troppo difficile per me osservare tutti gli strumenti e agire di conseguenza! A malapena riesco a tenere la barra dritta e la prua puntata su Holland Island. No, no! Troppo complicato” e riconsegnò scura in volto il timone al capitano che rideva soddisfatto.
“E’ stata brava! La barca filava a quasi 8 nodi e lei non l’ha mai fatta deviare dalla sua rotta”.
Ellie osservava l’avvicinarsi dell’isola dei suoi sogni.
 

Angie e Dan

Ellie continua ad osservare quel relitto che ha dato la stura ai ricordi, come il tappo, uscito violentemente dalla bottiglia, consente allo spumante di gorgogliare in un tripudio di schiuma e di bollicine.
Rammenta perfettamente quello che la bisnonna ha scritto, perché l’ha letto tante di quelle volte che le parole le sono rimaste impresse nella mente. Potrebbe recitarle a memoria senza sbagliare una parola o una virgola.
Si domanda perché questo posto, ormai inospitale da molti anni e tenuto in vita dall’abnegazione di alcune persone, l’ha sempre affascinato e ha costituito una meta del pellegrinaggio annuale a osservarlo.
Da molti anni non appartiene più alla sua famiglia, perché è stato svenduto per pochi centesimi ad acro. Tutti era stati contenti di essersi liberati della quella casa ad esclusione del nonno Pat, che avrebbe voluto tenersela. Per lui quell’abitazione era diventata un’ossessione, quasi quanto la sua volontà di non morire.
Questo tormento si è trasferito dentro di lei, come un tarlo nel legno. Ha assistito impotente alla lenta agonia, ha seguito le vicende della lotta del reverendo White contro la natura e agli appelli per salvare l’isola e l’ultimo retaggio rimasto su quel lembo di terra.
Adesso il suo sguardo si posa per l’ultima volta sui quei ruderi che le tempeste invernali provvederanno a demolire completamente.
Mentre lo skipjack riprende la navigazione verso Deal Island, continua a vedere la bisnonna durante la festa di Mabon.
 
Dan porgeva il suo braccio a Angie, sia per sostenerla, sia per rassicurarla con la sua presenza.
Non capiva il motivo per il quale, dopo averla salvata dalle mani di quel uomo violento e ubriaco, aveva deciso di portarla a casa, di aspettare che si riprendesse e adesso di andare alla festa di Mabon, che odiava.
Era una ricorrenza pagana, importata dall’Inghilterra da alcuni coloni circa un secolo prima, quando era stata fondata Princess Anne. Col tempo era diventata un giorno di baldoria e grandi ubriacature, un modo per dare sfogo agli istinti più bassi. Stupri, violenze, risse erano il filo conduttore dell’intera giornata.
Lui, di origini francesi con qualche traccia di sangue dei nativi potawatomi, si era sempre sentito estraneo a questa cultura, che non apparteneva alla nazione americana. E per questo si autoconfinava in casa. Però stasera aveva deciso ugualmente di uscire con un amico e aveva trovato lei.
Questa donna dall’apparenza fragile si era dimostrata molto più forte di quanto pensasse ed emanava un qualcosa che l’aveva colpito.
“Quale stimolo ha suscitato dentro di me? Di donne ne ho quante ne voglio. Basta uno schiocco e ne ho una fila. Eppure osservandola semi svenuta ai piedi della staccionata ha fatto scattare una molla che non conoscevo. Mi sono sentito in obbligo di assisterla fino a quando non si è ripresa totalmente. Non si può dire che sia una bellezza che colpisce, ma diffonde un non so che di selvatico che profuma l’aria. Lei sembra indifferente alla mia presenza come se l’accettasse solo per ricambiare le mie gentilezze. Nulla di più. Semplice deferenza”.
Dan continuava a riflettere sui motivi del suo coinvolgimento fino a frequentare una festa che odiava.
Angie dal canto suo rimuginava quanto era accaduto prima allo sbarco, poi nel villaggio.
