Fantasmi – parte prima

Era il 22 luglio del 1961. Era una giornata torrida come i giorni che l’avevano preceduta. tanto che nemmeno le cicale avevano la forza di frinire, sfinite dal caldo e dall’aria rovente.
Marco aveva terminato il giorno prima la maturità scientifica e aspettava che anche gli amici fossero liberi da impegni per partire per il sospirato campeggio di Milano Marittima. Non era il suo vero nome, perché quello originale era davvero orribile: Olindo. Alla fine aveva optato per il troncamento del suo lungo cognome, Marconaldo e come tale era conosciuto da amici e parenti. Viveva coi genitori, la sorella e suo cognato in un grande palazzina stile liberty, posta lungo il vecchio ramo del Po di Primaro, circondata da un vasto giardino. Era stata fino al 1945 la casa del podestà di Ferrara ed era diventata la sede delle SS durante l’occupazione nazista di Ferrara. Lì erano arrivate molte persone ma ben poche ne erano uscite. La gente la chiamava la ‘casa degli spiriti‘ o ‘la casa maledetta‘, perché sostenevano che nel passarvi accanto si udivano ancora i gemiti delle persone torturate a morte e di notte vagassero i loro spettri in cerca di pace. Quando nell’aprile del 1945 Ferrara venne liberata, la casa rimase desolatamente vuota, perché gli occupanti avevano preferito fuggire nottetempo per non incappare nelle vendette dei partigiani. Nel vasto giardino, rimasto senza cura, crebbero rigogliose le erbacce con ospiti poco graditi: topi enormi e bisce d’acqua. Venne spogliata, ridotta in cattivo stato ma nessuno osò occuparla, perché alcune voci incontrollate dicevano che, chi aveva tentato di abitarla, era finito male. Quanto di vero ci fosse in queste dicerie, nessuno lo sapeva ma ognuno le alimentava con nuovi particolari agghiaccianti, finché nessuno dubitò della loro veridicità. In pratica rimase abbandonata a se stessa, senza che qualcuno osasse rivendicarne la proprietà. Tutto questo durò fino all’estate del 1949, quando Aldo Marconaldo con la moglie, Ersilia, e i due figli, Olindo e Genoveffa, la occupò, fregandosene di tutte quelle voci, che predicevano sventure.
Per non apparire degli abusivi cercarono senza troppo successo i legittimi proprietari o i loro eredi per regolarizzare l’affitto. Aldo, migrato dal vicino Veneto, aveva aperto sul Listone un esercizio di alimentari, che prosperava bene. La moglie lo aiutava dietro il bancone. Marco, che all’epoca aveva sei anni, con la sorella di dieci frequentavano le scuole elementari vicino alla Basilica di San Giorgio. Ben presto tutti dimenticarono quelle dicerie, salvo i più anziani che accuratamente evitavano di passare accanto. Scuotevano la testa e per nessuna ragione al mondo avrebbero posto un piede al suo interno.
Dopo essere entrati i Marconaldo cominciarono a sistemarla, riparando gli infissi rotti o asportati, ripulendola tutta con esclusione delle cantine poste nel semiinterrato. Un anno dopo rintracciò gli eredi del podestà, ucciso nella concitazione del dopoguerra, ai quali non parve vero disfarsi di quella palazzina macchiata di sangue innocente.
Nonostante tutte le chiacchiere, la famiglia Marconaldo si trovò bene in quella casa, fin troppo grande per loro. Al piano rialzato c’era l’ingresso su cui si aprivano le porte delle varie stanze e l’elegante scala che conduceva al primo piano, che adesso era parzialmente occupato dalla sorella col marito. Da una botola si accedeva al sottotetto, vasto quanto la casa e sufficientemente alto per restare ritti. Qui inizialmente vennero ammassati i mobili del precedente inquilino e poi tutto quello che nel corso degli anni venne dismesso da loro. Al semiinterrato, che al tempo dell’occupazione nazista era stato trasformato in luoghi di tortura, si accedeva tramite una scala in ardesia, chiusa da una porta in massello di noce pesante e robusta. Questa per ordine di Aldo doveva rimanere sempre chiusa e per nessun motivo ci si poteva accedere.
“Serve per tenere lontani gli spiriti dei morti, affinché nessuno li possa disturbare. Devono riposare in pace” disse il primo giorno di insediamento nella casa con tono autoritario e categorico. Tutti rispettarono il dettame di Aldo e mai fu violata quella disposizione.
Anche il grande giardino con gli anni ritornò ai vecchi splendori, anche se ultimamente si faceva sempre più fatica a tenerlo in ordine.
Quell’enorme villa di dieci stanze più due bagni, l’enorme cucina con camino e la lavanderia, che Aldo aveva pagato pochi soldi, adesso valeva una piccola fortuna, se avesse voluto venderla. Sapeva che era sproporzionata rispetto alle loro esigenze ma ormai faceva parte del suo DNA. Non l’avrebbe mai venduta, nemmeno se l’avessero ricoperto d’oro.
Quel 22 luglio Marco si aggirava annoiato e accaldato con solo un paio di calzoncini corti e sandali alla ricerca di qualcosa che lo tenesse occupato durante la mattinata. I genitori erano nella nuova bottega di Via Garibaldi, sempre piena di clienti, mentre la sorella e il cognato erano al lavoro in città. Lui era l’unico abitante della casa. Gli amici più intimi erano disponibili solo nel pomeriggio, quindi le ore della mattina era interminabili.
“Leggere un libro?” si disse, guardandosi intorno. “Troppo caldo! E poi per un mesetto non voglio sfogliare la pagina di nulla! Nemmeno del giornale! La maturità mi ha stressato!”
Poteva girare a occhi chiusi per le stanze della casa. In giardino si soffocava dall’afa. Decise di salire nel sottotetto a vedere se c’era qualcosa di interessante. Aperta la botola, lo ispezionò con cura tra ragnatele e polvere senza scoprire niente di nuovo che non conoscesse da una vita. Ridisceso al piano rialzato passò davanti alla porta delle cantine lucida e lustra ma cocciutamente chiusa. Marco sapeva bene dove si trovava la chiave per aprirla. Era infilata su un chiodo sopra l’architrave in legno. Era rimasta sempre lì, in bella vista senza mai suscitare curiosità o voglia di trasgredire gli ordini del padre.
Però quel giorno era particolare e il caldo fece la sua parte.
Il ragazzo si alzò in punta di piede prendendola e aprì quella misteriosa porta, che cigolò paurosamente sui cardini ormai arrugginiti. La scala era in penombra e a fatica si distinguevano i gradini. Non arrischiò di accendere l’interruttore, perché di sicuro i fili elettrici rischiavano un corto circuito. Riaccostatala, andò a prendere una torcia nella sua stanza. Riaperta con cautela una potente zaffata di umidità, mischiata all’aria viziata di muffa e di chiuso, lo investì con prepotenza, facendolo retrocedere per un attimo. Poi diresse la luce della torcia verso il basso sui gradini che conducevano di sotto. Scese con circospezione, perché erano scivolosi per l’umido deposto dai molti anni di chiusura. Fatti pochi scalini si chiese per quale motivo stava affrontando questa discesa.
“Eppure non sono mosso dalla curiosità di vedere” disse ad alta voce per darsi coraggio.
Marco aveva sempre rispettato il divieto del padre senza porsi eccessive domande, perché gli erano stati inculcati valori, per i quali era rispettoso di doveri, principi e regole. Questa era la prima volta che trasgrediva una proibizione. Rimase fermo senza scendere o risalire, incerto sul da farsi. L’aria gli prese la gola come se fosse animata da una mano reale, che gliela artigliava, stringendola. Gli mancò il respiro e la vista gli si annebbiò. La torcia stava quasi per scivolargli dalle dita, quando allargò il torace per inghiottire più ossigeno che poteva senza modificare quella strana sensazione di oppressione. Nonostante faticasse a respirare con regolarità, prese la decisione di procedere nella discesa. Voleva vedere cosa si annidava in quelle stanze chiuse da oltre quindici anni.

