Disegna la stua storia con Leherrison – mi racconti una storia…

Leherrison propone al nipote Marcel una storiella un po’ attuale per passare le lunghe ore da reclusi.

Ecco la storia raccontata dalla zia.

Zia, m’annoio… mi racconti una storia?

– Passami il nostro librone che te ne leggo una.
– No, inventala te
Bien. Allora siediti qui vicino a me e ascolta.

Molte lune prima che tu nascessi, un’astronave proveniente da un’altra galassia atterrò a luci spente sul nostro pianeta. Ne rotolò fuori un esserino bianco tutto tondo con una miriade di appiccicose ventose rosse urticanti: erano antenne ricetrasmittenti.

Appena fuori se ne andò in giro rimbalzando senza sosta su ogni cosa o persona incontrasse lungo il cammino. Ah, dimenticavo: l’alieno possedeva un superpotere che lo rendeva invulnerabile… l’in-vi-si-bi-li-tà.
Il tipetto era stato mandato qui dal suo Gran Capo KZ-X con una missione da compiere: pescare almeno un miliardo di umani caricarli sull’astronave e portarli al suo cospetto. Non era difficile, bastava li marchiasse appiccicandoci una delle sue ventose rosse e il gioco era fatto. In pochi giorni, riuscì indisturbato a stipare sull’astronave un bel po’ di umani e ferirne molti altri prima che il dottor Nougat, laureato col pieno dei voti in galassiologia, intuita la sua presenza, gli dichiarasse guerra.

Ma che armi usare per sconfiggere un essere col superpotere dell’invisibilità? Spade laser ad argon, a kripton o elio-neon? Può darsi, ma dove indirizzarle se il nemico non si vedeva?
Non riuscendo a venirne a capo, Nougat radunò in video-consulto i più grandi galassiologi della terra e, all’unanimità, decisero di farlo spaventare mascherandosi e cospargendo ogni cosa o persona con un liquido puzzolentissimo antischifido. Ma a nulla servì: quello continuò prepotente a rimbalzare dappertutto pescando e ferendo altre migliaia di umani.

Fu scompiglio nell’intero Paese e presto il numero esagerato dei pescati e de feriti da medicare rese la situazione insostenibile. Così, i galassiologi si riunirono nuovamente e architettarono un piano: se l’alieno non si ferma, allora ci fermiamo noi fino a che non se andrà, decisero.
Quindi, la stessa sera, su ogni schermo grande o piccolo del Paese apparve il faccione ben rasato del Presidente che ordinò a tutti ma proprio tutti gli umani di restare buoni buoni in casa fino a nuove disposizioni.

Dall’indomani non una saracinesca si alzò né auto si mise in moto, tacquero le campane delle chiese e i giardinetti; si fermarono i treni, le navi e gli aerei. Nessuno mise più il naso fuori dalla porta di casa.
Il Paese sprofondò in un silenzio insopportabile, proprio come fosse dentro una gigantesca bolla di sapone. Di giorno, ogni tanto si sentiva il fischio di un merlo o l’abbaio di un cane accompagnato dal ticchettio dei tacchi del suo amico a due zampe; mentre di notte, il silenzio era così denso che si riusciva persino a origliare il chiacchiericcio delle stelle.

Quello, per gli umani, fu l’inizio di un’interminabile sfilza di giornate sempre più rallentate, sottovuoto, svogliate, stordite, stranianti, sospese.
Alcuni soffrirono la mancanza di un sorriso, altri scoprirono una nuova dimensione del tempo; altri ancora riscoprirono se stessi e diventarono: poeti, filosofi, cuochi, pasticceri, inventori, scienziati, pittori e non solo.
Tanti diedero un nuovo valore alle parole libertà e futuro.
Pochi fortunati ritrovarono la bellezza delle gemme che nel frattempo si aprivano sui rami: da decenni non ci avevano fatto più caso, così presi a vivere il proprio moto circolare frenetico, ormai davano la vita per scontata.
Lo smarrimento generale cadde persino su chi da tempo era abituato a star da solo, facendolo sentire terribilmente isolato.
Qualcuno, che fino ad allora si credeva invincibile, dovette ammettere di essere fragile… fragile come tutti noi umani

– Perché hai i luccicanti agli occhi, zia Caty?
– Perché… perché non riesco proprio ad andare avanti in questa orrenda lunga Storia, Marcel.
Mi daresti una mano tu?

ed ecco che io arrivo in aiuto per completarla.

Non sono Marcel ma ci provo.

