Capitolo 37

Laura considerava il casale del Verginese come la sua casa, il suo nido d’amore. A volte restava lì in attesa del Duca che poi non arrivava ma senza farsi prendere dall’ansia come le prime volte. Non poteva imporgli di trascurare il governo del ducato per correre da lei.

Quando il sole tingeva di rosso l’orizzonte e l’amante non era ancora giunto, chiedeva al cocchiere di riportarla in città.

“Passate domani un’ora dopo il sorgere del sole” gli diceva, mentre smontava vicino alla chiesa di Santa Giustina per affrettarsi a rincasare prima che le ombre inghiottissero il tragitto verso casa.

Così tra delusioni e attimi di felicità passò agosto e settembre. Le giornate diventavano sempre più corte e le prime nebbie avvolgevano il casale come un bozzolo di seta.

Era la fine di settembre quando Alfonso stringendola a sé le disse che la duchessa tra due giorni tornava dalla delizia del Belriguardo.

“Mi spiace, Laura ma per diverse settimane non potremo vederci. Poiché il casale è troppo distante dalla città per poterlo frequentare, troveremo un altro palazzo in città. Non sarà così avvolgente come questo ma sarà ugualmente confortevole e discreto. Lucrezia ha concluso le sue ferie estive e dopo molti mesi dovrò onorarla alla notte e adempiere ai miei doveri di coniuge. Sei una donna splendida che mi capisce e non mi soffia sul collo. Con te dimentico tutto: le preoccupazioni del governo, le guerre, le beghe coi fratelli e familiari e persino il piccolo Ercole, che un giorno mi succederà sul trono. Ora godiamoci questa notte che per qualche tempo sarà solo un ricordo”.

Laura non replicò ma si strinse a lui per accoglierlo dentro di sé. Non si faceva illusioni sul breve intervallo senza potersi addossare a lui.

“Finché la duchessa vivrà, io sarò la sua concubina segreta. Però più le giornate passano, più diventa complicato nascondere la nostra relazione. Circolano molte chiacchiere, quando mi vedono camminare in fretta alla mattina sempre nella medesima direzione. Ma ora mettiamo al bando questi pensieri e concentriamoci sul come soddisfare Alfonso”.

Assecondava l’amante, sognava di essere riverita come la duchessa ma si dimostrava sempre disponibile anche quando la stanchezza l’assaliva.

Passò il resto di settembre e ottobre senza che il duca si facesse vivo. Laura percepiva un gran vuoto dentro di sé e una profonda tristezza.

“Mi ha dimenticata. Era solo una stagione estiva con la duchessa lontana per sfogare i propri istinti” mormorava alla sera coricandosi mentre incubi malvagi popolavano i suoi sogni.

L’estate aveva lasciato ben presto il posto all’autunno che era giunto con molto anticipo. Le prime brinate avevano imbiancato i tetti, la nebbia regnava sovrana, la temperatura era diventata rigida.

Laura aveva ripreso il proprio posto nella bottega del padre. In silenzio cuciva e sistemava i cappelli che Francesco tagliava.

Era il 1 novembre del 1518, la festività degli Ognissanti, quando la madre la trattenne in cucina.

“Laura, il vostro duca è sparito, svanito come la stagione calda. Eri forse l’amante di stagione oppure devo usare un altro nome?” disse con tono tagliente spingendo le mani verso il fuoco del camino.

“No, madre. Mi aveva annunciato che per un po’ non avrebbe potuto frequentarmi”.

“Un po’? Forse quasi due mesi sono solo un po’?” replicò sarcastica. “Ma ditemi, cosa vi ha lasciato prima di liquidarvi? Non mi pare d’aver visto borse con scudi d’oro nella tua camera?”

“Nulla, madre. Nessuno scudo d’oro. Niente, solo una promessa”.

“Le promesse non servono a nulla. Fanno felici solo le gonze come mia figlia, che era illibata prima. O forse mi sbaglio?”

“Non vi sbagliate, madre. Non lo sono più da molti mesi ..”.

“E non vi ha pagato nemmeno uno scudo d’oro lo stato di verginità?”

“No. Non sono una donna di strada che si fa pagare aprendo le gambe ..”

“Siete ingenua, mia cara! Chi vi prenderà ora che non lo siete più?”

“Madre, ma voi lo eravate quando avete contratto il matrimonio con Francesco?” chiese la ragazza ricordando certi accenni e bisbigli di molti mesi prima.

“No, di certo!” esclamò divertita. “Come avrei potuto esserlo, se ho ..” e si interruppe, perché stava rivelando un segreto custodito per oltre vent’anni.

“Madre, già altre volte avete accennato a un misterioso conte e a una borsa di scudi d’oro. Ma siete sempre stata reticente” disse Laura, che voleva conoscere cosa era successo e le motivazioni di quelle parole appena sussurrate.

Paola diventò paonazza e farfugliò qualche parola sconnessa.

“Madre, vi vedo in difficoltà su questo episodio. Se non volete parlarne, non fatene più cenno nei paragoni con il mio stato. Però se lo volete narrare, sappiate che la mia bocca rimarrà cucita per sempre”.

Guardò la figlia e poi le prese le mani prima di iniziare il racconto.

“Avevo sedici anni ed ero la promessa sposa di Francesco più vecchio di me di due anni. Dovevo racimolare degli scudi per crearmi la dote di matrimonio. I tuoi nonni erano poveri e non avrebbero potuto contribuire un granché. Così andavo sulla riva del Po con le amiche per lavare i panni delle signore per qualche soldo da mettere da parte per le nozze. Ero bella, la più bella del gruppo”.

Fece una pausa sospirando, mentre pensava alla freschezza del corpo di allora rapportato allo stato attuale.

“Madre, ma lo siete ancora oggi. Molto di più di me che sono acerba”.

“Però non più vent’anni come te. I signori desiderano la carne fresca a quella stagionata. Ormai sono vecchia e nessuno sborserebbe un testone d’argento per venire a letto con me” concluse prima di riprendere la narrazione. Laura l’osservò stupita per l’affermazione.

“Ero l’oggetto di tutti i complimenti degli uomini. Se possiamo chiamarli così. Erano battute triviali e proposte oscene. Le amiche invidiose mi prendevano in giro, dicendomi che ero troppo sostenuta e che per uno scudo d’oro avrei aperto le gambe. Io alzavo le spalle e sorridevo, perché volevo conservarmi illibata per la prima notte di nozze. Nel tragitto verso Porta Paula si passava davanti a una casa patrizia abitata dal conte Giglioli, un vecchio bavoso ma molto danaroso. Aveva anche tre figli, il più giovane dei quali era un mio coetaneo. Quando si transitava, sbirciava dalla finestra senza dire nulla. Le amiche vedendolo dicevano che avrebbe sborsato molti scudi d’oro per una ragazza giovane e bella come me. Ridevano alle mie spalle. Il pensiero di essere posseduta da un vecchio mi faceva ribrezzo. Però il tarlo aveva cominciato a lavorare sotto la spinta delle loro insinuazioni, Erano invidiose che avesse occhi solo per me. Ma per pochi testoni d’argento avrebbero accettato. Mi dissi. Se devo andare a letto con quel vecchio bavoso, lo farei solo per cinquanta scudi d’oro. Ero convinta che non sarebbe accaduto. L’estate calda come quest’anno eccitava gli spiriti. Per lavare i panni arrotolavamo la gonna fin quasi in cintura, mostrando le gambe e forse anche qualcosa di più. Il guarnello era ridotto all’essenziale, senza maniche e scollato. Sotto non portavo niente per la calura e la povertà. Ben presto aderiva al corpo mostrando le forme del mio seno, piccolo e sodo. Una gran quantità di uomini sfaccendati ci osservava, commentava con oscenità masturbandosi. Le donne più anziane li tenevano lontani. Erano terribili. Se qualcuno era più intraprendente rischiava una bastonata. Un giorno di agosto il conte si avvicinò e confabulò con quella che era il capo delle lavandaie. Paola, mi disse, il signor conte desidera parlarvi in privato. Così formulò la proposta, sussurrata con un filo di voce”.

“Cosa vi chiese” domandò curiosa Laura, che non perdeva una sillaba del racconto.

“Sarei diventata la sua regina e mi avrebbe ricoperto di scudi d’oro, se avessi accettato il suo invito”.

“E voi, madre, cosa avete risposto”.

“Ci penserò e vi darò la risposta domani col capo. O sì o no”.

