Racconto da B+55. Una sfida

Gianni ha proposto una sfida scrivere un racconto che contenga la lettera B pù di 55 volte. Poiché mi solleticano eccomi col mio raccontino. Non si vince nulla ma provarci mi piace

Foto personale
Foto personale

Una battaglia. Sì, proprio una balorda guerra era quella che aveva opposto Bernardo a Beatrice. Non era chiaro il motivo del litigio dei due amanti. Tutto era iniziato nel bosco nel bel mezzo di una passeggiata, che fino a quel momento era trascorsa lietamente, tenendosi per mano.
«Sei un babbeo» aveva bofonchiato Beatrice, all’improvviso.
«E tu sei un allocco» disse Bernardo, scuotendo il capo. Si pentì quasi subito di avere aperto la bocca. Lui non aveva voglia di litigare con le parole, perché sarebbe finita in baruffa. Era il filo conduttore della loro relazione. Lo sapeva e non riusciva a frenare la lingua.
«Allocco dici a tua madre!» reagì Beatrice aggressiva.
Bernardo batté un piede per terra. Si fermò e frenò la frecciata tranciante che aveva pronto sulle labbra. Lui le scoccò una sguardo torvo e riprese a camminare, come se non avesse sentito la frase.
Beatrice gettò sul sentiero il bastone che teneva in mano con un gesto teatrale. Bollò il compagno come uno, che non meritava la sua attenzione. Le bruciava quella parola “allocco”, dimenticando che lei aveva innescato il litigio, dandogli del “babbeo”. Rimase ferma sul posto, in mezzo al sentiero.
“Sarebbe da beoti litigare per una parola fuori luogo” borbottò Bernardo infastidito. Non ricordava perché gli aveva dato del babbeo. “Non mi fa né caldo, né freddo quel suo biascicare parole in libertà”. Era deciso a non dare seguito al litigio.
Beatrice era basita, perché lui, invece di fermarsi e confrontarsi con lei, aveva scelto di camminare, piantandola in mezzo al sentiero.
«Bernardo!» urlò lei, facendo volare via un paio di uccelli.
Lui si girò di malavoglia. “C’era bisogno di urlare così?” si chiese, mentre pensava alle baggianate che doveva sorbirsi quasi tutti i santi giorni per giustificare le sue intemperanze. Fu investito da una babele di parole senza un filo logico. Pareva un uragano tropicale o forse il crepitare di una mitragliatrice.
«Smettila di fare del baccano inutile!» fece, tentando di moderare il tono. Lo sguardo non prometteva nulla di buono.
Lei spalancò gli occhi. «Baccano?» rispose coi pugni piantati sui fianchi. «Sei un vecchio bacucco! Un baciapile, capace solo di baciare delle zucche bacate!»
Bernardo perse il lume della ragione e la scosse con violenza. «E tu chi credi di essere?» le urlò nelle orecchie. «Una bisbetica irrancidita!»
Detto questo riprese il sentiero. Dentro di lui bolliva l’ira. “Questa è la sua ultima piazzata!” mormorò fra sé. “Ha chiuso con me!”
Lei lo guardò impietrita allontanarsi. Corse a perdifiato fino a raggiungerlo.
«Pace?» e lo baciò sulla bocca.

Un’emozione indelebile: la prima guida

tratta dal web - Conceptcarz.com
tratta dal web – Conceptcarz.com

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.

Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.

Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.

Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica. Nessuna intenzione di produrre la lista delle varianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.

Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero. Da quel attimo topico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonio che il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.

Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.

Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.

Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.

Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.

Poco distante stava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.

Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,

Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazioni senza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.

Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.

Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.

A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.

Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.

Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.

Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.

La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.

Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.

Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.

Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.

Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.

Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.

Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.

Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.

Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.

L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

Un'emozione indelebile: la prima guida

tratta dal web - Conceptcarz.com
tratta dal web – Conceptcarz.com

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica. Nessuna intenzione di produrre la lista delle varianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.
Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero. Da quel attimo topico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonio che il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.
Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.
Poco distante stava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazioni senza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.
La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.
Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

Leggere non è peccato

LEGGERE NON È PECCATO
LEGGERE NON È PECCATO

L’amico Marco Freccero ha scritto questo post, che riprende l’iniziativa di due blogger, che non conoscevo. Silvia Algerino (Lettore creativo) e da Nadia Banaudi (Svolazzi e scritture). Potevo mancare? Giammai! E cercherò di essere serio.
Si rispondono a tre domande.
1 – Quali sono i 3 motivi che ti spingono a leggere?
Solo tre? Va bene, ho promesso di essere serio.
Leggere mi piace. Credo d’averlo scritto un altra volta ma fin da piccolo, tre o quattro anni leggevo il Corrierino dei Piccoli alla rovescia, ovvero capovolto 😀 Naturalmente io non lo ricordo ma l’ho sentito raccontare tante volte da mia madre e mia sorella. Però quando ho cominciato a far di conto, leggere per me era un piacere che mi dava una grande soddisfazione. Ancora oggi non ho smesso. Sono un peccatore incallito?
Leggere mi ha consentito di crescere e maturare, di soddisfare la mia curiosità di lettore. Ero scarso in italiano ma la lettura mi ha consentito di migliorare la mia scrittura. Leggere ha attivato quel processo, per cui ancora oggi, sono curioso di apprendere. In quale girone infernale Dante mi sbatte?
Sono un lettore compulsivo. Non so più dove mettere i libri. Gli ebook non mi danno la stessa adrenalina del cartaceo, anche se ne ho un discreto numero. Leggere è quasi una droga. Un paio di pagine alla sera mi fanno addormentare sereno. Un paio alla mattina mi mettono di buon umore. Immagino che il diavolo non mi voglia nel suo inferno 😀
Quali sono i 3 libri che consiglieresti a chi non legge?
Bella domanda! Ma visto che ho tenuto a bada la voglia di fare battute, vengo al sodo
1- Le cosmicomiche di Italo Calvino
2- la trilogia degli antenati  – Il barone rampante, Il visconte dimezzato, il cavaliere inesistente – di Italo Calvino
3 – Tutte le opere di Gianni Rodari
In effetti la lista sarebbe lunghissima ma mi sono moderato.
Quali sono le 3 azioni che identifichi con il peccato?
bestemmiare – non pensiate che sia un cattolico praticante ma odio sentire bestemmiare
egoismo – non sono un altruista, anzi, ma il pensare solo a se stesso non riesco a sopportarlo.
mancanza di valori – in una società che rotola sempre più in basso per la mancanza di valori, ideali lo vedo come un peccato
 
Le iscrizioni termina il 3 settembre. Pare che ci sia anche un premio. Ma per me conta dare un apporto alla lettura.
Nono ho ancora capito come ci si iscrive ma ci provo.
Buone letture a tutti
 

Forza Inter!

tratto da www.bikez.com - Honda 400 del 1980
tratto da www.bikez.com – Honda 400 del 1980

Alma era una giovane ragazza di ventisette anni di Mantova dai lunghi capelli neri che incorniciavano un bel viso allungato. Aveva due passioni l’Inter e il motociclismo.

