Bertrando – Una vita

foto personale
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Quella voce…

Bertrando si irrigidì, non capiva. Non era possibile, a furia di pensarci, di immaginare, di sognare, di desiderare, ecco, certo, iniziava ad avere le allucinazioni, a sentire le voci. Si appoggiò allo schienale, scacciò con la mano dal viso qualcosa che solo lui poteva vedere, infastidito, quasi fosse sufficiente quel gesto per allontanare i pensieri, i desideri persi in un passato lontano. Ma poi la sentì nuovamente. “Sì, era lei” si disse Bertrando con lo sguardo che spaziava per la stanza, come se cercasse qualcosa che non vedeva. Un appiglio per non sprofondare nell’angoscia. “Oramai ne sono certo. Non posso sbagliare”. Si avvicinò alla porta esitante. Aveva paura di chi stava dietro.

Sconvolto non connetteva bene i pensieri. Gli pareva di avere preso una sbronza. Sì, una ciucca di quelle che ti mettono ko per due giorni, lasciandoti come biglietto da visita un’emicrania feroce. Stralunato, ubriaco da ciò che sentiva salirgli dallo stomaco tornò a sedersi sulla poltrona.

Si prese il viso tra le mani. Chiuse gli occhi, come se fosse sufficiente a non udire. “Non è possibile” sospirò Bertrando, stringendo le labbra. “Una voce dal passato si sta insinuando nella mia testa”. Eppure ricordava con nitidezza che l’aveva chiusa fuori. L’aveva scacciata dai suoi pensieri. Era stato troppo male tanti anni prima. “Cosa vuole?” si domandò incerto se tornare vicino alla porta o ignorarla. “Perché ritorna? Perché mi vuole fare ancora del male?”

Era stata una storia di grandi passioni ma anche di furibonde liti. Erano stati anni che non poteva cancellare. Però quello che gli aveva fatto male. Troppo. A Bertrando si inumidì l’occhio a quel ricordo. “Quello che mi ha fatto male” proseguì nel suo pensiero, “è stata quell’accusa”.

Un vulnus mai sanato. Anni trascorsi a nascondersi, inseguito dai media. Gli amici, se così si potevano chiamare, che gli avevano voltato le spalle come se non l’avessero mai conosciuto. Alla fine l’accusa era caduta ma nessuno se ne accorse. Nessuno gli chiese scusa. Nemmeno lei, accecata dalla sua vendetta.

Quale vendetta?” si chiese, mentre le mani passavano nervose nei radi capelli, che era incanutiti. “Quale sgarbo le ho fatto per accusarmi di quella infamia?”

Era difficile per lui dimenticare. Era impossibile cancellare quei sei mesi rinchiuso in una cella con altri quattro detenuti. Dei tagliagola, dai quali si era dovuto difendere. Era invecchiato di vent’anni, quando finalmente l’avvocato lo fece uscire. Tuttavia la sua vita era rimasta sconvolta. Solo, senza uno straccio di lavoro. Senza una casa, perché la loro era rimasta a lei. Come un barbone andava a dormire nel dormitorio pubblico e scroccava un pasto caldo alla mensa della Caritas. Poi decise che doveva andarsene ma non poteva fino al processo. La giustizia lo voleva giustiziare a fuoco lento. Rosolarlo come un tenero maialino. Un supplizio quotidiano. Un fantasma per tutti, fuorché per la giustizia. Non poteva avvicinarsi a lei, perché avrebbe rischiato di finire nuovamente dietro le sbarre. Non poteva vedere sua figlia, Dalila, perché…

Perché?” si domandò restando bloccato sulla poltrona, mentre quella voce lo torturava. ‘Apri. So che ci sei’.

Non poteva aprire. Doveva ripercorrere il suo calvario. Era riuscito tramite il suo avvocato ad avere un posto come guardiano notturno in una fabbrichetta.

Giorno dopo giorno come una formichina aveva messo da parte qualcosa, che gli avrebbe permesso di ricompensare Arturo, il suo unico amico, il suo avvocato, che aveva capito la sua sincerità. Il resto serviva per il bilocale dove abitava adesso, mentre continuava a frequentare quella mensa di diseredati per risparmiare.

Questo gli aveva permesso di ricostruire la sua identità e avere fiducia in se stesso. C’era ancora il vuoto intorno a lui ma di questo non gliene importava nulla. Poi finalmente arrivò il giorno della resurrezione.

Il signor Benforte è assolto per non avere commesso il fatto”.

Però nessuno lo seppe. Lei non si fece vedere quel giorno, conscia della bugia detta e incapace di osservare il crollo di quel castello di infamie che aveva costruito con pazienza. Arturo gli aveva suggerito di procedere contro di lei per calunnia e diffamazione ma Bertrando era troppo stanco per lottare ancora nelle aule di tribunale. Lasciò perdere. Quel modesto lavoro era sufficiente per sentirsi vivo.

Adesso lei era lì, dietro una porta chiusa. “Cosa vuole ancora da me?” si disse con l’angoscia che montava impetuosa nella sua mente. L’unico modo era aprirle per sentire cosa gli doveva dire. Si alzò, mentre quella voce aveva un filo di implorazione, un qualcosa di anomalo. Non era la solita voce di Nicole, altera e dispotica. Sembrava implorare qualcosa. “Ma cosa?” si domandò, sapendo che la risposta era farla entrare.