“Senza dubbio è un uomo educato. Un vero signore, che mai ho incontrato nella mia vita. Gli altri che sono transitati erano rozzi e dai modi grossolani. Per loro ero e sono ancora oggi un semplice oggetto da portare a letto per sfogare le pulsioni erotiche, per soddisfare il proprio io. Al massimo una vacca idonea a procreare altre vite. Una situazione deprimente. Sono arrivata a trentasei anni e sono ancora zitella. Le altre donne della mia età hanno figliato come conigli e sono delle grasse casalinghe senza prospettive future. Non è mia intenzione finire così. Piuttosto muoio zitella e vergine. Si, perché sono ancora orgogliosamente vergine! Quest’uomo gentile non sta suscitando nulla che possa darmi delle sensazioni positive. Non ho ancora capito perché abbia preso a cuore la mia persona. Mi ricorda i cavalieri descritti da Scott nel romanzo Ivanhoe, che ho letto più volte. Ma è solo un’impressione oppure sono manovre per farmi abbassare la guardia concedendogli la mia fiducia? Durante la festa di Mabon succedono cose strane, ma non troppo a osservarle con attenzione. Gli uomini paiono più gentili del solito, più inclini a galanterie, ma il loro scopo è sempre quello: andare a letto con una donna. Ho visto più di una volta amiche che inebriate dalla festa e dalle gentilezze sono tornate sull’isola gravide con grande vergogna loro e delle loro famiglie. E’ vero che cerco un uomo, ma la mia ricerca non è finalizzata al primo che capita, ma verso un marito che mi rispetti e sappia amarmi per quello che sono. Dunque accettiamo la presenza di quest’uomo. Mi potrebbe tornare utile, quando devo fare ritorno alla pensione”.
Continuavano a camminare in silenzio rotto qua e là da qualche parola più di circostanza che per avviare un autentico discorso.
“Mi domando, se non sono indiscreto, i motivi della sua venuta a Deal Island, affrontando i disagi della traversata della baia. Si, lo so che mi ha detto che è per la festa di Mabon. Però mi sembra una giustificazione blanda se non proprio debole. E’ vero che una festa è un momento di svago, di divertimento. Però lei non mi da l’impressione di una donna che cerchi distrazioni in una celebrazione pagana e carnale com’è il Mabon!” disse interrompendo il silenzio che durava da qualche minuto.
Angie era stata colta alla sprovvista da questo ragionamento che analizzava con cura le motivazioni della presenza nel villaggio.
Avrebbe voluto rispondere con sincerità, ma sicuramente avrebbe accolto male le sue parole e preferì girare al largo per dire senza dire nulla.
“Sembrerà strano, ma sono circa dieci anni che vengo qui. Però non ho mai avuto il privilegio di incontrarla. Siamo un gruppo di amiche che partecipano alla festa per rompere la monotonia delle giornate sull’isola. Lì i giorni sono tutti uguali”.
Dan percepì immediatamente che difficilmente sarebbe riuscito a scalfire l’ostrica che era in quella donna e si rassegnò a parlare di sciocchezze, sospirando.
“Non mi ha mai visto solamente perché è la prima volta che frequento Mabon”.
Angie lo guardò perplessa e scosse la testa.

Ellie ricorda

“Il nonno Pat è stato un’autentica miniera di notizie, talmente ben descritte che mi sono sempre sembrate di averle vissute in prima persona”.
Così ricorda Ellie con nostalgia, dondolandosi sulla prua dello skipjack, Rebecca, ancorato poco distante dalle coste basse dell’isola in un pomeriggio di fine ottobre.
Lui era nato il 10 novembre del 1914 in una serata burrascosa a Holland Island, aiutato da Wonder, una nativa che fungeva da infermiera, ostetrica e donna tutto fare. Sua madre Angie avrebbe voluto partorire sulla terraferma, perché non si fidava di quella donna, ma il mare in tempesta sconsigliava di attraversare quel braccio della Chesapeak Bay per raggiungere Deal Island. Nessun marinaio si era detto disponibile di trasportarla, perché quando infuriava la tempesta quelle acque diventavano infide e pericolose.
Quella sera di novembre la pioggia battente, il vento gelido da nord che spingeva il mare ad ingrossarsi sempre di più, le onde che si abbattevano con violenza sulle coste basse penetrando in profondità sconsigliavano il verificarsi di un evento lieto come la nascita di un bambino, ma lui ci teneva molto a uscire dal pancione della mamma. E così nacque Patrick Stevens, suo nonno. La bisnonna non l’ha mai conosciuta, perché è morta molti anni prima che nascesse. Di lei ha solo qualche fotografia in bianco e nero, ingiallita dal tempo, dove sullo sfondo campeggia ancora integro quello che adesso è afflosciato come un castello di carta.
Ellie ricorda con chiarezza il racconto che il nonno le ha narrato mille volte nelle lunghe veglie invernali attorno al camino acceso della casa in pietra di Princess Anne, dove i bisnonni erano dovuti riparare nel 1936, perché non era più possibile rimanere su Holland Island. Già al momento della nascita di Pat le onde si erano mangiate piccoli pezzi dell’isola costringendo diversi abitanti a trasferirsi a Wenona. Un’erosione senza fine aveva sgretolata quella terra tra cielo e mare rendendola inospitale.