La passione per l’Inter era nata per caso, quando undicenne cominciò a uscire nelle sere di estate. Abitava in un paesino del mantovano dove c’era un bar latteria che ospitava nelle sue sale o sotto il pergolato di vite tutti i giovani e gli uomini del paese e di quelli vicini. D’estate vendeva soprattutto gelati e granite di tipo artigianali. D’inverno caffè corretti col grappino. I due gusti si annullavano a vicenda, così il pessimo caffè era annacquato da una scadente grappa.

Il bar latteria era l’unico posto di ritrovo nel raggio di decine di chilometri. Appoggiati ai grossi platani stavano le biciclette e i motorini in modo caotico. Gli uni addossati agli altri. Le macchine, poche a dire il vero, parcheggiavano nello spiazzo antistante la canonica.

Alma, dunque nelle sere d’estate, andava lì con un paio di amiche e si sedeva al tavolo, consumando un gelato alla crema. Aveva solo undici anni ma era già curiosa dei fatti della vita. Ascoltava i discorsi delle persone, che sorbivano la granita alla menta o al tamarindo. Suoni gutturali e fastidiosi ma era attratta dalla strana processione, che facevano i ragazzi e le ragazze verso i due viottoli laterali, illuminati solo dalla luna, quando c’era. Si muovevano alla spicciolata salvo le coppie più adulte che si incamminavano abbracciati. Dopo un tempo, che non riusciva a quantificare, li vedeva di ritorno. Capelli arruffati, vestiti stazzonati e stropicciati. Le ragazze avevano un viso rosso accaldato. I ragazzi ansavano come mantici.

Non capiva, perché, anziché restare lì a godersi il fresco della sera, erano sempre accaldati e sudati, come se avessero fatto dieci chilometri di corsa. Ne parlava con le due o tre amiche, che venivano lì con lei senza ottenere risposte chiare. Giri di parole evanescenti, rossori e balbettii inspiegabili. Maria faceva le spallucce, come a dire ‘chi se ne frega’. Orietta, diventata rossa come un pomodoro, gesticolava in modo strano e borbottava qualcosa che non assomigliava a parole. Zoe, che aveva una sorella maggiore, frequentatrice assidua dei viottoli, diceva maliziosa ‘fanno all’amore. Vedrai fra qualche anno capiterà anche a te’. Alba, la sorella di Zoe, non si appartava sempre con lo stesso ragazzo ma lo cambiava di frequente. Alma ascoltava dei discorsi, oscuri per lei, su Alba. Non osava chiedere a Zoe, perché tanti uomini parlassero così di sua sorella con parole e gesti che non comprendeva nella loro interezza. Però quello, che capiva meno, erano le risate oscene che facevano al termine delle battute. Avrebbe voluto sapere ma le amiche avevano smesso di rispondere alle sue domande, cambiando argomento.

Ma come è nata la passione per l’Inter, vi chiederete. Un minuto di pazienza e ve lo spiego’ scrisse sul suo blog.

L’anno successivo Alma cominciò a svilupparsi, a diventare una ragazza. I primi filarini, i primi baci strappati al buio, il corpo che prendeva forma. Niente di che, finché a tredici anni cominciò a fare coppia fissa con Aldo, un ragazzo, più vecchio di lei. Arrivò l’estate e iniziò le frequentazioni del bar latteria. C’era il solito via vai verso i viottoli oscuri, quando una sera di luglio Aldo le sussurrò in un orecchio. “Tra cinque minuti mi raggiungi là”. Indicando col capo lo stradello di destra. “Fai cinquanta passi. Sarò alla tua sinistra. Siamo soli io e te”.

Alma ebbe un sussulto, perché finalmente avrebbe capito cosa facevano i ragazzi e le ragazze nel buio delle sera. Aveva un vestito leggero che si apriva davanti e sotto aveva solo delle mutandine leggere di cotone, perché il reggiseno d’estate faceva caldo. ‘Per quei due pomini acerbi che ho, non serve’ diceva a Zoe, che invece aveva un seno formoso e poco sodo ed era costretta a usarlo.

Col cuore a mille, incerta e timorosa che qualcuno la vedesse, fece un largo giro prima di inoltrarsi nel viottolo. Respirava a fatica per l’emozione. La gola era secca come se avesse attraversato il deserto. Si guardava intorno, sperando di non incontrare nessuno. Molte volte si era fermata con la tentazione di tornare indietro. Tutte le paure sparirono, quando infilò lo stradello che portava nei campi di mais. Era buio pesto senza la luna in cielo. Non vedeva nulla, inciampando in continuazione in ostacoli che non riusciva a evitare. Sembrava di avere camminato un’eternità nell’oscurità, sentendo gemiti, sospiri e gridolini in mezzo ai campi. Si stava pentendo di avere accettato l’invito di Aldo, quando sentì la sua voce. “Sono qui. Non mi vedi? A sinistra”. Poi una mano la afferrò rudemente per le spalle e la trascinò a terra senza troppi complimenti. Sentì l’umido della terra bagnata sulle spalle nude e le zolle irregolari che premevano sulla schiena. La sorpresa le impedì di dire qualcosa. Non si era ancora riavuta, quando avvertì due mani impazienti che stavano sbottonando il vestito e le abbassò le mutandine. Poi cominciarono a frugare tra il seno e le cosce in maniera frenetica. Non udì una sola parola ma solo il respiro affannoso del ragazzo. Alma era paralizzata da sensazioni che non riusciva a quantificare. Le parole restavano nella gola senza uscire. Niente di piacevole ma solo fastidio. Avrebbe voluto alzarsi e andarsene, quando avvertì il corpo di Aldo che premeva su di lei con forza, togliendole quasi il respiro. La sua bocca e la sua lingua le bagnavano viso e collo, mentre percepiva qualcosa di duro che si stava strofinando con vigore sul basso ventre. ‘È questo fare all’amore?’ pensò, mentre passiva subiva le attenzioni di Aldo. Non terminò il pensiero che un attimo dopo lo sentì inerte e ansante, mentre la pancia e le cosce si inumidivano con qualcosa di vischioso.

Alma non aveva provato nulla e avvertiva solo un senso di sporco addosso. Si alzò in silenzio, rimise la mutandine al suo posto e riabbottonò il vestito. Si avviò senza aspettarlo verso il bar latteria. Senza salutare le amiche andò a casa.

Quella fu la prima e l’ultima volta che seguì un ragazzo in quei viottoli, perché aveva capito che non avrebbe provato nessun piacere. Da quella sera preferì mettersi vicino a un gruppo di uomini, che discuteva animosamente del calcio mercato. Fu così che imparò a conoscere l’Inter, la grande Inter di Herrera, che aveva vinto tutto quello che si poteva vincere nei favolosi anni sessanta. Imparò a distinguere l’ala dal mediano, il cross dal passaggio in area.