“E le altre non commentarono il vostro parlottare?”

“Qualcuna credette alla mia versione di un’offerta di lavoro ma molte finsero immaginando il tenore della proposta come le amiche. Beatrice, la più piccola ma anche la più smaliziate, disse che lei non sarebbe andata a letto con lui se non le versava in anticipo almeno cinquanta scudi d’oro, perché oltre il vecchio sarebbero passati anche i tre figli. Tornata a casa con la testa in subbuglio non avevo nessuna con la quale confidare il segreto. Non dormì. Feci incubi e mi girai sul pagliericcio inquieta. Il grande timore era la prima volta. Avevo ascoltato racconti paurosi su quel momento. Sangue, dolori, difficoltà a chiudere le gambe per qualche giorno. Insomma ero spaventata. Alla fine avevo solo sedici anni. La mattina, al sorgere del sole, Beatrice mi raggiunse. Aveva capito tutto. Mi disse. Accetta, perché si tratta di un giorno solo. Il conte vuole solo roba fresca e senza macchie. Però il primo rapporto l’avrai con Rainiero, il più vecchio, perché lui non ce la fa. Quindi tieni alta la posta senza timori. E’ chiaro che sono disposti a pagare bene. Non capita a tutte. Scelgono con cura le donne. Se non avessi avuto tredici anni, di certo non mi avrebbe chiesto nulla. Pretesi solo due testoni d’argento ma me ne pentì subito per l’esiguità della ricompensa. Accetta senza timori. Vali molto per loro”.

“Madre, ma quello che racconti è terribile! Una bambina di tredici anni!” disse arrossendo Laura.

“Beatrice ne dimostrava di più. Sembrava una donna con un seno ben sviluppato”.

“E voi cosa avete fatto quella mattina?” domandò ben conoscendo la risposta.

Paola stava raccogliendo tutte le sue forze per finire il racconto quando udì la voce di Francesco.

“Laura, venite. Un messo vi cerca”.

La ragazza si precipitò nella bottega, seguita dalla madre. Un paggio che ben conosceva le consegnò un messaggio chiuso col sigillo ducale.

“Passo domani per la risposta” disse, uscendo sulla strada.

A Paola brillavano gli occhi dopo l’imbarazzo del racconto interrotto sul più bello.

“Cosa c’è scritto?” chiese allungando il collo.

“Madre, lo saprete. Ora vorrei leggerlo da sola”.

Si allontanò e ruppe la ceralacca.

«Mia adorata Madonna,

Finalmente posso dedicarmi a voi per i prossimi mesi, anni.

Una splendida notizia ho per voi. Madonna Lucrezia è gravida e per molto tempo non dovrò più passare le notti nei suoi appartamenti. Sono libero di stare con voi per tutto il tempo che posso dedicarvi.

Ho voglia di stringervi a me e accarezzare la vostra pelle, annusare il vostro odore, affondare le mani nei vostri capelli neri.

Dite al messo quando e dove la carrozza passerà a prendervi.

Vostro Alfonso»

Paola rimase in silenzio in piedi, osservando la figlia e le sue espressioni. Le aveva rivelato un segreto e l’aveva resa complice di questo. Sperava che non ripetesse la sua esperienza. La vide ripiegare il messaggio e dirigersi verso la cucina. Il viso di Laura era sereno e disteso. Un buon segno, pensò prima di chiederle cosa c’era scritto.

“Madre, la storia riprende da dove si è interrotta tre mesi fa. Sta a me dire quando” rispose pacata.

Paola l’abbracciò. Sua figlia era stata più saggia e avveduta di lei. Ricordava che Beatrice aveva descritto con sincerità quell’incontro. Rainiero era stato un martello asfissiante in quel frangente, ma questo non lo poteva confessare a nessuno.

“Il resto del racconto lo rimandiamo a un altro momento, se vorrete proseguire. Credo di immaginare cosa sia successo, madre”.

Tra due giorni sarebbe stato nuovamente tra le braccia dell’amante.

Capitolo 36

Giacomo sogghignò ferocemente, perché aveva messo in riga Isabella.

“Non on mi è mai piaciuta fin dal primo incontro. Quell’aria tra l’arroganza annoiata e la sufficienza mi aveva dato ai nervi ma ho dovuto far buon viso a cattiva sorte, non sapendo nulla di questa mia nuova vita. Mi ha sottovalutato. Un errore imperdonabile di valutazione. Ma ora mi servo la vendetta, un piatto da consumarsi freddo. Più che vendetta ho ristabilito le gerarchie” rifletté mentre terminava il bagno ristoratore.

Avvertì che Ghitta era soddisfatta per come stavano procedendo gli eventi.

“Non fatevi illusioni, Ghitta” esclamò mentre sentiva scorrere l’acqua fresca sul corpo accaldato.

“Quali, Messere?” chiese cauta la furba ragazza.

“Lo sapete. Non c’è necessità che ve le spieghi. Avete salvato il posto ma dovete rigare dritta”.

“Cosa significa «rigare dritta»?”

“Che non pensiate di avere privilegi speciali o di parlare a sproposito col resto della servitù. Dovete rimanere quella che ho conosciuto fin dall’inizio. Rispettosa, obbediente e attenta ascoltatrice di quello che si dice di me e di avvertirmi. A proposito. Perché non mi avete informato che madonna Isabella mi attendeva nella mia camera?”

“Non ho potuto. Madonna mi ha detto ..” rispose tentennante, lasciando intendere l’esatto contrario.

“Bubbole. Avete avuto paura e basta”.

“Aveva minacciato di cacciarmi se..”

“E ci sarebbe riuscita se non fossi intervenuto con decisione. Ma ora prepariamoci alla cena nelle sue stanze. Ricordatevi di preparare la camera come vi ho spiegato in ogni dettaglio. Stanotte dorme qua”.

Tirato a lucido e senza troppe arie trionfalistiche Giacomo si presentò puntuale nelle stanze di Isabella.

“Madonna siete uno splendore. Forse in mio onore?” chiese sorridente, vedendola agghindata a festa.

In effetti non l’aveva mai trovata così bella: i capelli raccolti a crocchia con la treccia che le dava un tocco di sobria eleganza, un abito blu con un corpetto bianco attillato e un’ampia scollatura, che mostrava generosamente i seni. Questi parevano esplodere fuori ad ogni movimento del corpo ma rimanevano miracolosamente al loro posto. La pelle leggermente ambrata era liscia come quella di un bambino, mentre emanava fragranze delicate.

“Ha deciso di colpirmi col lato sexy del corpo che usa come arma di seduzione per volgere a suo favore queste schermaglie” rifletté Giacomo, che riuscì a controllare magnificamente voce e fisico. “Non posso cedere al ricatto sessuale. Per me sarebbe la fine”.

Isabella sorrise annuendo con la testa mentre dentro di sé covava rabbia, perché vedeva sfumare i suoi piani.

“Quest’uomo sembra di ghiaccio che nemmeno il sole agostano riesce a sciogliere. Ero sicura che avrebbe ceduto. Invece, impassibile, cortese e galante ha fatto un semplice commento senza grossi entusiasmi più come dovuti che sentiti. Il marchese si sarebbe sciolto in un amen e sarebbe rimasto appeso alle mie labbra per il resto della serata, sbavando e gemendo. E per guadagnare il mio letto avrebbe dovuto sopportare le pene dell’inferno. Giacomo invece non lo riconosco più. Sembra un altro, cambiato, determinato e attento a come si muove. Poi pare che sia ricercato da molte dame. Da quando gli ho assegnato Ghitta, non è più l’uomo che conoscevo. Quella ragazza l’ha stregato, mentre io mi ritrovo le armi spuntate”.

Giacomo si muoveva come un gatto che si divertiva a giocare col topolino. Lo lasciava correre un po’ e poi una zampata lo riportava in balia di lui. Colpi di fioretto, stilettate e fendenti la colpivano da ogni parte senza che lei potesse opporre resistenza. La serata procedeva con Isabella sempre più visibilmente agitata e incapace di ribattere le punture dell’uomo.

“Messere, sapete che sto diventando lo zimbello di Ferrara?” disse con tono accorato la donna.

“Perché, Madonna?” domandò curioso anche se immaginava dove voleva puntare.

“Voi mi tradite con molte dame. La contessa Giulia ..”

“Ah! Ah! Forse il marchese di Stellata vi manca di rispetto quando passa dal vostro letto?” replicò sornione.