Short stories – Leggenda indiana

Nuovo appuntamento con le storie a più mani. Qui siamo in tre
“Nonno, perché gli uomini combattono?”
Il vecchio, gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che sta perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma.
“E’ sempre stato così ma lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi.”
“Quali lupi, nonno?”
“Quelli che ogni uomo porta dentro di sé. C’è una guerra dentro di noi: è una lotta molto dura tra i due lupi. Uno e cattivo… è invidioso, ingordo, colpevole di molte colpe , con risentimento verso il prossimo, indulgente con se stesso, bugiardo e con un orgoglio finto.
L’altro invece è buono… è la gioia, la compassione, l’umiltà, la benevolenza e la verità…
La stessa lotta che c’è dentro di me adesso c’è anche dentro di te, e c’è dentro a ogni persona….”
Il nipote guarda in su verso il nonno e con gli occhi pieni di paura gli chiede:
”Dimmi nonno, quale di questi due vince?”
Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo, lo accarezzò, e rispose con occhi sereni.
“Quello che nutri di più.” (by demi)
“Nonno, come faccio a riconoscerlo?”
Il vecchio emise un sospiro. Quel nipote era veramente insistente. Doveva trovare un modo semplice per spiegarlo altrimenti avrebbe continuato a tempestarlo di domande. “Aspetto una risposta, nonno” disse il bambino mettendosi di fronte al vecchio indiano. Diede una lunga tirata alla pipa che masticava fra i denti ingialliti e cominciò.
“Vedi, Nuvola bianca, non è facile riconoscere quale lupo prevale ma dipende dalla indole di ciascuno di noi…”.
“Come sono io?” domandò interrompendo la narrazione.
“Tu come ti senti verso gli altri tuoi coetanei?”.
Il fanciullo ci pensò a lungo, scorrendo gli altri bambini del villaggio. Con Lama Lucente non riusciva ad andare d’accordo. Gli faceva i dispetti e lo ricambiava in ugual misura. Con Piede Zoppo invece non c’erano mai screzi. Un litigio e subito la pace. Come se non fosse successo nulla. Però era con Jack e Dam, i figli dell’agente indiano, che proprio non li voleva vedere per nulla. Con le piccole squaw non c’era nulla da fare. Le riteneva stupide e con loro non aveva mai contatti.
Il nonno attendeva pazientemente la risposta del nipote, fumando la sua pipa. Quest’ultima domanda l’aveva spiazzato e si trovava in difficoltà nel rispondere.
“Beh! Nonno, sono un po’ incerto nel rispondere” cominciò con lentezza a parlare.
“Non è facile rispondere a una domanda semplice che contiene molte sfumature”.
Il bambino scosse la testa per annuire ma voleva dare una risposta sincera.
“Nonno, ho riflettuto sui miei compagni di giochi. Con qualcuno fila tutto liscio, con altri litigo assai ferocemente …”.
“Dunque quale lupo coltivi?” ripeté stancamente il vecchio indiano. (by orsobianco9)
“Vedi nonno, io proprio non lo so” rispose incupito il piccolo Nuvola Bianca, attorcigliando le labbra tra loro. “Vorrei dirti che nutro solo il lupo buono, ma è una bugia”.
Il volto del vecchio si intenerì di fronte alla scena e allontanando la pipa sorrise: “Ascolta, giovane eroe, non sentirti triste se non sai darmi una risposta. E’ normale. Nessun uomo, per quanto grande sia, può nutrire solo il Lupo Buono. Anche se tu ci provassi, anche se tu combattessi con tutto te stesso per far morire di fame quello Cattivo, lui riuscirebbe sempre ad afferrare un po’ di cibo, e a convivere dentro di te”
“Quindi nonno, sono condannato ad essere una persona cattiva anche se non voglio. Non è giusto!”
“Dimentichi una cosa importante, bambino mio. Ti ho detto più volte in questo racconto che sta a te scegliere quale nutrire. Se tu deciderai di accudire quello Buono, sarete due contro uno. Schierati e alleati! E vedrai che gli inutili ululati dell’affamato Lupo cattivo diventeranno sempre più distanti e indifferenti”.
Il nipote aveva ripreso a sorridere ed esaltato esclamò: “Come quel detto: l’unione fa la forza!”
“Esatto, Nuvola Bianca. Esatto!”
E immersi in questa dolce allegria, due braccine si avvinghiarono al collo del vecchio:
“Ti voglio bene, nonno”. (by Maria Adelaide Carnazza)
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Short stories – Lei e me

Eccomi all’appuntamente settimanale delle Short Stories, scritte a più mani. Qui siamo in tre. Buona lettura.
Ricordo bene quella notte, o meglio le urla, i gemiti, le parole soffocate che disperate si perdevano nel silenzio e nelle orecchie di una donna di ventidue anni.
E’ stata la prima volta che ho visto un omicidio, ne sono seguiti poi molti altri e per nessuno di loro, di tutte quelle vittime non sono riuscita a fare niente, a salvarle.
Sono come sogni a occhi aperti che avvengono ad ogni ora della giornata, ma che sono accaduti prima del momento in cui mi appaiono in questo modo….chi è il colpevole? beh Sono io.
O meglio è la mia parte oscura, quella che sadicamente adora l’odore della morte. E’ il mio alter ego, la mia Hyde a cui Jekyll non può far nulla, perché nonostante tutto è una parte di sé.
Ma ora ho deciso di agire, di fermare l’altra e non permetterle di uccidere ancora.
Si, da stanotte non potrà più fare del male a nessuno perché finalmente la cancellerò dalla faccia della terra.
 
La stronza ha deciso che devo andarmene.
Lei…crede che stanotte riuscirà a farmi fuori.
Non sa di cosa io sia capace.
Non sa che sarò io ad ucciderla prima dell’alba.
 
Lei e me. due personalità nello stesso corpo che si fronteggiano come il diavolo e l’acqua santa, e c’è solo un modo per fermare tale scempio, esorcizzarmi.
Se lo sentisse mia madre, fermamente atea, direbbe che è una cosa stupida.
E l’avrei pensato anche io se non mi trovassi nella mia improbabile situazione, in un tumulto di emozioni in cui non riesco a trovare equilibrio.
La voglio fuori da me, voglio pensare alle cose stupide,tipo ai prati in fiore o alle cene a lume di candela e non vedere sangue dappertutto, voglio una vita normale dove sentirmi pulita.
Si, perché potrei affrontare qualsiasi cosa, ma non una coscienza perennemente sporca, un promemoria di quanto sia una persona orribile.
Voglio essere felice, lo pretendo e per questo rifiuto l’oscurità, avrò la mia luce e sarò spietata con chi non me ne lascia nemmeno un po’. (by Jane Austen)
 
Quell’idiota non capisce, quell’idiota non comprende.
Lei ha bisogno di me, ma io non di lei, e finalmente stanotte sarò libera dalle sue bigotte catene.
Se solo non fosse così cieca da non vedere che è lei stessa il motivo del suo dolore, se solo si unisse a me saremmo… Meravigliose, invece sarò costretta ad eliminarla, e forse è meglio così. Anzi, fremo nell’attesa dell’istante in cui la vedrò sparire nell’oblio. (by Pietro Birtolo)
 
Non posso continuare portandomi questo fardello appeso alle spalle. Le devo impedire di nuocere ancora. Ha ucciso dieci persone che non conosceva solo per il gusto di farlo, di sentirle urlare «Pietà, aiuto», vederle strisciare ai suoi piedi mentre esalavano gli ultimi respiri. La polizia brancola nel buio, non ci ha capito nulla. Non crede al serial killer, perché secondo i loro profili non ci sono punti di contatto tra i morti né altri elementi che possano in qualche maniera collegarli. Sì, lo ammetto è stata furba. Donne mai viste e incontrate per loro sfortuna nella sera nel quale lei ha deciso di uccidere.
Si avvicina furtiva, senza destare sospetti nella vittima, L’affianca, le sorride con un sorriso dolce come per salutarla e dirle «Siamo in due in questa strada malamente illuminata. Mi sento tranquilla, sapendoti che ci sei anche tu». La vittima risponde con un sorriso di ringraziamento. Poi la lascia sfilare un po’ avanti. A questo punto si guarda intorno. Non c’è nessuno, tra dieci passi le luci dei due lampioni lasciano il posto al buio. Si mette silenziosa alle sue spalle e con un gesto velocissimo passa la lama di un coltello affilato come un rasoio sulla sua gola. Un urlo strozzato della vittima gorgoglia rotolando fuori mentre cade a terra tenendo la mano sulla ferita. La guarda con occhi imploranti chiedendole aiuto ma la lascia lì agonizzante. La ferita è mortale e il sangue scorre a fiotti. Sul viso di lei appare un ghigno feroce. Un’altra vittima va ad arricchire le sue imprese.
Come posso continuare con questo peso sulla coscienza?
 
Lei crede alle sue idee bigotte, quelle sull’amore e la fratellanza ma in questo mondo non c’è nulla di buono, solo violenza e cattiveria. E io sono buona rispetto agli altri. Lei, la cretina, pensa di esorcizzarmi facendomi benedire! No, non ha capito nulla, la stronza! Tra poco metterò fine alla sua coscienza e ci sarò solo io a comandare questo corpo e questa mente. Voglio vendicarmi. Vendicarmi del mondo che è fasullo, vendicarmi di tutti questi ipocriti che sorridono davanti e tramano alle spalle. Un mondo nero come l’inferno e rosso come il sangue. Mi piace vedere le mie vittime agonizzare con la vita che vola via tra fiotti e gorgoglii. Ora siamo alla fine, al redde rationem!
 
Il peso di questa psicopatica è troppo insopportabile per essere portato ancora a lungo. Devo ucciderla definitivamente per raggiungere la catarsi. So come fare. Ho già elaborato un piano che non rivelerò se non alla fine.
 
Cosa sta tramando, la stronza? Ha chiuso la sua mente e non riesco a leggere nulla. E’ pericolosa. Devo agire in fretta. Dove sta andando? Non capisco. Non è questa la strada che ho scelto per il mio rito notturno. Sento il mare mugghiare in lontananza, il vento sferzare i miei pensieri. Fermati, idiota! Non è il posto giusto.
 
Eccomi. Sono arrivata. E’ la fine per te, assassina! Urlo parole che il vento disperde. Sotto di me il mare che purificherà ogni cosa. Addio, Hyde! E’ arrivata la tua fine!
 