Sentì parlare di Angellilo, il bomber, di Sandro Mazzola, l’antagonista del milanista Rivera, di Burgnich, la roccia, di Facchetti, il gigante buono, di Jair, la gazzella brasiliana.

Il lunedì comprava la Gazzetta per leggere dei suoi idoli, delle loro interviste. Crebbe diventando una donna e con lei la passione interista. Nel bar latteria nelle sere d’inverno partecipava attivamente alle animate discussioni tra interisti, milanisti e juventini. Vedeva alla TV novantesimo minuto e la Domenica sportiva. Era l’unica donna in mezzo a tutti quei maschi. Qualche volta andò con loro a San Siro per vedere dal vivo la sua Inter.

Finite le scuole professionali, trovò lavoro come operaia in un’azienda dei dintorni e trasferì lì la sua passione. Ai primi anni del ventunesimo secolo decise di aprire un blog dal titolo profetico ‘FORZA INTER’. Qui poté sfogare con le parole il tifo per la squadra del cuore: entusiasmo per le vittorie, delusione per sconfitte.

Se L’Inter era la grande passione di Alma, le moto era l’altra, non meno intesa. Aveva da poco compiuto diciannove anni e frequentava Alberto, un ragazzone con la passione per le corse in moto. Alberto la convinse a seguirlo a Monza, dove nell’autodromo c’erano le gare di SuperBike, SBK come diceva lui. Non era molto entusiasta stare per ore sotto il sole cocente coi tappi nelle orecchie. Si erano sistemati in un punto strategico dove si potevano assistere a sorpassi mozzafiato a trecento chilometri all’ora. All’inizio era rimasta fredda ma poi avvertì un brivido e l’adrenalina salire a mille nel vedere quegli spericolati a superarsi in curva a velocità folle. Si dimenticò di Alberto, si appassionò a Colin Edwards e Pierfrancesco Chili. E non solo loro. Ma si innamorò della Honda. Mentre tornavano a Mantova, senza voce e accaldata per il sole dei due giorni, accarezzò l’idea di comprarsi una di quelle moto rombanti e lucide. Costavano troppo per le sue esigue finanze, perché aveva appena iniziato a lavorare da un anno.

Quando alcuni anni dopo riuscì a comprarsela, non quella dei sogni ma una Honda rossa 400 usata, cominciò a girare per le strade intorno a Mantova e al lago di Garda.

Per lei la moto era libertà e vento in faccia. Guardare il mondo come gli altri non potevano apprezzare. L’adrenalina della velocità e la bellezza dei paesaggi. L’asfalto, che si avvicinava in piega, e le gomme mangiate dopo chilometri di curve. La moto era una droga speciale, un amante da coccolare!

La passione era diventata per lei un sentimento che le veniva dal profondo del cuore. Un amore corrisposto. Per lei era un qualcosa che le dava ossigeno nei momenti non rosei e le consentiva di superare le difficoltà quotidiane.

Cominciò, dopo quel fine settimana, ad assistere agli appuntamenti italiani di SBK e del campionato mondiale di motociclismo, senza perderne uno. Andava con un gruppo di appassionati come lei. Partivano il venerdì sera per Milano, per il Mugello, per Misano od ovunque si tenesse la gara con le tende e tanto entusiasmo. Si bivaccava ai margini del circuito con altri venuti dall’Italia e dall’estero intorno al fuoco, cantando, mangiando e bevendo. Tutti insieme assistevano alle prove e alle gare, ognuno tifando per il proprio idolo. La rivalità era sana. Si gioiva o si disperava, se il proprio campione vinceva o perdeva. La domenica sera, al termine delle gare, ognuno tornava a casa contento e felice per le giornate trascorse in allegria e compagnia.

Da quando possedeva la sua Honda rosso fuoco, non faceva più il passeggero sulla moto del suo ragazzo. Preferiva guidarla lei la sua moto, e stare nel gruppo dei bikers. Era una delle poche donne che guidavano, le altre erano passeggeri.

Guidare per Alma era un insieme di sensazioni talmente intense che non poteva descriverle in modo preciso. Una voglia pazzesca di libertà si impadroniva tutte le volte che era in sella. Avvertiva una scossa di adrenalina, che partiva dal cervello e arrivava fino alla punta dei piedi, ogni volta che apriva il gas. Un’emozione che niente al mondo riusciva trasmetterle.

La passione per la moto era per Alma amore e voglia di uscire dagli schemi, quando sentiva il motore salire di giri, quando provava l’ebbrezza della velocità, quando pennellava a dovere la curva. Era il simbolo della libertà conquistata, dell’indipendenza dal resto del mondo, della fantasia che si svegliava con il motore acceso.

Era una sensazione così forte che la eccitava, ancor più rispetto a fare all’amore col suo ragazzo. La faceva sentire bene e le toglieva dalla mente i problemi quotidiani.

La moto era la sua droga, che la prendeva in misura crescente e le impediva di restarne senza.

Elena world’s

Tratto da ilturista.info
Tratto da ilturista.info

L’azzurro del cielo impallidiva, accecato dal sole di luglio che da giorni picchiava duro. Nei giorni scorsi la temperatura aveva sfiorato i quaranta gradi e il vento era una lama rovente. Nella giornata odierna non sarebbe arrivato nulla a mitigare il clima. Questo lo sapeva anche Elena, quando si avviò verso l’Università. Indossava un vestito leggero di lino bianco e calzava dei sandali bassi. I capelli raccolti dietro la nuca. Occhiali da sole per attenuare il riverbero della luce violenta di luglio.

Per lei oggi era importante: il giorno della laurea, attesa da cinque anni. Il 16 Luglio 2004 si sarebbe laureata in lingue con una tesi tutta in inglese sui grandi poeti britannici. Era stata preparata con cura nei mesi precedenti in tutti i dettagli, compresa la pronuncia. Per migliorarla aveva trascorso a maggio tre settimane a Londra. Un full immersion nello spirito british. Che magnifica vacanza! Quanti ricordi piacevoli! Non era la prima volta che andava all’estero. Era stata con gli amici in Grecia e in Croazia, con un gruppo di studenti di lingue a Malta e Monaco di Baviera in un progetto di scambio tra università europee. Però mai le era stato permesso di fare un viaggio fuori dell’Italia senza il contorno di persone conosciute e fidate. Questa volta ci andava sola soletta senza accompagnatori o guardie del corpo,

I genitori non avevano visto di buon occhio queste tre settimane da affrontare senza il supporto di persone affidabili. Non erano propensi, perché, secondo loro, lei avrebbe rischiato di incappare in mille pericoli. Pensavano che una giovane ragazza di ventitré anni avrebbe fatto chissà quali e quanti brutti incontri in una grande metropoli piena di insidie. Stupri, violenze, sequestri e, mah!, quant’altro ancora. Elena invece era eccitata e non vedeva l’ora di imbarcarsi per Londra. Anche il viaggio in aereo era per lei una novità. Insomma quante nuove esperienze erano concentrate in queste tre settimane!

