Buon anno!

il mio presepe - Foto personale
il mio presepe – Foto personale

Non riuscendo a raggiungere tutti per augurare loro un 2017 felice e sereno, pubblico qui i miei auguri per tutti quelli che passeranno di qui.

Un 2017 ricco di prosperità e serenità.

Romano – una vita – parte seconda

tramonto - foto personale
tramonto – foto personale

La prima parte la trovate qui.

Un rumore nella notte interruppe il suo flashback. La magia di quel giorno era svanita. Si guardò intorno alla ricerca della fonte senza trovarlo. Provò a ricalarsi nei ricordi.

Romano ebbe un gesto di stizza ma non c’era nulla da fare se non riprendere la lettura della lettera.

Gli occhi si posarono su un verbo. Un moto di rabbia lo colse, leggendo quel ‘odiarla’ inserito accanto a sua figlia. “Sì, Cristina è mia figlia” disse Romano irritato per il comportamento assurdo di Flora, riprendendo in mano il foglio.

Niente. Non c’erano alternative. Dovevo abbandonarla. Scelsi l’orfanotrofio delle stelline, in via dei mille. Discreto e riservato. Gestito da personale laico. Firmai tutti i documenti perché potesse essere adottata in fretta. Avevo tempo fino al ventunesimo compleanno per conoscere la sua destinazione. Poi sarebbe calato il silenzio. Tutto quello che la legava a me sarebbe stato cancellato per sempre. Il destino mi ha punito. Un male maligno mi sta portando rapidamente alla tomba. Ho ancora poche settimane di lucidità o forse anche meno poi…

Si chiama Cristina ed è nata il giorno di Natale. Se vuoi conoscerla, devi recarti presso quella struttura, che ignoro se esista ancora, entro il ventiquattro dicembre prossimo. Dovrei allungarti una chiave ma l’ho smarrita.

Addio

Flora

30 novembre.

Romano gettò la lettera sulla scrivania con rabbia. Senza quella chiave non avrebbe concluso nulla, ammesso che esistesse ancora quel orfanotrofio. Sembrava volesse prendersi gioco di lui. Una volta di più Flora lo voleva punire.

Punire di cosa?” urlò in silenzio la sua disperazione. “Perché l’ho amata?”

Quel dubbio scavava nella sua mente come un tarlo. Non era per nulla convinto della sincerità della lettera. Dopo vent’anni riemergeva attraverso un messaggero anonimo, parlando di una figlia finita in adozione come se fosse un oggetto da mandare in discarica. “È davvero morta?” si domandò. Appoggiando il mento sul palmo aperto. “Perché mi vuole torturare ancora?”

La sua razionalità lavorava a pieno regime. Faceva mente locale se esistessero ancora strutture di quel genere, tanto care agli scrittori dell’ottocento. Ricordava la famosa ‘ruota degli esposti’ ma da tempo era stata chiusa. Di certo negli anni settanta non operava. “Il brefotrofio?” pensò. “Uhm! Forse no”. Qualcosa non lo convinceva. Sembrava uno scherzo di cattivo gusto.

Accese il PC. Doveva controllare se quella struttura esisteva. Aveva molti dubbi. Fece qualche conto. Erano gli anni delle rivolte studentesche, delle occupazioni e forse qualche residuo di orfanotrofio era sopravvissuto. “Ma ne siamo sicuri?” pensò, grattandosi la guancia. La barba che stava spuntando ispida gli dava noia, prurito.

Si riscosse. Non poteva perdere tempo. Mancavano due settimane al day after e poi avrebbe ignorato il viso di sua figlia, cosa stava facendo. Non avrebbe potuto trasmetterle nulla che potesse ricordarle chi era.

Avviò il motore di ricerca. Pareva sparita. C’era solo un riferimento a Milano, il famoso orfanotrofio delle Stelline, in corso Magenta, che adesso era diventato un centro congressi. A Roma ne aveva pescati due. “Ma sono per caso gli eredi di quello di vent’anni fa, dove è finita Cristina?” si domandò, grattandosi la guancia ruvida per la peluria che stava crescendo. Si annotò gli indirizzi. Domani ci sarebbe andato di persona. Però il tarlo era ‘senza chiave, mi diranno qualcosa?’.

Aveva trovato un edificio, alla Bufalotta, ora in sfacelo, che fino al 1973 era un orfanotrofio femminile. “La lettera parla di Stelline, non di Bufalotta” si disse, scorrendo l’elenco fornito dal motore di ricerca. Quello, che cercava, doveva essere una struttura che accoglieva i neonati, visto che Cristina aveva poche settimane, forse mesi di vita. Qualcosa non tornava nella lettera. Un’indicazione palesemente sbagliata. Informazioni nebulose o quanto mai incerte. L’assenza di un qualsiasi strumento per accedere alle notizie riservate su sua figlia. Scosse la testa.

Se per caso Flora mi ha raccontato un’altra bufala?” rifletté Romano, appoggiandosi allo schienale della poltrona. “Ne sarebbe capace. Però non la capisco. Non comprendo il senso di questa lettera. Una sottile perfidia nei miei confronti. E quel misterioso messaggero chi è? Che rapporti ha con Flora?”

Rise isterico a questo pensiero. Non erano domande banali. Dentro era racchiusa tutta la sua ansia. Vivaldi era terminato da un pezzo ma non aveva nessuna voglia di inserire un nuovo CD.

A quell’epoca Flora abitava in un monolocale nella zona degli antiquari. Piccolo ma caldo. Era sera, quando lo raggiunsero. Fecero all’amore con passione tutta la notte. Romano la lasciò al mattino con la promessa di sentirsi in giornata. Iniziò così la loro storia. Era lui che andava da lei e mai il viceversa.

«Qui sono a casa mia» fece Flora un giorno per ricusare le insistenze di Romano.

«Ma la mia è anche casa tua» specificò Romano.

«No. Casa tua è tua» precisò Flora con puntiglio. «Casa mia è mia».

Lui rinunciò a controbattere. Lei era un tipetto tosto ma riservato. Non aveva mai detto di quale località fosse originaria. Solo il cognome che non diceva nulla. Gli aveva confidato che il suo sogno era diventare una brava interprete o una traduttrice.

«Mi piace girare il mondo» gli aveva confidato Flora, mentre era accoccolata su di lui dopo una maratona amorosa.