Esitò davanti alla porta chiusa. Avvertiva che quella presenza lo avrebbe destabilizzato. Percepiva che non avrebbe portato nulla di buono. Questa sensazione negativa la sentiva nonostante il portoncino fosse chiuso e lui al riparo dietro di esso.

Emanava una forza esiziale verso di lui. La personalità di Nicole lo aveva tormentato nel passato, gli aveva rubato i sogni. Però non era riuscito a cancellare le sensazione che le aveva dato nei cinque anni burrascosi trascorsi con lei.

Tolse la catenella. Sentì il respiro affannoso di Nicole. La mente voleva obbligare la mano a non aprire ma il cuore spingeva nella direzione opposta. Girò il chiavistello, che produsse un frastuono incredibile. “Solo io sento questo rumore?” si chiese ansando per l’emozione. Apri piano. Una piccola fessura.

Nicole era lì, immobile, che sbirciava con i suoi occhi nocciola il viso di Bertrando.

Ti sei deciso ad aprirmi?” fece con un ghigno, storcendo al bocca.

Bertrando scostò il battente quel tanto per vedere il suo viso. Era sempre intatto. Affilato come una lama di coltello. Una piccola fossetta sul mento. I capelli biondi come l’oro vecchio. Un tuffo al cuore. Un ritorno a dieci anni prima, l’ultima volta che l’aveva vista. Era dinnanzi a lui, aspettando che aprisse completamente la porta. Sapeva che lo avrebbe fatto.

Non mi fai entrare?” sussurrò Nicole, come faceva un tempo. “Devo parlarti. Non mi va che tutti sentano le nostre parole”.

Bertrando spalancò l’uscio mettendosi di lato per farla entrare. Poi chiuse con dolcezza la porta.

Si guardarono in silenzio. lui era rigido, ghiacciato. Il suo cuore si era quasi fermato, perché l’emozione gli aveva chiuso la gola. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa ma nessuna gli uscì dalle labbra. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quel viso, quello sguardo, quella pelle, quelle labbra che aveva imparato a memoria. Erano come le poesie che bastava un abbrivio per ricordare ogni parola e inflessione della voce, mentre le declamava con sicurezza.

Sapeva che poi sarebbe stato male ma volle imprimersi tutto nella mente. Per altri giorni, per nuovi ricordi, per notti insonni.

Era bella, magrissima per nulla sfiorita dal tempo. Sembrava che si fosse scordato di lei, che l’avesse solo sfiorata, accarezzata piano, lieve, temendo di sciuparla. Gli occhi erano cambiati, diversi. Più tristi e profondi. Vi si leggeva un dolore radicato in profondità, impossibile da alleviare. Occhi asciutti, senza più lacrime.

“Nicole” mormorò Bertrando.

La lingua sembrava arrotolata, impedendo alle parole di uscire. Avvertiva nel petto un macigno che lo schiacciava, lo opprimeva. Si odiò. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, stringerla, accarezzarla, cullarla, lavare tutto quel dolore che sentiva emanare dalla sua persona. Invece non riuscì a dar voce ai pensieri, rimanendo muto.

“Non mi fai accomodare?” fece Nicole, muovendo per la prima volta gli occhi con filo di curiosità. Girò lo sguardo su quella stanza che fungeva da sala e cucina. Spoglia ma ordinata. “Non è cambiato” si disse Nicole con un sorriso che mostrò le fossette sulle guance. Però immediatamente ridivenne spento, senza luce.

A lui parve che la voce fosse stanca, rassegnata, priva di calore. Intuì che gli doveva annunciare qualcosa, come se stesse compiendo un servizio, qualcosa che non voleva ma che doveva fare.

Bertrando si scostò e la fece accomodare sulla poltrona. Nicole si fermò accanto al tavolo senza sedersi. Diede una nuova occhiata circolare, senza soffermarsi su nulla, indifferente.

Si girò verso quell’uomo, che aveva amato e poi odiato con tutte le sue forze. Le costava fatica e dolore essere al suo cospetto. Fissò il suo viso. Uno sguardo che ricordava Nicole di quell’epoca lontana, quando vivevano insieme. Mandò bagliori, che parevano sfidarlo prima di spegnersi di nuovo.

“Bertrando… tua figlia… nostra figlia… Dalila sta morendo!”

Rima baciata

Disegno di Veronica
Disegno di Veronica

Scrivere creativo propone una stuzzicante sfida. Un esercizio di scrittura creativa

Scrivi un testo di 41 parole. Genere poetico. In rima. Tema: l’ombra. Deve iniziare con la seguente parola: orecchie.

E così mi sono lasciato coinvolgere. Ecco il mio componimento
Orecchie, aperte
tienile coperte.
Il vento fischia
e noi si rischia.
Ah, che bello il motivo
dello scrivere creativo.
Mi diverto un mondo
a inventare un finimondo
di parole astruse
che appaiono confuse.
Contento saltello
con le rime sul più bello.
Sciocco direi !