Era arrivata la prima volta anche per lei… Inghilterra e Londra, una città, vista finora nelle cartoline e basta, un autentico mito. Racconti fantasiosi, meraviglie da esplorare e gustare. Erano gli ingredienti delle narrazioni di chi c’era stato o millantava di esserci andato. Tuttavia era difficile spiegare a un osservatore esterno, cosa provava alla vigilia della partenza Elena, una laureanda in lingue, che raggiungeva un sogno cullato da molti anni.

Il battesimo del volo andò benissimo senza problemi o apprensioni particolari. La partenza non le mise i brividi, come Giulia, un’amica, le aveva detto. Si sentì proiettata verso il cielo, mentre la terra si allontanava sotto con rapidità. Le Alpi dai colori scuri, macchiate qua e là da puntini bianchi. Il verde dei boschi della Francia. Un braccio di mare, superato in un baleno. Poi la picchiata verso Heathrow. A terra le fece impressione l’aeroporto, immenso e pieno di gente di tutte le razze e nazionalità, dove era facile perdersi nei corridoi, punteggiati di ricchi negozi. Un autentico porto di mare, che dista un quarto d’ora da Londra Paddington, prendendo Heathrow Express. Durante il trasferimento in treno ebbe modo di conoscere e apprezzare la verde campagna inglese. A maggio è nel suo massimo splendore. Gliene avevano parlato ma la vista superò di gran lunga le descrizioni. Sarebbe stato difficile esprimere con parole quello che lo sguardo vedeva.

Aveva prenotato una camera in un hotel nel centro a Londra. Giunta a Paddington doveva prendere due metrò, i famosi “tube” londinesi, scendendo a Bond Street. Il primo impatto con questi mitici mezzi di trasporto fu forte, perché sono diversi dalle U-bahn di Monaco di Baviera, bianche quasi asettiche. Qui erano tutto un colore dagli ingressi alle carrozze. Era impossibile il paragone con la metropolitana romana, sporca e asfissiante per il calore. Sotto la superficie di Londra si respirava aria pulita e fresca. Già da subito aveva cominciato ad amare questa città. L’impatto l’aveva stordita favorevolmente.

Scesa a Bond Street, Elena camminò col naso all’insù per la curiosità di osservare tutto quello che la circondava. Una breve passeggiata la condusse in Manchester Street, dove stava l’omonimo hotel. Quello che per tre settimane sarebbe stata la sua casa. L’albergo era carico di anni. Un grazioso edificio del 1919 in mattoni rossi, piccolo e raccolto, vicinissimo a famosi locali di attrazione e di shopping, a due passi da Regent’s Park e dalle sponde del Tamigi.

Era mattino inoltrato, quando si presentò alla reception del Hotel per espletare le incombenze della registrazione. Elena scalpitava per tornare fuori, per conoscere Londra. La stanza non era grande ma comoda e funzionale. Deposti i bagagli, una breve rinfrescata, un cambio di vestiti per stare più comoda e via per le strade di Londra a fare la turista. La giornata odierna l’avrebbe sfruttata per fare conoscenza con questa città, che amichevole le stava dando del tu. Dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, perché doveva frequentare la scuola per perfezionare la sua dizione e per approfondire le basi grammaticali e sintattiche.

Al termine del secondo giorno le era bastato per capire che tre settimane non sarebbero state sufficienti per godersi Londra nella sua interezza.

La scuola ospitava circa ottocento studenti, provenienti da oltre sessanta paesi. Tutti impegnati a rifinire la loro pronuncia e la conoscenza della lingua.

Una babele di idiomi e persone diverse tra loro per cultura e abitudini. Elena si guardò intorno smarrita. ”Non mi basteranno le tre settimane per conoscerli tutti!”.

Il pacchetto che aveva scelto prevedeva, oltre a dieci ore di intenso studio in aula, anche molteplici attività. La giornata cominciava presto e finiva tardi senza un attimo di sosta. Una frenesia senza fine. Tra queste l’aspettava la gita in barca sul Tamigi, visitare monumenti e musei, trascorrere alcune serate al pub insieme ai compagni. Tuttavia non era tutto, perché nei momenti di libertà, pochi a dire il vero, voleva andare in giro per la città a fare shopping.

La gita sul Tamigi fu emozionante ma non solo. Fu un qualcosa che superò la sua immaginazione. Aveva pensato, leggendo il depliant che fosse la solita uscita su un barcone, come talvolta le era capitato d’estate sulle spiagge del Gargano. In realtà l’enorme imbarcazione, che solcava lentamente un fiume sporco e grigio, sembrava più una discoteca semovente che la classica barca turistica. Ragazze e ragazzi ballavano sotto raffiche di musica sparate a mille watt tra luci al laser e ombre cinesi, intervallate da una breve sosta nel capiente ristorante posto nella parte superiore. Musica, birra, allegria mescolate tra loro come ingredienti di una torta della nonna accompagnarono questa serata speciale, tanto che per molti mesi a Elena rimase stampata nella sua mente, mentre faceva il resoconto agli amici.

Come conviene in tutte le aule scolastiche, Elena aveva stretto amicizia con un gruppetto di ragazze e ragazzi di colore e razze diverse, con cui trascorreva gran parte del suo scarso tempo libero. Per magia scoccò quell’empatia che rende familiare la vicinanza e l’affiatamento, nonostante le palesi differenze esistenti tra loro di linguaggio e cultura. Però lo stare insieme, il trascorrere le ore libere in gruppo cementò la loro amicizia, superando tutte le diversità e le barriere culturali e religiose.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche queste tre settimane finirono. Anzi volarono via in un baleno. A Elena sembrò ieri di essere atterrata a Heathrow. ”Tutte le esperienze, che per un attimo ti portano via dal mondo in cui vivi, ti restano per sempre nel cuore” si disse, mentre preparava il bagaglio per tornare a casa. “Al di là del posto in sé, che alla fine resta lì immutabile, si può tornare sempre a Londra. Ma per quanto si possa pianificare il ritorno, non sarà mai come queste tre settimane. È il momento che conta, sono le persone che incontri, che costituiscono almeno il 70% di ciò che vivrai. La stessa cosa è stata per i miei due mesi a Monaco di Baviera, le mie tre settimane a Malta. Niente sarebbe stato senza le persone che hanno incrociato il mio cammino”.

Il rientro fu con tanti rimpianti e molti abbracci. “Scrivimi” fece col gruppo di amici, ben sapendo che dopo un po’ i contatti si sarebbero sfilacciati. ”Alla prossima volta, Londra!” disse mentre l’aereo si staccava da terra.

Le giornate di esercizio con la lingua, con le prove di esposizioni, con le registrazioni della sua voce riempirono i giorni che mancavano alla laurea. Il 16 luglio Elena festeggiò con i genitori e gli amici il traguardo raggiunto.