Isabella avvampò nelle guance che divennero rosse per la collera e lo stupore. Non si aspettava quell’affermazione, perché le visite era discrete. Nessuno si era accorto della relazione. Almeno questa era la sua convinzione ma evidentemente si era sbagliata.

“Ma che dite, Messere! Il marchese di Stellata è un amico comune e non ha mai mancato di rispetto verso la mia persona ..”

“Un amico? Ma se è da anni che non lo saluto. Forse è venuto sotto questo tetto senza passare a salutarmi?”

“No, no. Rispondevo alla vostra ..” farfugliò diventando ancor più rossa per l’impaccio.

Giacomo si tratteneva dal ridere, perché aveva tirato un colpo alla cieca centrando il bersaglio senza troppa fatica.

“Capisco, Madonna, il vostro imbarazzo per il marchese e perché ho malignato, pensando che fosse stata violata la nostra casa”. Dopo una brevissima pausa riprese: “E’ bello il palazzo in via dei Piopponi?”. Aveva gettato l’amo con l’esca in bella evidenza.

“Ha un giardino magnifico, che vorrei avere anch’io. Il nostro è talmente squallido..” rispose abboccando.

“E la camera da letto è migliore della nostra?” continuò con ostentata indifferenza.

“E’ sobria e lineare come piace a me” replicò ingoiando amo ed esca.

“Ah! E’ mi fate il predicozzo perché qualche malalingua afferma che frequento delle dame, quando voi incontrate con regolarità il marchese?” disse infliggendole il colpo finale.

“Ma .. no.. mi avete frainteso..” farfugliò in maniera incoerente torcendosi le mani. “State pensando male di me. Qualche tempo fa ..”

“Sì, sì. E’ meglio cambiare argomento. Le bambine come stanno? Sono mesi che non le vedo. Non pensavo nemmeno che fossero in vita..”.

“Sono con la nutrice nelle loro stanze” rispose cercando di riprendere un colorito normale. “Domani, se ci siete, ve le porto in visita nelle vostre stanze”.

“Domani mattina ci sarò sicuramente. Ma ora è arrivato il momento di ricambiare la visita e ritirarci nelle mie stanze”.

Isabella si irrigidì prima di rispondere.

“Mi sento a disagio pensando che la vostra serva sia lì a origliare e ascoltare le nostre parole ..”.

“Però qualche tempo fa non lo eravate, quando sei venuta a farmi visita. Direi che siete rimasta molto soddisfatta”.

Si alzò e la prese per mano per condurla da lui. Isabella tentò di opporre un’ultima resistenza.

“Non posso di certo farmi aiutare dalla vostra serva per spogliarmi'”.

“No, di certo. So ancora come si spogliano le donne” replicò sorridente e suadente.

La stanza profumava di artemisia bruciata per scacciare gli insetti. Il letto era preparato con cura con ricche lenzuola di lino ricamate, mentre due tuniche leggere erano appoggiate sopra. Nel bagno erano pronte brocche di acqua profumata per ogni necessità Ghitta non si mostrò, restando nelle sue stanze, come le aveva ordinato Giacomo.

“Madonna, se vi girate, vi aiuto a togliere questa veste ricca ed elegante”.

“Ma ci riesco anche da sola. Preferisco farlo al buio” replicò indicando il candelabro sul tavolo.

“Mi togliete il piacere di spogliarvi con le mie mani e ammirare il vostro corpo alla luce delle candele”.

Con agilità cominciò a sciogliere i lacci e velocemente la lasciò nuda. Aveva davvero un fisico splendido, nel pieno della maturità dei suoi trentacinque anni e forse più. Fu il commento di Giacomo. Poi cominciò a spogliarsi lui con una certa fatica, perché era un’operazione che svolgeva con l’aiuto di Ghitta.

“Questi cosa sono?” domandò stupita e irata.

“Una borsa con qualche lira marchesana ..”

“Per chi mi avete preso?” avvampò la donna.

“Per mia moglie. Però il marchese vi fa sempre trovare una borsa tintinnante sotto il cuscino ..”.

“Come fate a conoscere tutto questo?” disse stizzita e imbarazzata.

“Dama Eleonora. Il marchese omaggia così le sue amanti. E ora da brava moglie voltatevi. E’ la vostra posizione preferita”.

Isabella cedette di schianto senza protestare e assecondò il marito.

La notte fu lunga e soddisfacente.

Il mattino li trovò abbracciati che dormivano serenamente. Un raggio di sole illuminò i loro visi, svegliandoli.

“Avete perso molte notti piacevoli” disse l’uomo.

“Potrei recuperare, passando anche le prossime”.

“Fra tre notti. Nei prossimi giorni sono invitato nella Diamantina per una festa d’agosto” rispose serafico.

“Posso venire anch’io?” chiese trepidante.

“Se dama Eleonora lo vuole”.

“Ghitta!” urlò mentre lei si materializzava come un fantasma.

Capitolo 35

Giacomo rientrò a casa dove l’attendeva una sorpresa. Isabella stava seduta sulla sua poltrona preferita, mentre Ghitta armeggiava rumorosamente nelle sue stanze.

“Che piacevole sorpresa, Madonna Isabella!” esclamò l’uomo nel vederla, mentre lanciava un occhiata di fuoco verso la serva che faceva capolino dalla porta socchiusa come per dire «mi potevi avvertire».

Però la ragazza rispose muta con una faccia che esprimeva il suo disappunto: «me lo ha impedito quella vipera».

La donna intuiva che tra il marito e la serva c’erano scambi silenziosi di messaggi e chiese con fare ingenuo. “Cercate qualcosa, messere?”

“Non capisco perché Ghitta si ostini a rimanere nelle sue stanze anziché venire in mio soccorso per togliermi queste vesti impolverate e sudate come fa di solito”.

“Ci sono io qua per aiutarvi a cambiare d’abito e mettervi più comodo” replicò sorniona.

“Qualcosa bolle in pentola. Non si muove per nulla. Devo stare attento a cogliere qualsiasi cenno per comprendere il disegno che c’è dietro” rifletté Giacomo, facendo buon viso a cattiva sorte. “Certo che Ghitta è molto più abile di Isabella, che appare impacciata e poco pratica” .

“Madonna Isabella, vi vedo incerta. E’ meglio che faccia da solo, visto che quell’insolente di Ghitta non si fa vedere” disse allontanando la donna con decisione e fastidio.

“Credo che sia meglio così. Ho intenzione di rimandarla da dove è venuta e assegnarvi un paggio” replicò acida.

“Non sono d’accordo” sbottò l’uomo, che stava comprendendo il sottile disegno della moglie.

“Ecco il motivo dell’improvvisa e improvvida venuta di Isabella” commentò tra sé Giacomo.

“Mi spiace deludervi” proseguì secco e deciso. “Ma Ghitta rimane e continuerà a servirmi, finché io lo vorrò”.

“Le questioni sulla servitù mi spettano come donna. Sono io a decidere chi e come impiegare serve e paggi e con quali compiti” replicò alzando la voce.

“Pochi mesi fa mi avete pregato di dirigere la casa? Vi ho preso in parola e lo sto facendo, domestici compresi. E ora, vi prego di andarvene, vorrei rimanere solo e farmi un bagno ristoratore dopo una giornata calda e afosa. Passerò dalle vostre stanze per continuare questa piacevole conversazione e chiarire diversi aspetti”.

Giacomo parlò con un tono che non ammetteva repliche e faceva ampi gesti che erano inequivocabili: o usciva con le sue gambe o la cacciava in malo modo.

“Non so se vi riceverò più tardi. Direi che fareste un viaggio inutile, perché le porta rimarranno chiuse” disse la donna indispettita mentre si avviava all’uscio.

“Vi conviene ricevermi e senza troppe storie, se volete rimanere sotto questo tetto”.

“Volete cacciarmi?” replicò un po’ allarmata.

“L’avete detto. Ho due figlie che non mi assomigliano per niente. Ci sono altri bastardini?”.

La voce di Giacomo era acida e graffiante mentre gli occhi erano due tizzoni ardenti. Non prometteva nulla di buono il tono usato e questo la preoccupava non poco. La donna si fermò sul limitare della porta incerta sul da farsi, sbiancando in viso. Era venuta con idee bellicose e non si aspettava un attacco così diretto. Faticava a riconoscere il marito, che fino a qualche mese fa si mostrava arrendevole molliccio, mentre adesso era tagliente come un coltello da poco affilato e sicuro nelle discussioni.