Fermati Jekyll! Non posso morire! (by orsobianco9)
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Short stories – Una voglia occasionale

Nuova short stories a più mani con un finale … Buona lettura
E’ stupendo incontrarsi e capire dagli sguardi che insieme si potrebbe stare proprio bene, che fare l’amore sarebbe stupendo, esplosivo, coinvolgente, profondo… E’ una cosa meravigliosa trovare subito affinità, sentire che vorresti inebriarti del suo profumo, di lui, toccare la sua pelle, baciare il suo collo, mordere ogni parte del suo corpo.
E poi… E poi, quanto scopri che questa potrebbe essere la realtà, quando il suo primo tocco si concretizza e ti entra nell’anima, nella carne, quando le sue mani sulla tua schiena, sui tuoi fianchi, sulle tue gambe, anche se solo ti sfiorano, ti coccolano, ti accarezzano, tu inizi a sentirti estremamente strana, elettrizzata, suscettibile, ipersensibile.
Quando concretizzi tutte queste cose, realizzi anche che lui non è il tuo Lui, che è moralmente sbagliato desiderarlo, volerci giocare insieme, scherzarci, toccarlo e lasciarti andare… E inizi a provare un forte terrore, paura, ansia, inadeguatezza…Cominci a capire che non è l’amore che ti guida, perché l’amore è ben altro che sole sensazioni fisiche.
Razionalizzi e comprendi che è la voglia di qualcosa di nuovo che ti muove, che sei attratta da quel pizzicore che senti nella pancia quando ti guarda, ti sfiora, ti sbrana con gli occhi… Ma… Ma non è lui l’Amore, non è niente lui, è solo voglia di evadere, di lasciarsi andare, di rompere le barriere, gli schemi, le convenzioni, è puro desiderio, voglia di sentire emozioni forti, diverse, totalizzanti, provare esperienze che fino a ieri non pensavi che questo fosse possibile. Stai scoprendo in te una persona così totalmente diversa da quella conosciuta fino a quel momento, così estrema e determinata, che quasi ne hai paura. Adesso decidi di provarci. Un occasione così unica forse non ci sarà più. (by orsobianco9)
Immersa nel buio della notte rifletti su questa decisione improvvisa e devastante per come hai vissuto fino a poche ore prima di questa scelta le cui conseguenze non riesci a immaginarle.
Ma come può essere che proprio tu, sognatrice innata e innamorata eterna dell’amore, provi attrazione unicamente per il corpo di un uomo? Non resisti a quell’eccitazione che senti solo a incrociare il suo sguardo, che è sì fugace ma ti rapisce l’anima, il corpo e accende dentro di te un fuoco. Un fuoco che ti possiede continuamente, da mattina fino a sera.
E così ha deciso di assecondare questa tua voglia di rendere palpabili i tuoi più reconditi, proibiti ed eccitanti istinti che per troppo tempo hai represso, perché da sempre hai sognato di farti una famiglia, nel modo più classico che esista. Un amorevole nido in cui riversare tutte le tue aspirazioni. Purtroppo ti sei resa conto di aver scelto un Lui, che ti ha scelto come madre dei suoi figli ma che non riesce ad accenderti come lui. Quindi adesso ti avvicini a lui e decidi ti abbandonarti totalmente al suo corpo. Non ti importa se sarà solo una scopata occasionale o qualcosa di più profondo. Tu hai deciso che quell’uomo lo vuoi, a qualunque costo, perché hai capito che anche lui ti vuole, lo hai capito da come ti guarda, lo hai capito dal modo in cui ti tocca anche semplicemente un braccio. Hai capito che vuoi che il suo odore si mescoli al tuo, che il suo caldo e dolce respiro ti inebri. Non ti importa se quello che stai per fare sia moralmente sbagliato, perché per una volta nella vita fai qualcosa per te stessa. I vostri sguardi fugaci di fuoco sono destinati a diventare anche gesti di fuoco, dallo spogliarvi con gli occhi sareste passati ben presto a strapparvi i vestiti di dosso, già lo sai. Prendi un post-it giallo, ci scrivi il tuo numero di cellulare e lo appiccichi sullo schermo del suo pc. (by Ilaria Bianco)
Stupida! Illusa! Rincretinita!… E potrei continuare… Ma perché ci sono cascata? Perché non riesco a resistere? Perché non sono in grado di controllare i miei istinti, le passioni, la voglia… Perché?!
Non riesco a crederci, non mi riconosco… Non è mai stato questo il ruolo, non mi sono preparata per affrontare il palcoscenico della vita con questa maschera, che mi sta bene, mi calza a pennello. Quando la toglierò, mi rimarranno dei solchi sul viso e nel cuore che non mi appartengono…
Innanzi a me c’è quel viso cupo, malinconico, carico di tristezza ma pieno di erotismo, di sensualità e non capisco più nulla…. Ho sempre rincorso l’Amore, la voglia di stare insieme, di condividere la vita, le esperienze, i sentimenti, e ora – proprio ora- che ho trovato il mio Lui, mi brucia dentro un desiderio mai provato, una forza astratta, che proviene dal profondo della pancia, che mi spinge verso un lui che non è Lui, mi porta a desiderare le sue mani su di me, anche solo per un secondo, per un frangente così breve di tempo da far sì che nessuno se ne accorga, se non il mio corpo che sussulta, che vibra, che si accende….
Cosa mi sta succedendo? Sto accendendo un fuoco che mi brucerà, sono consapevole di non saperlo gestire e so che mi dovrò portar dietro una cicatrice indelebile, ma nonostante ciò non riesco a fermarmi, non riesco a bloccare i miei pensieri, i miei desideri…. e le mie azioni.
Solo una carezza, un bacio, nulla di più. Ma no, molto di più. Desiderio e fantasia volano lontani, oltre il semplice gesto dello sfiorarsi, del coccolarsi.
Un abbraccio innocuo, un guardarsi fissi negli occhi, in quelle orbite piene di desiderio, contemplarsi senza far nulla, se non un avvicinarsi piano piano, poco poco, senza superare il limite “fisico”, eppur sapendo perfettamente che con il pensiero esso è già stato appieno superato, archiviato e dimenticato.
Ma come è possibile non riuscire a gestire i propri impulsi e le proprie voglie? Mi reputo una ragazza abbastanza matura per riconoscere la differenza tra il giusto e lo sbagliato, sia moralmente, sia dal punto di vista di cosa potrebbe essere meglio per me, per il mio precario equilibrio psichico, per la mia vita. Eppure il mio corpo non mi obbedisce, i fremiti generati in me dalla sua presenza non sono frutto di una scelta, ma sono spontanei, innati, incontrollabili.
Quell’insignificante lui, dall’aspetto così trasandato e dai tratti così lontani dai miei canoni personali di bellezza, con quel carattere scontroso, tenebroso, cupo e chiuso, con quei modi bruschi e soprattutto quel lui di cui so che non mi posso fidare, perché mi farà male, mi userà, tradirà la mia persona, quell’uomo so che mi reputa una tra mille, un’insignificante lei da usare e gettare…. Eppure, eppure qualcosa di lui mi attrae talmente tanto, in modo così irresistibile, mi sembra impossibile stargli lontano, anche se so benissimo che lo devo fare. So che la mia vita è altrove, so che il mio Lui è la scelta giusta dettata dall’amore e non solo dall’eros, dalle passioni del momento. Lo so. Ne sono consapevole, eppure non riesco a scappare da questa morsa che puntualmente arriva, mi stringe, mi fa star male, mi provoca un dolore immenso e poi mi lascia andare e mi abbandona lì, sola, speranzosa e in conflitto perenne con il mio Essere…
Che diavolo sto combinando? Smetti di farti del male da sola! Di incasinarmi in situazioni imbarazzanti! Vuoi solo solo sentirti amata, è questo che dice il mio cuore. E ha ragione. Per questo maledettissimo delirio di potere e stupidità voglio sempre sentirmi amata, desiderata, nel mio intimo esigo che gli altri mi adorino, mi portino “sul palmo della mano”, voglio che gli uomini mi ammirino, mi trovino bella, intelligente, simpatica e poi… faccio di tutto per farmi trattare male, per farmi dire che sono brutta, grassa, priva di fascino. Quando so di non essere voluta, di non essere all’altezza, ci provo lo stesso, mi impunto. Forse non mi voglio bene, non mi piaccio. Per questo sono convinta che in fondo neppure gli altri possano trovarmi interessante, possano desiderarmi e amarmi per sempre… E cerco prove e riprove di questo mio pensiero malato. Smettila! I tuoi occhi blu non tollerano più di vederti frustrata, abbattuta, demotivava e non sopportano più queste lacrime. Ho voglia di urlare, di spaccare qualcosa, possibilmente la mia testa contro un muro. Ho voglia del mio Lui e del mio non lui, di sentirmi viva, di parlare, di vivere emozioni profonde, trovare un senso a questa vita, a queste sofferenze. L’Amore a volte non basta. L’Amore degli altri non basta per piacere a se stessi. Lui c’è e lo percepisco ma sono condizionata da quello sfarfallio nella pancia che provo quando il mio non-lui mi guarda, quando mi sfiora con lo sguardo, quando passa la sua mano sulla maglietta, sulla schiena. Non resisto quando accarezzandomi il ginocchio mi sussurra «ti vorrei …» .
So che non sarebbe possibile. Il suo è solo un gioco, non vuole me, vuole un’avventura, una notte come tante altre. La sua costanza nel rispondermi, nel cercarmi, nel guardarmi è solo frutto dell’orgoglio. Non è abituato a un no: quello che vuole se lo prende. Le sue esperienze erotiche non sono paragonabili alle mie. Per lui sarebbe una notte come un’altra, per me sarebbe diverso: sarebbe entrare in contatto con un mondo sconosciuto. Mi sento come una bambina curiosa a cui viene presentata una versione diversa di un vecchio gioco. Vuole scoprire, investigare, toccare le novità, sapendo di sbagliare ma che non riesce a trattenere la curiosità.
Si avvicina, gli parlo, mi guarda, ci guardiamo in profondità, mi accarezza il collo, leggermente, dolcemente. E’ lo sguardo fisso, duro, di chi sa quello che vuole. I brividi iniziano a scorrermi per il corpo. Mi prende, mi stringe, si avvicina, fa per baciami, ci sfioriamo le labbra, non è un vero bacio ma un preludio, un insieme di carezze, tocchi, allusioni. I nostri corpi sono attirati uno all’altro, ci abbracciamo con desiderio, vogliosi di scoprirci, accarezzarci, possederci. Iniziamo a muoverci in simbiosi, come se da un momento all’altro dovessimo diventare un’unica cosa, la realizzazione di istinti primitivi con una naturalezza che mi fa quasi paura. Non parla ma mi comanda con lo sguardo, coi movimenti. Mi stringe, le sue mani sulla mia schiena scorrono forti, mi accarezza, mi tocca, mi fa sentire così bella, eccitata, importante. Mi perdo in lui, nel suo abbraccio, nel suo profumo, mi spinge in un angolo, gli accarezzo i capelli, il volto, gli passo le dita nella schiena come per graffiarlo, per catturarlo, gli bacio il collo e chiudo gli occhi…Sono con le spalle al muro, indifesa, vogliosa e tremante… ho paura di lasciarmi andare, ma ho voglia di stare bene con lui, qui ed ora… Mille pensieri mi percorrono la testa, ma non riesco a dar loro forma e contenuto…Il mio inconscio sta cercando di parlarmi, di lanciarmi dei segnali, cerca di dirmi che qualcosa di sbagliato c’è… Chi sono io? chi è lui? cosa siamo noi? Quante probabilità ho di star male, farmi male e soffrire? Ma le sue parole interrompono il mio flusso di coscienza… “Siediti”, mi dice. Sono intontita, inebriata dalla passione, dal suo odore, dalla voglia di lui… Lo ascolto, si inginocchia, davanti a me, mi accarezza i seni alzandomi leggermente la maglietta, poi la lascia scivolare di nuovo sul mio corpo e mi tira i capezzoli mentre mi bacia il collo e poi le sue mani scendono, mi toccano, mi sfiora i piedi, le caviglie, le gambe e poi di nuovo sale, dolce ma sicuro di se’, del suo tocco. Vibro, il mio corpo è come se non volesse più rispondermi, lui mi continua a fissare e mi sussurra: ora sta a te, a quello che vuoi… E io… mi sveglio. (by Orsobianco9)
E al risveglio
Arrivò inaspettata la mutazione e la neo farfalla iniziò a volare. Dapprima incerta, si posava di fiore in fiore, vicini l’uno all’altro. Le parole dei compagni del nuovo mondo le scorrevano addosso come le acque di un ruscello: lambivano la riva del suo cuore con rispetto. Lei non osava mettersi a nudo e mostrare le sue ali che rivelavano due grandi occhi azzurri. Mentre teneva le ali racchiuse si avvicinò un’altra farfalla che aveva capito il suo timore. Le volava intorno,desiderava la sua amicizia o forse avere con lei un rapporto più profondo. La piccola farfalla fuggiva e poi ritornava in un volo continuo come in un cerchio magico. Un andirivieni che creava sconcerto nella nuova amica. Poi l’intesa si creò nel cuore della notte, rischiarata solo dalle lucciole.
La farfalla sospirava: la gioia provata sembrava cancellare il suo passato. Temeva di assaporare il piacere. Il nemico poteva essere in agguato. Era una sensazione nuova quella che provava oppure ritrovata. Era chiusa nel cassetto della memoria.: uno scrigno di un tesoro che credeva perduto per sempre.
Aveva detto addio a quel sentimento quando se ne stava chiusa nella sua cella, libera fisicamente ma prigioniera nell’anima. La dolcezza che credeva perduta la penetrava nel profondo fino a stordirla. Trattenuta dall’insicurezza che la caratterizzava lei andava e poi tornava per allontanarsi di nuovo, confondendo chi le stava accanto. Sapeva di perdere la compagna ma era determinata a sottrarsi al suo invito.
Fuggì nella notte, rischiarata da un quarto di luna rossa e da una miriade di stelle. (by rainalda)
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Short stories – Lacrime