Era felice ma preoccupata, perché sarebbe cominciata la parte più difficile della sua vita. Finita la sbornia dei festeggiamenti, delle meritate vacanze senza il pensiero degli esami autunnali, si domandò inquieta e smarrita: ”Che lavoro intraprenderò?”

I genitori premevano, affinché lei trovasse un’occupazione nella scuola. Questo non era il suo pensiero e nemmeno l’obiettivo a breve. La domanda continuava a ballare nella testa di Elena. Si piegò malvolentieri alle loro pressioni e presentò alle scuole medie e superiori, disseminate nel Gargano, la domanda per insegnare lingue (inglese o tedesco). Non aveva molte speranze, che fossero accolte. Anzi in cuor suo avrebbe voluto che la chiamata non arrivasse mai. Invece, ironia della sorte, le diedero un incarico annuale in una scuola media di un paesino non molto distante da San Severo, dove risiedeva. Accettò a denti stretto solo per accontentarli.

Iniziò a insegnare.

L’anno scolastico fu travagliato, perché non riuscì a tenere a bada quei ragazzini, che la mettevano in difficoltà nonostante avessero solo dodici anni. Finii a giugno stremata e stressata. La sua corporatura già esile di per sé divenne ancora più diafana. Era sull’orlo di una crisi depressiva. Durante i mesi estivi cancellò dalla mente la scuola, sperando che il nuovo anno cominciasse senza di lei. Avrebbe avuto la scusa valida per dedicarsi alla ricerca di un lavoro, che lei definiva “serio”. Le sue preghiere non furono esaudite e si ritrovò con un altro incarico in un paesino della provincia di Foggia.

Se il primo anno fu angosciante, il secondo fu un’esperienza terribile. Quei ragazzini erano davvero delle pesti e i genitori ancora di più. Aveva degli incubi notturni e, quando prendeva la macchina per arrivare a scuola, era preda di attacchi di panico. Sull’orlo di una crisi di nervi, decise di cercare un posto come receptionist in uno dei tanti hotel della costa pugliese e di chiudere l’esperienza disastrosa nella scuola. Non ci pensò due volte: alla conclusione dell’anno scolastico sarebbe partita la ricerca. Addio scuola. Addio ragazzini pestiferi e mortiferi. Addio genitori invadenti e permalosi.

Non fu facile ma, come tutte le esperienze di ricerca di lavoro, le permise di acquisire esperienza nel trattare con le persone. Fece numerosi colloqui, conobbe molti albergatori e alla fine fu premiata. Un hotel, che lavorava prevalentemente con clientela straniera, praticamente tutto l’anno, la assunse in prova, vista l’ottima conoscenza del tedesco e dell’inglese.

Così terminò la sua carriera di insegnante e iniziò quella di receptionist.

L’hotel era molto grande e dotato di molte risorse: dalla piscina alla palestra, dalla sauna al kindgarten, dagli animatori agli insegnanti di ballo. Si trovava sulla costa, nella zona di Peschicci, ed era un grande edificio con annessi bungalow e piccole costruzioni destinate al divertimento in tutto immerso nel verde.

Le erano stati offerti due locali con bagno nel seminterrato dell’edificio principale, dove all’occorrenza poteva trattenersi per la notte o riposarsi durante le pause.

All’inizio non pensava che dopo il periodo di prova la confermassero, perché aveva pasticciato in più di una occasione ma con suo grande stupore e gioia le dissero che sarebbe rimasta.

Il personale era numeroso anche nei momenti di maggiore calma, perché era come un minuscolo villaggio. Con alcuni di loro legò fin da subito, con altri i rapporti rimasero freddi e distaccati.

Col primo stipendio si fece un regalo: un bel portatile su cui scrivere tutto quello che le passava per la mente tanto da diventare il suo compagno fidato e inseparabile.

Questi sono stati i suoi primi appunti.

Elena world's

Tratto da ilturista.info
Tratto da ilturista.info

L’azzurro del cielo impallidiva, accecato dal sole di luglio che da giorni picchiava duro. Nei giorni scorsi la temperatura aveva sfiorato i quaranta gradi e il vento era una lama rovente. Nella giornata odierna non sarebbe arrivato nulla a mitigare il clima. Questo lo sapeva anche Elena, quando si avviò verso l’Università. Indossava un vestito leggero di lino bianco e calzava dei sandali bassi. I capelli raccolti dietro la nuca. Occhiali da sole per attenuare il riverbero della luce violenta di luglio.

Per lei oggi era importante: il giorno della laurea, attesa da cinque anni. Il 16 Luglio 2004 si sarebbe laureata in lingue con una tesi tutta in inglese sui grandi poeti britannici. Era stata preparata con cura nei mesi precedenti in tutti i dettagli, compresa la pronuncia. Per migliorarla aveva trascorso a maggio tre settimane a Londra. Un full immersion nello spirito british. Che magnifica vacanza! Quanti ricordi piacevoli! Non era la prima volta che andava all’estero. Era stata con gli amici in Grecia e in Croazia, con un gruppo di studenti di lingue a Malta e Monaco di Baviera in un progetto di scambio tra università europee. Però mai le era stato permesso di fare un viaggio fuori dell’Italia senza il contorno di persone conosciute e fidate. Questa volta ci andava sola soletta senza accompagnatori o guardie del corpo,

I genitori non avevano visto di buon occhio queste tre settimane da affrontare senza il supporto di persone affidabili. Non erano propensi, perché, secondo loro, lei avrebbe rischiato di incappare in mille pericoli. Pensavano che una giovane ragazza di ventitré anni avrebbe fatto chissà quali e quanti brutti incontri in una grande metropoli piena di insidie. Stupri, violenze, sequestri e, mah!, quant’altro ancora. Elena invece era eccitata e non vedeva l’ora di imbarcarsi per Londra. Anche il viaggio in aereo era per lei una novità. Insomma quante nuove esperienze erano concentrate in queste tre settimane!

Era arrivata la prima volta anche per lei… Inghilterra e Londra, una città, vista finora nelle cartoline e basta, un autentico mito. Racconti fantasiosi, meraviglie da esplorare e gustare. Erano gli ingredienti delle narrazioni di chi c’era stato o millantava di esserci andato. Tuttavia era difficile spiegare a un osservatore esterno, cosa provava alla vigilia della partenza Elena, una laureanda in lingue, che raggiungeva un sogno cullato da molti anni.

Il battesimo del volo andò benissimo senza problemi o apprensioni particolari. La partenza non le mise i brividi, come Giulia, un’amica, le aveva detto. Si sentì proiettata verso il cielo, mentre la terra si allontanava sotto con rapidità. Le Alpi dai colori scuri, macchiate qua e là da puntini bianchi. Il verde dei boschi della Francia. Un braccio di mare, superato in un baleno. Poi la picchiata verso Heathrow. A terra le fece impressione l’aeroporto, immenso e pieno di gente di tutte le razze e nazionalità, dove era facile perdersi nei corridoi, punteggiati di ricchi negozi. Un autentico porto di mare, che dista un quarto d’ora da Londra Paddington, prendendo Heathrow Express. Durante il trasferimento in treno ebbe modo di conoscere e apprezzare la verde campagna inglese. A maggio è nel suo massimo splendore. Gliene avevano parlato ma la vista superò di gran lunga le descrizioni. Sarebbe stato difficile esprimere con parole quello che lo sguardo vedeva.