«Dove?» le aveva domandato.

«Il mondo» rise Flora con quella risata allegra, mostrando una fossetta nella guancia destra.

Per un anno andò tutto bene. Lei studiava con profitto. Lui teneva un corso nella facoltà di matematica. Poi qualcosa si incrinò. “Cosa?” si domandò Romano, preso nel vortice dei ricordi. “Una sera mi disse che non mi voleva a a casa sua. Così senza spiegazioni. Pensai che avesse trovato un altro più giovane di me”.

Romano scosse la testa, ricordando quella volta. Non era da lui fare scenate di gelosia. Quindi non replicò. Per una settimana non si fece vedere, né sentire. Sembrava volatilizzata. L’andò a cercare in facoltà ma nessuno era in grado di dirgli dove fosse finita. Continuò le ricerche senza arrivare al nulla. Le compagne di corso alzavano le spalle e ridacchiavano dietro, quando se ne andava. Decise di dimenticarla ma inutilmente. Era sempre presente davanti agli occhi.

Passò l’estate e arrivò l’inverno. Romano aveva cominciato a non pensare più a lei. Era assorbito dalle lezioni all’università, dagli esami. Insomma Di lei solo un bel ricordo.

Era il 20 dicembre e il giorno dopo sarebbero iniziate le vacanze di Natale. Era fermo alla buvette dell’università, quando incrociò un collega, che conosceva di vista.

«Ciao, Romano» lo apostrofò Alberto. «Hai sentito?»

«Cosa?» fece Romano, guardandolo negli occhi.

Alberto sorrise, appoggiando la tazzina del caffè sul bancone.

«Ieri è successo un casino» proseguì, prendendo una sigaretta dalla tasca. «Una ragazza del secondo anno di slavistica per poco non partoriva in aula»,

Romano sbiancò. Per una curiosa associazione di idee pensò a Flora e alla sua sparizione misteriosa.

«Ma no!» esclamò poco convinto Romano. «Ci credo che sia scoppiato un casino. Ma come è finita?»

«È arrivato il 118 per portarla in ospedale» concluse Alberto, salutandolo per uscire a fumarsi la sigaretta.

Romano intrecciò le mani dietro la nuca. Ricordò bene quei giorni. Fece il giro di tutti gli ospedali, finché non scovò Flora al Bambin Gesù. Il resto lo sapeva. Guardò l’ora erano quasi le sette.

«Papi, papi» lo riscosse una vocina. «Ero preoccupata perché parlavi nel sonno. Flora, Cristina. Chi sono?»

Buon Natale

Il mio albero - foto personale
Il mio albero – foto personale

Auguro a tutti i viandanti che passano di qui che possano trascorrere un sereno e felice Natale, A chi passa e lascia un traccia di sé, A chi passa silenzioso.
Non sono presente per un cumulo di motivi ma vi ricordo tutti. Spero che presto possa tornare a visitarvi e a leggervi.
Felice e sereno Natale.
dal web
dal web

La mia storia – miniesercizio 3

Ragazza dal ciuffo - disegno di Veronica
Ragazza dal ciuffo – disegno di Veronica

Nuova settimana e nuova sfida di scrivere creativo. Questa volta dobbiamo indovinare cosa fa Jane, la ragazza con le braccia alzate. Ecco cosa vedo, immaginazione permettendo.
Jane si guarda intorno. Ha sentito cadere qualcosa dal cielo.
“Oh! Mio Dio! Proprio a me?” sospira ad alta voce.
Fred, che la segue, sghignazza divertito. “Non lo sa che sei fortunata?”
Jane si volta inviperita. “Di che fortuna vai cianciando, stupida creatura?”
Ora tutti sono intorno a Jane. La guardano. Alcuni sorridono. Altri ridono a crepapelle.
Jane allarga le braccia verso il cielo. ‘No, non è possibile’ si dice con l’occhio umido pronto a una crisi isterica. ‘Ma come si può?’
Gli altri riprendono il corteo, mentre Fred ripete. “Sei fortunata, Jane”.
“Sarò fortunata” biascica arrabbiata. “Ma sono scagazzata!”

Romano – una vita – parte prima

un calendario dell'avvento artigianale - foto personale
un calendario dell’avvento artigianale – foto personale

Romano andò a letto.

Mezz’ora dopo era ancora lì, a occhi aperti… no, non aperti, di più… sbarrati!

E come avrebbe potuto dormire, o anche soltanto assopirsi? Come avrebbe potuto rallentare il battito del suo cuore? In che modo avrebbe potuto cercare di placare il tremito che sentiva nelle vene, nelle arterie, il furore contro il destino che si era accanito in quella maniera incomprensibile verso il sangue del suo sangue?

Perché era Cristina! Finalmente Flora se l’era fatta uscire di bocca la verità, dopo quella bugia detta nella nursery in ospedale! Ma quella bugia… perché? Perché? Perché? La domanda continuava a ballonzolare nella sua testa.

Romano diede un’occhiata alla sveglia: segnava zero e ventiquattro. Si alzò dal letto. Inutile stare lì, meglio alzarsi, tanto non sarebbe riuscito a dormire. Se ne rendeva conto perfettamente.

Infilò una maglietta sopra gli slip che portava normalmente a letto. Estate e inverno dormiva solo con i boxer. Un abitudine contratta da quando aveva sei anni. Nemmeno Flora era riuscito a convincerlo a mettere il pigiama.

Faceva freddo. Il riscaldamento era spento. Non pensò di riattivarlo. Prese la felpa e i pantaloni della tuta dalla sedia per indossarli. Nei piedi nulla. Quelli erano abituati a stare senza nulla. “Ho i piedi sempre caldi” si disse, mentre finiva di vestirsi.

In cucina ignorò la caffettiera da tre, già pronta sul fornello per la mattina. Romano prese dal pensile quella da sei, che teneva per quando aveva ospiti. Sapeva che sarebbe stata una notte lunga. Molto lunga. Dopo averla preparata, la mise sul fuoco. Nell’attesa che l’aroma del caffè inondasse le sue narici andò in mansarda per accendere lo stereo.