Continua la serie delle Short stories a più mani. Oggi propongo un incipit non mio e il resto della storia che ho confezionato. Buona lettura
-Sei una bastarda egoista.
Credevi di averle finite, le guance che hanno fatto male per giorni. Sono scese come non credevi possibile, come avevi visto succedere solo nei film. Occhi spalancati, nessun singhiozzo, solo questo calore lungo il viso, i vestiti che si bagnano, il sale sulle labbra, il naso che lotta per farti respirare. Non ti aspettavi quel sms che le fa uscire di nuovo dai tuoi occhi stanchi.
Una bastarda egoista perché gli vuoi bene. Perché non resistiti e continui a dirglielo che gli vuoi bene. Forse lo fai troppo spesso, ma tu gli vuoi bene sempre, cosa vuoi che siano dieci, quindici messaggi al giorno contro quei millequattrocento minuti al giorno in cui lo pensi. Come fa a non capire?
Bastarda egoista saresti se decidessi di eliminare la sua distrazione. Torna dal lavoro a piedi e attraversa un passaggio pedonale stretto e malconcio, che serve una sola piccola palazzina con pochi inquilini. Il martedì rientra dopo le nove di sera.
Accarezzi la sciarpa di seta che lui ti ha regalato a Natale dello scorso anno. Leggera, resistente…te l’ha regalata lui e tu gli chiedesti quando mai ti sarebbe servita…te ‘ha regalata lui: sapeva che ti sarebbe servita.
-Non sono una bastarda egoista. Vuoi che lo diventi? lo posso fare per te
Ora aspetti la sua risposta, le lacrime che spariscono in un sorriso (by Francesca Frabetti)
La risposta tardava mentre la mia mente era in subbuglio. Perché? Perché? Domande, ancora domande. Quando avrei smesso di pormele? Mai, perché vivevo solo di questo. Non c’era posto dentro di me per qualcosa di diverso.
Mi sembra di impazzire, vorrei piangere ma gli occhi sono secchi come se si fossero prosciugati ma forse a secco sono rimasta io.
Guardavo lo smartphone. Solo messaggi insulsi, baggianate da facebook, tweet inutili ma manca all’appello solo il suo.
Riscrivo? Si è andato perso nel web? No, aspetto con ansia mentre monta dentro di me la piena di lacrime. Che sciocca! Lui è troppo vecchio per te perché possa continuare a scriverti. L’avrai annoiato con quelle frasi infantili e puerili con le quali lo hai tempestato.
Io vivo a Milano, lui a Parma. Un ora di frecciarossa o di macchina ci divide ma ho l’impressione che abbia mentito. Ho solo sedici anni e non credo che i miei mi lascerebbero partire per una località vicina ma sconosciuta senza domandarmi chi vado a trovare. Però lui potrebbe venire senza problemi. Così lo potrei stringere e baciare. Potrebbe coccolarmi e accarezzare. Gli ormoni sono in subbuglio, la testa pare avere la febbre. E se mi dicesse «Arrivo tra un’ora» sarei pronta? Non lo so ma il messaggio tarda e le lacrime scendono.
Lo sento vibrare, lo guardo. E’ lui. Lo apro e lo leggo. Mi siedo e lo rileggo.
«Tra due ore sono in Piazza Duomo. Ti aspetto».
E adesso che faccio? (by orsobianco9)

Sono le due del pomeriggio, lui mi aspetta alle quattro in Piazza Duomo. Oggi è domenica e nessuno saprebbe nulla di nulla. Non dovrei dare spiegazioni a nessuno.

Che faccio? Rispondo «Sì. Alle quattro di fronte al Duomo» oppure «No. Non ci sarò». Ho voglia di vederlo ma si meriterebbe la seconda risposta.

-Sono però una bastarda egoista! E quindi rispondo Sì! Comincio a prepararmi, mentre la mia risposta è già partita. Le lacrime sono diventate dei sorrisi euforici. Apro l’armadio per cercare qualcosa di carino, che gli faccia dire «Cazzo, quanto sei bella!» ma lo so che non me lo dirà mai. Mi vuol vedere soffrire ma non importa. Percepisco già il suo sguardo su di me, i brividi che mi provocheranno le sue mani sulla mia pelle, le sensazioni che il mio corpo sentirà quando mi bacerà. Guardo l’ora.

-Cazzo, sono in ritardo. Mi devo sbrigare. Tra quindici minuti devo uscire per prendere la linea gialla. Cosa mi metto? Rovisto, non trovo nulla che mi piaccia o di adatto alla circostanza. Velocemente infilo jeans e camicetta azzurra su mutandine nere e reggiseno bianco, quello a balconcino. Potrei farne a meno per quei due pomi acerbi e piccoli che sono i miei seni ma a lui piacciono le donne formose. Rido a questo pensiero perché sono tutta spigoli e basta. Infilo due ballerine ma forse sarebbe stato meglio un tacco 9, che non possiedo. Il mio metro e sessanta sfigura accanto al suo metro e ottanta. Per baciarlo devo mettermi in punta di piedi e non è sufficiente. Ma non importa. Gli voglio bene anche se lui finge di non volermene. A questo pensiero una lacrima riga il pfard.

-Porca miseria! Non ho tempo per sistemarlo. Devo correre se voglio essere alle quattro davanti al Duomo. (by orsobianco9)

Sono affannata dalla lunga corsa. Prima per prendere la linea gialla e poi per salire in superficie e arrivare in Piazza Duomo. Non lo vedo. Guardo l’ora. Sedici e dieci.

-Per dieci minuti di ritardo è già andato via? Non posso crederci. Le lacrime scendono copiose sulle guance. Sono affranta. Mi ero fatta bella per lui ma una piccola risata cancella l’amarezza di non vederlo.

Bella? Quanto sei vanitosa Anita! Mi dico mentre le lacrime continuano a scendere senza posa. Mi aggiro inquieta tra la folla della domenica pomeriggio. Sento un «Perché piangi?». Mi volto arrabbiata.