Mentre lei osserva le rovine della vecchia casa vittoriana, dove il  nonno è nato e ha vissuto per molti anni, sorride amaramente perché anche una fetta di ricordi se ne vanno, strappati e lacerati dalla furia degli elementi. Il mare si è ripreso quello che era suo e l’uomo non può impedirlo, né tanto meno lei. Si chiude così un’epoca.
In questo edificio ormai adagiato su se stesso, come un vecchio barbone che cerca di proteggersi inutilmente dal freddo e che lentamente si spegne nell’indifferenza dei passanti, ha dunque vissuto la bisnonna Angie, una donna volitiva e determinata, che ha cercato fino alla fine di resistere. Però alla fine ne è risultata sconfitta.
Ellie ha ricevuto dal nonno il suo diario e ha letto molte pagine, ma molte sono ancora inesplorate.
“Ci potrei scrivere un romanzo, se solo ne fossi capace!” ricorda a se stessa le innumerevoli letture delle storie, scritte in bella calligrafia e discreto linguaggio, che l’avevano affascinata e l’avevano fatta fantasticare.
Quella che l’aveva coinvolta maggiormente era relativa al modo nel quale Angie aveva conosciuto il bisnonno, Daniel Stevens.
 
Quando riaprì gli occhi vide solo un viso di uomo che la stava fissando perplesso, illuminato di sbieco da un lume a petrolio posto in mezzo alla stanza. Tutto era sconosciuto, tutto era ignoto: la persona che la guardava, la camera nella quale si trovava.
“Dove sono?” chiese con un filo di voce “Che ne è stato di quel bastardo che tentava di rapinarmi?”
“No, signora. Quella bestia tentava di violentarvi. E ci sarebbe riuscito se io con un amico non avessimo sentito le sue grida d’aiuto”.
Angie riprese ad ansimare in preda all’agitazione al solo pensiero di quella massa che puzzava di alcol e sudore mentre la schiacciava contro qualcosa di duro e resistente che non aveva focalizzato appieno.
“Non si allarmi. Qui è al sicuro” riprese quella voce calma dall’inflessione strana.
“Dove sono?” richiese con insistenza.
“Siete a casa mia. Qui nessuno può farle del male. Piuttosto, come si sente?”
Lei osservò quel viso con attenzione. Era regolare e portava un pizzetto nero ben curato, mentre lunghi capelli scuri scendevano verso le spalle. Era vestito con cura, niente di elegante, portava una camicia bianca con una specie di cravatta di cuoio sotto un panciotto scuro a quadri, dal quale pendeva una catena dorata.
La stanza era rischiarata non troppo bene da lampade a petrolio che spargevano la loro luce tremolante in mille ombre. Il mobilio era scarso e semplice senza che lei potesse scorgerne i particolari.
Era sdraiata su un divano di tela rossa, appoggiando la testa su comodi cuscini. Si mise ritta per osservare meglio sia lui sia quello che la circondava. La borsa di cuoio appoggiata a terra era intatta, solo la mantella mancava.
“Non sono stato educato” riprese l’uomo vedendola che si stava riprendendo rapidamente.
“Non mi sono presentato. Daniel Stevens. Per gli amici Dan” e allungò la mano destra.
Angie abbozzò un sorriso amaro perché si trovava in un ambiente sconosciuto anche se le sembrava rassicurante.
“Sono Angela Mary Fairbanks. Ma tutti mi chiamano Angie. Abito a Holland Island e sono qui con le amiche per la festa di Mabon”.
“E come mai girava da sola per Deal Island? Si era per caso persa? Le sue amiche dove sono? Forse la stanno cercando e sono in pensiero”.
Lei sospirò raccogliendo le idee prima di rispondere alla raffica di domande che quell’uomo aveva sparato con calma ma con decisione.
“No, non mi sono persa. Stavo andando al Devil’s Cove, la pensione dove alloggerò per stanotte, per depositare la borsa da viaggio. Ma quella persona mi ha aggredita all’improvviso..”.
“Però è stata imprudente a muoversi in una sera, come questa, da sola per strade poco illuminate. Ubriachi e malintenzionati sono in agguato per depredare o stuprare persone come lei”.
Dan fece una pausa prima di riprendere il discorso.
“Come si sente ora? Crede di essere in grado di camminare con le sue gambe sino alla pensione? Non dista molto da qui, ma forse è ancora impressionata dall’aggressione e non se la sente di arrivare fino lì ..”.
