Capitolo 21

Giacomo si svegliò presto, prima del solito. Un’insolita frenesia, mista a curiosità, lo pervadeva senza che potesse metterci un freno. La stanza era buia ma dai pesanti tendaggi filtrava una bella luce luminosa a indicare che la giornata era serena e soleggiata. Ghitta dormiva nella stanza della servitù collegata alla sua con una porta semisocchiusa, dalla quale si udiva distintamente il sonno rumoroso della ragazza, rientrata la sera precedente al vespro stanca, sudata e accaldata dopo aver partecipato alla festa di San Giorgio. L’aveva ascoltata rincasare garrula e allegra e dopo un sommario lavaggio si era buttata sul letto, addormentandosi immediatamente come un sasso nello stagno.

“Dorme profondamente” disse sorridente, mentre si alzava per cominciare i preparativi per la vestizione. Era una delle incombenze che amava di meno o meglio che odiava. Rimpiangeva la sua epoca dove bastava un paio di pantaloni con la zip e una camicia di Oxford per essere pronto in dieci minuti. In questa il rituale era assai più complicato e nella migliore ipotesi non durava meno di un’ora. Una calzamaglia aderente, pesante o leggera, si indossava sopra delle braghe che fungevano da mutandoni, scomodi e poco pratici, specialmente per certe incombenze. Era disagevole da indossare e richiedeva l’aiuto di un cameriere. «Per fortuna ho Ghitta e l’operazione è più confortevole» si diceva tutte le mattine. Poi il corsetto e la blusa erano un altro supplizio, perché rosicchiavano da tutte le parti, specialmente nel collo. Calzava comode scarpe spagnole, così dicevano, per la loro forma. Queste erano le uniche che non creavano problemi.

Dunque Giacomo scivolò silenzioso fuori dal letto, scostò le tende di un pesante broccato rosso per far entrare la luce del nuovo giorno. Si annunciava una giornata calda per essere solo il 24 aprile. Nella giornata odierna avrebbe conosciuto finalmente il Duca, il suo datore di lavoro, e avrebbe imparato quali erano le sue reali funzioni.

“Dicono che sono l’ingegnere del Duca. Ma probabilmente è un mestiere differente da quello di cui ho nozione. Un nuovo tassello si aggiungerà agli altri che ho scoperto in questi mesi”.

Nel formulare questi pensieri la sua mente andò su Giulia e Ginevra e sui quei dieci giorni trascorsi nel loro palazzo. Il ricordo era indelebile e gli sarebbe piaciuto ripeterlo ma non era possibile. Ginevra, la vedova caldissima, aveva trovato un nuovo spasimante, Aloiso Gonzaga, marchese di Castel Goffredo, e terminato il lutto sarebbe convolata a nuove nozze. Giulia era diventata la dama prediletta di Laura d’Este e non aveva più tempo di dedicarsi a lui, ammesso che ne avesse avuto tempo e voglia.

Si stava dando una rinfrescata, usando l’acqua preparata la sera precedente, quando Ghitta irruppe nella stanza avvolta in un goffo e ruvido camicione da notte. A Giacomo venne un moto di ilarità nel vederla a piedi nudi, scarmigliata e assonnata, mentre si affannava ad affermare che la doveva chiamare, che la doveva comandare, che era sveglia da un pezzo, che fingeva di dormire come i gatti.

“Ghiita, state tranquilla. Mi sono levato dal letto e ho cominciato a prepararmi. Un’ora prima del tocco il nostro Duca mi riceverà ..”

“Andate a corte? Al Castello al cospetto del nostro Duca?” diceva sgranando due grandi occhi color nocciola, mentre l’aiutava nel completare la vestizione.

“Certamente. Andrò ad ascoltare quello che mi dovrà dire”.

Quel camicione dal colore indefinito per i troppi lavaggi dava un tocco di sensualità alla ragazza, facendo intuire che sotto non ci fosse niente. Giacomo era troppo concentrato sul prossimo incontro con Alfonso per accorgersi del messaggio sessuale che emanava. La salutò sfiorandole la fronte con le labbra e si avviò verso l’ingresso.

Puntuale si presentò a corte al cospetto del segretario del Duca, scoprendo che era lo stesso personaggio incontrato qualche mese prima nel palazzo della contessa Giulia. Stranamente ne ricordava il nome, perché era un nome familiare.

“Buongiorno, Messere Bernardino. Il nostro eccellentissimo Duca mi ha convocato nel suo studio” esordì quando ne fu al cospetto.

“Vi annuncio. Il nostro illustrissimo Duca vi sta aspettando”.