-Chi, cazzo si permette di dirmi questo? Non vedo nessuno se non un ragazzino magro e brufoloso. Lo fulmino con gli occhi e se fossi una maga sarebbe già cenere ma resta lì irridente a guardarmi.

“Perché piangi?” mi richiede.

-Fatti i cazzi tuoi! Gli rispondo a muso duro.

“Posso consolarti!”

-E chi vuol essere consolata?

“Dai vieni con me!” e allunga una mano verso di me. Mi sposto all’indietro, non voglio essere sfiorata da quel moccioso. Voglio solo lui ma non c’è.

“Non sono infetto” insiste sorridente mostrando una dentatura poco invidiabile, storta e per nulla pulita. Sento un brivido ma non di piacere. Mi giro e mi muovo. Lui mi segue e continua a parlare. Si affianca e tende la mano verso la mia.

“Sei bella! Come ti chiami?” mi domanda con quel sorriso storto. Fingo di non aver sentito. Non mi va di essere abbordata da sconosciuti, tanto meno da un ragazzino che ha appena finito lo svezzamento. Mi domando perché Simone se ne è andato. Poteva aspettare almeno dieci minuti.

“Come sei scontrosa” dice avvicinandosi ancor di più. “Alberto. Al per gli amici” continua. -Ma chi se ne frega se i tuoi amici ti chiamano Al. Cammino svelta verso il Duomo. Penso di rifugiarmi là, quando sento vibrare lo smartphone. (by orsobianco9)

Mi fermo. Leggo il messaggio ‘Arrivo tra un ora’.

-Porca miseria! In ritardo è lui! E ora che faccio?

“Chi è che ti scrive?” domanda petulante Al.

Ma fatti i cazzi tuoi, vorrei rispondergli ma taccio e riprendo a camminare verso l’ingresso del Duomo. Guardo l’ora. Sono le sedici e trenta. Tra un’ora significano le 17 e 30. Nemmeno il tempo di dirci «Ciao» e devo riprendere la linea gialla. A fine ottobre le giornate sono corte e fa buio presto. Non posso rientrare troppo tardi senza insospettire i miei. Le lacrime riprendono a scendere.

“Ti ha piantata?” dice il ragazzo, vedendomi triste.

Mi volto dall’altra parte e entro decisa in chiesa. Egli mi segue standomi sempre al fianco. Comincio a innervosirmi. L’interno è scarsamente illuminato come il solito, quando non ci sono funzioni. Qualche spira di sole filtra dai finestroni. Sento freddo. Sono vestita estiva ma avrei dovuto mettermi qualcosa di più pesante. Per lui sarei venuta anche nuda e non avrei percepito nulla. Solo il suo calore. Mi fermo davanti a un altare laterale. Anche il ragazzo si arresta di fianco a me. Sembriamo due innamorati ma col fischio che lo siamo. So che si chiama Alberto e basta. Avrà quindici o sedici anni. Un bambino. Mi metto a ridacchiare, pensando ai miei sedici anni come se fossi una donna matura.

“Perché ridi?” mi sussurra in un orecchio. Non resisto e sbotto.

-Ma fatti i cazzi tuoi! Una donna si gira e mi fissa male. Divento rossa. A volte sono dannatamente sboccata. E qui sono nella casa del Signore. Dico un atto di dolore, storpiandolo non poco, perché non lo ricordo. Mi avvio all’uscita sempre seguito come da un’ombra da Al. (by orsobianco9)

La luce di ottobre mi fa strizzare gli occhi umidi di pianto, quando esco sul sagrato del Duomo. Non riesco a scrollarmi dal fianco questo intruso che continua a parlare. Guardo l’ora. Appena le 17. L’attesa è lunga. I minuti appaiono lunghissimi, il tempo si è fermato. Ho la lacrima facile ma il pensiero di lui è troppo forte. Lo so che è tutto effimero. Simone ha ventidue anni. Troppi per una ragazzina di sedici. Ci siamo conosciuti in rete un anno prima e ho mentito sull’età. Per Natale mi ha spedito il regalo: una sciarpa di seta rossa, che accarezzo quando penso a lui. Ho inventato mille scuse per non incontrarlo e coprire le mie bugie. Oggi non ho resistito. Sono pazza di lui. Lo voglio, lo desidero. Vorrei essere nel letto con lui ma devo solo sognare.

“Non mi vuoi dire come ti chiami?” dice per l’ennesima volta questo scocciatore.

-No! Rispondo secca.

“Perché?”

-Sono fatti miei. E ora lasciami in pace. Sto aspettando il mio ragazzo. Dico mentendo. Voglio solo liberarmene.

“Quando arriva?”

-Ma che t’importa?

“Mi piacerebbe vederlo in faccia, quello sfigato!” Divento paonazza dall’ira e dalla vergogna. Mi sposta ma mi segue come un’ombra. Il tempo scivola lentamente ma non passa mai. Mi giro e lo vedo o almeno credo che sia lui.

-Come farà a riconoscermi? Gli vado incontro.

“Ciao, Anita! Quanto sei bella!”

-Ciao Simone. E mi allungo in punta dei piedi per baciarlo. Una lacrima scende sul viso. (by orsobianco9)

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Short stories – Le mutandine cremisi

La short stories di questa settimana appartiene a me per soli due snodi, gli altri quattro sono di tre autori diversi

Mi incanto spesso con lo sguardo nel vuoto. Osservo il tramonto. Colmo di quel suo tratto rosso che mi separa dai giorni. Di accecato sguardo,inciampo lento sui pensieri crudi della vita. Camminavamo insieme,io e lei,quando dei nostri tanti passi tracciavamo una sola orma,e di futuro l’unica impronta. L’eyeliner le scorreva sul viso,come un fiume di parole avvolto da lacrime. Aveva dipinto il pianto, su una tela che incorniciai per sempre. La ebbi più volte di nascosto ma non la amai. Quelle sue mutandine di pizzo cremisi,a colorare contorni di labbra celate,fra gambe dischiuse di gonna nera, parlavano più delle parole. Qualunque cosa indossasse la rendeva unica. L’abito lungo da sera. Quell’aria da donna viziata. I suoi tacchi alti. Le sue innumerevoli maschere. Così non vivevo della fugacità del tempo, né vivevo mai la verginità di ogni suo peccato. Ero ingegnosamente felice. Aveva curve in posti dove le altre donne non hanno nemmeno i posti. Nutrivo il desiderio di un suo seno come il suo latte nutriva le esigenze di un bimbo. Prima che si abbandonasse alla notte, fra luci soffuse, me la lasciavo danzare nel sangue. Scavalcai stanze certe, pur di poterla raggiungere. È come se mi dovesse rubare un sogno. L’avrei spinta al muro e baciata fino a farle perdere il respiro ma oramai il muro era fra noi… “Ho tacchi troppo alti perché io possa correrti dietro, e un’autostima altrettanto alta per poterti correre dietro scalza…” mi disse. Io non volevo essere baciato dalla fortuna. Volevo andarci a letto. Io e Lei.. … E ora immobile, sul ciglio della vita, colgo spicchi di luna, fra stelle che scorrono,e sogni che sfuggono. Le rubai il tempo,ma mi catturarono le sue promesse. É nella prigionedel rimorso che vivo l’ergastolo del suo ricordo… Frammenti d’animo, su negativi di memoria… (by Gianni Bagnoli)

“Staremo assieme finché dura!” questo era il patto, a volte sembra che si dicano queste cose solo per rendersi più malinconici quando cala la sera, e arriva la fine.
Ed è beffardo il tempo: le sue parole erano chiare per quanto si lasciasse scorrere tra le labbra quel senso ingenuo, ambiguo che sembra lasciare la parvenza che qualcosa si possa ridestare come un morto quando tutto è compiuto. Ma i miracoli non esistono, e quel che più è vicino al miracolo è il caso, rassodato da un pacco consistente di volontà. Alla fine diciamocelo non c’è sempre la speranza che duri in eterno? Eppure forse lì capii che avrei potuto amarla, solo quando mi mise quel muro dinanzi: io non vedevo più la stessa stradina percorsa più volte, su di lei, in lei, in me, assieme e sempre con estremo piacere nelle lunghe ore della notte, ma vedevo l’ oblio. Era il gusto salino del sudore spremuto dalla sua pelle nella zona che sosta tra la sua spalla e il suo collo? Era il suo rossetto rosso tenue che si intonava con i colori dei suoi occhi scuri? NO. Era la sua incertezza che mi faceva fremere. (by Lucilla Malaugurio)

Era quell’indumento intimo che mi faceva impazzire. Il pensiero del cremisi che affiorava tra le pieghe dell’inguine non mi faceva dormire. Era un sogno ricorrente, una
fantasia continua.
“Mentre adesso stringo Anna fra le mie braccia e le sussurro parole dolci all’orecchio, mi sembra di abbracciare lei e mormorarle quelle parole. E sono preso dall’ansia senza controllo”.
“Che hai” mi dice la compagna.
“Nulla. Ma mi piacerebbe regalarti delle mutandine color cremisi”.
“E un colore che odio” replica scostandosi dalle mie braccia.
“Eppure ti starebbero benissimo”.
“No” e fa il gesto di alzarsi dal letto, di fuggire lontano da me. “Non me le metterò mai!”.
Allora mi riabbandono alle mie fantasie e sogno amplessi irrealizzabili. Le sollevo la gonna con lentezza facendo scivolare le mani su quelle gambe glabre e lisce come il velluto. Lei freme impaziente.