“Mi sento bene, anzi meglio ora. Se lei è così gentile da accompagnarmi, accetto volentieri la sua compagnia. La mia mantella è andata perduta?”.
Dan sorrise e si allontanò per tornare col l’oggetto richiesto.
“Si è strappata un po’ nel contatto con la staccionata, ma può ancora servire a preservarla dall’umido della notte”.
L’aiutò a sollevarsi porgendole il braccio come sostegno e afferrò la borsa, mentre Angie si avvolgeva nella mantella. Si incamminarono verso la locanda in silenzio.
Dan l’aspettò nella zona d’ingresso della reception, mentre la donna saliva in camera a darsi una sistemata. Nell’attesa osservò con cura chi entrava o usciva, il portiere di notte negro nella sua livrea un po’ lisa, la zona dove alla mattina gli ospiti si sarebbero seduti per colazione. Dedusse che quel posto non era molto adatto a delle signore sole, ma tenne per sé queste considerazioni. La sua casa aveva un paio di stanze per gli ospiti, ma non poteva di certo invitare Angie e le sue amiche a pernottare da lui. Sarebbero state troppe e poi a lui interessava solo lei. Scosse il capo e attese che la donna scendesse.
Poi insieme si diressero verso il centro del paese dove si teneva la festa.

La festa di Mabon

La barca toccò terra un po’ bruscamente, facendo traballare pericolosamente gli occupanti, che strillarono per la paura.
“Calma, ragazze! Non è successo nulla! Siamo arrivati. Non dimenticate nulla! E fate attenzione nello scendere. C’è buio”.
Il barcaiolo coi piedi nell’acqua gelida che arrivava alle ginocchia mise una tavola tra il bordo dell’imbarcazione e la terra lambita dalle onde del mare. Poi sollevò la lanterna per rischiarare malamente quel pericoloso scivolo sul quale cominciarono a sciamare le ragazze. Una incespicò trascinando con sé nell’acqua alcune amiche.
“Ho detto calma!” urlò nuovamente per tacitare le grida di paura di quelle che erano ancora a bordo, mentre con la lanterna cercava di illuminare il punto del naufragio.
Sarah strillava mentre si dibatteva nel tentativo di sollevarsi e riparare sulla spiaggia umida di nebbia. Piangeva e imprecava perché aveva rovinato il vestito buono e percepiva un freddo che penetrava nelle ossa. Una mano robusta la sollevò di peso per trasportarla al sicuro, mentre un panno l’avvolgeva.
Angie era rimasta immobile a prua e osservava un po’ distaccata il trambusto dello sbarco. Pensò che avevano un cervello piccolo, piccolo per avventarsi così su quella tavola sdrucciolevole per l’umido della notte.
“Ben ti sta, Sarah! Volevi essere la prima a sbarcare e sei finita miseramente nell’acqua. Se non ti prendi un accidente questa volta, vuol dire che hai una bella tempra robusta”.
Lei aspettò che tutte le ragazze fossero scese a terra prima di avventurarsi cautamente su quello scivolo veramente pericoloso per il buio, appena rischiarato da una lanterna incerta, e per le chiazze d’acqua. finite sopra nella caduta di Sarah e di altre due ragazze, ben miscelate all’umidità della sera.
Con passo tremolante ma cauto scese, incurante degli incitamenti del marinaio che non vedeva l’ora di andarsene, tenendo ben stretto la borsa da viaggio in cuoio.
“Non voglio finire in acqua!” gridò spazientita Angie “E tieni alta quella lanterna, scimunito d’un uomo! Non si vede nulla!”.
Dopo un tempo che le apparve interminabile sentì sotto il piede destro il duro della sabbia della riva e tirò un sospiro di sollievo.
“Sono a terra, finalmente! E senza danni!” e si affrettò a raggiungere le compagne che si erano raccolte dietro un paio di uomini che reggevano le lanterne per illuminare la strada che li dovevano condurre al villaggio.
Il cielo era buio con qualche pallida stella, mentre la luna faceva capolino all’orizzonte.
Udì Sarah lamentarsi che aveva freddo, ma Angie rimase distaccata facendo attenzione a dove metteva i piedi. Non aveva nessuna intenzione di finire distesa per terra, come era già capitato a Anne.
Le luci del paese si avvicinavano come i rumori gioiosi delle persone festanti. Non aveva mai ben compreso cosa si festeggiasse il 21 settembre 1910, come in tutti gli anni precedenti ai quali aveva presenziato.