Entrato nello studio ducale, Giacomo lo osservò seduto sulla sua savonarola, mentre gli faceva un ampio gesto di accomodarsi di fronte a lui. Gli fece una strana impressione, o almeno così gli sembrò, di una persona burbera e rude ma dal temperamento benevolo, imprevedibile e alquanto lunatico. Lo ricordava vagamente in un quadro del Dossi imponente e con la folta barba nera. Però dal vivo gli appariva meno prestante, più mingherlino con le mani affusolate come quelle di un artista. Sicuramente era un personaggio sensibile al bello e all’arte, confortato nell’idea dopo aver scrutato con cura lo studio ducale. Si riscosse dai pensieri che l’avevano trasportato in un’altra realtà e ascoltò quello che il Duca diceva.

“Vi ho convocato, perché intendo affidarvi un incarico delicato e molto riservato. Mettetevi comodo” e gli allungò un rotolo dove erano segnate vie e piazze con segni colorati che partivano dal Castello.

“Come vedete dal rivellino nord si dipartono delle linee. Sono due uscite segrete che conducono una verso la porta degli Angeli e l’altra in un parco in fondo alla Zuecca” e fece una sosta per consentire a Giacomo di mettere a fuoco i segni della pianta.

“Vedo, mio Signore. Ma se esistono cosa posso fare per voi?” mormorò cauto l’uomo non sapendo dove voleva andare a parare con queste informazioni.

“Voi dovrete con personale di vostra fiducia e muti come un pesce fare una ricognizione dello stato nel quale versano i due percorsi. Dovrete fare in modo che possano essere percorsi in tutta sicurezza, assicurando un’illuminazione efficiente e la possibilità di camminare ritti e armati” continuò ignorando le parole di Giacomo.

“Infine dovrete predisporre una deviazione del percorso della Porta degli Angeli sull’angolo del Monte di Pietà di via Spazzarusco verso la casina delle rose, un edificio che è qui indicato con una croce” e mostrò a Giacomo sbigottito e un po’ allarmato un vistosa croce quasi sull’incrocio tra via Spazzarusco e via delle Rose.

L’uomo era in agitazione per diversi motivi. Il primo era che non aveva manovalanza capace, riservata e muta. Per dirla tutta e in breve non esisteva per nulla e non sapeva come procurarsela. Il secondo non era in grado di valutare la rischiosità dell’ispezione. Il terzo ignorava le motivazioni di collegare il percorso di via degli Angeli con quell’edificio ma questo era un dettaglio irrilevante, degno solo della sua curiosità. Quarto particolare, ma non sicuramente il più trascurabile, era con quali fiorini avrebbe finanziato l’impresa, visto che la borsa. inizialmente piena, adesso stava scarseggiando e non sapeva come rimpinguarla.

Cercò di non manifestare dubbi e preoccupazioni, annuendo energicamente, come se tutto fosse chiaro. Ci sarebbe stato tempo per risolvere i quesiti che si stava ponendo.

“Quando devo fare, quanto da voi richiesto, o mio eccellentissimo Duca?” chiese con un filo di voce non privo di apprensione.

“Da subito!” replicò spazientito Alfonso, che faticava a fornire spiegazioni su quello che aveva intenzione di fare nel futuro.

“Siete pagato per questo lavoro. E anche lautamente” aggiunse irato il Duca e con un gesto lo congedò.

Giacomo fece un profondo inchino e camminando a ritroso guadagnò la porta di uscita. Teneva in mano la pianta con le segnalazioni che aveva discusso col Duca e nella testa tutti i dubbi sorti col colloquio. Quel «pagato lautamente» continuava a galleggiare pericolosamente nella testa, perché non gli risultava di aver ricevuto scudi o fiorini d’oro in questi mesi. Adesso che doveva assolvere a un compito, della cui portata non immaginava le proporzioni, doveva estrarre dalla borsa che portava in cintura un bel po’ di lire marchesane per assoldare personale in grado di lavorare per lui, sperando di averne a sufficienza.

Sceso nel cortile d’onore, lo attraversò dirigendosi verso il rivellino nord alla ricerca dell’ingresso dei due cunicoli. Non aveva molte speranze di ritrovarli senza l’aiuto di qualcuno. Doveva confidare nella sua buona stella.

Era giorno

Era giorno,
quando venne la notte.
Dall’aria si levò …
si levò …
si levò un canto.
Era un canto delizioso.
Uno così
raramente si sente.
Chi era?
Non lo so.
Cosa era?
Non si sa.
Era un canto bellissimo.
Cosa diceva?
Chi lo sa!

Capitolo 20

L’orto era un ampio spazio di terreno ricavato tra i vecchi argini del Po di Ferrara e l’attuale alveo fluviale. Il terreno era ricco di humus favorendo la crescita delle piante. In un angolo c’era diverse piante da frutto in fiore che d’estate mitigavano la calura con la loro ombra. Uno stradello erboso correva lungo l’argine e consentiva di accedere all’abitazione di Francesco anche dal retro.