Aveva prenotato una camera in un hotel nel centro a Londra. Giunta a Paddington doveva prendere due metrò, i famosi “tube” londinesi, scendendo a Bond Street. Il primo impatto con questi mitici mezzi di trasporto fu forte, perché sono diversi dalle U-bahn di Monaco di Baviera, bianche quasi asettiche. Qui erano tutto un colore dagli ingressi alle carrozze. Era impossibile il paragone con la metropolitana romana, sporca e asfissiante per il calore. Sotto la superficie di Londra si respirava aria pulita e fresca. Già da subito aveva cominciato ad amare questa città. L’impatto l’aveva stordita favorevolmente.

Scesa a Bond Street, Elena camminò col naso all’insù per la curiosità di osservare tutto quello che la circondava. Una breve passeggiata la condusse in Manchester Street, dove stava l’omonimo hotel. Quello che per tre settimane sarebbe stata la sua casa. L’albergo era carico di anni. Un grazioso edificio del 1919 in mattoni rossi, piccolo e raccolto, vicinissimo a famosi locali di attrazione e di shopping, a due passi da Regent’s Park e dalle sponde del Tamigi.

Era mattino inoltrato, quando si presentò alla reception del Hotel per espletare le incombenze della registrazione. Elena scalpitava per tornare fuori, per conoscere Londra. La stanza non era grande ma comoda e funzionale. Deposti i bagagli, una breve rinfrescata, un cambio di vestiti per stare più comoda e via per le strade di Londra a fare la turista. La giornata odierna l’avrebbe sfruttata per fare conoscenza con questa città, che amichevole le stava dando del tu. Dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, perché doveva frequentare la scuola per perfezionare la sua dizione e per approfondire le basi grammaticali e sintattiche.

Al termine del secondo giorno le era bastato per capire che tre settimane non sarebbero state sufficienti per godersi Londra nella sua interezza.

La scuola ospitava circa ottocento studenti, provenienti da oltre sessanta paesi. Tutti impegnati a rifinire la loro pronuncia e la conoscenza della lingua.

Una babele di idiomi e persone diverse tra loro per cultura e abitudini. Elena si guardò intorno smarrita. ”Non mi basteranno le tre settimane per conoscerli tutti!”.

Il pacchetto che aveva scelto prevedeva, oltre a dieci ore di intenso studio in aula, anche molteplici attività. La giornata cominciava presto e finiva tardi senza un attimo di sosta. Una frenesia senza fine. Tra queste l’aspettava la gita in barca sul Tamigi, visitare monumenti e musei, trascorrere alcune serate al pub insieme ai compagni. Tuttavia non era tutto, perché nei momenti di libertà, pochi a dire il vero, voleva andare in giro per la città a fare shopping.

La gita sul Tamigi fu emozionante ma non solo. Fu un qualcosa che superò la sua immaginazione. Aveva pensato, leggendo il depliant che fosse la solita uscita su un barcone, come talvolta le era capitato d’estate sulle spiagge del Gargano. In realtà l’enorme imbarcazione, che solcava lentamente un fiume sporco e grigio, sembrava più una discoteca semovente che la classica barca turistica. Ragazze e ragazzi ballavano sotto raffiche di musica sparate a mille watt tra luci al laser e ombre cinesi, intervallate da una breve sosta nel capiente ristorante posto nella parte superiore. Musica, birra, allegria mescolate tra loro come ingredienti di una torta della nonna accompagnarono questa serata speciale, tanto che per molti mesi a Elena rimase stampata nella sua mente, mentre faceva il resoconto agli amici.

Come conviene in tutte le aule scolastiche, Elena aveva stretto amicizia con un gruppetto di ragazze e ragazzi di colore e razze diverse, con cui trascorreva gran parte del suo scarso tempo libero. Per magia scoccò quell’empatia che rende familiare la vicinanza e l’affiatamento, nonostante le palesi differenze esistenti tra loro di linguaggio e cultura. Però lo stare insieme, il trascorrere le ore libere in gruppo cementò la loro amicizia, superando tutte le diversità e le barriere culturali e religiose.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche queste tre settimane finirono. Anzi volarono via in un baleno. A Elena sembrò ieri di essere atterrata a Heathrow. ”Tutte le esperienze, che per un attimo ti portano via dal mondo in cui vivi, ti restano per sempre nel cuore” si disse, mentre preparava il bagaglio per tornare a casa. “Al di là del posto in sé, che alla fine resta lì immutabile, si può tornare sempre a Londra. Ma per quanto si possa pianificare il ritorno, non sarà mai come queste tre settimane. È il momento che conta, sono le persone che incontri, che costituiscono almeno il 70% di ciò che vivrai. La stessa cosa è stata per i miei due mesi a Monaco di Baviera, le mie tre settimane a Malta. Niente sarebbe stato senza le persone che hanno incrociato il mio cammino”.

Il rientro fu con tanti rimpianti e molti abbracci. “Scrivimi” fece col gruppo di amici, ben sapendo che dopo un po’ i contatti si sarebbero sfilacciati. ”Alla prossima volta, Londra!” disse mentre l’aereo si staccava da terra.

Le giornate di esercizio con la lingua, con le prove di esposizioni, con le registrazioni della sua voce riempirono i giorni che mancavano alla laurea. Il 16 luglio Elena festeggiò con i genitori e gli amici il traguardo raggiunto.

Era felice ma preoccupata, perché sarebbe cominciata la parte più difficile della sua vita. Finita la sbornia dei festeggiamenti, delle meritate vacanze senza il pensiero degli esami autunnali, si domandò inquieta e smarrita: ”Che lavoro intraprenderò?”

I genitori premevano, affinché lei trovasse un’occupazione nella scuola. Questo non era il suo pensiero e nemmeno l’obiettivo a breve. La domanda continuava a ballare nella testa di Elena. Si piegò malvolentieri alle loro pressioni e presentò alle scuole medie e superiori, disseminate nel Gargano, la domanda per insegnare lingue (inglese o tedesco). Non aveva molte speranze, che fossero accolte. Anzi in cuor suo avrebbe voluto che la chiamata non arrivasse mai. Invece, ironia della sorte, le diedero un incarico annuale in una scuola media di un paesino non molto distante da San Severo, dove risiedeva. Accettò a denti stretto solo per accontentarli.

Iniziò a insegnare.