Il nostro esserino si trovò sorpreso dalla mancanza di umani. C’erano solo uccelli, cani e gatti in giro ma quelli non facevano al caso suo. Tornato all’astronave comincio la conta. Uno, due, tre… mille, mille e uno, mille e due… diecimila, diecimila e uno, diecimila e due… ventimila… Uffa che noia, pensò l’esserino che non si divertiva più. Ci aveva trovato gusto a marcare e ferire gli umani, perché non meritavano nulla di più.

Però. C’è sempre un però nelle storie. L’ordine era tassativo: «O torni con un miliardo di umani oppure resti confinato tra loro».

L’esserino si grattò un’antennina e poi si strofinò gli occhi. Il pensiero di restare tra gli umani lo solleticava ma allo stesso tempo aveva perso interesse a beccarne altri.

Mentre l’esserino si aggirava sconsolato tra le via della grande metropoli che all’improvviso era diventata vuota e silenziosa, il nostro Nougat si arrovellava il cervello per trovare una soluzione al caso. Già immaginava le scappellate al suo passaggio, le croci al merito e le comparsate da Vespa nel salotto buono.

«Ma come lo posso beccare?» disse parlando ad alta voce come un matto, muovendosi nervoso nella sua casa di ringhiera. «È invisibile, sfuggente e cambia aspetto. L’unico modo è mettergli un po’ di sale sulla coda come si fa per catturare gli uccelli».

Nougat davanti allo schermo di una TV, dove si parlava solo di questo ebbe un’idea geniale. “Se li faccio uscire tutti e indosso il mantello dell’invisibilità posso appostarmi presso un probabile candidato a essere marchiato. Non appena riconosco che è stato unto, zac… lo avvolgo nella coperta della scemenza e catturo anche l’esserino malefico”.

Nougat trovò che questo era l’unico modo per debellarlo. Se nell’attesa un bel numero di umani veniva marchiato o ferito, beh!, si disse, ho creato l’immunità del gregge.

Ciao mamma, ciao papà! Sono tornato – seconda parte

Elena delle volpi  ha detto che la storia che potete leggere qui, non nha finale e mi ha chiesto di completarla. In effetti era mia intenzione di lasciare il finale aperto così che ognuno di voi poteva completarlo come meglio credeva.

Alla fine ho ceduto e presento la seconda parte ovvero come penso che sia andata a finire la storia.

Buona lettura.

https://i2.wp.com/www.elenaferro.it/wp-content/uploads/2020/02/Andrea-Pazienza.jpg?w=800&ssl=1

Fumetto di Andrea Pazienza

 

A Venusia di solito l’ingresso è aperto o socchiuso. Nessuno ha intenzione di andare a rubare in casa d’altri. Così Bruno può mettere la testa dentro senza suonare.

Amelia sbianca, mentre Dario sta per sbottare. “Che fare?” si domanda la donna, che si siede sulla sedia in cucina. È in ambasce. Non sa cosa fare. Guarda Dario sperando di trovare la giusta ispirazione per rispondere a Bruno che continua a urlare: «Ciao mamma, ciao papà! Sono tornato e per sempre».

Il figlio è nell’ingresso e si muove cauto. Non capisce perché i genitori non rispondano. Eppure li ha intravvisti attraverso i vetri della cucina.

«Ciao mamma, ciao papà! Sono tornato e per sempre» ripete come un disco rotto, avanzando di qualche passo verso la cucina.

L’ingresso è separato dalla cucina da un corridoio che termina con la porta sull’orto. Tutte le stanze della casa ruotano attorno a questo. Sulla destra c’è sala da pranzo e salotto. Sulla sinistra cucina, un servizio e le scale che portano alla zona notte.

Amelia si alza. Sa che deve affrontare Bruno prima che Dario lo investa come un uragano. Ne hanno parlato giusto ieri sera, mentre in salotto lei sferruzzava in modo svogliato e lui leggeva un libro.

«Che facciamo se Bruno si presenta alla porta?» ha chiesto Amelia alzando gli occhi verso il marito.

Dario ha emesso un ruggito prima di rispondere. «Lo prendo a calci nel sedere finché non torna da dove è venuto».

Amelia ha sospirato, pensando che il marito ha ragione. Quel figlio, finché è rimasto a Venusia, ha dato solo grattacapi. Fannullone, indolente e arrogante erano gli aggettivi che le sono tornati in mente. E forse non bastano per descrivere la loro esasperazione.

Però è sempre figlio loro. Sa in anticipo che a parte i buoni propositi sbandierati nella lettera sarà difficile che cambi personalità Era così già all’età di quindici anni. Adesso che ne ha dieci in più sarà improbabile che possa diventare quello che ha appena urlato.

Amelia esce dalla cucina seguita da Dario che mormora parole di fuoco da “l’ammazzo” a “lo prendo a calci nel culo”. Si volta, mentre ascolta i passi cauti di Bruno nel corridoio, mette un dito sulle labbra del marito. «Sss» fa per mettere fine a quel turpiloquio.