Laura era all’ombra dell’albicocco, carico di piccoli frutti e pieno di foglie nuove, mentre rifletteva sulla sua situazione. Non era felice non perché fosse triste ma perché il tempo passava e le carrozze non si fermavano davanti alla porta di casa. Passavano e sparivano alla vista, mentre le poche erano carretti malandati o carrozze di malaffare.

Teneva le braccia a proteggere il corpo, quando udì la voce della madre che la cercava.

“Sono qui, madre” disse con un tono alto per farsi sentire. “Sono sotto l’albicocco a riposare”.

“Laura” disse quasi urlando Paola. “Laura, il segretario del Duca vi manda questa missiva e domani al tocco passerà a prendervi. La destinazione è la delizia di Belfiore! Prendete” e le allungò un foglio piegato in quattro e sigillato con la ceralacca.

La ragazza prese dalle mani della madre il messaggio e appariva indecisa se aprirlo o conservarlo chiuso come un ricordo prezioso da non sciupare. Paola rimaneva ferma e decisa di conoscerne il contenuto. Un osservatore l’avrebbe paragonata al falco che artiglia il braccio di cuoio del falconiere pronto a spiccare il volo e ghermire la colomba.

“Che c’è ancora, madre?” chiese con un filo di voce la ragazza, vedendola lì impalata e muta.

“Non l’aprite? Non la leggete?” replicò senza rispondere alla domanda.

“Certamente ma volevo rifiatare. L’emozione mi ha obliato i pensieri”.

Poi con lentezza rotto il sigillo e dispiegato il foglio cominciò a leggere con una leggera fatica, perché ci metteva tempo a focalizzare il senso delle parole. Aveva imparato a far di conto, leggere e scrivere sotto l’occhio attento di suor Lucia, la madre badessa del monastero di Sant’Agostino. La religiosa aveva sperato che Laura prendesse il velo di novizia ma le sue aspettative andarono deluse.

“Madre Lucia, voi sperate che io prenda i voti di novizia ma la vita del monastero non si addice alla mia indole. Amo gli spazi aperti e sopporto a stento le imposizioni dall’alto. Sono uno spirito libero che vuole vivere la sua vita nel rispetto dei precetti della Santa Madre Chiesa. Vado a Messa tutte le domeniche e le feste comandate. Mi comunico ogni settimana e ascolto le prediche di padre Francesco. Alla sera prima di coricarmi dico tre Ave Maria, due Pater Noster e un Confiteor per ringraziare Dio della giornata che mi ha concesso e per rimettere i peccati commessi. Però qui si ferma la mia devozione”. Fu questo il discorso che Laura a quindici anni fece alla badessa per sottrarsi al pressing non troppo velato affinché entrasse nel monastero. La sorella Lucrezia, invece non seppe resistere e abbracciò la vita conventuale.

“Vi prego, non tenetemi sulle spine. Cosa dice il messaggio?” continuò Paola, perché la figlia tardava a rivelare l’argomento della missiva.

“Nulla, madre. E’ un semplice invito a trascorrere il pomeriggio di domani nella delizia di Belfiore in compagnia della corte ducale. Il Duca offrirà un banchetto per onorare il Santo Patrono. Niente di speciale, dunque. Un banale invito” disse arrossendo alquanto per nascondere l’imbarazzo di recarsi a corte, sia pure nella delizia.

La madre, raggiante, non stava più nella pelle e sbottò.

“Come niente di speciale? Un invito a corte e voi lo classificate come se fosse una bagattella. Ma quale colpa devo espiare, per aver partorito una figlia come voi?”

“Madre, è un semplice invito a trascorrere un pomeriggio nella delizia e nulla più. Anzi sono imbarazzata e mi sento inadeguata, perché non ho vesti da indossare adatte all’occasione”.

“Potresti indossare quell’abito con la scolatura a U bianco e blu con quelle scarpine di panno rosso.”

“Ma madre, non mi sembra adeguata all’occasione e alla giornata. E’ leggero per la stagione e poi mostra il petto. Farebbe una pessima figura come se ..”

“Cosa come se ..? Dovete colpire l’immaginazione del nostro Duca e quella veste di lino e mussola fa proprio il caso vostro” replicò decisa Paola.

“Ma è sconveniente! Mostra le braccia nude e poi è troppo scollato. Non sai i commenti degli altri?”

“I commenti malevoli, pettegoli e invidiosi degli altri non importano. Quello che conta è l’opinione del Duca. Questa deve essere la migliore possibile. Dunque veste e scarpe saranno quelle. Ora salgo e la metto ad arieggiare. Domani dovete essere bellissima. Chiamerò la Jolanda per acconciarvi i capelli, raccogliendoli a treccia sul capo”.