La Bestia, il Principe Azzurro e il Principe – Le fiabe mai raccontate

foto di Veronica
foto di Veronica

La locanda “Alla Strega Violina” stava nel centro del paese. Era l’unico posto dove gli uomini di Pizzi si trovavano per giocare a carte, a bere vino e vedere la televisione satellitare. Era un edificio quadrato con la base in muratura e il resto in legno in mezzo a una corte dove il fico faceva buona guardia con la sua maestosa chioma. Lo chiamavano ‘rubacuori’, perché nessuno resisteva a staccare dai rami un fico. Nero, piccolo e dolcissimo.

L’oste era un tale Franceschiello, un compare che aveva imparato l’arte onorata dal brigante Sparasassi. Furbo e accorto aveva fregato un po’ tutti nella regione di Fiabilanda, facendo i soldi a spese dei gonzi, che si ritenevano più scaltri di lui. Con questi denari si era comprato un bel pezzo di terreno, dove al centro aveva costruito la locanda.

Al piano terra stavano due grandi sale più i servizi. Al primo piano le camere per gli ospiti di passaggio per Pizzi, diretti al Castello della Fantasia, un posto fantastico, dove si era ammessi solo se l’immaginazione superava la realtà. In tanti ci provavano, in pochi ce la facevano. Tuttavia il flusso dei viandanti era cospicuo, facendo le fortune di Franceschiello, che ancora una volta aveva dimostrato di avere buon fiuto per gli affari. Insomma aveva sempre tutte le camere affittate. Chi non trovava posto si adattava a dormire per terra nella rimessa degli Ippogrifi per quattro soldi di cacio. Insomma faceva soldi che accumulava nell’unica banca di Fiabilanda, la ‘Banca di Pollicino’, che chiamavano familiarmente ‘Polli’, come quelli da spennare.

Nella prima sala al pianoterra c’erano i tavoli dove a mezzogiorno e alle venti si mangiava, mentre nel restante tempo servivano per fare oziare gli uomini di Pizzi. Nella seconda sala, aperta dalle venti fino alla mattina, c’era il grande schermo in 16k UHD, dove si vedeva la televisione di stato, GF TV, l’unica che trasmetteva nella regione in regime di monopolio. Altre possibilità non ce ne erano. O così o pomì. La programmazione? Rigorosamente film e programmi sereni, che finivano come nelle fiabe della migliore tradizione. ‘E tutti vissero felici e contenti’. Solo alla domenica c’era un diversivo. Si poteva osservare Valentino Rossi e Lewis Hamilton che correvano a trecento chilometri all’ora come pazzi spericolati, tra capitomboli impressionanti e sportellate da capogiro. Nessun altro sport era permesso. In particolare era bandito il calcio, perché creava tumulti e litigi. E poi gli ultras invece di amarsi se le suonavano di santa ragione. Dunque abolito per legge e punito. Chi osava infrangere il divieto era costretto per punizione a vedersi per dodici mesi senza interruzione di sorta Pollyanna oppure Love Story a scelta. Tutti i giorni per dodici ore filate. Chi era stato colto a barare, dopo l’espiazione della pena, era talmente rintronato che baciava persino le chiappe del primo ministro Medici, notoriamente sporche. Insomma un lavaggio del cervello dagli effetti irreversibili. Lupo Ezechiele fu il primo a essere colto in flagranza di reato. Adesso serviva messa e accompagnava Cappuccetto Rosso dalla nonna nel bosco. Dopo i primi sprovveduti, gli altri hanno preso a rigare dritti.

Era la sera di San Martino, l’undici novembre di un anno che non finiva mai. Nella sala dei tavolini in un angolo stavano la Bestia, il Principe Azzurro e il Principe, quello senza attributi o colori variopinti, il consorte della Sirenetta. C’erano solo loro, gli altri erano nella sala della TV a guardare il solito programma scemo di Scotti Unavolta, che col suo faccione bonario presentava ‘Caduti in piedi’. Un programma talmente mieloso, che la Principessa sul pisello cadeva addormentata sulla sedia. Il suo respiro ronfante era la sinfonia di sottofondo al programma. Gli altri? Si sentivano solo le grasse risate dei pizzini. Non sono quella della mafia ma così si chiamano gli abitanti di Pizzi.

Dunque il trio era nel tavolino d’angolo a giocare coi dadi. La Bestia, sfortunato in amore, si rifaceva a spese dei due principi, che invece erano fortunati con le donne. Tutte le femmine dai dieci anni in sù li sognavano e sbavavano al pensiero che arrivassero con la cabrio decapottabile rigorosamente bianca e prenderle e portarle nel loro castello. La Bestia invece no. Nessuna lo voleva per le mani. Solo la Bella resisteva alla sua presenza.

Ma non indugiamo su questi dettagli marginali, che annoiano e appesantiscono la narrazione.

La Besta beveva il solito immarcescibile succo di Bruttezza, un liquido giallognolo, colore del piscio, e tirava i dadi.

“Dodici” annunciò la Bestia con voce afona e lo sguardo vuoto.

Sul tavolo due bei sei erano le facce visibili dei dadi.