Doveva stemperare l’inquietudine che aveva in corpo. Nell’alloggiamento accanto all’apparecchio passò in rassegna la sua collezione di CD di musica classica. Con un dito scorreva i dorsi con i nomi dei musicisti, ne estraeva uno per leggere cosa conteneva per poi riporlo nella stessa posizione. Era meticoloso e pignolo. Bach, Beethoven, Händel, Haydn, Mozart, Schubert, Schumann, Vivaldi. Tutti ordinati in ordine alfabetico per facilitare le ricerche.

Cercava un CD che avrebbe potuto aiutarlo a concentrarsi sui dilemmi che lo stavano attanagliando. Scosse la testa, mentre sentiva borbottare la moka. Doveva andare a spegnere il gas, prima di creare casini e rovinare caffè e Bialetti. Cosa ascoltare ci avrebbe pensato dopo esserselo versato. Scelta una tazza grande, di quelle da tè, la riempì fino all’orlo, zuccherandola pochissimo. Tornò in mansarda per sedersi davanti alla scrivania. L’impianto stereo era alle sue spalle. Sorseggiò il caffè. Era troppo caldo. Continuò la scansione dei titoli. “Schubert?” si disse, aggrottando la fronte. “No. Qualcosa di più morbido. Händel?” Pensò il concerto grosso. Quello londinese con strumenti originale. Un musicista straordinario per Romano, che adorava la musica barocca. “Ma forse non è adatto al momento” pensò, riponendo la custodia nello spazio rimasto vuoto. Passò oltre, fermandosi su Vivaldi. “Concerti per violino? O le quattro stagioni con molti stromenti?” Diede un’altra sorsata dalla tazza, prima di scegliere tra le due custodie.

Decise per un qualcosa di pacato, di tranquillo, qualcosa che avrebbe potuto calmare la sua agitazione, la sua frenesia. “’Le humane passioni’ vanno bene. Proprio quello che sto passando ora” fece sorseggiando il caffè che era intiepidito. “Sono cinque concerti per violino. Il solista è Giuliano Carmignola. Un eccellente violinista”. Inserì il cd nel cassettino e premette il tasto PLAY. Dale prime note del violino si acquietarono un poco i nervi.

Si accoccolò sulla sua amata poltrona, senza accendere il computer.

Finì di bere il caffè. Cominciò a ragionare da persona razionale come si considerava. Prese un blocco di carta riciclata per appuntare qualche nota. Cominciò a scrivere.

Uno: Cristina è davvero mia figlia. Due: Flora, dopo vent’anni che non ci vedevamo, ha mandato qualcuno con l’incarico di comunicarmi la sua morte e consegnarmi una lettera. Tre: l’ha fatto per necessità, quindi non mi devo fare pippe mentali sui motivi del suo silenzio e comportamento. Quattro: la lettera dice una cosa che mi ha lasciato di sasso. Cristina è stata abbandonata in orfanotrofio. Tra quindici giorni scade il termine per poterla riconoscere. Cinque: la vorrei riabbracciare, anche se so che è stata adottata da quando aveva sei mesi. Sei: ce la farò?

Il violino continuava in sottofondo a diffondere le note di Vivaldi. Romano non l’ascoltava ma gli serviva per raccogliere le idee.

Rilesse il blocco e la lettera. Questa conteneva una verità lapalissiana. In realtà non sapeva ancora nulla, cosa avrebbe dovuto oppure potuto fare. Flora nella sua disperazione prima di morire non era stata affatto chiara, se la situazione era davvero senza speranza oppure no.

Intanto il tema del CD era rimasto tranquillo, pacato, rilassante, quasi coinvolgente. Si fermò un attimo ad ascoltare prima di riprendere le riflessioni.

Rilesse la lettera e gli venne un moto di rabbia. Nemmeno in punto di morte aveva avuto un ripensamento verso di lui.

Quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più. Sarò sepolta in un cimitero di campagna, che non ti rivelo. Chi ti porterà notizia e lettera, ha fatto voto di silenzio e so che lo manterrà

Quando ti ho lasciato, ero incinta ma questo lo sai anche tu. In ospedale ho negato che Cristina fosse nostra figlia e ti ho allontanato da me. Non intendevo rivederti mai più. Ho sofferto troppo la tua vicinanza. Ti odiavo perché mi avevi messo incinta.

All’inizio volevo tenere Cristina ma poi… Era troppo te. Quando si attaccava al seno mi sembrava di vedere la tua bocca che mi succhiava i capezzoli. Era troppo uguale. Stessi capelli castano chiari. Stesso taglio degli occhi obliqui, Stessa forma della bocca con labbra sottili e appena accennate. Ma quelle due fossette mi ricordavano te. Avrei finita per odiarla.

Romano fece un sorriso amaro. Adesso i capelli erano bianchi. Il corpo di cinquantacinquenne era appesantito da un pizzico di pancetta. Gli occhi e le fossette, no quelli erano rimasti uguali.

Non capiva quell’odio, quel rancore. Eppure le aveva chiesto di sposarla.

«No!» gli aveva urlato in faccia con rabbia. «Niente nozze riparatrici. Dovevi pensarci prima».

Romano fu travolto dai ricordi. Accantonò la lettura.

Il giorno dopo il suo primo incontro con Flora pareva tutto ritornato alla normalità. Gli scontri tra gli studenti e la polizia si era conclusi con una grande retata. Erano rimaste solo le tracce del selciato parzialmente divelto e le carcasse di auto bruciate. Per il resto c’erano più poliziotti che studenti, che frettolosi entravano nella facoltà di Matematica. Romano entrò in Istituto e si avviò direttamente verso il suo studio per prendere alcuni testi per la prossima lezione. Aveva però l’impressione che sarebbe stata rinviata a data da destinarsi.

«Ciao Romano!» echeggiò nel corridoio dietro di lui una voce, che conosceva bene.

Si voltò e vide Giuseppe, un suo collega e carissimo amico.

«Oh, Giuse’, come va, che fai?» rispose Romano, dandogli una pacca sulla spalla.

«Niente oggi» rispose Giuseppe, prendendolo sotto braccio. «Lezioni sospese fino a nuovo ordine. Siamo in vacanza forzata!»

Romano fece una faccia strana come di sorpresa. In effetti lo immaginava. Troppa tensione per riprendere la normale attività didattica.

«Vado di fretta, Giuse’» disse Romano, sottraendosi alla stretta dell’amico.