«Bruno perché sei tornato?»

Il ragazzo posa per terra la sacca che tiene sulla spalla. Strabuzza gli occhi perché la domanda non gli sembra pertinente. “Perché sono tornato? Mi pare evidente. Rivoglio il mio posto in questa casa”. Però resta in silenzio. La domanda l’ha mandato in cortocircuito. Balbetta qualcosa, mentre Amelia trattiene Dario.

«Lascialo rispondere» sussurra in un orecchio, abbracciandolo.

Bruno si ferma incerto se proseguire o tornare fuori. «Sono tornato perché sono pentito» bela in un sussurro, che le orecchie di Amelia appena percepiscono.

Il naso è ancora più affilato sull’ovale del viso bianco e smagrito con gli occhi infossati. I capelli sembrano un cespuglio di more tanto sono aggrovigliati e sporchi. I vestiti cascano addosso come sacchi troppo ampi per quello che devono coprire, sempre che si possano chiamare così. Sono talmente luridi e cenciosi che non sarebbero adatti nemmeno per strofinare per terra. Nei piedi porta dei sandali sformati che non assomigliano per nulla agli originali.

È talmente messo male che se fosse posto tra i filari della vigna paterna farebbe scappare tutti i predatori del cielo e della terra per lo spavento.

Bruno ha ai suoi piedi per terra la sacca di juta che ha tenuto sulla spalla destra e con gli occhi implora perdono.

Amelia lo guarda. Le fa pena vederlo ridotto in quello stato. Di slancio lo abbraccia per dargli il ben tornato, sapendo perfettamente che quel figlio inquieto andrà via di nuovo dopo averli fatti dannare con le sue intemperanze.

Dario osserva muto e gira i tacchi fuggendo nel salotto.

 

Disegna la tua storia con un incipit di Massimolegnani – incipì 2

Massimolegnani – orea rovescio – ha scritto un post con due incipit troncati a metà. Ebbene ho raccolto la sfida e propongo la mia continuazione del secondo.

credits by onephoto

Di fronte a lui la donna chinò il capo. Sembrava affranta, soverchiata dalla vergogna, invece stava raccogliendo le forze, come un’atleta prima di spiccare il salto, voleva far esplodere la collera in un’invettiva che avrebbe fatto tremare i vetri alle finestre e i baffi tinti a quel pallone gonfiato. Tu, disse sollevando un indice imperioso, tu…

…abbassò l’indice. Era sbollito tutto come un pallone forato.

Lo guardò e poi gli volse le spalle che sembravano spiovere verso il basso rassegnate. La vergogna di avere un compagno fannullone era troppo per lei che credeva nell’onestà delle persone. E lui pareva proprio non averla.

Più di una volta aveva dimostrato di essere inaffidabile e bugiardo. Questo la faceva vergognare tantissimo. Aveva origliato i commenti malevoli delle vicine sul compagno e i risolini di compatimento su di lei. Avrebbe voluto replicare a muso duro ma poi aveva capito che avevano ragione.

Sonia era una donna di cinquant’anni ma ne dimostrava dieci di più. Quel bastardo del compagno le stava succhiando tutta la linfa vitale, prosciugandola. Piccola, vestita modestamente ma sempre ordinata. Capelli raccolti a crocchia a formare uno chignon appena abbozzato. Non c’era vicina che non si prodigava a darle dei consigli che ascoltava con umiltà senza trovare quella forza necessaria per troncare quel rapporto ormai logoro. Però dopo tanti anni non se la sentiva di abbandonarlo anche se avrebbe meritato di subire questa mortificazione.

Angelo rimase a guardarla mentre si allontanava verso la cucina. Sollevò le spalle in segno d’indifferenza. Alto con una bella pancia pronunciata aveva in testa radi capelli gialli. In realtà avrebbero dovuti essere candidi ma l’unto li rendeva di un colore indefinito tra il giallo e il grigio sporco. Avrebbero avuto bisogno di un bel lavaggio ma Angelo erano settimane che rimandava.

Si sedette sulla poltrona con le mani in grembo. Questa volta l’aveva fatta grossa e difficilmente Sonia l’avrebbe perdonato. Quando l’aveva vista congestionata in viso, paonazza e con la giugulare che pulsava pericolosamente si era detto che era arrivato al capolinea. Poi aveva tirato un sospiro di sollievo quando, dopo averlo additato e urlato in faccia «Tu», se ne era andata in cucina. Il respiro che aveva trattenuto proruppe dal petto con un rumore sordo.