“E’ una festa inglese. Così mi hanno detto. Dicono che è diffusa nelle regioni celtiche della Gran Bretagna, ma non ne ho mai capito le motivazioni. Per me è un modo per fare baldoria e attirare persone dai villaggi vicini. Poi c’è una moltitudine di uomini e donne che con la scusa della festa tolgono i freni inibitori. Locali e pensioni sono affollatissimi, come ci sono tantissimi furbi commercianti che vendono di tutto. Però è un momento nel quale anch’io mi sento bene complice l’atmosfera di allegria e di intrigante libertà di costumi. Sono anni che sbarco a Devil’s Island presso un piccolo villaggio di pescatori, del quale ignoro il nome. Un tempo era un covo di pirati, pieno di zanzare e mosquitos, almeno così mi pare di aver letto da qualche parte. Però il posto non mi pare nemmeno molto ospitale. Quattro case in legno, uno store e un bar tutti in fila lungo una strada polverosa. La festa è più all’interno un paio di miglia, a Deal Island. Tutti gli anni dico «Questa è l’ultima volta, che ci vado. Lo giuro». Poi…poi mi lascio convincere da Sandra e Winnie a venire con la speranza di trovare un principe azzurro. Ma quale illusione coltivo? Di trovare uno zoticone o un pescatore? Meglio rimanere zitella che maritarmi con questi rozzi isolani. Sono capaci solo di bere sidro di mela, birra o whiskey, ruttare come maiali, mangiare con le mani e fare solo sesso! No, questa volta è proprio l’ultima! Se voglio trovarmi uno spasimante devo andare fino a Princess Anne o Somers Cove. Ma forse devo andare a Baltimora con la scusa di andare a trovare i cugini, i figli di zia Ethna. Oppure non è meglio rimanere zitella?”.
Angie camminava e pensava allo stesso tempo seguendo le compagne in fila indiana dietro la guida con la lanterna. Doveva tenere il passo delle altre se non voleva rimanere indietro col rischio di non sapere dove stava andando.
L’ingresso del villaggio era a qualche centinaia di iarde e si vedeva benissimo. Enormi bracieri illuminavano di rosso il nero della sera. Un gigantesco stendardo posto tra le prime due case recava scritto a mano un “Welcome” che spiccava sul bianco della tela.
Le amiche si erano rianimate dopo l’incidente a Sarah e Anne, che sembravano stremate dal freddo e dalla fatica della camminata. Gridolini di gioia e bisbigli a mezza bocca uscivano da queste ragazze tutte in cerca di un buon partito.
Angie continuava a scuotere la testa perché continuava a pensare che non avrebbe mai trovato qui un buon marito.
La strada principale era illuminata da bracieri e torce che rosseggiavano pericolosamente in mezzo a quelle case quasi tutte di legno. Sarebbe bastato un alito di vento più birichino e tutto finiva in fumo, come quattro anni prima. Cesti di frutta appena raccolta e pinte di vino erano i simboli della festa. Nello spiazzo centrale una banda improvvisata suonava improbabili musiche, mentre coppie di ballerini si esibivano su tavole provvisorie e instabili. Una lunga tavolata a ferro di cavallo correva attorno a questa piattaforma, lasciando aperto solo uno spazio per accedere al cuore della festa.
Angie si staccò dal gruppo per raggiungere la pensione che era stata prenotata qualche settimana prima insieme a Sandra e Winnie, con le quali avrebbe diviso la stanza. Voleva depositare la borsa e darsi una rinfrescata prima di abbandonarsi alla festa.
La strada era illuminata da lampade a olio, ma le zone d’ombra era più larghe di quelle di luci. Quindi doveva fare molta attenzione, perché molti uomini ubriachi stavano pericolosamente appoggiati alle pareti delle case e non promettevano nulla di buono.
Angie si strinse con maggior vigore la mantella che lasciava libero solo il viso e con passo svelto si diresse verso Devil’s Cove, dove avrebbe alloggiato durante la notte, quando si senti afferrare alle spalle e trascinata in un vicolo buio.
Cercò di divincolarsi senza riuscirci: le mani di un uomo la tenevano inchiodata a una staccionata. Sembravano due tenaglie di ferro tanto era forte la presa.
La mente era in subbuglio e le mani impedite dalla pesante mantella e dalla borsa che non voleva abbandonare. Cominciò ad urlare chiedendo aiuto, mentre il peso del corpo dello sconosciuto la schiacciava sempre di più impedendole qualsiasi movimento come la respirazione.
Comprese che le forze per lottare stavano scemando, mentre dalla bocca usciva un flebile lamento. Si sentiva soffocare, mentre la vista si appannava, quando in un attimo di lucidità non percepì più quel peso che le toglieva il respiro.
“Come stai?”.