“Madre, se lo dite a Jolanda, lo saprà tutta la contrada in un battere di ciglia” disse spaventata Laura.

“E’ quello che voglio. Tutta la contrada di San Paolo deve sapere che Laura, la figlia di Francesco, è invitata a corte per festeggiare San Giorgio” e girati tacchi, rientrò in casa.

La ragazza rifletté a lungo, rileggendo la missiva. Non aveva confessato che l’incontro alla delizia di Belfiore era solo col Duca senza la corte. Di banchetto e festeggiamenti di San Giorgio non se ne parlava minimamente. Però quello che la preoccupava era il tono che non lasciava molto spazio al vero obiettivo: era la sua persona e questo la spaventava molto.

“Se mi chiede di andare a letto con lui cosa devo rispondere? Se è sì, come andrà a finire? Se fosse no, tanto varrebbe rifiutare fin da subito. Non credo di avere molte scelte o frecce nel mio arco ma devo vendere cara la pelle dell’orso. Come? Non lo so. Ora prepariamoci mentalmente all’incontro. Avrò bisogno dell’aiuto di Dio per superare questa prova”.

E si alzò per salire nella sua stanza. Doveva scaldare un po’ d’acqua per un bagno purificatore.

“Domani sarà una giornata difficile”.

La lampada

Sul vecchio camino
c’è la lampada
che accompagna la notte.
E’ una lampada
carica di anni, di ricordi e di polvere.
La sua luce fioca
rischiara debolmente la penombra.
La fiamma tremula
disperde per l’aria ombre ambigue.
Torna il sole
e mesta si spegne.

Capitolo 19

Giacomo, dopo il ritorno a casa, aveva ripreso le consuete attività, o meglio l’attenta esplorazione della sua nuova vita per scoprire quali altri aspetti si nascondessero alle sue conoscenze.

Era il 23 di aprile, il giorno di festa della città per celebrare il Santo Patrono, quando all’ingresso si presentò un messo ducale con un messaggio per lui.

Stava leggendo un libro preso dalla biblioteca di casa. Era la storia della sua casata, o forse di quella nel quale si era calato in maniera involontaria.

“I miei antenati sono savoiardi. Più precisamente di Castel di Liborno. Chissà dove si trova questa località. A parte il riferimento alla Savoia, non appare altro. Ma leggiamo ancora. Pare che i miei avi siano stati tutti letterati o iuris consulto. Dunque sono la pecora nera? L’unico ingegnere della famiglia. Chissà mio fratello, Ercole, ..”.

Stava riflettendo quando udì un discreto bussare. Ghitta, che stava in un angolo vicino alla finestra, alzò gli occhi come per interrogare Giacomo se doveva aprire la porta.

“Avanti” disse con voce ferma Giacomo, fermando l’accenno di movimento della serva.

Apparve sull’uscio il maestro di casa che annunciò il messo ducale.

L’uomo rimase stupito, perché in questi mesi il Duca non l’aveva mai cercato ma si domandò anche per quale valido motivo doveva aver necessità della sua persona. E poi l’inverno era stato terribile tra la neve che aveva bloccato tutto e il freddo che aveva ghiacciato anche il Po comprese le parole delle persone. Si riscosse da questi pensieri del tutto insignificanti e prestò attenzione al messo che era giunto in questa giornata di festa.

Il paggio fece un profondo inchino prima di presentarsi, mentre osservava con la coda dell’occhio Ghitta, la cui presenza gli risultava inopportuna. Il Duca si era raccomandato discrezione nel parlare e nel consegnare il messaggio

“Messere, vi prego sedetevi” disse appoggiando il volume aperto sul tavolo. “Posso offrirvi qualcosa? La giornata è afosa e voi avete fatto un bel tratto di strada per raggiungere la mia dimora”.

“Un po’ di acqua fresca per togliere la polvere della cavalcata” rispose cortese, accomodandosi sulla sedia che l’uomo indicava con la mano.

“Ghitta” disse Giacomo volgendosi verso la serva. “Potete portarci una brocca di acqua fresca, due calici e qualche frutto maturo?”

La ragazza sparì rapidamente alla loro vista per portare quanto richiesto con grande sollievo dell’uomo, che trovava singolare che una serva rimanesse ad ascoltare la loro conversazione.

“Ditemi, mentre aspettiamo che la mia camariera personale torni con acqua e frutti. Avete detto che ..”.

Il paggio si schiarì la voce, prima di consegnare un messaggio chiuso col sigillo del Duca.

“Aspetto una vostra risposta che comunicherò al mio Signore, quando rientro a Ferrara”.