“Sonia è fin troppo paziente con me” rifletté Angelo, grattandosi la guancia ispida ricoperta da una peluria bianca. “Io l’avrei presa a calci nel culo e sbattuta fuori dalla porta”. Invece no. Gli sembrò di averla sfangata ancora una volta oppure era solo un’illusione. Provò a non pensarci perché la sua vita era una collezione d’insuccessi.

Ricordò il motivo dell’ira della compagna: invece di comprare le scatolette per Tobi, il loro gatto, aveva giocato alle slot machine nel bar sotto casa e ovviamente aveva perso tutto. Anzi aveva contratto un debito di cento euro con Martino, che glieli aveva prestati.

Il gatto miagolò strusciandosi sul calzone logoro in cerca di una coccola.

Angelo lo allontanò in malo modo. Non aveva nessuna voglia delle sue fusa. Si torse le mani, perché non sapeva come chiedere a Sonia quei cento euro da restituire a Martino. Lui non lavorava o meglio faceva lavoretti saltuari di poco conto, perché era in mobilità e prossimo al licenziamento. Se non ci fosse stata Sonia avrebbe dovuto mendicare un piatto alla Charitas.

Però adesso la priorità era recuperare cento euro. Una somma enorme per loro che dovevano lesinare anche il centesimo.

«Tobi che facciamo?» disse al gatto che era rimasto offeso da quel gesto poco urbano.

«Lascia perdere Tobi» gli sibillò acida Sonia. «Alza il culo e vai a pulire le scale del condominio, se vuoi stare ancora in questa casa».

Disegna la tua storia con un incipit di Massimolegnani – incipì 1

Massimolegnani – orea rovescio – ha scritto un post con due incipit troncati a metà. Ebbene ho raccolto la sfida e propongo la mia continuazione del primo. Per il secondo pazientate qualche giorno. Se qualcuno volesse farsi avanti, si palesi.

credits by onephoto

 

Buona lettura

La sua mimica facciale assomigliava a una fiumara calabrese. Impetuosa, violenta, fuori dagli argini, dopo un temporale primaverile, e totalmente inespressiva, svuotata, un faccione inutilmente ampio, durante la siccità estiva. Mai un’espressione che fosse di equilibrio tra i due estremi, mai un…

…un sorriso intermedio. Passava da moti di rabbia all’indifferenza totale verso chi gli stava di fronte. Le mezze misure non esisteva per lui.

Simone guardò fuori dalla finestra. La giornata prometteva bene, ma era lui che si sentiva fuori posto. Era inutile girarci attorno: Sonia l’aveva destabilizzato con la violenta discussione la sera precedente. Stava finendo col mettersi le mani addosso, quando calò una bonaccia tra loro come se nulla fosse stato. Poi ognuno si ritirò nelle proprie stanze.

Simone e Sonia pur essendo sposati da sei mesi dormivano in due camere separate e distanti tra loro. Se per qualche ignoto motivo o pulsazione sessuale uno dei due desiderava consumare un amplesso d’amore si spostava dalla propria stanza in quella dell’altro. Poi ognuno dei due tornava nella propria. Mai una volta dopo la prima notte di matrimonio si erano dati la sveglia nello stesso letto.

Simone si chiese se questo rapporto fosse sano e la risposta era stata negativa. Le loro discussioni sugli argomenti più futili finivano sempre in rissa. Una tempesta di parole che si placava in un abbraccio dolce.

Ieri sera non era stato diverso. La discussione verteva su chi doveva accudire Tobi, il gatto tigrato che avevano raccolto per strada. Era lui il vero padrone della casa e non Simone o Sonia.

«È compito tuo» aveva tuonato Sonia agitando le mani vorticosamente, mentre Tobi apriva un occhio disturbato da quella voce acuta.

«E perché?» rimbeccò Simone alzando il tono di un’ottava rispetto a quello di Sonia. «L’hai raccolto tu».

La moglie divenne paonazza strozzando le parole che volevano uscire dalla gola.

«Ma tu non hai detto nulla!» urlò con tono feroce Sonia. «Anzi eri felice come un bambino, quando l’ho portato a casa».

«E con questo cosa vuoi dire?» strepitò Simone con lo sguardo assassino. «Forse è di mia proprietà?»

Tobi si alzò disgustato da quelle urla feroci che ferivano le sue orecchie e con passo regale, lanciando di sottecchi sguardi schifati, si avviò verso la lettiera.

Simone si alzò dalla poltrona, abbracciò Sonia seduta sul divano e disse: «Vieni Tobi che andiamo a fare un giro in giardino».

Disegna la tua storia con un’immagine di Marzia – Il violoncello

Marzia di Alchimie mi ha inviato questa immagine sfidandomi a duello. Cosa produrrò con questa?

Immagine inviata da Marzia

Ecco cosa ho prodotto.