«Vabbe’ Romano, se vedemo dopo da Toio?» strinse l’occhio Giuseppe.

«Sì, po’ esse… anzi no» fece Romano, pensando a Flora. «Devo vede’ se riesco a trova’ ‘na ragazza, una de’ lettere».

«Una?» lo rimproverò Giuseppe, stringendo gli occhi e aggrottando la fronte. «A Roma’, ecché fai… abbandoni l’amichi? Non presenti le nuove amiche?»

«Nooo» esclamò facendo un viso contrito. «L’ho conosciuta ieri… nun zò… boh… me piace… ma io je piacerò? Vabbe’, po’ esse che vengo co’ lei… Ciao Giuse’!»

Romano si sfilò dall’amico per chiudersi nel suo ufficio, per non dare troppe spiegazioni. Si diede del somaro per essersi lasciato sfuggire quella frase.

Rimase una buona mezz’ora, fingendo di cercare i due libri, che sapeva perfettamente dove erano nel caso che quel impiccione del suo amico avesse messo dentro la testa.

Uscì dall’istituto e si avviò verso la facoltà di lettere.

“Dunque… letteratura slava, aveva detto…” ricapitolò le informazioni. “Sì, sì, russo, polacco, ceco… cazzo ma ‘ndo trovo ‘sta slavistica?”

Fatto quattro gradini si trovò in atrio deserto.

«Scusi, il dipartimento di slavistica dov’è?» fece Romano, avvicinandosi a una bidella, che stava pulendo il pavimento.

«Al primo piano, le scale di là» indicò a sinistra la bidella col braccio teso.

Romano salì i gradini e la vide di spalle in fondo al corridoio.

«Flora!» gridò da venti metri di distanza.

Lei si voltò col suo splendido sorriso che le illuminò il volto.

«Romano!» disse, avviandosi di corsa a piccoli passi verso di lui.

Si abbracciarono, mentre lui cercò le sue labbra.

Lei non si ritrasse.

A Romano sembrò che in quel momento l’intero universo si fosse fermato, meno il suo cuore, che batteva a trecento al minuto. Sperò che il bacio non finisse mai ma dovette riprendere fiato.

«Flora!» disse, guardandola negli occhi.

«Romano!» fece lei con una sguardo che parlava più di mille parole. Luccicava per la felicità.

«Andiamo!» la esortò, trascinandola per un braccio.

«Sì, aspetta… un attimo!» oppose resistenza la ragazza. «Ciao Chiara, Vado. Poi ti chiamo»

Flora fece un cenno di saluto all’amica, che la guardò con gli occhi basiti. Si chiese chi era quell’uomo di certo più vecchio di loro. Aveva l’aria di uno che ci sapeva fare con le donne. Loro giocavano a esserlo con i loro vent’anni.

«Dai Romano. Andiamo!» disse Flora, facendosi abbracciare da lui.

Romano pensò che di certo avrebbe evitato Toio, dove avrebbe trovato Giuseppe. L’altro locale era Marco. Anche qui c’era il rischio di incrociare qualche rompiscatole.

«Andiamo, dove siamo stati ieri?» domandò Flora, che ricordava quel locale nella zona universitaria, dove Romano le aveva accompagnate.

«Ok. Va bene!» concordò Romano, fingendo di essere contento.

Dopo dieci minuti erano nel locale di Marco, il quale, appena li vide entrare, apostrofò Romano.

«Oh, Roma’, ciao! Me presenti ‘sta bella signorina, eh?, visto che ieri sete scappati manco foste evasi da Rebbibbia?»

«Uh, Marcoli’, me dispiace, manco t’ho pagato» borbottò Romano col viso contrito. «Flora, Marco».

«Piacere!» fece allegra la ragazza, allungando la mano.

«Er piacere è mio, Signori’» e le strinse con calore la mano.

«Embe’?» disse, volgendosi verso Romano. «Ieri nun hai pagato? Che c’è probblema? Tanto c’ho so’… si nun è oggi, sarà domani, Roma’, de te me fido. Che volete oggi?»

«Come ieri, Marcoli’, come ieri» rispose Romano e, visto che era libero lo stesso tavolo del giorno prima, si accomodarono lì.

«Questo sarà il nostro tavolo!» fece Flora, sedendosi.

«Ah, perché, hai intenzione di venire sempre qui?» la guardò sorpreso Romano.

«Beh, se va a te» sorrise, prendendogli la mano.

«A me? Con te verrei dappertutto!» esclamò Romano con gli occhi che brillavano per la felicità. Non avrebbe mai immaginato di averla conquistata in solo due incontri.

«Non correre, Romano» fece Flora, ammiccando. «Vola basso. Ci conosciamo da poco».

«Dici?» disse Romano, mostrando le sue fossette. «A me sembra di conoscerti da una vita, Flora. Me lo fai un altro sorriso? Quelli dei tuoi».

«Che ha di speciale?» domandò Flora con lo sguardo stupito.

«Mi piaci quando sorridi» fece Romano. «Mi sembra di annegarvi dentro».

Flora sorrise con un leggero rossore sulle guance. Era la prima volta che un uomo le chiedeva di sorridere. Ripensò ai coetanei solo pronti a sbavare, toccare, senza mai un complimento gentile.

Arrivò Marco, con i soliti stuzzichini, le patatine, naturalmente, e le birre.

Iniziarono a parlare fitto, quasi sottovoce, raccontandosi le loro vite, i progetti per il futuro ma Romano più che ascoltare Flora, continuava a guardarla, beandosi dei suoi sorrisi.

Finito di mangiare e bere, si alzarono.

«Marcoli’, grazie de tutto, me fai er conto?» disse Romano, alla cassa. «Oh, pure quello de ieri, eh?»

«No, quello de ieri considera che sia omaggio. Te l’ho offerto io» rispose Marco, battendo lo scontrino. «Oggi so’ cinquemila, Roma’».

«No, Marco, no» fece Romano, scuotendo la testa.

«Di’, voj litiga’?» disse Marco quasi offeso. «Ieri ho offerto io».

«Vabbe’, vabbe» concluse Romano, pagando la sola consumazione odierna. «Basta che nun t’encazzi!»

«Ebbravo, o vedi che quanno voj sai puro esse intelligente?» salutò Marco, incassando il biglietto da cinquemila lire. «Va’, va’, annatevene regazzi’, che c’ho da fa’»

Romano e Flora, appena usciti dalla porta del locale, non resistettero. Si abbracciarono stretti, mentre lei cercò le sue labbra.