“Volete continuare la conversazione qui oppure la rimandiamo a più tardi? Se rimanete, chiudete quella porta, perché non mi va che i domestici sentano le nostre parole”.

“Vi riceverò nelle mie stanze” disse umilmente sconfitta. “E Ghitta continuerà a servirvi anche in futuro”.

“E stasera preparativi a dormire nel mio letto dopo molto tempo. Non ci sono né se né ma. Vi aspetto e non lo ripeterò due volte. Ora, se volete, siete libera di tornare nel vostro appartamento”.

Giacomo si girò senza osservare la faccia di Isabella che lentamente usciva umiliata.

“Ghitta!” urlò l’uomo per richiamare l’attenzione e per rimarcare che il padrone era lui. “Venite qui senza indugi. Ho avuto fin troppa pazienza nell’aspettarvi”.

La serva comparve silenziosa a completare l’eliminazione degli ultimi indumenti. Poi senza fiatare preparò il bagno al padrone. Non le sembrò il caso di obiettare qualcosa, perché l’atmosfera era satura di elettricità.

“Gli ha dato una bella lezione a quella donna che terrorizza servi e paggi con le sue bizze e sfuriate. Credo che per un po’ non farà obiezioni di sorta, accettando senza fiatare le decisioni di Giacomo. Così infuriato non l’ho mai visto. Duro e risoluto nelle parole non le ha lasciato scampo: o accettare o andarsene. Giudiziosamente ha preferito abbassare la testa. E’ un vero uomo. Di questo non avevo mai dubitato!” sogghignò divertita, pensando ad altro più materiale e prosaico. “Peccato per stanotte perché dovrò dormire sola mentre ascolterò i loro sospiri e i gemiti d’amore” rifletteva mentre con lentezza versava acqua tiepida e profumata sulle spalle di Giacomo.

Laura si svegliò al canto del gallo, che annunciava l’arrivo del nuovo giorno. Fuori le tenebre della notte lasciavano il posto al baluginare del sole che stava sorgendo. Il prato era umido di rugiada che ben presto sarebbe evaporata con la calura agostana.

Era stata una serata allietata dal frinire delle cicale e dalle piccole luci guizzante delle lucciole. Ai quattro angoli del pergolato avevano fumato i bracieri di artemisia per tenere lontane le zanzare. La ragazza aveva impressa nella mente quei momenti di totale riposo ma era stata la notte l’attimo migliore.

Ricordò che Alfonso aveva ben presto dimenticato le preoccupazioni del governo del ducato con la sua vicinanza. Lei aveva il potere di rilassarlo, di farlo sentire in pace con se stesso come mai gli era capitato prima di incontrarla.

Era un’amante discreta e passionale che lo assecondava durante gli amplessi mai cercati a tutti i costi ma che venivano con naturalezza. La sua indole focosa e lunatica era mitigata dalla calma della donna, che sapeva usare con abilità parole e tono di voce.

Laura con discrezione scivolò fuori dal grande letto circondato da veli per proteggere il loro sonno. La leggera camicia bianca di lino aderiva al suo corpo come una seconda pelle. Infilò delle leggere pantofole di panno. Percepiva la necessità di un bagno rinfrescante, anche se le piaceva annusare l’odore del Duca che aveva impregnata tutto il suo corpo. Sarebbe ricomparsa tra non molto fra le braccia di Alfonso.

Lo udì sospirare mentre afferrava il vuoto del suo posto. Gli mandò un leggero bacio con le punta delle dita, mentre si toglieva l’indumento e rimaneva nuda. Si avviò verso una stanza dove c’era acqua fresca e panni per asciugarsi. Era un’operazione che le piaceva eseguire dopo aver trascorso la notte col Duca. Le consentiva di togliersi umori e sudore, di liberarsi dagli indumenti umidi e appiccatosi, di sentirsi pulita e fresca.

Ripensò ai mesi passati, ai timidi primi approcci, allo sbocciare di un sentimento che cresceva con lentezza mentre affondava solide radici dentro di lei. Le pareva impossibile che lei, umile ragazza, potesse essere entrata nelle grazie di un uomo potente come Alfonso con un rapporto solido e alla pari. A volte nel suo letto osservando al buio il soffitto di nudo legno, annerito dal tempo e dal fuoco, si diceva che era un bel sogno che il mattino successivo sarebbe sparito col sorgere del sole. Eppure quel sogno continuava e si ripeteva con una certa costanza senza che svanisse il giorno successivo.

Si chiese come c’era riuscita, perché non le sembrava di avere usato arti amatorie particolari o filtri amorosi o sortilegi da strega: aveva dispiegato solo la semplicità del suo carattere e la fermezza delle azioni. Eppure aveva provocato una breccia che si allargava giorno dopo giorno, dove poteva insinuarsi con relativa facilità. Sapeva che non poteva competere con la duchessa, che era bella, anzi bellissima, potente e rispettata. Aveva un forte ascendente sulla corte, che difficilmente avrebbe approvato la relazione di Laura col Duca.

Erano uno dei motivi per i quali non desiderava rendere pubblico il loro rapporto almeno per il momento.

“Non ora, forse fra qualche tempo, se Alfonso non si è stancato prima di me. Finché la duchessa è in vita, non mi conviene mettermi in competizione. Sarei perdente ed emarginata. Dicono che la salute di Lucrezia stia scricchiolando giorno dopo giorno. Ma non ci credo. Sono solo voci senza fondamento. La vedo bella e splendente”.

Rifletteva mentre si lavava il corpo in silenzio. Prese alcuni aromi profumati da alcuni vasetti e li cosparse addosso prima di indossare una tunica di lino bianco, pulita e fresca. Si sistemò i capelli e tornò nella camera da letto. Alfonso continuava a dormire rilassato, ronfando con cadenza regolare. Laura si soffermò a osservarlo.

“Visto così pare innocuo come un bambino, eppure è capace di sfuriate terribili, di collere furiose e pericolose. E’ capace di uccidere chi gli sta di fronte se non riesce a controllare lo spirito aggressivo che sta dentro quel corpo massiccio e forte. Con me sembra un agnello mansueto, incapace di dare sfogo al suo carattere lunatico”.

Disse questo sottovoce mentre tornava fra le sue braccia.

Capitolo 34

Laura si alzò per vedere meglio, scorgendo solo una nuvola di polvere. Il cuore prese a battere con un suono lancinante nelle orecchie. Tutta la stizza che aveva covato fino a quel momento si disciolse come l’alba che annuncia il nuovo giorno, lasciando il posto a una sottile euforia. Mentre cercava di calmare il tumulto interiore e riacquistare la solita compostezza, in piedi osservò l’ingresso della carrozza scortata dal manipolo di fidati cavalieri. Si impose di rimanere lì, sotto il pergolato, anziché correre incontro al duca per abbracciarlo e baciarlo. Per questo ci sarebbe stato tempo e luogo più adatto.

I servi si precipitarono attorno alla carrozza per accoglierlo e aiutarlo a scendere. Un paggio sistemò il mantello, tentando di togliere il velo di polvere depositata sul farsetto. Alfonso si lisciò la folta barba nera che in alcuni punti appariva grigiastra in maniera innaturale, mentre scuoteva il capo. Avvertiva la bocca impastata e riarsa per la calura e la lunga corsa, ma allontanò con un gesto imperioso della mano il servo che gli porgeva una brocca di vino fresco e qualche frutto. Aveva visto la donna che in piedi lo stava aspettando.

“Madonna Laura, sono mortificato per la lunga attesa ma le preoccupazioni del governo mi hanno trattenuto nello studio più di quanto pensassi. Vi sarete annoiata in questa campagna bruciata dal sole agostano e logorata nell’incertezza del mio arrivo. Ora sono qui a rimediare e ottenere la vostra indulgenza, se voi vorrete concedermela”.

Batté le mani per richiamare l’attenzione dei servi.

“La lunga corsa per arrivare prima da voi mi ha fatto mangiare polvere e sudore. Un veloce bagno ristoratore è quello che serve prima di sedermi accanto a voi. Nel frattempo i musici allieteranno questo piccolo lasso i tempo, durante il quale vi lascerò sola”.

Il duca scomparve all’interno del casale, per poi riapparire con abiti cambiati e profumato di molte essenze odorose, mentre la ragazza aveva rasserenato l’animo e aveva ascoltato le dolci melodie dei musici.

“Mio Signore” cominciò Laura.