Buona lettura

Nicola voleva vincere la sfida: suonare il violoncello davanti all’intera Venusia.

Aveva studiato al conservatorio di Ludi ma all’esame finale era stato bocciato.

Lui non ha potuto, né voluto accettare la sconfitta. Così si è messo d’impegno a suonare il violoncello per raggiungere le vette di Mstislav Leopol’dovič Rostropovič e fare ancora meglio di questo grande interprete.

Si è esercitato per dodici ore al giorno, sabato e domenica compresi. Solfeggi, passaggi musicali dove il La, il Do, il Re e il Sol vengono ripetuti con monotona precisione più volte per ore intere. Per fare questo e non essere disturbato si reca nella stanza della musica della Fortezza. Chi passa sotto le finestre sbuffa e afferma, non proprio a torto: «Che lagna».

Ascoltare una sola nota ripetuta con maniacale insistenza è un supplizio per l’udito di qualsiasi persona. Per i venusiani ancora di più, perché solo ad ascoltare un concerto di campane per loro è insopportabile.

Nicola fa questi esercizi tutti i giorni in perfetta solitudine alternandoli col solfeggio. Sembra un matto che parla da solo ma in realtà sta praticando il solfeggio. Legge le note ad alta voce accompagnandole col movimento delle mani. Un esercizio noioso ma gli serve per imparare i tempi e le battute. Quando era al conservatorio, ci ha provato ma dopo cinque minuti smetteva, sbuffando. «Che noia» sbottava chiudendo lo spartito. Questo mancato esercizio gli è costato l’esame finale. Eppure ha talento innato, perché riesce a suonare il violoncello con bravura e non solo quello. Anche la viola e il pianoforte sono tra gli strumenti che gradisce.

Però è scivolato sul solfeggio, scatenando la sua ira. Il maestro gli ha detto che sembra superfluo il solfeggio ma senza quello non sarebbe mai diventato un bravo violoncellista.

Memore di questa osservazione si è imposto di dedicare due ore tutti i giorni al solfeggio. All’inizio è stato un supplizio. Avrebbe voluto smettere dopo cinque minuti ma con caparbietà si è imposto di proseguire finché non sono passati tutti i centoventi minuti. Giorno dopo giorno ha faticato meno nell’eseguire il solfeggio e alla fine non gli è apparso che fosse quel supplizio che ricordava durante l’anno al conservatorio.

«Sono stato uno sciocco» si rimprovera in uno stacco per bere e mangiare qualcosa. «Se avessi avuto costanza, adesso sarei diplomato in violoncello.

Dopo mesi di duro lavoro si sente padrone dello strumento e le sonate di Bach e Beethoven le esegue a occhi chiusi. Non ha necessità di leggere lo spartito.

Il 21 luglio è il giorno del grande evento. Invita tutti i concittadini al suo concerto che terrà nella piazza della fontana senza acqua. L’unico posto che può ospitare tutti i venusiani. Fa venire da Ludi catering e sedie, per il palco ci penserà lui. Senza cibo e bevande offerte gratis nessun venusiano sarebbe venuto. Lui li conosce bene quando prenderli per la gola.

In un angolo della piazza Cipriani, il master chef di Ludi, offre stuzzichini e calici di vino rosso. Nicola ha spiegato a Cipriani che se avesse offerto vino bianco o spumante i venusiani l’avrebbero rifiutato sdegnosi. Lo chef ha storto il naso ma lui ha insistito convincendolo. Poi al termine dell’esibizione ci sarebbe stato il buffet di gala.

Clematis

La pedana su cui Nicola si sarebbe esibito è un gradone ai piedi della fontana senz’acqua. Un arco di clematis viola forma il sipario. La vasca di marmo della fontana è il fondale del palcoscenico. Tutto intorno disposte a semicerchio stanno le poltroncine di velluto scarlatto. Un drappo rosso nasconde Nicola e il suo strumento.

Il colpo d’occhio è veramente magnifico. Nessuna poltroncina è vuota, il sole sta calando sulla sinistra della piazza illuminando di rosso il cielo. Un brusio diffuso sale dalla piazza.

Un accordo in la maggiore preannuncia inizio del concerto. Il drappo rosso cade mostrando la schiena di Carola che sembra un violoncello con le quattro corde disposte a regola d’arte. Nicola con l’archetto inizia a suonare e nell’aria si spande la sonata per violoncello in la maggiore di Carl Phillip Emanuel Bach.

Disegna la tua storia con un’immagine di Etiliyle – Sghego e il suo esercizio

Questa splendida immagine di Etiliyle mi ha dato lo spunto di creare un nuovo racconto ambientato a Venusia.

Buona lettura.