“Aspetta” le dico. Scorgo il pizzo cremisi e poi tutto il resto. Sposto un lembo. Lei inarca la schiena per farsele sfilare. Adesso è mia. La sento ansare. Il cuore accelera. Lei urla di gioia e di piacere.
Sento un botto di una porta. Mi sveglio. Sono solo. (by orsobianco9)

Anna se ne era andata, iniziava il lavoro alle 8 quel giorno presso una nuova azienda di architettura in città. Conosco Anna da quasi 5 anni, è una brava compagna e amante, sempre presente e premurosa. Viviamo da un anno in un mini appartamento. Vivere con lei mi ha fatto capire come spesso la realtà sia diversa da come la si immagina. Maledetta immaginazione, io ne ho fin troppa e non sempre riesco a buttarla sul lavoro. Disegno fumetti e faccio l’operaio part time. Con Anna anche il sesso non andava male, ancora ci cercavamo e non mi potevo lamentare ecco… Ho quasi 34 anni e da qualche tempo mi chiedo se potrò mai conciliare l’amore con il sesso. A volte li confondo, quello che sento per Anna è forte, è un sentimento che credo sia amore, ma… perché poi cerco altro altrove?! Vorrei essere felice così. Dopo aver fatto tutto l’elenco delle cose positive di me e Anna una voce mi stuzzica dicendomi “è solo razionale, non sarà una lista della spesa sulle qualità che ti renderà completo!” ma allora cosa?! Con Anna posso pensare a costruire qualcosa di duraturo… perché tra me e Anna funziona alla fine, sì ci sono i soliti scazzi chiaro..ma chi non ne ha!?
Vorrei prendere e andarmene via da qui… mi alzo guardo fuori dalla finestra…il cielo è ricoperto di nuvoloni grigi, si sta preparando a piovere… il cielo piange, dentro di me la tormenta si placa un po, perché quando si piange dentro e fuori piove ci si sente cullati e compresi.
Mi alzo ed inforco la mia matita carboncino, allontano le scartoffie dalla scrivania e lascio che la mia mano segua il corso del foglio, come se fossero i suoi seni e i suoi fianchi…se solo le urla di piacere si potessero disegnare la mia testa non sarebbe sempre pronta ad esplodere. (by Lucilla Malaugurio)

Driiiiiin. Suona il telefono. E’ Anna che mi chiede se sta sera ho voglia di uscire fuori per cena. “Dai amore, hanno aperto un nuovo ristorantino indiano. Andiamoci! E fammi felice questa volta…che ti costa!”
Non ho voglia, ma decido di accontentarla. Anna è permalosa e contraddirla comporterebbe un’intera serata di rancorosi silenzi.
Oggi proprio non sono in me, non ho lo stimolo per fare nulla. Riprendo in mano il carboncino e continuo a tracciare forme di donna e intanto fantastico, sogno, provo a toccare il cielo con un dito (o meglio, con una mano..) mentre immagino la mia ragazza “mutande cremisi” vestita come una danzatrice del ventre, con tanti veli semi trasparenti, sempre color cremisi, svolazzanti sui suoi morbidi fianchi. Un bustino a balconcino che lascia ben poco alla fantasia, quei suoi occhi da felino che intriganti mi fissano.
Quanto vorrei averla di fronte, in carne e ossa, e possederla. Ancora una volta, e poi ancora…ogni orgasmo con lei era un biglietto d’ingresso per il paradiso. Non era una ragazza spinta o porca, anzi, Anna forse è molto più aperta di lei, però quei suoi ingenui modi di provocare mi davano alla testa, mi facevano vedere le stelle.
Vorrei rivederla, davvero. E’ la cosa che più vorrei in questo momento… (by Maria Adelaide Carnazza)

Aveva ragione Anna. Una serata diversa serviva per scaricare quella tonnellata di cattivi pensieri che vagavano per la testa. Era felice. Non smetteva di parlare di Marco, il gran capo, di Antonio, il giovane di studio e di chi so io, tanto il nome l’avevo dimenticato. Solo un dettaglio non ero riuscito a cacciarlo via: erano le mutandine cremisi. Ormai erano un’ossessione, un farneticare senza scampo. Ormai lo sapevo: queste mitiche mutandine Anna non le avrebbe mai indossate, nemmeno se l’avessi legata. Piuttosto si sarebbe uccisa. Me l’aveva detto. “Mutandine color cremisi non le metterò mai!” mi aveva urlato in viso l’ultima volta che quasi implorando glielo avevo chiesto. Sembrava una belva, era fuori di testa. Non avevo mai osato chiederle i motivi di questa avversione, temendo che mi piantasse su due piedi. Però devo scoprirlo prima che diventi una malattia. Stasera non mi pare la serata adatta. Allegra e felice per il nuovo lavoro, per i nuovi colleghi che trovava simpatici. No, non era il caso di turbare quest’atmosfera gaia. Tornati nel monolocale, Anna mi trascinò in camera. “Basta disegni!” disse scompigliandoli tutti, mentre ero costernato perché avrei faticato a rimetterli in ordine. Fu un’orgia di piacere. Si mise sul dorso e cominciò a parlare. “Ho visto la tua eroina con le mie fattezze e le mutandine cremisi. Stasera sono in vena di descriverti i motivi del mio odio. Avevo 16 anni. Avevo comprato degli slip cremisi per una festa in campagna. Ubriaca di alcol e fumo, Luca mi prese, le strappò e mi violentò. Ero ancora vergine. Ci vollero anni per riprendermi. Ma forse un giorno le metterò per te”. (by orsobianco9)

Short stories – 2154

Questa settimana presento un short stories messa su 20lines dove solo l’incipit non è mio. Diversamente dal solito la pubblico integralmente. Una storia al futuribile ma forse non troppo.
 
Giunse un’epoca in cui le disparità della nostra specie si acuirono nonostante tutte le lotte, tutte le ribellioni, tutte le conquiste dei secoli precedenti per abolirle. Giunse un’epoca in cui il mondo ripiombò nel caos, nel disordine e nella miseria e il 10% della popolazione si rifugiò su stazioni spaziali lussuose e paradisiache, nuovi ed autentici mondi lontani dal nostro, divenuto inabitabile e sovrappopolato. Il governo del pianeta stabilì nuove leggi sull’immigrazione cercando di fermare la fuga di molte persone che continuamente tentavano di arrivare su queste stazioni spaziali, per preservare il lusso e il benessere per i pochi privilegiati, senza guerre, senza povertà, senza malattie… (by Re Edoardo I)
 
“Dobbiamo imbarcarci per Minosse” disse Anna, una formosa donna al suo amante.
“Come” rispose spaventato.
“Non importa come, ma tu ci devi riuscire” replicò spazientita.
L’uomo si strinse nelle spalle, perché sapeva che era più facile passare dalla cruna di un ago che i varchi dell’astrostazione di Megalopoli, l’unica abilitata a voli interplanetari. Anna se ne era andato sculettando sotto gli occhi cupidi di diversi uomini dagli occhi arrossati per il continuo bere di sarkipede, una bevanda estratta dalle alghe del mare e che producevano effetti allucinogeni. Matt scosse la testa e pensò che uno di queste volte quegli uomini che bivaccavano giorno e notte sui marciapiedi e le panchine del Central Park se la sarebbero fatta lì incuranti delle persone che passavano. Lo sapeva ed era ben conscio che nessuno avrebbe mosso un dito. Quando finalmente la sagoma dai capelli rossi della sua amante scomparve all’orizzonte, si mosse per tornare a casa.
Era appena entrato, quando il videotelefono galattico prese a vibrare dicendo: «Per Matt Demon c’è una chiamata entrante. Il chiamante non vuole dichiarare la sua identità. Cosa faccio? Apro la comunicazione oppure la respingo?». “Chi sarà mai la persona che vuol mantenere l’anonimato?” si chiese gettando la giacca sul divano ad acqua. Il videotelefono continuava imperterrito la sua litania. Matt incuriosito da tanta insistenza gli comandò «Apri la comunicazione e metti il vivavoce con registrazione della chiamata». “Matt Demon apre in vivavoce con registrazione. Parlate” (by orsobianco9)
 
“Caro sono io” disse una voce che riconobbe subito.
“Cosa c’è?” le chiese.
“C’è un intoppo”.
“Quale?”
“Non posso venire su Minosse”.
“Hai cambiato idea?”
“A dire il vero, no. Ma per un gruppo di uomini, sì”.
Stava per dire qualcosa, quando udì una voce impastata di alcol «Fatti da parte. E’ il mio turno». Rabbrividì. Dunque le sue fosche previsioni si erano avverate prima di quanto immaginasse.
“Quando pensi di essere libera?” le domandò.
“La fila è lunga” rispose sconsolata.
“Dove sei esattamente?”
“Forse nelle viscere della metropolitana”.
“Il volo per Minosse è fra 6 ore. Prova a sveltire la coda servendone due o tre per volta”. “Ci proverò. Ma non so se sarò in condizioni presentabili” ammise sospirando.
Era arrabbiato con Anna. Voleva partire per Minosse subito, aveva smosso mari e monti per ottenere due pass d’imbarco per un volo diretto e adesso lei era quasi spacciata, perché dubitava che l’avrebbero lasciata libera tanto facilmente.
“Devo trovare un’altra compagna di viaggio e chieder il cambio del nome”.
Chiamò Lucia, l’amante di scorta, meno appetibile di Anna ma con prestazioni non male. “Ciao. Ho un pass per Minosse. Sei libera?”
“Per te mi libererei di tutto, compresa la prima pelle”.
“Prepara un bagaglio leggero. Max 20 once. Ti passo a prendere tra due ore”.
“Ma non porto nulla!” esclamò esterrefatta.
“Non importa. Comprerai il resto a Minosse”.
“Ma là mi dicono che tutto costa il doppio”.
“Pazienza”.
In effetti Anche per Matt era un peso ridicolo ma chi gli aveva fornito i pass era stato categorico. Chiamò il taxi-disco per raggiungere la astrostazioine. Aveva appena recuperato Lucia, quando il videotelefono galattico riprese a vibrare. “Una chiamata non dichiarata per Matt Damon”. (by orsobianco9)
 