Giacomo controllò la ceralacca che fosse integra, anche se non era in grado di distinguere se fosse autentica oppure no, poi la ruppe con un gesto deciso, prima di cominciare la lettura del contenuto, aggrottando leggermente la fronte. Il testo era molto laconico e generico ma non lasciava addito a dubbi: doveva presentarsi al Castello nella giornata seguente senza troppi tentennamenti. Si chiese se avesse risposto negativamente cosa sarebbe successo. Di sicuro niente di buono.

“Ho letto. Potete comunicare al nostro Duca che sarò puntuale un’ora prima del tocco. Sarò lieto di presentarmi al suo cospetto”.

Nel frattempo silenziosamente e con discrezione Ghitta era tornata con la brocca e un cesto di fragole, depositando il tutto sul tavolo, prima di ritirarsi nel suo angolo.

“Crescono nella mia proprietà e spero che li gradiate” disse versando l’acqua fresca appena attinta dalla fonte.

Mangiati alcuni frutti e dissetatosi, il paggio prese commiato da Giacomo e fu accompagnato fino al cortile da Ghitta. Ancora una volta il messo si chiese che ruolo ricopriva questa donna, che appariva molto giovane ma anche esperta nel trattare con le persone. Scosse la testa e si allontanò verso la città mettendo al trotto il cavallo.

Giacomo si domandò di quale argomento avrebbe trattato nell’incontro con Alfonso. Non era ancora riuscito a comprendere bene il suo ruolo a corte ma forse il giorno seguente l’avrebbe svelato. Era immerso nelle sue riflessioni mentre leggeva senza muovere gli occhi il messaggio ducale, quando la serva rientrò nella stanza.

“Mio Signore, vi osservo serio e preoccupato. Forse il Duca vi ha comunicato qualcosa di sgradevole?”

“No, no. Niente di tutto questo. Chiede solo i miei servigi. Di che tipo non li conosco ma sicuramente inerente alla mia professione. Non sono preoccupato ma semplicemente mi domando quale fretta c’è per ordinare la mia presenza per domani mattina senza indugi”.

“Dunque domani, messer Giacomo, non sarà a pranzo con noi?” chiese curiosa la ragazza.

“No. Avvertite madonna Isabella che domani sarò ospite del Duca” e riprese la lettura del volume rimasto aperto sul tavolo.

Ghitta lo interruppe, perché aveva una richiesta da fare.

“Messere, se Voi non avete bisogno di me, vi chiederei il permesso di raggiungere la basilica di San Giorgio con le mie amiche. Oggi è giorno di grande festa con banchetti e saltimbanchi. Voi non venite?”

Giacomo alzò il viso dal libro e sorrise.

“No. Io non vengo. Preferisco godermi la frescura della stanza. Però voi fate attenzione a non dare troppe confidenze agli uomini. Sapete bene cosa succede” disse sornione. “E non tornate troppo tardi. Potrei avere bisogno di voi”.

“Non preoccupatevi per me. So come comportarmi con gli uomini. Sarò di ritorno prima del vespro così che posso aiutarvi per la cena serale”.

Giacomo riprese la lettura e Ghitta andò allegra a piedi verso la grande Basilica.

Capitolo 18

La vigorosa nevicata di gennaio, l’interminabile gelo di febbraio erano ormai un pallido ricordo e avrebbero costituito l’argomento dei racconti dei vecchi nelle lunghe veglie serali dei prossimi inverni attorno al camino, quando racconteranno come i canali fossero gelati e il Po ricoperto da una lucida lastra di ghiaccio immersi in uno spettrale sfondo innevato. Era stato un carnevale in tono minore, quello terminato il 24 febbraio, perché neve e freddo avevano paralizzato la città, impedendo le consuete manifestazioni di gioia chiassosa nelle vie cittadine. I predicatori in chiesa dicevano che era il castigo divino per i costumi lascivi e disordinati dei suoi abitanti. Una visione dell’aspetto meteorologico differente e divergente tra chi predicava e chi subiva le intemperie di febbraio.

Una bizzarra e capricciosa primavera era subentrata al rigido inverno con un’alternanza di splendide giornate di sole e di corrucciati giorni di pioggia. La natura sembrava apprezzare questa variabilità, trasformando il paesaggio in un tripudio di verde e di colori.

Arrivò un maggio, che fu particolarmente tiepido, tanto che la duchessa Lucrezia si preparò per il consueto trasferimento nella delizia del Belriguardo. Il Duca aveva dato il via libera e il clima era diventato più stabile verso il bello. Tutto congiurava favorevolmente per l’inizio delle vacanze estive, che sarebbero terminate a settembre inoltrato o in ottobre, se il tempo si manteneva temperato e sereno.