“Hai un culo della malore!” sbottò il Principe Azzurro, gettando le sue fiche verso al Bestia. Aveva la faccia schifata. ‘Mai vista una fortuna così’ pensò, osservando il vuoto delle fiche. Doveva pensare a come giustificare a Prezzemolina che aveva perso l’intero stipendio della novena.

“Sarai cornuto stasera!” rincarò la dose il Principe, quello semplice. Notando che davanti a lui c’erano due fiche. Immaginava cosa avrebbe detto stasera la Sirenetta.

La Bestia rise, raccogliendo le fiche, che i due perdenti gli avevano lanciato. Aveva una montagna di fiche, che impilò per colore e dimensioni. ‘Posso regalare alla Bella due vestiti nuovi, un monile di giada antico’ si disse, ridendo sotto i baffi. ‘Poi ne avanza per andare a trovare nel bosco la figlia del Sultano’. Si deve sapere che lei doveva sbarcare il lunario dopo che era stata cacciata di casa col marito dallo suocero.

“Ci ha provato una volta col principe dell’oriente” ridacchiò la Bestia, mostrando le otturazioni scadenti dei suoi denti. “Ma ha preso un fracasso di legnate!”

“Solito maschilista” rimbeccò il Principe Azzurro, mentre agitava i dadi nel bussolotto di pelle umana.

“Ah! Ah!” rise a bocca larga la Bestia. “Prezzemolina ha un palco in testa che fa invidia al Cervo Maestoso del bosco di Fiabilanda”.

Il Principe Azzurro smise di agitare il bussolotto e guardò di sbieco la Bestia. Guai a toccargli la sua Prezzemolina. “Beh!” pensò il Principe Azzurro, che inghiottì la saliva, facendo ballonzolare il pomo di Adamo. “Biancaneve è stato un bel bocconcino. A letto è stata super. Altroché quell’insipida della Prez, che ogni sera ha una scusa buona per mettersi a dormire. Il mio omonimo, il marito di Bianca, è una frana a letto, secondo lei. Ma vale a capire queste donne”.

“Cosa vorresti insinuare?” affermò con forza il Principe Azzurro.

“Nulla, nulla” si affrettò a dire la Bestia, conosceva quanto fosse irritabile il Principe Azzurro. “Pollicino va a raccontare in giro che ha visto la cabrio decappottabile bianca parcheggiata davanti alla casa dei sette nani”.

Il Principe, quello semplice, impalmato con la Sirenetta, scoppiò in una lunga risata. “Touchè!” fece lui, volgendosi verso il principe Azzurro visibilmente contrariato per queste chiacchiere, tipiche di Alfonso Signorotti.

“Dai! Muovi le mani e tira i dadi” disse la Bestia, che tracannava un boccale di birra rossa, sporcando con la schiuma la barba ormai bianca.

Il Principe Azzurro sentì alle sue spalle un fracasso indiavolato di tavoli e sedie sbattute a terra. Si girò, bianco cadaverico in viso. ‘Se fosse Prez…’ pensò, mosse gli occhi lentamente verso quel rumore. ‘Starei fresco. Una bastonata non me la scanso di certo’

Vide arrivare come una Furia la Bella, che prese la Bestia per un orecchio, tirandolo su di forza dalla sedia.

“A casa, sfaticato!” berciò nervosa e irata la Bella. “Devi lucidare i pavimenti, lavare i vetri e fare il bucato! E te ne stai con questi altri due fannulloni a giocarti i soldi del mutuo del palazzo!”

La Bestia fece una smorfia di dolore. La tirata di orecchie era troppo violenta. Cercò di arraffare le fiche dal tavolo, che caddero rumorosamente a terra.

“Lasciale lì!” gli intimò la Bella, trascinandolo per la sala.

Il Principe Azzurro rise, mentre il colorito del viso tornava normale. Stava per chinarsi a raccogliere le fiche cadute, quando si ritrovò a bocconi sul pavimento. Un dolore atroce lo colse sulla schiena. Udì una voce familaire.

“Che razza di principe sei!” ringhiò Prezzemolina con in mano il manico della scopa. “Dovevi andare al mercato a comprare la cena. E dove ti trovo? Con altri due smidollati e buona a nulla! Ha perdere tutti i tuoi soldi”.

Lo afferrò per la giubba, rimettendolo in piedi. “E poi a casa facciamo i conti” latrò Prezzemolina. “Mi devi delle spiegazioni sulla visita ai sette nani in loro assenza”.

IL Principe, quello semplice e senza attributi, ghignava a più non posso. Osservò il mucchio di fiche tra il tavolo e il pavimento. Aprì il tascapane per metterle dentro, quando fu investito da un’odna marina, che lo bagnò da capo ai piedi. ‘È arrivata anche lei’ mormorò rassegnato alla bastonata, che non arrivò.

“Finisci di raccogliere le fiche” disse gentile la Sirenetta con un largo sorriso stampato sulle labbra colorate di un bel rosso acceso. “Però il tascapane lo dai a me. Ti va di lusso, stasera. I pavimenti del castello ti aspettano”.

E tutti vissero infelici e scontenti.