Sembrava la voce di un angelo del cielo, anche se mai ne aveva conosciuto uno. Si domandò se quello che udiva era reale o immaginazione.
“Ora va meglio” sussurrò prima che tutto diventasse nero.

!910

Angela Mary Fairbanks stava innanzi allo specchio nella camera d’angolo della casa vittoriana. Per tutti era solo familiarmente Angie e aveva trentasei anni portati con orgoglio. Non aveva conosciuto l’amore e si struggeva perché il tempo passava inesorabile. Ogni giorno era una giornata persa senza che lei riuscisse a metterci un  freno.
Aveva una figura minuta con una cascata di capelli rossi, che tradivano le origini irlandesi, e che facevano da contorno al viso spigoloso e risoluto come il carattere. Suo padre Don diceva che assomigliava tutto a nonno Connor, aspro e scorbutico, e a nonna Caitlin, dalla chioma riccioluta di rosso fiammante e dal viso latteo.
“Il nonno non lo ricordo, perché ero troppo piccola quando è morto, la nonna invece l’ho ben presente, seduta orgogliosamente sulla sedia a dondolo, quando andavamo a Baltimora per Natale a trovarla. Era una donna che non concedeva nulla: mai un sorriso o una carezza. Indossava sempre lo stesso vestito: un abito nero col corsetto di brocade e maniche a gigot bianche come un particolare della gonna rigida e rotonda. In testa portava una cuffietta di pizzo d’Irlanda a volte bianca, a volte nera. Quando arrivavo per andarla a salutarla, tremavo dal terrore per quel viso impassibile. Poi sono cresciuta e ho imparato che dietro quella maschera si celava una donna fragile che stava lentamente spegnendosi”.
Ricordava che guidava con mano ferma tutto il clan salvo suo padre, che faticava a non litigare durante quella visita natalizia che per fortuna durava pochi giorni. Per lei il viaggio a Baltimora via terra era un supplizio, perché la baia nella parte più settentrionale era generalmente gelata ed era quasi impossibile viaggiare per nave. Abituata ai silenzi di Holland Island rotti solo dal gracchiare dei pellicani e dei gabbiani, si sentiva persa nella rumorosa Baltimora dalle costruzioni in legno e dal traffico di calessi e cavalli.
Suo padre le aveva raccontato che i nonni erano arrivati da Dublino nel 1849 dopo una delle tante carestie che aveva colpito l’Irlanda, e si erano stabiliti nel Maryland a Baltimora con lui e zia Ethna. La nonna ben presto mutò il suo nome in Kate, mentre il nonno non rinunciò mai al proprio nome, orgogliosamente irlandese. Arrivati negli States aprirono un piccolo negozio di alimentari che ben presto prosperò, dando loro una certa agiatezza.
Suo padre aveva quindici anni al momento del loro arrivo in America, mentre la zia era più giovane di cinque anni. Però lo spirito inquieto lo rendeva irrequieto come il vento, perché qualsiasi posto gli andava stretto. A vent’anni salutò Baltimora, genitori e sorella e cominciò a girare lungo le frastagliate coste del Chesapeake Bay vivendo di mille mestieri, finché un giorno non s’innamorò di una indiana algonchina, Winona, e si stabilì su Holland Island nel 1874, dove era nata lei dalla loro unione.
Angie si chiedeva perché gli tornassero alla mente questi ricordi ormai sbiaditi, che aveva ascoltato tante volte, troppe volte, mentre si sistemava i capelli ribelli. Forse aveva visto riflesso nello specchio nonna Kate, che ormai è morta da una decina d’anni.
Dopo il funerale non era più andata a Baltimora a trovare i parenti, dai quali ogni tanto riceveva una lettera. Non le piaceva scrivere e faticava a rispondere per conto del padre che era invecchiato e con problemi di vista.
Winona, che chiamavano Wina, se era andata silenziosamente qualche anno prima, esattamente come era vissuta. Non c’era mai stato molto feeling tra loro tanto che il dialogo era ridotto all’osso. Durante le visite a Baltimora Wina restava a Holland Island, aspettando il loro rientro. Non aveva mai voluto conoscere nonna Kate e zia Ethna perché diceva che non era la sua famiglia.