Lucrezia con la sua piccola corte di donne, Laura Rolla, Angela Valla, la contessa Strozzi e coi musici e le danzatrici, che avevano allietato le lunghe serate invernali, traslocò in campagna sul barcone fluviale trainato dai cavalli. Era un trasferimento lieto e scanzonato, che durava qualche giorno con soste programmate e altre improvvisate, attraverso la campagna ferrarese. Era un momento festoso e molto atteso dalla Duchessa, che poteva lasciare l’appartamento ducale freddo e noioso per un mondo agreste e rilassante. Era corroborante per la sua salute che peggiorava anno dopo anno.

Nelle stanze del Castello Alfonso riprendeva le abituali attività di governo e gli incontri galanti. Si sentiva libero mentalmente con la partenza di Lucrezia, anche se nessuno poteva imporgli qualsiasi impegno o restrizione. Lui spaziava tra la delizia di Belfiore e quella del Verginese, sfogava la voglia di menare le mani nel boscone della Mesola, andando a caccia di cervi e cinghiali. Però erano gli incontri amorosi che erano al centro dei suoi interessi, quando le guerre non lo catturavano.

Di Laura si era scordato il viso e l’aspetto, inghiottiti dalla coltre nevosa, finché un giorno il segretario non gli ricordò quel lontano impegno.

Adesso aveva altre priorità ma presto ci avrebbe fatto un pensiero.

Giacomo fece ritorno a casa al termine della nevicata non senza qualche difficoltà. Lo aspettavano i rimproveri della moglie e le attenzioni di Ghitta.

“Madonna Isabella” disse presentandosi sull’ora centrale nelle stanze della moglie al suo rientro. “Siete troppo severa nei giudizi. Se avessi potuto, sarei rientrato quella notte stessa. Ma ..”

“Niente scuse” sentenziò acida. “Siete rimasto fuori da questa casa per quasi due settimane, lasciando a me tutti gli oneri di gestirla per assicurare che ogni cosa funzionasse a dovere”.

“Mi sembrate ingenerosa nei miei confronti. Non mi pare che la gestione della casa ricadesse sulle mie spalle”. E azzardò un pensiero su chi governava, anche se ignorava se fosse vero oppure no. “Credo che voi, madonna Isabella, abbiate sempre diretto con mano ferma sia servitori che serve. Avesse scelto i camarieri personali di ognuno di noi. Io mi sono ritrovato Ghitta senza nessuno mi abbia chiesto nulla”. Mentì spudoratamente, perché quella servetta gli garbava e come.

La donna rimase in silenzio, come se Giacomo avesse colto nel segno. Forte di questo successo si accomiatò da lei.

“E ora, col vostro permesso, mi ritiro nelle mie stanze. Sento la necessità di un bagno ristoratore” e si avviò verso la porta.

“Messer Giacomo. Noi abbiamo già pranzato. Mandate Ghitta nelle cucine a vedere se è avanzato qualcosa. Stasera si cena al tocco del vespro”.

L’uomo annuì, accennando un «va bene, manderò Ghitta. Ma non ho molta fame», mentre usciva velocemente dalla stanza.

Aperto l’uscio delle sue camere, trovò Ghitta che lo aspettava sorridente.

“Messer Giacomo! Ben tornato!” e l’abbracciò con molto calore. “Abbiamo sentito la vostra mancanza in questi giorni ..”

“Chi noi?” domandò stupito e un po’ ironico.

“Volevo dire solo io, che non vi ho potuto curare e servire in ogni dettaglio” rispose senza batter ciglio, mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti infangati e bagnati.

“Avete necessità di un bagno caldo e di vestiti puliti. Chi vi ha ospitato non vi ha curato come si deve”.

L’uomo sorrise e la lasciò fare. Non c’era confronto con la moglie, fredda, boriosa e ispida come un riccio. Ripensò alle nottate con Giulia e con Ginevra e sospirò, perché era stata una parentesi piacevole e gradevole.

“Messer Giacomo” riprese Ghitta. “Vi sento sospirare come se rimpiangeste qualcosa o qualcuna. Ora siete di nuovo a casa e non dovrete rammaricarvi di quello che avete lasciato”.

“Siete gentile nei pensieri, Ghitta. Ma ora desidero un bagno caldo e poi riposarmi un po’”.

E così fu, anche se il riposo non arrivò subito.

Laura lentamente aveva ripreso le sue consuete attività, quando finalmente aveva potuto mettere il naso fuori della bottega. La strada era un immenso scivolo ghiacciato, percorribile solo a piedi e con cautela.

La visita del Duca era un lontano ricordo dimenticato e impolverato, mentre i vecchi e nuovi spasimanti tornavano alla carica.