Fu un limone coi fiocchi. Lingue che si cercavano, saliva che si mescolava. Era quello bello. Quello de core, de panza, de tutto. Quello che aveva gli ingredienti giusti al posto giusto, esattamente dove devono essere. Quello che si faceva in due e ci si trovava in due. Le labbra, le lingue, le salive e i corpi diventarono un unicum di curiosità e desiderio, di grazia e sostanza, di poesia e carne ma lasciava presagire orizzonti di piacere a breve termine. E fece venire voglia di continuare.

Sembrò durare un’eternità.

«Flora».

«Romano?».

Un scambio di sguardi mise fine a quel botta e risposta.

«Andiamo?» disse Flora, prendendolo per mano con il suo sorriso che toglieva il fiato. «Vieni da me?»

«Sì» rispose Romano, mentre si incamminarono.

La mia storia – mini esercizio di Scrivere creativo n.ro 2

Il mio albero - foto personale
Il mio albero – foto personale

Scrivere creativo lancia una nuova sfida. Non un racconto ma due! E come Osserva la fotografia e cosa vedono i due protagonisti? Due visuali diverse ma la foto è solo una. Solite 100 parole esatte per ciascuna storia. Dovrebbe essere allegra. Boh.. lascio a voi il compito di giudicare
Punto di vista di Hugo
“Guarda bene” disse Hugo.
“Perché?” fece Conchita, alzando gli occhi dal display. “Non vedo nulla”.
Hugo allargò le braccia, prima di abbassarle sui fianchi. Non c’era maniera di far capire a questa testa dura di donna, che il telefono è telefono.
Conchita lo guardò dispiaciuta ma quel rettangolo nero proprio non voleva parlare.
“Ascoltami, bene” riprese Hugo con pazienza. Ma poi si fermò. Era inutile per quanto si sforzasse. Aveva provato e riprovato ma Conchita continuava a trattare quell’oggetto come se fosse infetto.
Si avvicinò e sbirciò sopra le sue spalle.
“Pigia quel tasto, Conchita. Non vedi che è spento?”
Punto di vista Conchita
“Parla, parla” fece spazientita Conchita, agitando il telefono. “Hugo è inutile non vuole parlare”.
“Perché dovrebbe parlare?” chiese curioso il suo uomo.
Gli occhi della donna cercarono quelli di Hugo. Poi si abbassarono sul display. ‘Accidenti, è sempre buio’ pensò delusa Conchita. ‘Eppure…’.
Lo girò e lo rigirò ma il display era sempre nero. Si alzò, tenendo in mano l’oggetto del diavolo. Le avevano detto che avrebbe fatto tutto. Ma proprio tutto.
“Ho speso mille pesos” piagnucolò Conchita. “Mi hanno imbrogliata”.
Hugo si avvicinò con un sorriso ironico.
“Testona” fece l’uomo.
“Non offendermi!” replicò inviperita. “Mi hanno fregato mille pesos”.

La mia storia – miniesercizio di scrivere creativo n.ro 1

addobbi natalizi - foto personale
addobbi natalizi – foto personale

Nuova sfida di Scrivere Creativo. Osserva con gli occhi di un bambino questa immagine. usa solo 100 parole. Esatte esatte.
I signori danzano. I domestici portano l’ombrello. La pioggia danza con loro e loro danzano con lei.
Scende e sale la musica che ci avvolge nel suo velo sonoro. Colori e gocce. Il quadro è appeso alla parete.
Che c’è di tanto strano? Forse non hai visto una coppia che volteggia mentre qualcuno li segue con l’ombrello?
Fermati e ascolta. Guarda e pensa. Cosa vedi in quel quadro?
Nulla dice l’adulto, che pare infastidito. Lo strattona ma lui resta lì incantato dai suoni e dai colori. E vola la fantasia.
Sognano gli occhi incantati di un fanciullo che ci osserva.

Davide – una vita

Ragazza - disegno di Veronica
Ragazza – disegno di Veronica

Nostra figlia…” udì in lontananza Davide dietro la porta.

Assurdamente l’eccitazione di vedersela lì davanti viaggiava in parallelo con un dolore cupo che si andava allargando dal petto fino alla gola, che pareva stretta in una morsa.

La aprì e si trovò di fronte Sandra, scarmigliata e col viso rigato di lacrime. Le sensazioni di prima si stavano tramutando in fastidio. ‘Che autorizzazioni ha per comparirmi davanti come un doloroso ricordo del passato?’ si domandò Davide con sguardo accigliato. Si girò di scatto, dandole le spalle.

La porta era aperta, mentre Sandra stava sulla soglia. Lei era lì. Doveva esserci un senso in quella presenza. Davide non lo sapeva ma doveva scoprirlo in fretta. Era un fantasma che si materializzava all’improvviso. Non poteva lasciare dubbi dentro di sé.

Il rumore della porta, che si chiudeva, lo fece sobbalzare. Sandra l’aveva accostata con delicatezza e vi si era appoggiata con la grazia e l’abbandono di un bambino sul punto di assopirsi.

“Tua figlia se ne è andata” aggiunse con un filo di voce.

Troppi concetti per una frase sola, e così breve per giunta, fu il pensiero di Davide.

Come se ne è andata?” domandò, continuando a voltarle le spalle.

Avvertì solo un respiro rauco, interrotto dai singhiozzi. Si voltò per fissare in viso Sandra, che aveva il volto rigato dalle lacrime. Davide avrebbe voluto scuoterla, farsi spiegare quell’affermazione ma non riuscì a dire nient’altro. Si limitò a osservarla.

Lui in piedi impietrito da sensazioni dolorose. Lei accasciata per terra con le spalle appoggiate alla porta.

Davide percepì sul palmo la sensazione di lanugine calda della testolina della sua bambina, quando la portarono su dal nido dopo la nascita. Era grande e teneva su la testa, già curiosa e avida di vedere e sapere. Sandra non sapeva che fosse lì. Non glielo avrebbe permesso. Non poteva non vedere sua figlia, che da poche ore era venuta al mondo.