L’anno scolastico fu travagliato, perché non riuscì a tenere a bada quei ragazzini, che la mettevano in difficoltà nonostante avessero solo dodici anni. Finii a giugno stremata e stressata. La sua corporatura già esile di per sé divenne ancora più diafana. Era sull’orlo di una crisi depressiva. Durante i mesi estivi cancellò dalla mente la scuola, sperando che il nuovo anno cominciasse senza di lei. Avrebbe avuto la scusa valida per dedicarsi alla ricerca di un lavoro, che lei definiva “serio”. Le sue preghiere non furono esaudite e si ritrovò con un altro incarico in un paesino della provincia di Foggia.

Se il primo anno fu angosciante, il secondo fu un’esperienza terribile. Quei ragazzini erano davvero delle pesti e i genitori ancora di più. Aveva degli incubi notturni e, quando prendeva la macchina per arrivare a scuola, era preda di attacchi di panico. Sull’orlo di una crisi di nervi, decise di cercare un posto come receptionist in uno dei tanti hotel della costa pugliese e di chiudere l’esperienza disastrosa nella scuola. Non ci pensò due volte: alla conclusione dell’anno scolastico sarebbe partita la ricerca. Addio scuola. Addio ragazzini pestiferi e mortiferi. Addio genitori invadenti e permalosi.

Non fu facile ma, come tutte le esperienze di ricerca di lavoro, le permise di acquisire esperienza nel trattare con le persone. Fece numerosi colloqui, conobbe molti albergatori e alla fine fu premiata. Un hotel, che lavorava prevalentemente con clientela straniera, praticamente tutto l’anno, la assunse in prova, vista l’ottima conoscenza del tedesco e dell’inglese.

Così terminò la sua carriera di insegnante e iniziò quella di receptionist.

L’hotel era molto grande e dotato di molte risorse: dalla piscina alla palestra, dalla sauna al kindgarten, dagli animatori agli insegnanti di ballo. Si trovava sulla costa, nella zona di Peschicci, ed era un grande edificio con annessi bungalow e piccole costruzioni destinate al divertimento in tutto immerso nel verde.

Le erano stati offerti due locali con bagno nel seminterrato dell’edificio principale, dove all’occorrenza poteva trattenersi per la notte o riposarsi durante le pause.

All’inizio non pensava che dopo il periodo di prova la confermassero, perché aveva pasticciato in più di una occasione ma con suo grande stupore e gioia le dissero che sarebbe rimasta.

Il personale era numeroso anche nei momenti di maggiore calma, perché era come un minuscolo villaggio. Con alcuni di loro legò fin da subito, con altri i rapporti rimasero freddi e distaccati.

Col primo stipendio si fece un regalo: un bel portatile su cui scrivere tutto quello che le passava per la mente tanto da diventare il suo compagno fidato e inseparabile.

Questi sono stati i suoi primi appunti.

Le Bollicine di Simona

Simona
Simona

Era 25 settembre 2004. Il gran giorno era arrivato. Vasco Rossi concludeva il suo tour per l’Italia a Catanzaro. Tutta la Calabria e la Sicilia era in fibrillazione per il suo arrivo.

Simona, trepidante per l’evento, lo aspettava con ansia, pari all’attesa tra i suoi amici e le sue amiche. Rossella, Paula, Nino, Stefano e altri ancora. L’elenco non sarebbe mai finito, tanto era lungo.

Questo era il secondo mega concerto di Vasco che Simona si accingeva ad ascoltare. Quattro anni prima, appena ventenne, aveva fatto una lunghissima fila per acquistare i biglietti. I ricordi affioravano netti: come aveva corso per essere tra i primi della fila, quale lotta aveva ingaggiato con i suoi genitori per convincerli a lasciarla andare!

Suo padre sprezzante aveva affermato che al concerto andava solo una massa di drogati. Sì, papà! Certamente drogati ma dalla musica di Vasco! Quando gli risposi “Papà, tra i drogati sarò anch’io!”, lui non mi aveva voluto sentire.

Doveva ringraziare chi le aveva fatto ascoltare Vasco per la prima volta, quando ancora quasi non sapeva dire il suo nome: “CIAO MA’!”. Simona voleva riascoltare “VOGLIO UNA VITA…CHE NON E’ MAI TARDI! DI QUELLE CHE NON DORMI MAI!!!” ma quella sera non era in programma.

A Simona ritornavano i ricordi. Si ripresentava tutto quello che era stata, che aveva fatto, la verità e una versione di lei che la descriveva nel reale, fuori degli schemi. Sembrava che una molla la spingesse avanti. Una voglia di ridere incredibile, di correre, come aveva corso quattro anni prima per comprare i biglietti del primo concerto.

Aspettava con ansia, facendo il countdown nell’attesa del gran momento. Il giorno dopo avrebbe ricominciato a far scorrere fiumi di parole sul suo diario, a vivere di rendita come l’altra volta per un concerto che sarebbe durato nella sua testa almeno per un anno!

L’aspettativa era talmente forte che la sera prima Simona non riuscii a dormire. Vedeva scorrere le cifre rosse dell’orologio digitale sul suo comodino. Zero. Uno. Due. Come i grani del rosario che a maggio teneva in mano durante la novena mariana in chiesa. Il lampeggio era inesorabile ma lento. Avrebbe voluto sveltirlo ma era impossibile. Alle cinque il supplizio terminò. Si alzò, anche se la partenza era fissate per le otto. Non importava se mancavano ancora tre ore ma il letto era cosparso di spine. Jeans, polo, scarpe da ginnastica bianche sarebbe stata la sua tenuta per la sera. Un maglioncino di cotone nello zainetto con acqua e buste di crackers. Qualche altra cosa infilata alla rinfusa. Un pacchetto di assorbenti, per precauzione. Alle sette e mezza era in stazione a Messina, dove trovò gli amici rumorosi e assonnati.

Il treno per Catanzaro era in ritardo come il solito. La banchina era presa d’assalto da altri giovani e da pendolari, che guardavano di sbieco quella massa di fannulloni, che andavano a sballarsi al concerto di Vasco. Loro sarebbero scesi a Reggio ma quei giovani chiassosi arrivano fino a Catanzaro. L’eco del mega concerto di Vasco era come l’onda lunga della risacca, attirando tutti i ragazzi da Palermo a Messina. Nonostante fosse fine settembre, l’aria era ancora calda e afosa, surriscaldata da quella marea vociante.

Dovevano raggiungere l’Area Verde, che era a ingresso gratuito, per godersi gli ultimi istanti dei preparativi di Vasco e della sua Band per la sera. Da lì si sarebbero trasferiti nel prato sotto il palcoscenico a prendere un buon posto. Simona e i suoi amici raggiunsero il posto, sistemandosi nella attesa dell’inizio del concerto insieme a tanti altri giovani e meno, venuti ad ascoltare il mitico Vasco.

Era emozionata come la prima volta. Allora era la prima volta che usciva di casa tutta la notte con gli amici. Adesso non era più una novità. Aveva viaggiato da sola verso Milano per trovare il fratello. Aveva ascoltato altri concerti. Però il pensiero di assistere alla serata con Vasco la fece tornare indietro nel tempo. Stesse emozioni, stesse ansie che le prendevano la gola e che sarebbero svanite con le prime note della band.