Venusia è un minuscolo puntino nella pianura di Ludilandia. Non c’è nulla a parte Sghego e poco altro.

Sghego fa da bar, trattoria e ritrovo per i venusiani. Insomma se si vuole incontrare qualcuno, quello è l’unico posto. Non c’è altro: o prendere o lasciare.

Quattro tavoli sotto il pergolato e altrettanti al suo interno. Un tavolo è sempre occupato da quattro venusiani che passano mattina, pomeriggio e sera a giocare a carte. Sono ospiti fissi e non fanno nient’altro che partite interminabili. Insieme alle napoletane non manca mai il calice di vino rosso, che viene centellinato come una reliquia.

Il gioco preferito è la scopa. Più di rado si gioca allo scopone scientifico, più complesso e impegnativo. Le coppie sono fisse e le partite accanite. Non di rado finisce a spintoni e urla con invettive che le sentono tutti i venusiani. In questi casi Sghego interviene a riportare la calma. Due pacche sulle spalle dei contendenti e la minaccia di tenerli lontani dai suoi locali per molto tempo. Uno spauracchio per Mario, Martino, Alberto e Marino, i quattro dell’Ave Maria del gioco. Un DASPO in piena regola che agisce da deterrente. Si mettono calmi in un amen. Il solo pensiero di essere banditi per mesi o per sempre fa sparire tutti i propositi bellicosi. In realtà è più scena che arrosto.

D’estate sotto il pergolato, d’inverno all’interno. Pioggia o neve non li scoraggia a venire puntuali come orologi svizzeri alle nove del mattino. Si siedono nel tavolo in angolo, tolgono le carte dal suo contenitore e Alberto estrae il quaderno dalla copertina nera e dai fogli a quadretti. Qui sono appuntati date e ore d’inizio partita dove segnano i punti delle coppie.

«Dovevi calare il sei e non il cinque» redarguisce Mario prendendo un ori dal tavolo.

Il suo compagno, Martino, scuote il capo e disquisisce sulla sua giocata. «Non conosco le tue carte ma quel cinque ha un senso» e cala un altro cinque di denari per recuperare la carta precedente.

Il mucchietto di prese sale davanti a Mario ma Alberto fa scopa con un Re e sogghigna felice. «Così si gioca, pantofoloni» ride felice.

Alberto richiama l’attenzione di Sghego per ordinare un altro giro di vino e qualche tartina. «Mettila sul conto di Mario e Martino» sghignazza irriverente. «Tanto questa partita l’hanno già persa».

«Non dire gatto, se non l’hai nel sacco» rimbecca acido Martino, che con un asso prende tutto e chiude la partita.

Quello che rende unico Sghego, oltre ai quattro giocatori, è il posto. Incassato tra due case con davanti il viale alberato, coi muri ricoperti dall’edera dona un senso di tranquillità. Il pergolato è ricoperto dalla vite americana, che in autunno si colora di rosso. L’edificio è un vecchio stabile di pietra ingrigita dal tempo. La pavimentazione è un acciottolato leggermente sconnesso formato da sampietrini di porfido scuro. L’interno è spartano. Un bancone non più lucido, che mostra tutte le sue smagliature legate alle diverse generazioni che si sono alternate dietro di esso, ha alle spalle uno specchio che occupa tutta la parete. Quattro tavoli di ferro smaltato occupano la sala interna e stanno tra il bancone e la porta d’ingresso. Una porta girevole consente l’accesso alla cucina e alla dispensa. Le pareti avrebbero necessità di una bella rinfrescata ma Sghego afferma che così hanno un’aria vissuta.

 

Disegna la tua storia con un’immagine di Marzia – La stanza

Marzia mi ha lanciato un nuova sfida. Partendo dall’immagine che segue, devo costruire una storia.

fornita da Marzia

Io ci provo. Il giudizio lo lascio a voi.

Buona lettura

Carola è sempre stata curiosa. Ama le avventure, che qualche volta hanno rischiato di finire male. Come quella volta che ha azzardato l’esplorazione della Fortezza da sola.

La Fortezza è il simbolo di Venusia, un patrimonio comune a tutti i venusiani. Non ha padroni, fuorché gli abitanti di Venusia. Si erge sulla montagna, quel dosso alto poco più di duecento metri, tanto che chiamarla così fa sorridere tutti fuorché loro.

La Fortezza è un luogo ricco di misteri, abitato da fantasmi e frequentato solo dai più coraggiosi. Carola è una di questi.

Un giorno di giugno di qualche anno addietro Carola si è inerpicata sulla montagna passando nel bosco degli spiriti, altro luogo poco amato e frequentato dai venusiani.