Era l’unico flash che aveva di lei. Poi un buio che dura da vent’anni. Adesso Sandra si presentava alla sua porta a invocare il suo aiuto. ‘Per cosa?’ si chiese Davide, socchiudendo gli occhi. ‘Se ne è andata, perché è morta oppure per qualche motivo ha lasciato la casa di Sandra?’ Era questo il suo dubbio che Sandra non aveva voluto chiarire. Si girò per osservarla.

Sandra era ancora una bella donna. Aveva cinquant’anni portati con dignità e decoro. Adesso era una pantera grigia, capace di essere una cacciatrice pericolosa. Lui aveva perso qualche capello, mostrando una incipiente calvizia. Quelli che restavano erano bianchi candidi. ‘Ma cosa ha fatto in tutti questi anni?’ sospirò Davide, tornando al quesito irrisolto, mentre corrugava la fronte. ‘Ma ora perché è qui?’

Ritornò indietro negli anni, quando lui e Sandra vivevano insieme. La bella favola era durata poco, schiantata contro un muro, composto da una miriade di incomprensioni, recriminazioni e sospetti. Lui sapeva di non avere nulla di cui vergognarsi, nulla di importante. ‘Ma cosa è rilevante e cosa non lo è in un rapporto a due?’ si era chiesto allora, quando Sandra se ne andò. Era la medesima domanda che stava per rivolgere a se stesso, vedendola con lo sguardo spento di una persona sconfitta.

L’unica certezza era che un giorno Sandra portò via il suo pancione e il suo odore, lasciando i suoi yogurt nel frigo. Da quel momento sparì. Solo casualmente seppe che era nata Sofia, perché un amico medico, che lavorava in ginecologia, lo avvertì del parto di Sandra. Era giusto che lo sapesse.

La corsa in ospedale fu diversa da come l’aveva immaginata. Da solo, col cuore in gola. La sensazione calda di quella testa di bimba, tutta nel suo palmo.

“Mettila giù” disse Sandra con lo sguardo gelido e vigile. “Subito”.

Lei non ebbe bisogno di gesti o di alzare il tono. Era già fin troppo imperiosa così, nonostante avesse partorito da poche ore. D’istinto Davide la strinse al petto.

È anche mia” disse Davide, guardandola di sbieco. “Non puoi dirmi questo”.

“No, non lo è!” fece Sandra, chiudendo gli occhi.

Sofia la vide quel giorno e poi mai più.

Come un dèja vu Davide percepì l’angoscia di quel giorno, il mesto ritorno a casa, il pianto di rabbia e di impotenza. Fu determinato nella voglia di ricostruirsi una vita ma era anche sgomento, perché avvertiva la sensazione di non riuscirci.

Si riscosse. Tornò a guardare quella donna accasciata per terra. Chiedeva un aiuto, ignorandone i motivi. Non aveva spiegato nulla. Solamente che Sofia era andata. ‘Certo non l’ha detto’ fece Davide, avvicinandosi per alzarla da terra, ‘Ma è di sicuro sparita nel nulla come lei da questa casa’.

Formalmente erano ancora marito e moglie. Nessuno dei due aveva chiesto né la separazione, né il divorzio. Strana sensazione provò Davide. ‘È come se fosse rientrata dopo avere fatto la spesa sotto casa’. Scosse il capo, perché alla fine non era cambiata per nulla in questi anni. Era rimasta come la ricordava. Sandra doveva spiegare troppe cose. Dai motivi, per i quali se ne era andata, a cosa aveva fatto in questi vent’anni e per finire perché chiedeva il suo aiuto.

Vieni” le disse Davide, sollevandola per un braccio.

Si sedettero accanto sul divano. Sandra si guardò intorno alla ricerca di ricordi familiari del passato. Ripassò lo sguardo due volte su oggetti e mobilio, senza cogliere nulla di familiare.

È cambiato tutto” sussurrò Davide, che aveva intuito cosa cercasse con gli occhi.

Sandra annuì col capo. Davide aveva cancellato dalla loro casa ogni segno che potesse ricondurla alla loro unione. Lei chiuse gli occhi, perché non voleva umiliare il suo orgoglio con delle lacrime riparatrici.

Davide la sfiorò con lo sguardo, cercando le parole, oltre che ai pensieri, per lenire il suo stato d’animo.

“Racconta” le disse secco. Doveva sapere e finora era rimasto all’oscuro su tutto.

Al resto avrebbero pensato dopo. Agli anni persi, agli abbracci mancati, alla solitudine di uomo single. Per questi ci sarebbe stato tempo alla fine del racconto, adesso c’era altro. Più importante. I motivi per i quali Sofia se ne era andata.

Abbiamo fatto tre giorni fa una litigata feroce” iniziò Sandra con un filo di voce. “Ha sbattuto la porta. Se ne è andata via con la macchina, facendo urlare le gomme”.

Davide sorrise. ‘Come potrebbe Sofia essere diversa dalla madre’ sogghignò divertito. ‘Il DNA non mente’. Ricordava bene le liti furibonde tra loro, che per poco non terminavano con l’arrivo dei carabinieri. Le porte sbattute con violenza. Le sgommate dell’auto. Un copione visto molte volte nei due anni da marito e moglie. Adesso Sofia lo ripeteva con sua madre con le medesime modalità.

E poi?” suggerì Davide per stimolarla a parlare per comprendere i motivi del litigio e del perché Sandra era vicino a lui.

Poi?” disse Sandra, alzando lo sguardo su di lui. “Niente”.

Per lei sembrava sufficiente quello che aveva detto. Era inutile sprecare parole.

Come niente?” fece Davide, spalancando gli occhi per la sorpresa.

Un litigo finito nel nulla. Davide scosse la testa. Sandra non era cambiata. Era sempre la stessa. Quando ritornava, una volta sbollita l’ira, non c’era mai staro niente. Tutto era normale. Semplici incomprensioni sulle quali non c’era nulla da discutere.

Per questo fai una tragedia?” domandò Davide sempre più basito dal comportamento di Sandra. “Se non c’è nulla ma un semplice litigio, perché sei qui vicino a me dopo vent’anni di silenzio?”

Sa tre giorni ignoro dove sia” spiegò Sandra, che si stava ricomponendo e riprendendo il suo aplomb.

Hai provato a cercarla?” chiese Davide, alzando il tono della sua voce. Scosse la testa. ‘Sempre così. Non è cambiata’ pensò, osservandola.