Era una ragazza formosa e piena di fascino, che appariva agli occhi di tutti come una torre d’avorio inespugnabile. L’assedio continuava anche se era meno assillante per via delle condizioni climatiche che ostacolavano i movimenti delle persone e delle cose.

La ragazza era serena come la primavera che avanzava a grandi passi. La madre mugugnava non poco, perché passavano i giorni senza che la figlia decidesse di scegliere il partito da sposare.

“Madonna Paola” le diceva il marito. “Se vogliamo maritare nostra figlia dobbiamo sborsare molti scudi d’oro come dote. E non li abbiamo”.

“Messer Francesco, cosa dite! Ci sono facoltosi commercianti che sarebbero disposti a pagare loro molti fiorini pur di avere in sposa la nostra Eustochia! Volete che rimanga zitella tutta la vita? Allora sarebbe meglio che entri in un convento come Lucrezia, sua sorella”.

Il padre scuoteva la testa perché non era d’accordo.

“Nostra figlia è un prezioso aiuto in bottega. E poi la vorrei pensare maritata con qualcuno di suo gradimento e non col primo vecchio bavoso, pieno di lire marchesane”.

“Se è vecchio, tanto meglio. Così diventa vedova ancora giovane e piacente, ereditando il patrimonio del defunto marito” replicò seria la madre.

“Madonna Paola, mi sembrate molto venale! Per fortuna col mio lavoro sono in grado di mantenervi decorosamente”.

“Avete ragione, messer Francesco. Ma Laura rischia di rimanere zitella”.

Erano intenti in questa discussione, che ormai dominava i loro dialoghi, quando entrò un paggio del Duca.

“Messere, è questa la casa di dama Laura?” chiese risoluto, mentre osservava le due persone che stavano in quel momento nella bottega.

“Sì” rispose pronta Paola.

“Ho un messaggio per lei. Domani al tocco passerà la carrozza del conte Bernardino de’ Prosperi per condurla alla delizia di Belfiore”.

“Il segretario del Duca?” domandò stupito Francesco.

“Sì” e consegnò una pergamena sigillata col timbro del conte prima di andarsene.

“E Laura dov’è andata?” chiese la madre e cominciò la ricerca.

Era il 23 di aprile, il giorno di San Giorgio, patrono della città.

Capitolo 17

Laura ammirava sconsolata la grande distesa bianca che aveva ricoperto ogni cosa: la strada come l’orto. Da diversi giorni era confinata in casa tra la bottega e la sua stanza, prigioniera della neve. Doveva condividere quegli angusti spazi coi genitori e il fratello e provava un senso di angoscia e oppressione. Ebbe un’associazione logica con la sorella, Lucrezia, che era suora nel convento di Sant’Agostino.

“Starà bene? Lei dice di sì ma dubito che affermi la verità. Sarà sostenuta da una grande fede ma gli spazi ristretti non aiutano di certo lo spirito. In questi giorni mi pare di essere rinchiusa in convento, dove la madre badessa è mia madre. E non è un bel vivere ma solo un sopravvivere per necessità”.

Non riusciva a comprendere perché la clausura forzosa di questi giorni avesse risvegliato questa associazione di pensiero. Non era la prima volta che una nevicata copiosa l’aveva costretta a vivere nel poco spazio casalingo, dove tutti erano nervosi per via della mancanza di libertà di movimento. Si pestavano i piedi a vicenda, incendiandosi per un nonnulla. Però mai aveva collegato il convento con la casa come questa volta. Ricordava con senso di angoscia, come la partenza della sorella per il monastero fosse stata vissuta in famiglia peggio di un funerale. Da quel giorno nessuno di loro nominava il nome come se fosse stata inghiottita nel nulla.

Per i genitori era morta ma per lei era viva, perché era l’unica in famiglia che a intervalli regolari l’andava a trovare. L’incontro nel refettorio le metteva tormento nell’anima, vedendola vestita da novizia nella veste bianca e la ghirlanda verginale in testa. Lucrezia diceva di essere felice a contatto col Signore, ma a lei pareva triste e impaurita. Non la convincevano quelle parole, pronunciate stancamente, come se stesse salmodiando.

Qualche volta aveva accennato timidamente a Paola le sue impressioni ma non aveva risposto, ignorando le domande. Non capiva questo mutismo, perché, quando andava a messa in San Paolo, il frate predicatore non faceva altro che glorificare le suore dei monasteri di Ferrara, additandole come fulgidi esempi di carità cristiana. Però aveva rinunciato a pensarci, anche perché aveva ascoltato delle voci non propriamente tenere e benevole sulle suore nei conventi.

Le amiche raccontavano che si tenevano dei festini con vino e uomini, mentre le novizie perdevano la loro verginità. Non aveva compreso bene in che modo, perché era convinta che fosse l’uomo a privarle, mentre ke dicerie non includevano l’elemento maschile. Per lei quindi il mistero era fitto e impenetrabile.