Arrivata dinnanzi al grande portone di quercia, che è sempre chiuso si ferma a rifiatare. Per aprirlo serve una robusta chiave, che pende malinconica dal battocchio di ottone. Lo sanno tutti dove si trova e basta infilarla nella toppa e girare con foga per aprire il battente che silenzioso si apre.

Dunque Carola, dopo aver provato a spingere il portone, qualora qualche altro ardimentoso fosse entrato prima di lei, prende la chiave che è di proporzioni generose e pesa un chilo e mezzo. La infila nella serratura e la gira con forza. Dopo un mezzo giro si blocca. Riprova. Niente dopo un mezzo giro non ha intenzione di muoversi.

Carola freme per la novità che la incuriosisce. “Cosa la blocca?” si chiede con lo sguardo meravigliato. “È la prima volta che mi capita”. Osserva la chiave ma non nota nulla di strano. Dà una sbirciatina nella toppa e non vede nulla.

«Questa è proprio bella» esclama con voce squillante. «La chiave si rifiuta di girare».

Ha appena finito di dire queste parole che la chiave infilata nella serratura inizia a girare in silenzio come se fosse dotata di anima. Carola non si scompone nel vederla ruotare senza che qualcuno la muova. Spinge il pesante portone che cigolando sui cardini si apre mostrando il suo interno polveroso. Ride soddisfatta e incuriosita. “Si tratta del famoso fantasma Beniamino” si dice, mentre varca la soglia. “Tutti ne parlano ma nessuno l’ha visto. Sarò io la prima vederlo?”

Muove alcuni passi verso l’androne, quando il portone in silenzio si chiude, lasciandola al buio. Carola come è abituata a fare porta a tracolla uno zainetto rosso, dove appesa c’è una potente torcia. La prende e illumina l’androne. Il fascio luminoso percorre le pareti e il pavimento. Non ci sono tracce di passaggi umani ma nemmeno di animali. Questa la rassicura. Nessuno è pronto a giocarle qualche brutto scherzo.

Con passo marziale si dirige verso lo scalone che porta al piano nobile. Sente solo il rimbombo delle sue scarpe sul pavimento lastricato con pietre d’ardesia. Un suono familiare per lei. Procede senza cautele convinta di essere sola o al massimo seguita dal fantasma.

Salita al primo piano percorre il corridoio che la porterà alla stanza dei giochi. L’ha chiamata così perché ci sono bambole rotte e carrozzine sgangherate. È la sua stanza preferita. “Strano” pensa vedendo la porta socchiusa. “Di solito è chiusa”. Un raggio di luce filtra dall’apertura come se ci fosse una fonte luminosa attiva là dentro.

Le finestre sono sempre chiuse. L’impianto elettrico non esiste. Dal soffitto pende un lampadario di rame dove le candele sono consumate da secoli senza che nessuno abbia mai provveduto a cambiarle.

La curiosità in Carola aumenta un passo dopo l’altro. Si chiede chi abbia aperto le finestre o messo candele nuove nel lampadario.

«Forse è stato Beniamino» borbotta, stringendosi nelle spalle.

Spinge la porta è nota che c’è ancora più disordine. Una carrozzina per bambole rovesciata, pezzi d’intonaco caduti dal soffitto. Il lampadario penzola sghembo.

Carola guarda stupita che tutto è fuori posto. Non ricordava nulla di simile quando un mese prima l’aveva visitata. Le imposte sono aperte e le finestre lasciano entrare l’aria fresca del mattino che solleva minuscoli vortici di polvere.

Sta lì a bocca aperta nel centro della stanza, quando sente chiudere la porta e lo scatto della serratura. Si gira ma non vede nulla. Prova a fare forza sulla maniglia ma il battente rimane fermo.

«Forza Beniamino» esclama con voce squillante Carola per nulla impressionata. «Fatti vedere, così possiamo giocare insieme».

Però tutto tace e la porta rimane chiusa.

Passano i minuti lenti e la situazione non si sblocca. Carola dà segni di nervosismo, camminando per la stanza a scatti. Si avvicina alla finestra ma questa guarda il cortile d’onore al centro della fortezza. Anche l’altra finestra dà sull’interno. Le sembra di udire delle voci. «Aiuto» urla sperando che qualcuno ascolti il grido.

Le parole si perdono come inghiottite da un buco nero. Eppure ne è certa di aver udito voci familiari. Si sporge ma riesce a vedere solo uno spicchio del cortile. Un acciottolato scuro di pietre di fiume. Si siede sconsolata sul pavimento coperto di polvere appoggiandosi con le spalle alla parete, quando sente girare la chiave dall’esterno. Si stava rassegnando a passare la giornata chiusa là dentro, quando vede spuntare la testa castana di Sandra.

«Che ci fai qua dentro?» chiede basita, scorgendola col le mani che stringono le gambe.