Perché credi che sia qui?” fece Sandra, agitando le mani. “Qui a umiliarmi davanti a te?”

Lui la guardò di sbieco. Si era presentata chiedendo il suo aiuto e adesso affermava di essersi umiliata. Il conto non gli tornava. Non era l’assenza di tre giorni a preoccuparla ma qualcosa che non voleva rivelare. ‘Perché?’ si chiese con lo sguardo accigliato.

Ma il motivo del litigio si conosce?” disse Davide leggermente alterato. “Oppure anche quello è niente?”

Sandra aprì la bocca e poi la richiuse, stringendo le labbra. Davide dava segni di impazienza. Si alzò e camminò nervosamente per la stanza. ‘Che vuole questa donna da me?’ pensò scuro in volto, mentre stava decidendo se metterla alla porta. La sua presenza gli aveva già rovinato la giornata e forse anche i prossimi mesi. Vedendola, l’amore assopito dentro di lui stava rialzando la testa in modo pericoloso. Ci aveva messo del tempo per scacciare la sua immagine dagli occhi ma era stato sufficiente vederla, perché tornasse di prepotenza a galla. Doveva agire prima che fosse troppo tardi.

Stava per afferrare Sandra e scuoterla con vigore, quando il campanello squillò. Si fermò di botto. Guardò in direzione della porta.

Quale altro intruso si permette di rompere?” sbottò irosamente, andando ad aprirla.

C’erano due persone, che si tenevano per mano. Un uomo non più giovane e una ragazza di circa vent’anni, che varcarono la soglia senza curarsi di Davide. Lui rimase impietrito dalla sorpresa e per la rabbia di un’intrusione non gradita senza chiedere il permesso di entrare.

Cosa fai qui?” apostrofò Sandra la ragazza, guardandola.

Come sapevi che ero qui?” ribatté Sandra, che imporporò il viso per la collera.

Davide chiuse la porta e si domandò chi fossero questi due. ‘Perché diventa rossa?’ pensò. Non capiva nulla e sperò che ci fossero delle spiegazioni.

È stata Bea a darmi questo indirizzo” replicò acida la ragazza, che teneva per mano un uomo ben più vecchio di lei. “Quando ho esauriti tutti quelli che conoscevo”.

Solita impicciona, Bea” commentò Sandra, che faticava a controllarsi.

La ragazza finalmente si degnò di osservare Davide, come se fosse lui l’intruso in quella casa. Lo sguardo era fiero e le labbra fremevano per il nervosismo.

E quello chi è?” domandò a Sandra la ragazza, indicandolo col viso.

È tuo padre” disse ridendo.

WordPress mi manda tra lo spam

Da stasera WordPress ha deciso di mettermi in castigo, dietro la lavagna. Il motivo non me l’ha detto ma intanto i miei commenti finiscono nello spam.
Pazienza. Se qualcuno rovista tra i commenti finiti nello spam di certo trova i miei.
Vediamo cosa farà domani.
Buona notte a tutti

Bertrando – Una vita

foto personale
foto personale

Quella voce…

Bertrando si irrigidì, non capiva. Non era possibile, a furia di pensarci, di immaginare, di sognare, di desiderare, ecco, certo, iniziava ad avere le allucinazioni, a sentire le voci. Si appoggiò allo schienale, scacciò con la mano dal viso qualcosa che solo lui poteva vedere, infastidito, quasi fosse sufficiente quel gesto per allontanare i pensieri, i desideri persi in un passato lontano. Ma poi la sentì nuovamente. “Sì, era lei” si disse Bertrando con lo sguardo che spaziava per la stanza, come se cercasse qualcosa che non vedeva. Un appiglio per non sprofondare nell’angoscia. “Oramai ne sono certo. Non posso sbagliare”. Si avvicinò alla porta esitante. Aveva paura di chi stava dietro.

Sconvolto non connetteva bene i pensieri. Gli pareva di avere preso una sbronza. Sì, una ciucca di quelle che ti mettono ko per due giorni, lasciandoti come biglietto da visita un’emicrania feroce. Stralunato, ubriaco da ciò che sentiva salirgli dallo stomaco tornò a sedersi sulla poltrona.

Si prese il viso tra le mani. Chiuse gli occhi, come se fosse sufficiente a non udire. “Non è possibile” sospirò Bertrando, stringendo le labbra. “Una voce dal passato si sta insinuando nella mia testa”. Eppure ricordava con nitidezza che l’aveva chiusa fuori. L’aveva scacciata dai suoi pensieri. Era stato troppo male tanti anni prima. “Cosa vuole?” si domandò incerto se tornare vicino alla porta o ignorarla. “Perché ritorna? Perché mi vuole fare ancora del male?”

Era stata una storia di grandi passioni ma anche di furibonde liti. Erano stati anni che non poteva cancellare. Però quello che gli aveva fatto male. Troppo. A Bertrando si inumidì l’occhio a quel ricordo. “Quello che mi ha fatto male” proseguì nel suo pensiero, “è stata quell’accusa”.

Un vulnus mai sanato. Anni trascorsi a nascondersi, inseguito dai media. Gli amici, se così si potevano chiamare, che gli avevano voltato le spalle come se non l’avessero mai conosciuto. Alla fine l’accusa era caduta ma nessuno se ne accorse. Nessuno gli chiese scusa. Nemmeno lei, accecata dalla sua vendetta.

Quale vendetta?” si chiese, mentre le mani passavano nervose nei radi capelli, che era incanutiti. “Quale sgarbo le ho fatto per accusarmi di quella infamia?”

Era difficile per lui dimenticare. Era impossibile cancellare quei sei mesi rinchiuso in una cella con altri quattro detenuti. Dei tagliagola, dai quali si era dovuto difendere. Era invecchiato di vent’anni, quando finalmente l’avvocato lo fece uscire. Tuttavia la sua vita era rimasta sconvolta. Solo, senza uno straccio di lavoro. Senza una casa, perché la loro era rimasta a lei. Come un barbone andava a dormire nel dormitorio pubblico e scroccava un pasto caldo alla mensa della Caritas. Poi decise che doveva andarsene ma non poteva fino al processo. La giustizia lo voleva giustiziare a fuoco lento. Rosolarlo come un tenero maialino. Un supplizio quotidiano. Un fantasma per tutti, fuorché per la giustizia. Non poteva avvicinarsi a lei, perché avrebbe rischiato di finire nuovamente dietro le sbarre. Non poteva vedere sua figlia, Dalila, perché…

Perché?” si domandò restando bloccato sulla poltrona, mentre quella voce lo torturava. ‘Apri. So che ci sei’.