“Non ho mai capito quella affermazione. Era o non era la moglie di mio padre e mia madre? A volte ho pensato che la sua condizione di algonchina la inducesse a una sorta di complesso di inferiorità nei confronti dei familiari di mio padre. Aveva i capelli scuri raccolti dietro la nuca e il viso molto diverso dai nostri. Chiaramente mostrava le sue origini. Non ricordo mai che abbia parlato dei suoi genitori o di fratelli o sorelle. Mi ha dato sempre l’impressione che fosse sola al mondo. Eppure so per certo che non corrisponde a verità. Quando lui ha fatto costruire questa grande casa, del tutto sproporzionata alle nostre esigenze, lei non ha mostrato il minimo entusiasmo. Vivere qui o altrove le era indifferente. Però devo ammettere che adorava mio padre che la ricambiava in misura uguale o superiore. Wina avrebbe attraversato una strada cosparsa di brace ardente per lui. Eppure con me non c’era il medesimo affetto. L’ho sempre percepita distante e fredda. Le motivazioni non le ho mai capite. Quando è morta, mio padre si è lasciato travolgere dall’oblio. Non è passato molto tempo che lui la raggiungesse. Ora riposano nel piccolo cimitero dietro la chiesa. Mi sento sola in questa immensa casa che sto prendendo in odio”.
Angie continuava a specchiarsi senza progredire nei preparativi. Stasera con le altre ragazze di Holland Island avrebbe attraversato quel breve braccio di mare che la separavano dalla terraferma, perché li attendeva la festa del raccolto secondo le tradizioni inglesi. Era la festa di Mabon, importata dai coloni inglesi che si erano stabiliti nel Maryland circa un secolo prima. Era un appuntamento fisso nella speranza di trovare un pretendente, che non si trovava. Erano rozzi contadini, che arrivavano già brilli e crollavano dopo poco a terra ubriachi. Però se non andava a queste feste difficilmente avrebbe potuto trovare un uomo da sposare.
Quel viaggio in barca quando ormai la luce se ne era andata non le piaceva molto, né molto di più il ritorno durante la notte stanca e assonnata.
Quest’anno avevano deciso di fermarsi durante la notte e tornare con la luce il mattino seguente.
“Mi devo sbrigare, perché tra non molto vengono a bussare al portone e devo essere pronta con la borsa da viaggio per la notte”.
Si pettinò velocemente, indossò il vestito di raso nero e con la borsa in mano aspettò l’arrivo chiassoso delle amiche, anche loro dolorosamente zitelle.
Si sistemò sulla prua dell’imbarcazione vicino alla lanterna che illuminava debolmente le acque scure del Chesapeak Bay. Udiva il lento sciabordio della prua che avanzava con lentezza in una notte fredda e umida, mentre leggeri vapori salivano verso l’alto.
Per fortuna il mare era calmo, solo un leggero moto ondoso faceva dondolare la punta e la lanterna. Il viaggio le sembrava interminabile e non ascoltava le parole concitate delle amiche che gioiosamente speravano in una festa piena d’imprevisti.
Angie, stretta nella mantella pesante, rifletteva e ricordava altri viaggi che non erano stati piacevoli come questo.
In lontananza vide i fuochi della festa e si rianimò appena un poco.

Ellie

Ellie sta ritta sulla punta dell’imbarcazione che solca quel tratto di baia che da Wenona porta a Holland Island. Sono poche miglia, ma le sembrano una distanza enorme.
Il vento gelido le sferza il viso come le lame dell’erpice frantumano le zolle del campo appena arato. Però lei non sente le punture sulle guance.
Lei è avvolta nella cerata gialla con le mani ben salde sul parapetto, attenta a non scivolare nelle acque grigiastre della Chesapeake Bay, dove l’enorme estuario del Potomac si confonde con l’Atlantico.
Vuole osservare per l’ultima volta la grande casa vittoriana, che sta lentamente agonizzando, divorata dalle maree e dall’incuria degli uomini, prima che la furia delle onde invernali non completino il loro lavoro.
La casa è disabitata da molti decenni dopo aver conosciuto dei fasti migliori ormai ricordi. Però per lei è sempre stata una meta di pellegrinaggio nel periodo estivo per osservare quel fazzoletto di terra che emerge tra fondali bassi nel mezzo della baia come un faro in prossimità della costa. Non c’è pescatore, né amante del mare che non conosca quell’isolotto posto in mezzo a tanti altri, come il punto di riferimento preciso dell’immenso estuario del fiume che attraversa Washington. Adesso però le cose stanno cambiando e tra non molto quel riferimento sarà il tema dei loro racconti ai figli, ai nipoti.
Ricorda con nostalgia i racconti del nonno, il pastore protestante della piccola comunità che ha popolato l’isola all’inizio del novecento. E’ rimasta sempre affascinata da quei 160 acri che hanno sfidato il mare in tempesta e il gelido vento invernale, quando da piccola stava intorno al camino ad ascoltare le mille storie, che Stephen Powell le narrava.