“Matt!” udì una voce disperata, senza vedere nulla. “Aiutami!”.
“Non posso. Mi sto imbarcando per Minosse” e chiuse la conversazione.
“Chi era?” chiese Lucia.
“Anna” rispose l’uomo con noncuranza. “Ora prepariamoci all’imbarco” le disse.
“I signori astronavigatori in partenza per Minosse sono pregati di mettere il bagaglio nel cilindro 3 e entrare nella cabina di lievitazione 21”. Eseguite le istruzioni si ritrovarono col bagaglio fra i piedi e distesi in una capsula a due posti.
“Sono emozionata” disse Lucia.
“Primo viaggio?” le domandò.
“Primo in tutto. Non vedo l’ora di arrivare” rispose entusiasta. Dalle cuffie sentirono il messaggio di benvenuto del comandante e le ultime istruzioni. “Allacciate le cuffie stereofoniche, restate distesi e respirate con molta lentezza. La partenza è prevista tra 3 nanosecondi e l’arrivo, salvo tempeste intergalattiche tra 9 anni luce”. Un brivido percorse la schiena di Matt. Nove lunghi anni immobile e disteso. Tacque e ascoltò la musica cacodeifonica del 2154 fino allo sfinimento. Lucia gli teneva la mano ma rimase in perfetto silenzio per i nove lunghi anni. Se non fosse stato per le cuffie sarebbe stato perfetto. Nessun suono a ottundere la mente e le orecchie. In un lampo si domandò se Anna fosse riuscita a tornarsene a casa con le sue gambe. Al rientro da Minosse l’avrebbe saputo.
“Il comandante vi saluta. Siete arrivati su Minosse in perfetto orario. Buon soggiorno. Vi aspetto per il prossimo viaggio intergalattico”. Un perfetto sistema di lievitazione mentale sbarcò Matt e Lucia sul pianeta più distante dalla Terra. Una città futuribile apparve ai loro occhi. (by orsobianco9)
 
La città era avvolta in una cupola trasparente e tutti viaggiavano col pensiero. Ogni tanto c’erano degli scontri mentali e qualcuno ne usciva ammaccato. Si chiamava il 3018 e una elilevoambulanza li raccoglieva. Li intubavano e li sparavano direttamente al futuro-hospital, dove robot femmine fungevano da assistenti. Le infermiere erano sconosciute. Robot etero o ermafroditi operavano col laser. La malasanità esisteva anche su Minosse. Ogni tanto il software si avariava e sbagliavano o diagnosi o interventi. Se ti andava male rimanevi storpio con una pensione da fame, così morivi prima. Se ti andava bene, avevi un funerale interspaziale di lusso. Tutto a carico del IGAMSI.
“Cosa significa quella sigla strana?” chiese un giorno Lucia passeggiando per i giardini volanti di Minosse.
“E’ meglio non saperlo. SI ovvero Salute Infausta” le rispose, sedendosi su una panchina sospesa a 3000 piedi.
“E’ possibile uscire da Minosse per visitare il pianeta?”
“Certo ti infili nel taxi-tubo. Metti quattro galli e mezzo nella feritoia e punti il dito sulla carta planetaria. In un amen ci finisci”.
“Potremo andarci un giorno” gli disse.
“Certamente, Lucia. Prendiamo un duotaxi-tubo a due posti”. A Matt cominciava andare stretto Minosse, perché essere sempre in contatto telepatico era faticoso come fare sesso. Fare sesso era davvero complicato. Dovevano tenersi stretti, anzi legarsi con apposite cinture. Non ci poteva dimenare troppo o urlare, né fare petting. Solo una sveltina veloce veloce e poi a rifiatare. Morale non si faceva nulla.
“Torniamo sulla terra” le disse un giorno. “Sono stanco di questa vita monotona. Mai nulla di interessante”. Detto e fatto. Furono sparati per nove lunghi anni luce verso Megalopoli. (by orsobianco9)
 
Tornato sulla Terra, a Matt parve che non fosse cambiato nulla, come se fossero passate poche ore da quando Anna gli aveva richiesto aiuto. Molti runner continuavano a correre imperterriti per i viali di Central Park, venditori ambulanti di cianfrusaglie erano sempre fermi agli angoli. Robot-poliziotti si aggiravano per le strade. Insomma tutto immutato. Eppure aveva fatto un lungo viaggio verso Minosse, aveva soggiornato per un tempo indecifrabile e aveva rifatto il tragitto inverso. Si chiese se avesse fatto un lungo sogno. “Ciao, Lucia” le disse al videotelefono.
“Ciao! Quale misterioso motivo ti stimola questa chiamata?”
“Volevo sapere …”.
“Cosa? E’ un secolo che non ti fai vivo e vuoi sapere qualcosa da me?”
Matt deglutì vistosamente, perché qualche conto non quadrava più. Stava per dirle «Ma come ci siamo lasciati all’astrostazione di Megalopoli non più di 2 ore fa», quando balbettò qualcosa, una scusa puerile. “Niente. Volevo invitarti stasera al ristorante Exoticum per una cena in stile vintage”.
Una bella risata risuonò nei timpani. “Mi vuoi prendere in giro? Sono secoli che fai vita ritirata. E poi Anna … Non è questo il motivo della telefonata”.
“In effetti …” cominciò balbettando. “Mi sento strano come se vivessi un sogno …”.
“Fa una seduta psicoanalitica. Potrebbe risolvere i tuoi problemi”.
Matt incapace di connettere era seduto sul divano dei pensieri, quando il videotelefono cominciò a vibrare. “Anna Moore chiama Matt Damon. Apro?”. “Sì” rispose vedendola sul display arrabbiatissima. “Dove sei stato disgraziato? Sono due ore che ti aspetto alla porta Est di Central Park”. Fu il colpo di grazia. (by orsobianco9)
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Short stories – L'esitazione dell'ultimo minuto – parte seconda

La prima parte la trovate qui.
 
Alba filò dritta verso la stazione centrale, senza più voltarsi indietro. Tuttavia, il suo cuore batteva con insolita pesantezza, e tanti pensieri si muovevano nel caos della sua mente.
Paolo le aveva dato tutto quello che lei avrebbe potuto chiedere dal giorno in cui era uscita da quella stramaledetta casa-famiglia, due anni prima. Si erano visti di rado, certo, ma tra loro correva quel qualcosa che fa sì che le persone si capiscano nonostante la differenza di età e l’assenza di troppe parole. Lui, di vent’anni più vecchio di lei, l’aveva ascoltata senza l’arroganza di chi sa di essere uscito dall’assurdità dell’adolescenza. Era sempre in viaggio, ma quando tornava riusciva sempre a dedicare una mezza giornata a quella ragazza che non sapeva dove sbattere la testa. E chissà, forse l’amava, come avrebbe potuto capirlo? Anche lui era cresciuto in casa famiglia e non poteva comprendere meglio la confusione che ti nasce in testa, quando non hai idea di chi sei, quando l’identità dei tuoi genitori è segreta, perché sono persone pericolose.
Era una ragazza estremamente intelligente, una piccola, diabolica maga dei computer. Lui aveva contatti con assistenti sociali e associazioni in tutto il mondo. Da lì, l’idea.
Si sarebbero separati, nessuno avrebbe saputo che collaboravano. Alba avrebbe hackerato il sistema del governo, Paolo avrebbe chiesto di restituire i favori che aveva fatto, e avrebbero scoperto le verità che da troppo tempo non conoscevano. (by Frency Worka)
 
Prese il primo treno in partenza. Non sapeva dove era diretto. “Che importanza ha?” si domandò, mentre si sedeva al primo posto libero. La valigia era troppo pesante per essere messa sopra nel vano e la lasciò di fianco a lei lungo il corridoio.
“Se vuole, posso metterla sopra, così non disturba chi passa” disse un ragazzo che aveva osservato l’armeggiare di Alba col bagaglio.
“No, no. Resta dov’è. Poi non saprei come riprenderla” replicò leggermente infastidita.
“Lo posso fare io”.
“Non sa nemmeno dove sono diretta” gli rispose ironica.
“Me lo dica. Così mi regolo e scendo anch’io”. Una breve risata uscì dalla bocca di Alba.
“Mi corteggia?”
“C’è qualcosa di male?”
“Sì. Non mi piace essere abbordata” gli disse dura e decisa, aggrottando la fronte.
“E’ una splendida ragazza. E io ci provo” aggiunse per nulla intimorito. “Io sono Lorenzo. Renzo per gli amici” completò impertinente.
“Beh! Si dà il caso che non sono nel novero dei tuoi amici”.
“Ma potrebbe entrarci tranquillamente”.
Alba non rispose e guardò fuori dal finestrino. “Chissà dove arriva questo treno”.
“Non mi hai detto come ti chiami” riprese il ragazzo che non demordeva.
“Non ho nessuna intenzione di dirtelo”.
“Sei scontrosa. Eppure …”
“Eppure cosa?”
“Niente”. (by orsobianco9)
 