Non poteva aprire. Doveva ripercorrere il suo calvario. Era riuscito tramite il suo avvocato ad avere un posto come guardiano notturno in una fabbrichetta.

Giorno dopo giorno come una formichina aveva messo da parte qualcosa, che gli avrebbe permesso di ricompensare Arturo, il suo unico amico, il suo avvocato, che aveva capito la sua sincerità. Il resto serviva per il bilocale dove abitava adesso, mentre continuava a frequentare quella mensa di diseredati per risparmiare.

Questo gli aveva permesso di ricostruire la sua identità e avere fiducia in se stesso. C’era ancora il vuoto intorno a lui ma di questo non gliene importava nulla. Poi finalmente arrivò il giorno della resurrezione.

Il signor Benforte è assolto per non avere commesso il fatto”.

Però nessuno lo seppe. Lei non si fece vedere quel giorno, conscia della bugia detta e incapace di osservare il crollo di quel castello di infamie che aveva costruito con pazienza. Arturo gli aveva suggerito di procedere contro di lei per calunnia e diffamazione ma Bertrando era troppo stanco per lottare ancora nelle aule di tribunale. Lasciò perdere. Quel modesto lavoro era sufficiente per sentirsi vivo.

Adesso lei era lì, dietro una porta chiusa. “Cosa vuole ancora da me?” si disse con l’angoscia che montava impetuosa nella sua mente. L’unico modo era aprirle per sentire cosa gli doveva dire. Si alzò, mentre quella voce aveva un filo di implorazione, un qualcosa di anomalo. Non era la solita voce di Nicole, altera e dispotica. Sembrava implorare qualcosa. “Ma cosa?” si domandò, sapendo che la risposta era farla entrare.

Esitò davanti alla porta chiusa. Avvertiva che quella presenza lo avrebbe destabilizzato. Percepiva che non avrebbe portato nulla di buono. Questa sensazione negativa la sentiva nonostante il portoncino fosse chiuso e lui al riparo dietro di esso.

Emanava una forza esiziale verso di lui. La personalità di Nicole lo aveva tormentato nel passato, gli aveva rubato i sogni. Però non era riuscito a cancellare le sensazione che le aveva dato nei cinque anni burrascosi trascorsi con lei.

Tolse la catenella. Sentì il respiro affannoso di Nicole. La mente voleva obbligare la mano a non aprire ma il cuore spingeva nella direzione opposta. Girò il chiavistello, che produsse un frastuono incredibile. “Solo io sento questo rumore?” si chiese ansando per l’emozione. Apri piano. Una piccola fessura.

Nicole era lì, immobile, che sbirciava con i suoi occhi nocciola il viso di Bertrando.

Ti sei deciso ad aprirmi?” fece con un ghigno, storcendo al bocca.

Bertrando scostò il battente quel tanto per vedere il suo viso. Era sempre intatto. Affilato come una lama di coltello. Una piccola fossetta sul mento. I capelli biondi come l’oro vecchio. Un tuffo al cuore. Un ritorno a dieci anni prima, l’ultima volta che l’aveva vista. Era dinnanzi a lui, aspettando che aprisse completamente la porta. Sapeva che lo avrebbe fatto.

Non mi fai entrare?” sussurrò Nicole, come faceva un tempo. “Devo parlarti. Non mi va che tutti sentano le nostre parole”.

Bertrando spalancò l’uscio mettendosi di lato per farla entrare. Poi chiuse con dolcezza la porta.

Si guardarono in silenzio. lui era rigido, ghiacciato. Il suo cuore si era quasi fermato, perché l’emozione gli aveva chiuso la gola. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa ma nessuna gli uscì dalle labbra. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quel viso, quello sguardo, quella pelle, quelle labbra che aveva imparato a memoria. Erano come le poesie che bastava un abbrivio per ricordare ogni parola e inflessione della voce, mentre le declamava con sicurezza.

Sapeva che poi sarebbe stato male ma volle imprimersi tutto nella mente. Per altri giorni, per nuovi ricordi, per notti insonni.

Era bella, magrissima per nulla sfiorita dal tempo. Sembrava che si fosse scordato di lei, che l’avesse solo sfiorata, accarezzata piano, lieve, temendo di sciuparla. Gli occhi erano cambiati, diversi. Più tristi e profondi. Vi si leggeva un dolore radicato in profondità, impossibile da alleviare. Occhi asciutti, senza più lacrime.

“Nicole” mormorò Bertrando.

La lingua sembrava arrotolata, impedendo alle parole di uscire. Avvertiva nel petto un macigno che lo schiacciava, lo opprimeva. Si odiò. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, stringerla, accarezzarla, cullarla, lavare tutto quel dolore che sentiva emanare dalla sua persona. Invece non riuscì a dar voce ai pensieri, rimanendo muto.

“Non mi fai accomodare?” fece Nicole, muovendo per la prima volta gli occhi con filo di curiosità. Girò lo sguardo su quella stanza che fungeva da sala e cucina. Spoglia ma ordinata. “Non è cambiato” si disse Nicole con un sorriso che mostrò le fossette sulle guance. Però immediatamente ridivenne spento, senza luce.

A lui parve che la voce fosse stanca, rassegnata, priva di calore. Intuì che gli doveva annunciare qualcosa, come se stesse compiendo un servizio, qualcosa che non voleva ma che doveva fare.

Bertrando si scostò e la fece accomodare sulla poltrona. Nicole si fermò accanto al tavolo senza sedersi. Diede una nuova occhiata circolare, senza soffermarsi su nulla, indifferente.

Si girò verso quell’uomo, che aveva amato e poi odiato con tutte le sue forze. Le costava fatica e dolore essere al suo cospetto. Fissò il suo viso. Uno sguardo che ricordava Nicole di quell’epoca lontana, quando vivevano insieme. Mandò bagliori, che parevano sfidarlo prima di spegnersi di nuovo.

“Bertrando… tua figlia… nostra figlia… Dalila sta morendo!”