Sotto il sole che picchiava duro Simona con gli amici rimase ferma per l’intero pomeriggio. Non si sarebbe mossa da lì nemmeno per andare ai servizi. Piuttosto se la sarebbe fatta addosso! L’acqua terminò presto ma nessuno voleva lasciare la postazione. “Patiremo la sete” si disse, mentre la polo si inzuppava di sudore.

Il tour 2004 era iniziato a Latina il 30 maggio e Catanzaro sarebbe stata la tappa conclusiva. La scaletta comprendeva ventinove canzoni tra cui “Bollicine” ma mancava “Vita spericolata”. Per lei era la canzone simbolo, perché, da quando aveva vent’anni, la sua vita era stata vissuta sempre di corsa, per schizzare via a prendere i treni, che passavano una sola volta.

Vasco attaccò con “Cosa vuoi da me” seguito da “Fegato, fegato spappolato” scaldando la platea. Non ce ne sarebbe stato bisogno, vista la temperatura della sera ma il suo popolo intonò con lui la canzone, ondeggiando al ritmo della musica.

Mentre il concerto si snodava con il susseguirsi delle canzoni in programma, il cielo diventava sempre più imbronciato, minacciando pioggia a catinelle. Il caldo afoso era riuscito nel fare un dispetto a quella marea di giovani, richiamando dal mare un grosso temporale. Sarebbe riuscita ad ascoltare “Bollicine” prima del diluvio universale per annegare tutti questi peccatori venuti ad ascoltare Vasco, personaggio scomodo e fuori degli schemi?

Simona continuava a guardare il cielo preoccupata, finché le note e le parole della canzone non riecheggiarono nello stadio.

“….

bevi la coca cola che ti fa bene

bevi la coca cola che ti fa digerire

con tutte quelle, tutte quelle bollicine …

Poi dal cielo cominciò a scendere la pioggia. Lampi e tuoni e gocce sempre più forti inondò la folla che cominciò a sfollare disordinatamente.

Simona corse, come mai lo aveva fatto in vita sua, per non beccarsela tutta insieme agli amici. Esattamente nello stesso modo con cui prendeva i treni perché sapeva che passano una volta sola. Pensò che la sua vita fosse davvero SPERICOLATA!

Bagnati ma felici ripresero il treno per Messina, mentre urlavano a squarciagola le canzoni di Vasco. Simona lo era in modo particolare, perché aveva potuto riascoltare dal vivo il suo idolo, il suo mito, perché aveva voglia di correre, di non fermarsi mai.

Questo anno non si era fermata mai. Prima era arrivata la laurea in lingue straniere con il massimo dei voti. Poi era riuscita a strappare ai suoi genitori il consenso per frequentare a Milano un master di Marketing e Comunicazione presso una prestigiosa Università. Trasloco e vita per almeno un anno al nord. Infine il concerto di Vasco.

Si sentiva inquieta, perché si era persa fra le tante parole, scritte e dette, sue e degli altri, diventando pensieri sempre più complessi e, alla fine, incubi.

Se si guardava con cura dentro di sé, tutto questo le ha fatto bene solo per un po’. Adesso era giunto il momento di smettere di guardarsi indietro, perché la incatenavano a quello che era il passato, mentre doveva cominciare a osservare quello che sarebbe stato il suo futuro.

Era arrivata a questa conclusione, ascoltando durante il viaggio di ritorno dal suo MP3 le canzoni dei Pink Floyd nell’album THE DIVISION BELL. Si rivedeva a diciassette anni, seduta davanti allo stereo, ascoltando queste canzoni. Pensava al suo futuro, visto che di passato allora non poteva parlare. Erano passati sette anni. Adesso un po’ di passato l’aveva, e proprio per quello “I knew the moment had arrived for killing the past and coming back to life”.

Capiva che stava inseguendo non un sogno ma un’ossessione, perché nel frattempo si era persa in pensieri, che le avevano riempito la testa e il cellulare di parole, che nella vita reale non servivano.

I feel persecuted and paralized” si disse Simona, mentre pensava a lui, il sogno che inseguiva da tanto tempo. “Credo sia arrivato il momento di smettere di farmi condizionare dai discorsi di chi in fondo di me non si preoccupa. Torno su me stessa! Spero di rimanere su questa posizione”.

La preoccupavano quegli incubi ma poteva chiamare il suo guardiano dei sogni, che ultimamente si era distratto. “Deve essere difficile lavorare con me ma i suoi occhi scuri bastano per calmarmi. A volte sparisce ma almeno non mi riempie la testa di concetti stupidi”.

Il giorno dopo il concerto si ritrovarono da Billé a gustare gli ultimi gelati di una lunga stagione estiva. Parlarono di Vasco, della fuga precipitosa sotto il diluvio universale, che puniva quel popolo di miscredenti, che idolatrava come un Dio il mitico Vasco. Era la giusta punizione verso tutti questi trasgressori, che della trasgressione facevano uno stile di vita.

Poi la lunga passeggiata sul lungomare a parlare del futuro, di cosa riservava a loro il domani, dei sogni e delle speranze, insomma di tutto quello che i giovani parlano, quando si frequentano.

I giorni successivi passarono veloci nella preparazione dell’imminente viaggio a Milano. Un misto di ansia e di curiosità riempivano le sue giornate. Adesso il problema era una sistemazione provvisoria, un posto dove alloggiare nei primi tempi nella attesa di trovare qualcosa di meno precario. Doveva comprare del vestiario adatto al clima rigido del Nord, perché a Messina non le servivano. Insomma prepararsi a quella lunga trasferta tanto sognata ma anche temuta.

Riuscirò a resistere lontano di casa? La nostalgia mi assalirà? Come reagirò a svolgere tutti quei compiti, che ora non mi sfiorano?” Questi erano i suoi pensieri, i suoi dubbi. Non li diceva apertamente, perché avrebbe voluto dimostrare di essere in grado di superare qualsiasi avversità.

Giorno dopo giorno tra dubbi e pensieri positivi arrivò la data della partenza. Salutò gli amici, la mamma, che non era contenta di vedere partire la figlia per luoghi lontani e misteriosi, dopo aver visto allontanarsi il figlio per la carriera militare. Aveva sentito parlare di Milano, come di una città che inghiottiva le persone, snaturandole e trasformandole in altre irriconoscibili. Era una sorta di Moloch che voleva in sacrificio gli affetti più cari. Percepiva che la casa sarebbe diventata più vuota, perché gli affetti se ne andavano lontani, mentre la tristezza calava su di lei.

Simona sapeva di darle un grosso dispiacere ma la voglia di avviarsi per affrontare questa nuova avventura era talmente grande da superare anche l’affetto che provava per lei. Prese il treno e partii per il lungo viaggio attraverso l’Italia verso nuovi orizzonti.