“Che scocciatore questo ragazzo!” pensò Alba, guardando fuori dal finestrino.
“Biglietti, prego. Biglietti”.
La ragazza sorrise, perché finalmente avrebbe saputo dove andava il treno.
“Non ho il biglietto. Ho preso il treno in corsa” disse al controllore, mentre il ragazzo era tutto orecchi per ascoltare dove scendeva.
“Dove scende?”
“Me lo dica lei. Non lo so. L’ho preso a Pisa ma non so dove arrivi” rispose candidamente Alba.
L’uomo la guardò basito prima di rispondere.
“Questo è un intercity che arriva a Milano Centrale alle 11 se è in orario”.
“Allora Milano Centrale va benissimo”.
“Sono 49€, Tasse comprese”.
Il ragazzo ritornò all’assalto non appena il controllore passò nello scompartimento adiacente. “Anch’io scendo a Milano”.
“E chi ti ha detto che scenderò a Milano? Potrebbe essere anche Firenze”.
“Ah! Ah!” rise di gusto, lasciando allibita Alba.
“Gufi?” gli chiese. “No” le rispose con le lacrime agli occhi.
“Questo è scemo” pensò la ragazza.
“Questo non passa per Firenze” aggiunse. “E che giro fa?” gli domandò allarmata.
“Arriva a Genova e da lì un volo a Milano”.
“Ma ci mette una vita!”. “Abbiamo una vita di 4 ore per conoscerci meglio”. (by orsobianco9)
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Short stories – L'esitazione dell'ultimo minuto – prima parte

Eccomi col secondo appuntamento delle short stories. La storia sarà divisa in due parte. La prossima giovedì 25 luglio.  Come per ‘Amor profano’ l’incipit è opera di Frenky Wronka, come il primo snodo. Il secondo è opera mia. Nella seconda parte il primo snodo è di Fenky Wronka, i restanti sono miei. Dunque una short stories a quattro mani. Buona lettura
La ragazza lo guardò negli occhi, persa in quello sguardo pieno di aspettativa. Il labbro inferiore, rosso e carnoso come una fragola in piena stagione, era stretto tra quei denti un po’ troppo grossi, così stretto che si spaccò, e una minuscola, perfetta sfera di sangue ne uscì.
L’uomo sorrideva, sicuro, le pupille dilatate e la bocca socchiusa in un’espressione di vago stupore. Il discorso era partito come uno scherzo, ma poi si era evoluto, fino a che a entrambi fu chiaro che si parlava seriamente. E su certe cose si fa presto a scherzare, ma non tanto a considerarle come vere e proprie possibilità, e prendere decisioni.
La risposta di lei lo aveva un po’ scosso, proprio come una carica elettrica lo pervadeva dal profondo. Era stimolante più di qualunque altra situazione che lui avesse vissuto: e di situazioni eccitanti, lui, ne aveva vissute molte. Solo, non era sicuro che quella fosse una cosa giusta. Lo turbava la sicurezza con cui quella giovincella aveva parlato, la sicurezza di chi non ha idea di ciò che l’aspetta. Forse avrebbe dovuto parlarle più a lungo, capire cosa realmente voleva, cercare di dissuaderla dal prendere decisioni così drastiche e avventate. Ma il tempo stringeva, e non voleva che lei si ricredesse.
Era bellissima, con la sua pelle chiara e quella gocciolina di sangue sul labbro, che tradiva la tensione. Era combattuto tra il baciarla e il cercare di fermarla, e infine decise di rimanere lì, a guardarla con l’ammirazione con cui si guarda un’artista. (by Frency Worka)
Non si era mai sentito così insicuro, lui, lo spirito libero che si era sempre andato a prendere quel che voleva. Non aveva mai fatto del male a nessuno, e non aveva mai dubitato di sé stesso, fino ad ora.
La sveglia suonò, e l’uomo tirò un profondo respiro. Per la prima volta dopo anni, era felice di non avere più tempo, di non poter più decidere.
«Sei sicura?» riuscì solo a dire.
La ragazza annuì, stavolta senza tradire ansia o preoccupazione. Era felice di quel che aveva scelto, anche se non era certa del risultato che avrebbe portato. Raccolsero le valige da terra e si apprestarono a uscire dalla stanza ormai buia.
L’uomo estrasse dalla tasca dei pantaloni un pesante mazzo di chiavi e serrò l’antico portone di legno della ricca abitazione in centro. Apparteneva alla sua famiglia da generazioni, ma lui ci passava pochissimo tempo.
La ragazza si guardò intorno e trasse un profondo respiro.
Il cielo un po’ ingrigito dallo smog e dalla perenne nebbiolina iniziava a schiarirsi, ed era un po’ come se tutto, in quelle strette vie coperte di pietra, stesse sbiadendo. Non si preoccupava di quando le avrebbe riviste, piuttosto di chi sarebbe stata, al suo ritorno. (by Frency Worka)
“Qui le nostre strade si dividono” disse trascinando le due pesanti valigie.
“Lo so. Addio o arrivederci?” rispose Alba, respirando l’aria umida del mattino.
“Per me potrebbe essere un arrivederci. Decidi tu”.
“Hai il mio numero?”
“Sì”.
“Allora addio” e si incamminò portandosi dietro la valigia.
Paolo la osservò allontanarsi e provò una fitta al costato. Avrebbe voluta rincorrerla ma restò immobile, finché la ragazza non girò l’angolo della stretta via. Cominciò a muoversi con lentezza, ripensando agli ultimi dettagli prima del suono della sveglia. Era inutile tornarci sopra.
“E’ stato meglio così” si disse, aprendo la portiera dell’auto. Infilò con fatica la sua valigia e si mise al posto di guida. Non si decideva di avviare la macchina e andarsene dalla casa, che sembrava spiare le sue mosse. Scosse ancora il capo irresoluto e incerto. Prese il telefono e cercò «Alba». 34704 …Lo richiamò in memoria, rimase pensieroso per qualche istante prima di spegnerlo.
“No, non posso” sussurrò a bassa voce, mentre girava la chiave per avviare la Alfa Mito rossa, che rombò cupa nel silenzio del mattino. Lentamente senza sgassare troppo si mosse per uscire dal paese. La giornata si preannunciava lunga e afosa senza che lui avesse dissolto i suoi dubbi.
Alba camminò in silenzio, sentì il rumore di una macchina e si voltò, agitando la mano. (by orsobianco9)
FINE DELLA PRIMA PARTE
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Short stories – Amor profano – seconda parte

La prima parte di questa storia la trovi qui.
“Chi è Sara Molini?” continua a chiedermi mia madre.
“E’ una ragazza … ma ora sarà una donna …”. Mi mancano le parole. Non capisco la sua insistenza come se avesse annusato qualcosa di torbido.
“Mamma, è una ragazza conosciuta a Forte dei Marmi dieci anni fa …”.
“Ma non l’ho mai sentita nominare in questi anni” replicò dubbiosa.
“In effetti ci siamo scritte solo qualche lettera all’inizio poi io non ho risposto e lei non ha proseguito …” dico usando il tono più naturale che possiedo.
Mia madre mi consegna la lettera scrollando il capo poco convinta. Non sono mai riuscita a comprendere come faccia a individuare i punti oscuri della mia esistenza. Con Lorenzo, il mio ex fidanzato, aveva detto fin da subito che sarebbe finita male.
“Non credo che tu sia innamorata di lui” aveva sentenziato senza avere il minimo dubbio. E ha avuto ragione. Tre anni di litigi furibondi e riappacificazioni clamorose hanno costellato il fidanzamento.
“E’ meglio che lo porti il meno possibile a casa nostra” affermò dopo l’ennesima lite. Tre mesi più tardi gli ho detto che era tutto finito come aveva profetizzato.
Ora leggiamo questa lettera.
Carissima Eli,
quanto tempo è passato senza che nessuna delle due si sia fatta viva.
Cosa fai? Ti sei sposata? Hai dei figli? Che raffica di domande di faccio dopo una vita di silenzio. Però vorrei sapere, recuperare questi anni di ostinati obli. Potresti anche non ricordare più chi sono.
Io sono ancora sola. Sono una zitella come dicono gli altri con malignità. Gli uomini mi annoiano da morire e le donne pure. Piene di grilli e tabù per la testa …”.
Eleonora sospirò.
“Mi sei mancata”.
Sono passati altri dieci anni. Sono una stimata dottoressa che esercita all’ospedale Maggiore di Bologna, dove mi sono trasferita da molti anni. La mia vita è vuota tra ospedale e casa con qualche puntata a Milano a trovare mia madre che è rimasta sola. Non potrei sopportarla tra i piedi con quel suo fare da santa inquisizione. Le visite sono un mordi e fuggi tra rimproveri e mugugni. Vorrebbe diventare nonna ma non mi sento di crescere un bambino. Forse sono egoista, anzi lo sono ma temo che non sarei una grande mamma. Alberto, un collega, mi fa una corte spietata ma resisto. Non mi piace, lo trovo noioso come gli altri. Sono uno spirito libero. Forse se avessi riallacciato con Sara, sarebbe stato diverso ma non si può tornare indietro. Ricordo con quale trepidazione ho letto la sua lettera e come attraverso il 12 ho trovato il numero di telefono.
“Ciao, Sara” le dissi chiamandola. “Sono Eleonora Mestovich …”.
“Aspettavo la tua telefonata” rispose con voce felice.
“… e io ero impaziente di farla!”.
“Mi piacerebbe incontrarci e fare quattro chiacchiere”.
“Anche a me. Dove?”
“Sabato sono libera e ho la casa a mia disposizione”.
“Prendo il treno e ti raggiungo” dissi con la stessa emozione di una liceale al primo incontro amoroso.
Aspettai trepidante ed emozionata l’arrivo del sabato con il medesimo batticuore di un’adolescente al suo primo viaggio senza i genitori. Fu una delusione quell’incontro. La magia dell’estate 1958 era svanita ma forse ero io ad aver paura.
 
A gioved’ prossimo con un’altra storia breve, tratta sempre da 20lin,es