«Niente» mormora con un filo di voce. «Ti aspettavo».

Disegna la tua storia con un’immagine di Etiliyle – Il tramonto

Ho finito di leggere una raccolta di racconti sul mare, scritti da più autori

che potete trovare qui.

Così m’è venuta la voglia di scriverne uno, molto ridotto, che ha come sfondo il mitico paese di Venusia e i suoi abitanti, alquanto bizzarri.

Per prende l’abbrivio mi ricordavo una splendida immagine di Etiliyle. L’ho cercata e la propongo.

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/04/etiliyle-luca-molinari-photo-beach-dark-sunset.jpg?w=685

e adesso buona lettura

Se qualcuno a Venusia sale sulla montagna, un rilievo alto poche centinaia di metri, non vede altro che una calma piatta intorno: la pianura di Ludilandia.

I venusiani pensano che la terra non sia rotonda, perché l’orizzonte è una linea diritta senza curve o gobbe.

Così per loro la montagna è quella piccola gobba adagiata alle spalle di Venusia. Le sue pendici sono ricoperte da un fitto bosco, quello che loro chiamano il Bosco degli Spiriti, e in cima sta il Castello, che appartiene a tutta la comunità.

Per chi osa salire fin lassù vede solo la pianura tutt’intorno e niente altro. Un’altra credenza è che il mare sia un’invenzione di qualche comico, perché per loro il mare è quel gruppo di stagni che stanno a occidente di Venusia. Non vedono altra acqua, a parte quel fiumiciattolo che scorre di fianco la strada che conduce a Ludi.

Il loro orizzonte è limitato. Così la terra è piatta e il mare è un’invenzione di qualcuno per burlarsi di loro.

Quando Ermete ha deciso di raggiungere il mare, i compagni di scopone lo hanno preso in giro alla partenza, dicendo che non l’avrebbe mai visto, perché non esiste. Lui ha mostrato un mappamondo dove il mare è colorato di azzurro e la pianura di verde. Nuove risate e altri lazzi per dimostrare il loro scetticismo.

Quando è ritornato per raccontare la sua esperienza, nessuno ha creduto alle sue parole. Ermete ha mostrato delle fotografie ma loro hanno continuato a dire che sono immagini manipolate con Photoshop. Così si è rassegnato a conservare la memoria del mare dentro di sé.

Proprio oggi in una scatola da scarpe ha ritrovato quelle vecchie, si fa per dire, immagini che documentano che il mare esiste. Ricorda bene il lungo viaggio attraverso contrade mai viste né sentite. Parole che assomigliano al venusiano ma pronunciate con una cadenza diversa. Poi la spiaggia l’ha affascinato con quella sabbia color miele, dove ha notato ombrelloni e lettini variopinti disposti in ordine lungo file parallele.

Quello che l’ha incuriosito di più è stato tutta quella gente nuda, distesa sotto il sole. Lui con le scarpe, i calzoni lunghi e la giacca ha intuito di essere fuori posto in quel luogo. Qui le donne indossano mutande ridottissime e il solo reggiseno, mentre gli uomini hanno i boxer, che lui porta sotto i pantaloni e che mai ha mostrato in pubblico.

A Venusia sarebbero finiti in prigione per oltraggio al pubblico pudore. “Ma ci sono le carceri a Venusia?” si è chiesto osservando quella moltitudine di persone quasi nude.

Ermete sorride a quel pensiero, perché si è informato su quella strana usanza, scoprendo che sulla spiaggia è l’abbigliamento usuale. Qui, gli hanno spiegato, sono visti come diversi le persone come lui, vestite con l’abbigliamento cittadino.

In un angolo della scatola trova un pugno di quella sabbia, che capricciosa si è infilata ovunque. Dentro le scarpe, nelle pieghe dei pantaloni. “Mi è sembrato un delirio eliminarla” ricorda sorridendo. “Ne ho trovato dappertutto, compresi i boxer”.

Però quello che gli è rimasto impresso con nitidezza è stato il tramonto.

Il sole è sceso sempre di più inabissandosi nel verde del mare. Si aspettava che sfrigolasse a contatto con l’acqua ma invece niente. Ha solo incendiato un paio di nuvole in cielo, mentre l’acqua ha cambiato colore. È diventata rossa a strisce. Una vera magia, che nemmeno il più bravo illusionista può realizzare.

La spiaggia si è spopolata con lentezza. Gli ombrelloni sono stati chiusi, i lettini accatastati.

Il silenzio è rotto solo dal suono del mare che come una ninna nanna accompagna le ombre sempre più scure.

Ermete ripone nella scatola questi ricordi e sospira, perché un giorno ripercorrerà quel tragitto per osservare di nuovo la magia del tramonto.