“Sapete che non gradisco essere chiamato così. Sono Alfonso per voi” la interruppe mentre la ragazza porgeva le mani per afferrare quelle del duca.

“Alfonso, mi spiace che le cure del governo del ducato vi impegnino oltre misura. Non vorrei esservi d’impiccio e costringervi a trascurare i vostri impegni ..”.

“Nessun impiccio, anzi la vostra vista mi riempe di gioia, facendomi dimenticare le preoccupazioni quotidiane. Non parliamone più. Pensiamo a trascorrere in letizia e tranquillità quel che rimane della giornata. Il sole sta rosseggiando basso sull’orizzonte e tra non non molto infuocherà il cielo”.

Gli occhi della ragazza si riempirono di luci come il cielo di stelle, mentre brindavano con un vino dorato e fresco. Le sembrava mansueto e docile come un agnello quell’uomo potente e dagli scoppi di collera improvvisa e terrificante. Tutti lo temevano, mentre lei lo trovava dolce e affettuoso. Si era guadagnato il rispetto della servitù più con i suoi modi dolci e gentili che come l’amante del duca, ma anche perché sapeva tenere testa a quell’uomo bizzoso e lunatico con una calma che impressionava.

La prima volta che si erano incontrati nella bottega del padre non stato esaltante, anzi in cuor suo pensava che fosse stato un capriccio passeggero. Poi l’incontro nella delizia di Belfiore aveva dato una svolta positiva. Aveva compreso che poteva nascere qualcosa a patto che lei tenesse la barra del timone ben dritta senza lasciarsi andare ma cedendo poco per volta. La tattica aveva funzionato mentre il duca rimaneva sempre più impigliato nella tela che Laura stava tessendo.

Il passaggio nel letto ducale era stato un momento condiviso senza fretta né sotto la spinta convulsa di fare sesso a tutti i costi. Questo aveva reso l’operazione un ricordo da serbare con cura. Entrambi ne avevano ricavato una sensazione mai provata prima di allora. Però anche gli incontri successivi non si concludevano inevitabilmente nel letto ma solo se si era creata l’atmosfera giusta che lei definiva amore.

Anche Alfonso aveva trovato un nuovo equilibrio con la vicinanza di Laura. Non percepiva più la compulsiva esigenza di fare sesso con tutte le donne che passavano nelle sue vicinanze. Si era calmato, aspettava con ansia il momento di rivedere l’amante, si sentiva a proprio agio quando la stringeva a sé, provava nostalgia quando lo lasciava per tornare a casa. Avrebbe voluto vivere con lei more uxorio ma tentennava a uscire allo scoperto. Aveva una moglie, Lucrezia, potente e ancora desiderabile, per essendo un po’ appassita per le molte gravidanze. Doveva pazientare, perché Laura aveva detto chiaramente che la loro relazione doveva essere coperta dal riserbo finché la moglie era in vita o quanto meno non ci fosse stato un via libera implicito.

Gli aveva detto che non voleva passare per l’ennesima concubina del duca ma per una donna rispettabile che lo amava. Era stata categorica su questo punto e lui aveva accettato questo punto di vista.

Giacomo stava tornando sui suoi passi verso il Monte dei Pegni, soddisfatto di come volgeva la giornata. Aveva ottenuto senza troppo lottare potere e denaro per portare avanti la sistemazione dei cunicoli. Aveva visto come e dove costruirne un terzo, anche se non ne conosceva le motivazioni pur intuendo lo scopo.

Adesso poteva tornare a casa per organizzare le prossime mosse, quando intravvide sull’angolo di via Spazzarusco e dei Piopponi, due donne che parevano aspettarlo. Una gli sembrava di averla vista di sfuggita nel palazzo di Giulia in una delle tante cene organizzate, mentre l’altra le era totalmente sconosciuta. Poi ricordò che la seconda l’aveva salutato con calore mentre andava a visionare il cantiere qualche tempo prima.

“Chi sarà?” si chiese tra il curioso e l’inquieto. “Sembra che questo Giacomo sia un gran rubacuori. Tutte sanno che è sposato ma non esitano un attimo per accoglierlo nel proprio letto nubili o sposate che siano. Ai miei tempi non era così facile ma si dovevano sudare le proverbiali sette camice e a volte non era sufficiente”.

“Buona giornata, Messer Giacomo” chiosò soave la donna sconosciuta.

“Ricambio i saluti, Madonna” rispose galante l’uomo prendendole la mano per baciarla, ma in cuor suo già turbato perché ne ignorava il nome.

“Costanza, non me lo presenti?” disse l’altra, togliendo dal momentaneo imbarazzo Giacomo.

“Non passate inosservata, mia Madonna. Ho l’ardire di chiedervi come vi chiamate, perché Madonna Costanza la conosco già” le domandò ossequioso, reso più sicuro dal fatto che non si conoscevano, e con un profondo inchino la ossequiò.

“Siete come le amiche mi avevano ben descritto con dovizie di particolari. Galante ma sincero. Amabile e cortese. E se vi negassi il mio nome?” replicò con un sorriso divertito.

“Avrei la morte nel cuore non potervi chiamare per nome. Però cercherei di strapparvelo con mille dolcezze”.

“Siete impagabile, Messere. Riuscite con la vostra dolcezza a ottenere tutto. Eleonora ..”.

“Che bel nome, Madonna! E ..”

“E io sono già in disparte come un vecchio straccio? Mia cara, Eleonora, vi avevo promesso di farvelo conoscere alla prima occasione ma sembra che ora io sia di troppo, rubandomi la scena. Il terzo incomodo che regge il moccolo” replicò un po’ stizzita Costanza con una punta di gelosia.

“Come potrei ignorarvi, Madonna Costanza. Siete bella e vellutata come una pesca maturata sulla pianta e non potrei farvi un torto più grande, ignorando la vostra presenza” e le prese la mano con una calorosa presa, mentre con l’altra teneva Eleonora.

“Mie Madonne, come potrei coltivarne una, trascurando l’altra, quando per bellezza e radiosità è impossibile graduare una scala di preferenze? Il sole scotta e non c’è un filo d’ombra su questo angolo. Andiamo verso il giardino ducale a rinfrescarci sotto le chiome degli alberi”.

Come scortato da due guardie Giacomo e le due donne si diressero verso i vicini giardini per sistemarsi su una panca all’ombra di un maestoso ippocastano.

L’uomo parlava ora con l’una ora con l’altra facendo a gara di coccolarle entrambe, mentre le due donne rivaleggiavano tra loro per attirare la sua attenzione. Era una situazione buffa: lui, conteso da due giovani signore, era indeciso su quale puntare senza offendere l’altra. Era una partita difficile da gestire perché la gelosia è un mostro che divora l’anima.

“Messer Giacomo, avete smesso di frequentare la casa di dama Giulia? E’ tempo che non vi vedo ai suoi convivi” chiese Eleonora suscitando la curiosità di Costanza.

“Dunque mi avete ingannata, Eleonora? Voi conoscevate già il messere”.

“No. Nessuno me l’aveva mai presentato. Il messere di certo non mi aveva notato” replicò rossa in viso la ragazza.

“Madonna Costanza, per me questa Dama era una sconosciuta prima del fortuito incontro di poco fa” disse Giacomo per gettare acqua sul fuoco della gelosia che covava impetuoso nelle due donne. “Se voi mi permettete, rispondo alla domanda postami. Non ho smesso di frequentare i convivi di dama Giulia. Purtroppo i numerosi impegni me lo hanno impedito e a malincuore ho dovuto rinunciarvi” proseguì, cercando di chiudere un discorso scivoloso.

Il clima stava diventando più disteso mentre le due donne avevano deposto per il momento le armi, stabilendo una fragile tregua. Giacomo continuava a tenere un’equidistanza senza mai dare l’impressione di pendere o verso l’una o verso l’altra. Questo difficile esercizio di equilibrio lo stava affaticando non poco e sperava che ben presto ognuno tornasse alle proprie occupazioni, anche perché era arduo dialogare su argomenti che si conosceva poco o per nulla.

“Messer Giacomo” disse Eleonora. “Il 12 agosto e per tre giorni organizziamo una festa, quella delle accensioni delle lampade, nella nostra tenuta di Casaglia nella Diamantina. Mi farebbe piacere che voi e Costanza partecipaste. Posso contare su di voi?”

“Tre giorni? Tre giornate piene oppure solo la sera? Verrà anche madonna Giulia?” chiese l’uomo.