Un compleanno un contest … un premio

Il blog Webnauta – navigatore in un oceano di parole di Barbara Businaro – per il  primo compleanno del suo blog ha indetto un contest, poche regole chiare, un tempo massimo in cui inviare il materiale, tre giudici incorruttibili ed un ghiotto premio su cui buttarsi:

una capiente borsa in tela piena traboccante di libri cartacei.

Si tratta di creare un elaborato (racconto, poesia) di max 8000 caratteri con all’interno quattro parole chiave: nel seguente ordine  NAVIGATORE – CHEESECAKE – MANOSCRITTO – FRESIA; entro le ore 24 dell’8 dicembre 2016. Come? Linkare il sito e menzionare il tag #webnauta. Mandare una mail a Barbara Businaro – webnautasmtp@gmail.com con il link del post.

Siccome partecipare è uno stimolo a scrivere qualcosa, eccomi pronto alla disfida. Vincere o non vincere non fa differenza. l’importante è partecipare. Il testo che segue rispetta i criteri stabilita dal regolamento. Le quattro parole chiavi e il rispetto degli 8000 caratteri – il testo ha 7844 caratteri.
Monica era seduta sul divano a leggere un libro. La giornata era stata stressante. Tanti piccoli intoppi e molti problemi. Pose il romanzo ‘Un paese rinasce’ sul tavolo e sospirò, pensando a tutto quello che le era capitato poco prima.
Mentre voleva mettere il vinile di Witney Houston sul piatto, le era caduto per terra, scheggiandosi. Ci teneva molto. Era il ricordo di una giornata particolare.
Porca paletta!” aveva esclamato Monica. In realtà l’espressione era più colorita nella sua mente ma aveva ripiegato su questa più neutra. “Ma adesso che dico a Riccardo?”
Ricordava bene quel giorno di novembre. Era San Martino. Doveva raggiungerlo a Lizzi, dove si teneva un’importante esposizione di floricoltura. Riccardo era lì già dal giorno precedente.
Ti devo spiegare la strada?” si era offerto Riccardo al telefono prima della partenza. “Non è complicata ma ci si può perdere. Specialmente se cala la nebbia. E qui ha fissa dimora!”
Monica rise, mettendo in mostra due simpatiche fossette sulle guance.
Ma no!” fece divertita. “Non mi perdo mai! E poi ho il navigatore in macchina”.
Monica sentì un brontolio dall’altra parte e rise ancora più forte.
Non ti fidi, Rick?” disse Monica, mentre prendeva le chiavi della Golf nuova di zecca.
No!” si espresse Riccardo con un tono di rassegnata e malcelata paura. “L’ultima volta siamo finiti in discarica”.
Monica rise mentre lanciava uno smack di saluto.
Dopo aver preso la macchina dal box, si mise in cammino per Lizzi. Impostò il navigatore, che le rispose pronto “Svolta a sinistra”.
Cominciamo bene” si disse Monica, zittendolo.
Lizzi era a circa centoventi chilometri da Mughi. Monica calcolò che in due ore sarebbe arrivata.
Sono le dieci” pensò, sbirciando l’orologio della macchina. “Alle dodici sono a Lizzi. Giusto in tempo per un lauto pranzo. Rick mi ha detto che nell’unica locanda del paese servono un cheesecake, che fa resuscitare i morti!”
Fischiettando il motivetto di ‘Grande, grande’, procedeva prudente lungo la strada provinciale SP29. Era San Martino ma di sole manco l’immagine. Cielo grigio e nebbiolina ai margini della strada. La campagna era in chiaroscuro nonostante fosse mattina.
Lo schermo si illuminava per segnalare la strada da seguire, mostrando i segmenti da percorrere. Si inerpicò con dolcezza sui primi contrafforti che portavano a Lizzi. Il paese si trovava a circa 500m di altezza, sopra una dolce collina che pareva un panettone basso.
Monica era tranquilla. “Questa volta non mi sbaglierò” pensò, mentre imboccava un viottolo in mezzo al bosco. Non ebbe il minimo sospetto che qualcosa aveva alterato il percorso segnalato.
Proseguì per diversi minuti mentre la nebbia diventava più fitta. Rallentò per non correre rischi. Osservò lo schermò del computer di bordo. Segnalava le dodici e trenta. “Cavoli!” imprecò sottovoce. “Avrei dovuto essere già a Lizzi da mezz’ora”.
Toccò lo schermo per chiamare Riccardo ma pareva che non ci fosse campo. Aggrottò le sopracciglia, mentre rallentava ancora di più. In pratica a piedi sarebbe andata più forte. Fatta l’ennesima curva, sbucò fuori dal bosco e dovette chiudere per un attimo gli occhi. C’era un sole accecante. Quando li riaprì vide un cancello aperto, dove campeggiava un cartello ‘BENVENUTA’.
Monica strabuzzò gli occhi. “Un cartello di benvenuta?” rifletté, mentre imboccava il vialetto di ingresso. “Forse mi aspettano?”