Adesso l’isola dei suoi sogni non c’è più, perché anche l’ultimo relitto umano sta per cedere sotto i colpi impetuosi delle onde in tempesta.
Ha sempre sognato di acquistare quel lembo di terra che lei ha trasformato in una sorta di paradiso terrestre, ma il mare lentamente se la sta mangiando. E lei non può più farlo. Sarebbe fatica sprecata come quella dell’omonimo del nonno che ha lottato per quindici anni prima di gettare la spugna.
“Ho letto che la colpa è nostra, perché i mutamenti climatici hanno innalzato il livello delle acque. Sarà vero?” si domanda mentre la piccola lancia continua ad avanzare lentamente nella gelida baia, illuminata da un pallido sole di fine ottobre.
Le onde s’infrangono sulla prua, mentre l’imbarcazione vibra verso l’alto per scendere verso il basso, seguendo il moto ondoso delle acque, mentre Ellie continua ad osservare innanzi a sé alla ricerca dell’isola dei sogni.
Voli di gabbiani intrecciano disegni aerei eleganti e precisi sopra la sua testa, ma lei cerca sull’orizzonte grigio il segno che tra non molto non vedrà più. Ormai si confonde col bianco sporco delle onde e lo scuro della terra sommersa come un tutt’uno cielo, acqua e terra.
Stringe le spalle in segno di resa, mentre il vento fa scivolare di sbieco una lacrima che scende sul viso.
L’ultima volta è stato in agosto, quando di ritorno dalle vacanze, è tornata su Holland Island. Le acque erano di grigio verde che riflettevano il sole alto nel cielo, mentre su quella piccola striscia di sabbia e acquitrini, popolata da enormi pellicani, si ergeva ancora malinconica quella casa vittoriana.
Sembrava una scommessa il suo svettare sull’isola, perché era rimasto l’unico ricordo che segnalava una presenza umana ormai passata.
Aveva letto qualche giorno prima la sparata in prima pagina su Washington Post che l’isola non c’era più. Un groppo alla gola l’aveva tenuta avvinta con gli occhi su quella fotografia: una casa di sghimbescio mestamente ripiegata su se stessa, circondata da onde che s’infrangevano contro come se fosse uno scoglio in mezzo al mare.
Era stata male, incapace di darsi una ragione sul perché l’uomo non sia riuscito a strappare quel lembo di terra alla natura.
Vede in questo emblema la sconfitta sua e di coloro che hanno creduto di vincere la scommessa. Così ha organizzato questa uscita perché il ricordo non sia solo una fotografia.
La lancia si avvicina lentamente a riva tra le spume bianche delle onde, mentre la casa sembra un gigante morente.
Osserva e ricorda quello che il nonno ha narrato prima di morire.

Ellie e il suo sogno

Ellie sta ritta sulla punta dell’imbarcazione che solca quel tratto di baia che da Wenona porta a Holland Island.
Il vento gelido le sferza il viso come le lame dell’erpice frantumano le zolle del campo appena arato.
Lei sta avvolta nella cerata gialla con le mani ben salde sul parapetto attenta a non scivolare nelle acque grigiastre della Chesapeake Bay, dove l’enorme estuario del Potomac si confonde con l’Atlantico.
Vuole osservare per l’ultima volta la grande casa vittoriana, che sta lentamente agonizzando, divorata dalle maree e dall’incuria degli uomini.
La casa è disabitata da decenni dopo aver conosciuto dei fasti ormai ricordi.. Però per lei è una meta di pellegrinaggio nel periodo estivo per osservare quel fazzoletto di terra che emerge tra fondali bassi nel mezzo della baia come un faro in prossimità della costa.
Ricorda con nostalgia i racconti del nonno, il pastore protestante della piccola comunità che ha popolato l’isola all’inizio del novecento. E’ rimasta sempre affascinata da quei 160 acri che hanno sfidato il mare in tempesta e il gelido vento invernale, quando da piccola stava intorno al camino ad ascoltare le mille storie, che Stephen Powell le narrava.
Adesso l’isola dei suoi sogni non c’è più, perché anche l’ultimo relitto umano sta per cedere sotto i colpi impetuosi delle onde in tempesta.
Ha sempre sognato di acquistare quel lembo di terra che lei ha trasformato in una sorta di paradiso terrestre, ma il mare lentamente se la sta mangiando.
“Ho letto che la colpa è nostra, perché i mutamenti climatici hanno innalzato il livello delle acque. Sarà vero?” si domanda mentre la piccola lancia continua ad avanzare lentamente nella gelida baia, illuminata da un pallido sole.