“No. Dama Giulia è al seguito della duchessa Anna d’Este e non è disponibile. Si comincia nel pomeriggio del 12 e per tre notti successive si festeggia. Sarete entrambi miei graditi ospiti nel casale”.

“Grazie per l’invito che accetto volentieri. E voi Madonna Costanza, che siete rimasta muta, cosa dite?” domandò sperando che rispondesse con un rifiuto. Il pensiero di combattere ancora con la loro gelosia gli faceva accapponare la pelle. Anche l’assenza di Giulia aveva trasformato il dubbio in certezza.

La donna pareva riflettere, stringendo le labbra e corrugando la fronte.

“Come mai negli anni passati non mi avete mai invitata, dama Eleonora?” chiese seccata.

“Come mai? E’ un caso che sia in città in agosto, perché a giugno mi trasferisco nel casale e rientro solo a settembre. Oggi si è presentata l’occasione e vi ho invitata con tutto l’affetto che provo per voi” replicò ipocritamente Eleonora.

“Ma la festa in che cosa consiste” continuò indagatrice Costanza.

“Venite e vedrete” replicò asciutta.

“Mi avete convinta. Sarò al vostra casale il 12”.

“Bene. Faremo il viaggio insieme, perché mi trattengo in città fino a quella data. E voi, messere, come intendete arrivare? Volete un passaggio?”

“Vi ringrazio, Madonna. Ma preferisco usare i miei mezzi e non essere vincolato a voi. Mi basta conoscere dove e il giorno 12 sarò puntuale da voi. Ora però a malincuore devo lasciarvi. Alcuni impegni pressanti mi attendono”.

Prese le mani che baciò con trasporto, prima di allontanarsi per raggiungere la carrozza che lo attendeva da tempo.

Una festa misteriosa lo attendeva.

Capitolo 33

Giacomo si accorse immediatamente che il Duca non era dell’umore giusto per ascoltarlo ma ormai era lì e doveva fare buon viso a cattiva sorte, mostrandosi diplomatico per non urtare la suscettibilità

“Mio illustrissimo Duca” esordì con un tono basso e deferente. “Mi spiace rubarvi del vostro prezioso tempo ma la questione si sta trascinando da diverso tempo, da alcuni mesi per l’esattezza, e peggiora giorno dopo giorno. Come ..”.

“Venite al sodo e trascurate preamboli e toni vaghi, partendo da lontano” lo interruppe con voce leggermente alterata, facendo ampi e inequivocabili segni con la mano di sveltire il discorso, mentre con l’altra si lisciava nervosamente la barba.

“Come volete, mio Signore. Sarò conciso e vado direttamente al nocciolo. Ho seri problemi a portare avanti il lavoro che mi avete affidato, perché le vostre guardie con pignoleria soldatesca mi ostacolano in ogni movimento, pretendendo carte scritte di vostro pugno. Finora con scuse e altre mille malizie da ciarlatano sono riuscito ad aggirare i divieti che avete imposto sugli accessi ai cunicoli. Però ora devo portare mattoni e malte, portare fuori terra, fare entrare ..”

“Ho capito. La state facendo troppo lunga” lo interruppe Alfonso sempre più spazientito. “Volete un editto che vi lasci mano libera negli accessi per mettere a tacere i miei capitani, che applicano con diligenza e cura le mie disposizioni. Ho inteso bene?”.

“Avete compreso perfettamente. Muratori e fornaciai vogliono essere pagati e finora ..”

“Cento scudi sono sufficienti? Basteranno. Anzi dovrete farli bastare. Domani passate da Messere Bernardino e troverete documenti e scudi pronti per voi”.

Senza altri indugi si alzò, facendo comprendere a Giacomo che era il momento di andarsene con una certa fretta, perché l’udienza era terminata. L’uomo fece un profondo inchino e uscì rapidamente dallo studio sorridendo e senza salutare. Mentre si avviava verso l’uscita del Castello, rifletté che era andata meglio del previsto. Si era preparato a battersi ma Alfonso si era dimostrato arrendevole e per nulla intollerante come glielo avevano descritto. Forse gli altri lo vedevano con occhio diverso dal suo e con molti pregiudizi, legati alla scala del potere, mentre lui si era accostato senza tabù o timori reverenziali.

Il Duca tirò il cordone di fianco alla sieda, aspettando l’arrivo del paggio.

“La carrozza è pronta?” domandò con tono duro di chi non ammette ritardi o incertezze.

“Vi aspetta da tempo nel cortile d’onore, mio Duca, con la vostra scorta personale”.

Alfonso, preso mantello e cappello leggero, si avviò speditamente lungo lo scalone che portava dove la carrozza era in attesa insieme alle guardie.

“Di volata al casale del Verginese” disse al cocchiere, che in un baleno preceduto dai cavalieri del duca uscì dalla città, dirigendosi a velocità folle per lo stato delle strade verso la destinazione finale. Le urla a incitare la coppia di cavalli e quelle della scorta che la precedeva si udivano per molte miglia intorno, suscitando la curiosità dei contadini, che osservavano chi fosse quel personaggio della corte che andava di fretta col rischio di uscire di strada.

“La mattinata è andata perduta. Metà pomeriggio è volato via. Rimangono gli spiccioli della giornata. Chissà se Madonna Laura è ancora là ad aspettarmi” rifletté sballottato dalla carrozza che correva a velocità pericolosa col pericolo di terminare la corsa in un qualche fossato o canale che costeggiavano il percorso.

“Oggi doveva essere una giornata di riposo senza impegni, da dedicare totalmente a Madonna Laura, che non ama i ritardi o le attese prolungate. E’ una dama intrigante che con quegli occhi castano mi ha stregato e rubato il cuore. Spero che sappia perdonarmi perché ha dovuto attendere così a lungo. Ma io cosa dovrò inventarmi per ottenerlo?”.

Mentre il duca rifletteva su di loro, Laura fremeva d’impazienza ed era sempre più infastidita dal ritardo senza spiegazioni e la mancanza di comunicazioni da parte di Alfonso. ” E’ vero. La città non è vicina ma per questo non si giustifica che non abbia mandato un paggio o un cavaliere fidato per annunciarmi che avrebbe tardato a raggiungermi” meditava, mentre era sempre indecisa tra l’ordinare il ritorno a casa e l’aspettare con pazienza l’arrivo.

Era giunta al casale di buon mattino e dopo averlo aspettato per il pranzo, l’aveva atteso per le prime ore del pomeriggio vanamente.

“Non mi piace mangiare da sola senza chiacchierare con qualcuno tra una portata e l’altra. Avrebbe potuto avvertirmi. Le possibilità di certo non gli mancavano, perché ormai mi dovrebbe conoscere. La puntualità innanzitutto. Ormai è quasi sera. Il sole si è abbassato sull’orizzonte. Sono qui in trepida attesa senza avere nessuna certezza”.

Un leggero vento si era alzato per mitigare la calura a tratti insopportabile di un agosto bollente, mentre le zanzare si apprestavano ad alzarsi in volo per il pasto serale. Laura vestiva un guarnello azzurro, legato in cintura da un cordone dorato. Era un abito leggero da popolana senza maniche e con una leggera scollatura ovale che metteva in risalto il collo candido e regolare. Di cotone fresco, adatto alla stagione, era indossato sopra il camicione bianco, che lasciava trasparire il seno. L’aria increspava le pieghe, insinuandosi tra la stoffa e la pelle, le dava un po’ di frescura.

La ragazza, seduta al riparo del pergolato di uva, che mostrava i grappoli di un bel dorato, avvolta da veli leggeri per proteggerla dalle punture delle zanzare, scrutava il vie d’ingresso nella speranza di vedere la carrozza ducale. Non sapeva se essere triste o arrabbiata per come era trascorsa la giornata tra noia e caldo afoso. Strategicamente era stati accesi dei bracieri dove bruciavano fiori essiccati dall’odore acre e pungente per proteggerla dal fastidioso e pericoloso insetto.

Stava riflettendo, pensando seriamente di chiedere di riportarla in città, quando udì la servitù gridare «Sta arrivando!». Un nugolo di polvere frammisto a roche grida si avvicinava all’ingresso del viottolo che conduceva al casale. Si alzò per osservare meglio, quando Zina, la cameriera assegnatale, le disse “E’ arrivato, finalmente!”.