A destra e a sinistra una distesa di fiori colorati. Un’ampia gamma di colori: dal bianco al giallo, dal rosa al blu, dal rosso all’arancione. Si fermò a guardare ammirata. Per lei erano fiori sconosciuti. “Una fioritura tardiva?” si interrogò, notando che da un piccolo ciuffo di foglie nastriformi, erette, abbastanza rigide e carnose, di colore verde chiaro si sviluppava un sottile fusto eretto, scarsamente ramificato. Su questo stelo c’erano numerosi piccoli fiori a trombetta, riuniti in pannocchie arcuate. Aprì il finestrino per osservare meglio e un effluvio di profumo inondò le sue narici.
Riavviò la Golf per raggiungere la corte che stava tra il giardino e la casa. Sembrava che la stessero aspettando. Fermato il motore, scese per raggiungere l’ingresso che era aperto.
C’è nessuno?” disse forte, mettendo la testa nell’androne illuminato dal sole, che entrava di sbieco. “Rick? Non fare il tuo solito! Lo sai che non sopporto i tuoi scherzi, facendomi morire di paura!
Nessuna risposta. Solo l’eco della sua voce che si perdeva tra corridoi e stanze. Proseguì cauta, attenta a vedere chi abitava quel palazzo che pareva disabitato.
Si addentrò, seguendo un corridoio illuminato da candelabri accesi. Una porta era aperta e dava su una stanza grande con le pareti ricoperte di libri. Nel camino ardeva un bel ciocco scoppiettante e di lato c’era una poltrona di raso rosso con un mobile curioso davanti. Era alto come una figura umana con un piano inclinato, sul quale stava un manoscritto, apparentemente molto vecchio.
Monica si avvicinò curiosa. Era scritto a mano. Cominciò a leggere.
Nonostante la fresia sia un fiore molto conosciuto fin dall’antichità, non esistono documentazioni sulla sua origine. Per questo motivo nel linguaggio dei fiori e delle piante è considerata nell’Europa meridionale il simbolo del mistero. Nel nord Europa, invece, per via del suo profumo è il simbolo della nostalgia e dei ricordi. Essendo il fiore che più di ogni altro rappresenta il fascino per l’ignoto è quello adatto da esser regalato in caso di un appuntamento al buio.
Fiorisce dalla metà della primavera alla fine dell’estate (a seconda del clima) ed è celebre per la sua semplice bellezza. Però è noto per l’ inebriante profumo. Fa parte della famiglia delle Iridaceae, e ha origine nell’Africa del Sud, soprattutto nella zona del Capo di Buona Speranza.
Il nome le fu assegnato dal farmacista e botanico Ecklon nel 1800 per onorare Freese, un suo amico medico.
Monica continuò a sfogliare quel curioso libro dove c’era disegnati fiori e piante. Disegni, e non fotografie, dai colori appena impalliditi dal tempo.
Si chiese dove era capitata. Le sembrava un posto magico. Una distesa di libri ben curati e senza un filo di polvere erano allineati nelle scaffalature in noce scuro. Si intravvedevano dai vetri che chiudevano gli scaffali.
Monica si aggirò per la stanza, prima di uscire, inseguendo una melodia che conosceva bene. Era il suono del suo telefono. L’aveva lasciato sul portaoggetti centrale della sua Golf. Uscì nella corte per raggiungere la sua auto.
Aprì la portiera e si sedette al posto di guida. Il suono era cessato. Controllò il display per vedere chi la chiamava. Non riusciva a leggere il numero o il nome, perché gli occhi si chiudevano per la sonno.
Sentì picchiettare sul vetro. Si riscosse come se avesse dormito. Si guardò intorno con l’occhio smarrito. Giardino e palazzo erano spariti. Il bosco pure. Era ferma ai margini di una strada che non ricordava di avere percorsa. Si interrogò se fosse sttao un bel sogno tutto quello che aveva visto e notato.
Il particolare più inquietante adesso era quel picchiare deciso sul vetro. “Chi è?” si domandò con gli occhi colmi di ansia. “Rick!”
Aprì la portiera e lo abbracciò con calore.
Cosa facevi qui addormentata?” le domandò il suo ragazzo.
Monica aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse per la sorpresa.
Addormentata?” fece Monica, quando riacquistò l’uso della parola. “Ma ero in un giardino pieno di fiori colorati e profumatissimi. Poi c’era un meraviglioso palazzo pieno di libri antichi”.
Riccardo sorrise e scosse la testa. “Non cambia mai! Sempre con la testa fra le nuvole a fantasticare” pensò, mentre le porgeva un pacchetto tutto infiocchettato con sopra quel fiore profumato che aveva visto nel giardino incantato.
Dai. Metti in moto e seguimi” fece Riccardo, scuotendo il capo, e si avviò verso la vecchia Alfa, posteggiata poco più avanti. “Alla locanda ci aspettano per il pranzo”.

Angelo – Storie di vita

tratto da Wikipedia
tratto da Wikipedia

“…Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere! Ora ho deciso, ti lascio ai tuoi ricordi, continua pure a nutrirtene, fantastica, vivi del passato”.

Queste frasi ronzavano nella mente di Angelo, accompagnate dal sottofondo prodotto dallo strofinio del piede sulla stoffa della poltrona. Un tic nervoso che lo pervadeva, quando non era in grado di gestire la situazione. E questa era proprio una di quelle.