“Ma come è possibile?” si domandava incredula. “E’ possibile che questo avvenga per opera di un’altra donna? E come?”.

La curiosità era enorme ma le risposte le apparivano stravaganti. Pertanto Laura non voleva prestare fede a quello che ascoltava e continuava a immaginare il monastero come a un’oasi di pace e spiritualità.

Appoggiata al davanzale della finestra, smise di associare la sua attuale condizione a quello della sorella e si dedicò all’osservazione di quello che doveva essere l’orto, completamente nascosto alla vista. Mentre prendevano forma questi pensieri, che di norma erano relegati in un angolo senza possibilità di uscire allo scoperto, il ricordo della visita del Duca era diventato un pallido ricordo che era sbiadito giorno dopo giorno. Ormai non ci pensava più.

Con un lungo sospiro si staccò dalla finestra e tornò da basso al tavolo di lavoro, anche se ormai non c’era quasi più niente da sistemare. Se non fosse cambiato nulla nei giorni successivi, percepiva il rischio di perdere la testa tra il non far niente e il continuo pensare alla sorella.

Giacomo rimase piacevolmente prigioniero di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro per conquistare l’attenzione dell’uomo. Non si annoiava sicuramente ma provava un senso di ansia perché era sicuro che sarebbe finito in qualche trabocchetto, che avrebbe smascherato la sua presenza anomala in questo periodo.

Lo staffiere era riuscito a raggiungere l’abitazione fuori delle mura per informare i famigliari che stava bene e che era impossibilito a fare ritorno a casa. L’aspetto, che avesse dato notizie alla famiglia, gli risultava indifferente perché non la percepiva come un luogo che gli suscitasse particolari emozioni. Giulia gli assegnò la stanza degli ospiti in un’ala defilata del palazzo, relativamente vicina alla sua e a quella di Ginevra. Questa sistemazione avrebbe consentito alle due donne di raggiungerlo senza dare troppo nell’occhio.

Durante la giornata Giacomo si comportava in maniera irreprensibile, cercando di soddisfare la curiosità dei padroni di casa.

“Siete l’ingegnere idraulico del Duca?” gli chiese a tavola il padre di Giulia.

“No, no. Non sovraintendo agli argini di fiumi e canali. Mi occupo di altro” mentì con la speranza di non dover spiegare le reali mansioni, che ignorava.

“Di cosa vi occupate?” lo incalzò la madre tra una portata e l’altra.

“Beh! il mio è un operato molto riservato. E il nostro Duca non ama che sia divulgato. Mi spiace essere così reticente ma dovete capire la mia posizione” si inventò per tagliare corto su questa discussione, che rischiava di prendere una piega non propriamente felice.

“Oh!” esclamò sorpresa e dispiaciuta la moglie del padrone di casa.

“Madre!” esclamò Giulia che sino a quel momento non era intervenuta. “Messer Giacomo è una persona discreta e riservata. Non ama parlare dei lavori assegnati dal nostro amato Duca. Dunque parliamo d’altro. Gli argomenti non mancano”.

Questo intervento aveva messo fine a una questione assai scivolosa, mentre lui poteva rilassarsi sicuro che non sarebbe stato più toccato.

Si informò sulle origini della casa, scoprendo che erano originari di Verona.

“Gran bella città è Verona” pensando a come la ricordava nella sua epoca. Com’era attualmente lo ignorava completamente.

“No. Ferrara è molto meglio. Il duca Ercole I l’ha trasformata in una città moderna con strade rettilinee e ampie. E’ tutto un cantiere. Anche questo palazzo è sorto da pochi anni. Qui un tempo c’era il mercato del bestiame”.

“Avete ragione. La città sta cambiando forma. Quasi non la riconosco più” aggiunse rinfrancato.

“Ma voi, messer Giacomo, dove abitate?” domandò maliziosamente la madre di Giulia.

“Fuori la mura. Nella tenuta dei Crispi” disse pronto, ricordando di averlo udito da Ghitta. “Io, mio fratello Ercole e le nostre famiglie. Non molto distante dal canale Naviglio. In una bella villa con annessa la chiesetta”.

Giacomo non aspettava altro che alzarsi da tavola per mettere fine allo stillicidio di domande ma doveva pazientare.

“Spero che presto possa togliere il disturbo ..”.

“Quale disturbo?” esclamò Giulia. “Sei un ospite graditissimo con il quale è piacevole discorrere”.

Un sorriso illuminò il viso dell’uomo per l’ennesima ciambella di salvataggio che gli aveva gettato.

Era la sera che era intrigante e gradevole con le attenzioni di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro con sua grande soddisfazione.