Giacomo uscito dall’ingresso nord del Castello si diresse verso via Spazzarusco, dove avrebbe dovuto costruire il terzo cunicolo. Passando accanto al monte dei pegni, si affacciò sull’imbocco della via. Non era in grado di stabilire le problematiche relative a questo passaggio segreto, perché l’accesso dal rivellino nord gli era sempre stato precluso e di conseguenza non aveva potuto eseguire una ricognizione in quel tratto. Tempo qualche giorno e avrebbe colmato questa lacuna.

“Buona giornata, Messere” udì pronunciare dal una bella dama incrociata mentre si avviava verso via delle Rose.

“Buona giornata, Madonna!” rispose al saluto con un deferente inchino. “Ma chi sarà mai costei?” si chiese, proseguendo il cammino.

“Sembra che questo Giacomo sia famoso, un personaggio importante. Ma io non conosco nessuno. Rispondo per non dimostrarmi scortese. Però tutte queste dame, che sembrano fiori profumati, attratti da api impollinatrici, mi garbano e come”.

Di buon passo e allegro per come la giornata procedeva giunse alla fine della strada dove sull’angolo con via delle Rose c’era un immenso cantiere. Stavano costruendo un palazzo, del quale al momento si vedeva solo un grande buco. Era qui che il terzo cunicolo doveva finire.

“Per chi?” si domandò. “Per il Duca sicuramente. Ma quale dama avrebbe alloggiato qui per essere raggiunta in incognito dal lui?”.

La domanda rimase senza risposta, pensando che alla fine la questione non l’appassionava più di tanto. Al momento aveva altre questioni da risolvere, sicuramente più importanti di quel nome segreto. Si avvicinò a qualcuno che gli dava l’impressione di essere il capomastro per avere qualche informazione.

“Buona giornate, Messere” disse Giacomo, salutandolo con un ampio gesto della mano e del capo.

“In cosa posso esservi utile?” rispose guardingo l’uomo.

“Si da il caso che sia l’ingegnere del nostro amatissimo Duca, Voi sapete chi ha progettato la struttura?”

L’uomo strizzò gli occhi come se volesse metterlo a fuoco meglio. Poi si avvicinò per sincerarsi che la persona di fronte a lui non fosse un volgare impostore. Infine si sciolse un po’ e cominciò a parlare.

“Messer Giacomo, non vi avevo riconosciuto. Perdonatemi la scortesia con la quale vi ho accolto ma da diverso tempo persone curiose pongono domande non pertinenti sul palazzo che stiamo costruendo”.

“Non preoccupatevi. Avete ragione nel mostrarvi diffidente col primo venuto. La discrezione è una rara virtù” replicò sornione Giacomo.

“Se voi mi seguite in quella modesta casa addossata ai Giardini dei Padiglione, vi mostro le piante dei progetti” e si avviò seguito da Giacomo verso una modesta costruzione in legno.

“Molto interessante e ben fatto è il disegno del palazzo” disse complimentandosi con l’uomo. La sua attenzione si concentrò sulle cantine e la loro dislocazione. Aveva un buona memoria visiva e cercò di imprimersi nella mente dimensioni e posizione.

“Ora vi lascio ai vostri compiti di sorvegliare i lavoranti affinché eseguano a puntino le vostre disposizioni” disse accomiatandosi.

“Quando volete tornare sarete sempre il benvenuto” replicò l’uomo facendo un profondo inchino.

Giacomo se ne andò verso via dei Piopponi fischiettando. Una dama lo stava aspettando nei pressi del Monte dei Pegni.

Capitolo 32

Giacomo stava preparandosi per uscire quando il maggiordomo della casa gli domandò “Faccio preparare il vostro cavallo oppure preferite la carrozza?”

“Oh! Mio Dio! Possiedo anche un cavallo? Non so cavalcare ma possiedo un animale! Sembra una persecuzione!”.

Sbiancò in viso, deglutendo vistosamente, prima di rispondere.

“Messer Giacomo preferisce la calma della carrozza al mangiare polvere cavalcando” rispose per lui Ghitta.

“Grazie, Ghitta, per aver risposto in mia vece. Preferisco in realtà la comodità della carrozza. Che sia pronta immediatamente! Ho molta fretta”.

“Ai vostri ordini, Messere. Quando scendete, troverete la vostra carrozza disponibile a condurvi in città” e silenziosamente usci dalla stanza, sparendo alla loro vista.

“Messere, incontrerete la vostra amante?” domandò con tono accorato la ragazza.

“Ghitta! Non siate impertinente! Vi ho già detto un’altra volta che non ho amanti e tanto meno devo rendervene conto. Tutt’al più chi dovrebbe dolersene dovrebbe essere Madonna Isabella ma a quanto pare non lo fa” rispose contrariato l’uomo.

La serva continuò ad aiutarlo nella vestizione in silenzio, ben sapendo che avrebbe dovuto tacere. Avrebbe voluto fargli altre domande, ma preferì stare zitta. Sapeva perfettamente che non poteva avanzare pretese ma quelle voci sempre più insistenti e dettagliate di incontri con una dama in città la disturbavano alquanto e le davano un senso di angoscia e di gelosia. Aveva compreso che il suo signore era rimasto infastidito dalla sua uscita sull’argomento ma non poteva tornare indietro e cancellare quanto detto. Diete l’ultimo tocco al farsetto, lucidò i morbidi stivali di capretto e gli porse il mantello leggero.

“Siete perfetto. Posso fare qualcosa per voi, Messere?” chiese con tono umile per farsi perdonare la frase improvvida di prima.

“Farmi un sorriso bene augurante” e le diede un bacio sulla fronte.

Ghitta sorrise amaramente perché era troppo ben vestito per incontrare qualche lavorante che doveva lavorare per lui nelle prossime settimane. Non riusciva a togliersi dalla testa che avrebbe incontrato quella dama, che secondo diverse voci era la sua amante. L’amica, che lavorava in quel palazzo, ne era certa e sosteneva che fosse una donna dalla bellezza non appariscente ma dal carisma prorompente. «Una vera Madonna» disse l’ultima volta che si erano viste. «e lui un Messere gentile e discreto. Una coppia perfetta e ben affiatata. Sei fortunata ad avere un padrone così» soggiunse con una punta d’invidia. «Sono fortunata ma lui lo è doppiamente» le rispose sospirando.

Giacomo chiese di essere accompagnato alla fornace, non molto distante dall’abitazione. Lì venivano prodotti i mattoni migliori della città ma era molto difficoltoso approvvigionarsi per le molte commesse. Lui sperava che la qualifica di ingegnere del Duca gli desse un privilegio nell’acquisto. Il forno nella grande calura estiva cuoceva l’argilla rossa, estratta da un enorme buco poco distante, mentre i mattoni pronti venivano accatastati in file ordinate, pronti per essere venduti.

“Mi servono un certo numero di mattoni perfetti tra poco più di un mese” disse rivolgendosi al padrone della fornace, impolverato di rosso, che stava a torso nudo sudato e grondante di sudore rossastro.

“Mi spiace ma fino a ottobre tutta la produzione è acquistata” replicò con tono duro e infastidito.

“Non credo di poter aspettare fino a quella data”.

“Se volete i miei mattoni, dovrete aspettare” replicò scuotendo il capo scortesemente.

“Passo dallo studio ducale per preparare una bolla firmata dal nostro Duca per avere precedenza di prelazione. Poi torno” disse con voce ferma e decisa Giacomo, mentre si girava per andarsene.

L’uomo rimase a bocca aperta e lo rincorse, avendolo riconosciuto tardivamente come l’ingegnere del Duca.

“Messere, non c’è necessità che il nostro amato Duca firmi una bolla. Possiamo accordarci tra gentiluomini”.

E aggiunse. “Quanti, Messere?”

“Con precisione non lo so ancora ma un bel numero. Devono essere resistenti e senza imperfezioni. Mi servono per un lavoro importante e urgente”.

“Ho capito. L’intera produzione del mese di luglio. Vi do la precedenza, perché siete l’ingegnere del Duca e i vostri desideri sono ordini” concluse in maniera deferente.

“Avete compreso perfettamente il mio pensiero” ed estrasse dalla borsa legata in cintura una manciata di fiorini d’oro. “Questo è l’anticipo per il vostro silenzio”.

L’uomo annuì mentre faceva sparire rapidamente in una tasca interna delle braghe le monete d’oro.

“Ora all’osteria al Brindisi” disse al cocchiere, mentre si detergeva il sudore copioso per la gran calura della fornace.