L’amore di quella donna dichiarato così all’improvviso senza alcun preavviso, senza che lui se ne fosse accorto, lo sgomentava. Irruento, spavaldo, quasi rancoroso, come se lui fosse causa del turbamento di Zoe. Tutto questo lo aveva destabilizzato e terribilmente scosso. Non poteva crederci. Tutto gli appariva irreale.

Lo sguardo perso nel vuoto, la testa vuota dai pensieri, mentre con la mano destra sorreggeva il mento. La testa sembrava pesare più di un ‘Mille e una notte’ in versione integrale e copertina di cuoio rosso. Poi a dondolare il capo e a fissare lo schermo, che stava diventando buio. Fissava il monitor con le palpebre spalancate, come se ne avesse orrore. Eppure non doveva essere così. Tutt’altro.

Guarda avanti, Angelo” tentò di dirsi ma l’unico pensiero era rivolto al passato. Verso lei. Di nuovo Zoe.

Se guardava indietro, vedeva solo una donna con cui aveva litigato ferocemente. “È vero. È la madre di nostra figlia, ma…”. Angelo scosse il capo. “È stato vero amore oppure solo un disgraziato incontro che ha generato Beatrice?”

Quella donna, cosa rappresentava per lui: la sua condanna o la sua gioia?

Però era rimasto stupito da quelle parole, tanto belle quanto feroci. Non era la prima volta che una donna pronunciava frasi simili. Di sicuro non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli aveva rinfacciato di guardare al passato senza una prospettiva futura. “Ma come posso fare a non pensare a quel fugace incontro” sospirò Angelo, cambiando posizione. Adesso era la mano sinistra sotto il mento. “Come posso ignorare che è nata Beatrice?”

Angelo tolse il piede sinistro da sotto le chiappe, poggiandolo a terra. Ricordava come Zoe gli avesse rinfacciato di essere incinta ma era stata irremovibile. Niente nozze riparatrici, niente convivenza forzata. Niente di niente. Neppure il riconoscimento della figlia. Questo sarebbe rimasto un segreto tra loro.

“Ma che ne sanno gli altri di cosa provano due persone” si era detto Angelo. Forse per rincuorarsi o crearsi un alibi. “Eppure un buon motivo c’è per pensare a lei. Beatrice” ripeteva ogni volta che il suo pensiero andava a Zoe.

Quello che bruciava in lui era stato il suo abbandono, il suo negarsi con ostinazione. Ricordava Angelo quel giorno. Zoe gelidamente gli aveva detto “Me ne vado per la mia strada. Non cercarmi. Non farti vedere mai più”.

Perché?” aveva implorato Angelo, mentre lei senza rispondere gli aveva voltato le spalle.

Quel momento gli era rimasto impresso e a ogni istante aveva rivisto quella scena. Un supplizio, una sofferenza che lo accompagnava nel sonno. e lo riabbracciava nel tepore del risveglio.

Come posso non ricordare?” sospirò rumorosamente Angelo. “Perché ti sei fatta viva dopo anni di ostinato silenzio? Perché mi hai negato di vedere nostra figlia? Sì, sarà stato un incidente sfortunato, come hai sostenuto. Ma quell’unico amplesso era stato pieno di passione”.

Si alzò dalla poltrona. Aveva bisogno urgente di caffeina in dose industriale. Doveva tornare rapidamente in sé per difendersi da quel ricordo.

In cucina mise sul fuoco la caffettiera, riflettendo su quel messaggio. Qualcosa non tornava. Una dichiarazione d’amore, una stilettata feroce di odio, una richiesta di essere lasciata libera.

Che senso ha tutto questo?” rifletté Angelo, sorseggiando il caffè nero e amaro nell’unica tazza grande che possedeva. “Ho rispettato il suo volere, anche se mi costava fatica e dolore. Non ti ho cercata, né ho cercato di sbirciare di nascosto che volto avesse nostra figlia. Eppure tu mi scrivi ‘Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere!’”.

Angelo osservò fuori dalla finestra della cucina. Una brezza leggera e tenue sospingeva le foglie degli alberi cadute in terra. “Siamo in autunno e le piante mostrano la nuova livrea. Colori sgargianti, come se fossero usciti dal pennello pazzo di Van Gogh”. Era il pensiero di Angelo, che continuava a bere il suo caffè.

Se Zoe non era mai stata cancellata dalla sua mente, adesso diventava un chiodo fisso. Doveva capire per agire. “Cosa ha voluto trasmettermi?” si domandava dondolandosi sulle gambe. “Chiede aiuto? Vuole ricominciare una storia che non è mai partita?”

Angelo tornò nello studio, posizionandosi ancora sulla poltrona. Però era inquieto. Quel messaggio continuava a ronzargli nelle tempie.

Rispondo?” fece Angelo, socchiudendo gli occhi.

Li riaprì di colpo con lo sguardo fisso. Le labbra serrate, la mente chiusa a qualsiasi pensiero. Si alzò di scatto dalla poltrona e tornò in cucina. Aprì il pensile e prese un piatto. Lo guardò con lo sguardo smarrito, mentre la mascella faceva digrignare i denti. Era l’unico ricordo di quella sera, che aveva conservato. L’istinto gli suggeriva di scagliarlo lontano, fuori dalla finestra ma lo ripose con cura dove era stato in tutti questi anni. Rappresentava l’unico legame con Zoe e Beatrice. “Ma sarà davvero nata Beatrice?” si domandò con l’occhio perso nell’osservare le foglie che cadevano. Scosse la testa. Non poteva dubitare. Uscì dalla cucina, mentre si aggrovigliava i capelli sale e pepe.

Tornò davanti alla postazione del computer e mise la mani dietro la nuca. Poi le incrociò davanti alla bocca. Lo schermo era buio ma sapeva bene cosa stava sotto. Quel messaggio che l’aveva inquietato.

Quel mercoledì sera Angelo continuava a riflettere. Colto da un guizzo di vivacità, tirò giù le gambe dal bracciolo della poltrona. Aveva proprio bisogno di una bevuta e una fumata. Forse gli avrebbe schiarito la mente o solamente sedato i suoi dubbi. Attraversò la stanza e si avvicinò alla piccola libreria affianco alla porta. Era una libreria di tipo svedese, quelli in voga negli anni sessanta. Non ricordava il tempo che la puliva. Due dita di polvere erano depositate su libri e oggetti. Rovistò in quel ammasso di materiali di variabile natura che stavano sugli scaffali, addossato alla parete. Non sapeva dove cercare ma cosa, quello sì.

Estrasse una vecchia scatola di latta rettangolare. Non era voluminosa, perché poteva stare sul palmo di una mano. Sul coperchio c’era stampata una yankee vestita in bianco, che teneva un ombrellino da sole aperto sulla testa, e sopra di esso una scritta sbiadita e quasi illeggibile. Lasciava intuire essere stata un tempo la pubblicità di un prodotto di grande diffusione dell’epoca.

Con fatica aprì il coperchio e vide con delusione che il tabacco biondo era diventato polvere. La gettò sul tavolo innervosito.

Il messaggio di Zoe tornò netto nella sua testa e con esso tutti i dubbi che aveva cercato di cancellare.

Allora si mosse verso il mobile bar, un pezzo non meno vecchio della libreria e ugualmente impolverato. Conteneva dozzine di bottiglie, piccole, grandi, quadrate, rettangolari, cilindriche, a collo largo oppure stretto, con qualche chicca da esposizione. Nessuna era stata acquistata in modo regolare. Tutte arraffate con arte a Murano, durante un convegno del partito sullo sviluppo della piccola e media impresa e sull’artigianato in via d’estinzione. Si trovava in uno degli alberghi più esclusivi della zona. Così per gioco oppure per voglia di trasgredire le aveva prese. “Esproprio proletario!” aveva affermato Angelo, quando le aveva riposte nel mobile bar.

Scelse una vecchia bottiglia di vodka ma non ebbe il coraggio di aprirla per una semplice bevuta per schiarirsi le idee. Era una bottiglia molto rara. Giudicava che per Zoe era troppo. Quindi optò per un Havana Club del 1950, che faceva capolino dalla terza fila. Presa la bottiglia e il bicchiere tornò verso la scrivania. Posò tutto quanto sulla tavola accanto alla scatola di latta. Prima doveva farsi una doccia bollente. L’acqua scrosciava sulla sua testa mentre lui, immobile sotto la cipolla, continuava a pensare a quel messaggio tanto enigmatico quanto confuso. Uscito dal box, con l’accappatoio ancora addosso, tornò davanti al computer. Mise un vinile di Pat Metheny ormai consumato sulla piastra. Riempì il bicchiere col rum. La bottiglia la posò di fianco al PC per non dover alzarsi, quando il bicchiere fosse stata vuoto. Osservò la scatolina con la donna in bianco con nostalgia. Gli ricordava quando studente di lettere stava sui gradini della facoltà a prepararsi uno spinello.

Andò in camera per mettersi qualcosa di comodo e pulito in dosso, prima di tornare alla postazione del computer. Scosse la testa per scacciare quei lontani ricordi e si sistemò davanti allo schermo decisamente buio.

Attese le prime note dal giradischi per far partire il movimento della gamba. Il ritmo, che produceva la fusione tra le chitarre e il piede che mangiava la stoffa, favoriva la concentrazione necessaria a preparare la risposta oppure a decidere di non fare nulla. Sorseggiò il rum, tenendolo per qualche attimo nella bocca. Lo gustava con calma. Aveva un sapore forte e dolce nello stesso tempo. L’annata era favolosa. Toccò la tastiera per far comparire la schermata di blocco. Aveva deciso. Avrebbe risposto. Tutto era diventato chiaro nella sua testa.

Alzò le mani per colpire la tastiera con decisione. Non riuscì a completare la manovra perché il campanello squillò a lungo come se fosse arrabbiato per il lungo silenzio.

Angelo si alzò furioso per vedere chi fosse l’intruso. Lo schermo del videocitofono a colori mostrò un’immagine che lo lasciò di stucco. Era a bocca aperta a inghiottire dell’aria, quando sentì una voce da ragazzina.

Mi apri, papà?” e dopo una breve pausa “Sono Beatrice”.