Lì avrebbe dovuto incontrare Mastro Ferrante per i lavori che aveva in mente. Gli era venuto il dubbio che forse non sarebbe riuscito a spiegare al capomastro cosa voleva fare ma ci avrebbe provato. Non gli era molto chiaro come si lavorasse in quest’epoca e poi non aveva molta confidenza col linguaggio dei muratori. Aveva visto mettere un mattone sopra l’altro ma spiegare come era tutt’altra musica.

“Speriamo bene che mastro Ferrante sia sveglio” rifletté velocemente. “Finita questa incombenza, sono finalmente libero di incontrare Dama Giulia, che mi aspetta al tocco all’inizio di Via dei Piopponi. Ne sentivo la mancanza. Per tutto il mese di giugno ha tenuto compagnia a Laura d’Este nella delizia di Zenzalino. Ieri è tornata e mi ha fatto avere un messaggio per l’incontro di oggi. Non vorrei che quell’impicciona di Ghitta l’avesse letto. E’ una ragazza semplice e devota ma a volte esce dalle righe”.

Si abbandonò al dolce dondolio della carrozza senza pensare a nulla.

Laura era sotto il pergolato del casale in attesa dell’arrivo del Duca. Le cicale frinivano il loro canto diurno, mentre il caldo di luglio era mitigato appena da un venticello leggero leggero. La storia proseguiva senza troppe illusioni ma finora Alfonso si era dimostrato un amante sincero e molto attento. La trattava come se fosse una sua pari fra mille attenzioni e riguardi. Il posto dove si incontravano era stimolante e discreto. Lei aveva saputo imporre la propria personalità dolce e riservata, che lui aveva accettato fino a questo momento.

La madre aveva cambiato atteggiamento. Era più accondiscendente e meno caustica. Il padre era tranquillo perché vedeva in lei una ragazza matura, semplice ma attenta ai dettagli. Era quasi certo che alla fine ne avrebbero ricavato dei vantaggi. Le amiche era tornate alla carica ma non avevano ricavato più di tanto. Sapevano che incontrava un misterioso signore ma non pensavano che fosse il duca.

“Siete diventata l’amante di un nobile misterioso?” le chiese Anna.

“No, no. Nessun nobile misterioso. Un semplice corteggiatore che mi invita alle sue feste nel giardino del suo palazzo”.

“Però potreste presentarci. Potremmo incontrare qualche bel cavaliere” chiosò Beatrice.

“Fossi matta” rispose sorridente Laura. “Così rischio di perdere il mio corteggiatore segreto!”

“Bell’amica che siete! Non volete condividere nulla con noi!”

La ragazza sorrise ripensando a quel dialogo alquanto sibilino ma non poteva di certo sbandierare ai quattro venti la sua relazione col Duca.

Una fantesca si avvicinò con una brocca d’acqua fresca e della frutta di stagione appena raccolta nel frutteto del casale.

“Madonna, gradite acqua e frutta appena colto per rinfrescarvi dalla calura?”

“Grazie, posate tutto su quel tavolino” rispose cortese la ragazza.

Mentre mangiava una pesca dalla buccia vellutata, aggrottò la fronte mentre rifletteva.

“Oggi, Alfonso tarda. Forse ha avuto impegni improvvisi di governo. Aspetterò con pazienza il suo arrivo”.

Si guardò intorno e pensò che non le sarebbe dispiaciuto possedere il casale e quel frutteto che lo circonda. Poi si disse che la fantasia stava galoppando come un cavallo libero di correre per i campi.

Alfonso era infastidito, perché la riunione coi magistrati dei savi si stava prolungando oltre il dovuto e doveva ritardare l’incontro con Laura..

“Messeri” esordì per mettere fine a una disputa sterile su un argomento secondario. “Se non ci sono altri argomenti importanti da esaminare, dichiaro chiusa la seduta”.

I magistrati stettero in silenzio osservandosi attentamente. Il Duca praticamente li metteva alla porta.

“Nostro eccellentissimo Signore, non ci sono altre questioni da dibattere. Quindi chiudiamo la riunione, aggiornandoci per il prossimo incontro tra un mese esatto dopo la pausa agostana” disse il più anziano, che fungeva da segretario, mentre si alzava inchinandosi di fronte a lui.

Erano usciti dallo studio ducale da pochi minuti e si apprestava a lasciarlo, quando sentì bussare.

“Venite avanti” tuonò con voce irritata.

“Mio Principe, Messere Giacomo ha urgenza di parlarvi. Posso farlo entrare oppure lo rimando a casa?”

Era il segretario Bernardino che faceva capolino dalla porta.

“Fattelo entrare e poi non ci sono più per nessuno” disse sbuffando per questa visita del tutto inopportuna.

Tutto sembrava congiurare contro lui come per punirlo dell’appuntamento con Laura. Era in ritardo, terribilmente in ritardo e per di più irritato e infastidito da tutti i contrattempi della giornata. Ardeva dal desiderio di stringere la ragazza, di corteggiarla, di giacere nel letto con lei. Percepiva la passione crescere dentro di lui complice la ritrosia della donna, che si faceva corteggiare, cedendo poco per volta al piacere. Sembrava timida e ingenua, ma sapeva miscelare con sapienza cedimenti e ritirate senza che lui potesse afferrare compiutamente i primi e avesse da ridire sui secondi.

Era immerso in questi pensieri, che gli procuravano godimento, quando vedi entrare con discrezione Giacomo.

“Venite e accomodatevi su quella sedia” disse indicando con la mano una savonarola quasi di fronte a lui. “Quale urgenza vi spinge a questo colloquio?”

L’uomo col cappello in mano si accomodò sulla sedia rustica e poco comoda e dopo i saluti cominciò a parlare.

“Sono qui per alcune questioni importanti che rallentano il mio lavoro ai cunicoli”.

E cominciò a esporre le problematiche, mentre il Duca dava segni di insofferenza.

Capitolo 31

Laura tornò a mattina inoltrata alla bottega del padre. Era raggiante e luminosa come mai lo era stata prima. La notte era stata calda ed emozionante, molto di più degli altri incontri. Addormentarsi accanto quell’uomo potente e dall’aspetto burbero e poco invitante era stato meraviglioso, un qualcosa di eccitante, perché in realtà sotto quella scorza dura, cotta dal sole di mille battaglie, si nascondeva una persona delicata e per nulla arcigna. Le aveva donato momenti di intensa felicità, complice l’atmosfera che si respirava nel casale. Adesso avrebbe dovuto affrontare la madre. Un impresa non di poco conto.

“Buona giornata, padre” disse entrando nella bottega.

“Buongiorno, Laura. Felice di rivedervi”.

La ragazza abbracciò l’uomo, baciandolo sulle guance.

“Mi fa piacere che siate felice. E’ una meravigliosa medicina, che guarisce ogni male” continuò Francesco, mentre cuciva la falda del cappello che stava lavorando.

“Padre, lasciate che a cucire ci penso io dopo essermi cambiata d’abito. In questi ultimi tempi vi ho trascurato in bottega ma la storia sembra bellissima”.

Non aveva finito di pronunciare queste parole, quando Paola irruppe nella stanza, perché il suo udito fine aveva captato la voce della figlia. Non prometteva nulla di buono quell’ingresso: sembrava un temporale d’estate violento e improvviso che si abbatte sulla campagna oscurando il cielo.

“Si dorme nel proprio letto, quando non si è maritata. La notte va trascorsa sotto il proprio tetto e non chissà dove ..” sbottò senza nemmeno salutarla con un tono stridulo e cattivo.

“Madre, non ero chissà dove e con un messere qualsiasi. Il nostro amatissimo Duca mi ha invitata a trascorrere la sera con lui. E non potevo rifiutarmi. Come avrei potuto? Cosa avrei dovuto ..”.

“Dire di no” completò Paola asciutta e tagliente. “Vi rendete conto che siamo una famiglia rispettabile noi, Boccacci Dianti? Voi trascorrete la notte con un uomo more uxorio. Vi rendete conto del disdoro nel quale ci hai gettato? Cosa diranno i conoscenti, gli abitanti della strada, quando verranno a conoscenza che Laura Dianti passa le notti nel letto di ..”.

“del Duca, madre. Quale disonore? La loro sarà solo invidia. E poi chi lo saprà, se voi non andrete a raccontare in giro ai quattro venti che la figlia è passata nel letto del duca?”.

Il padre continuava ad armeggiare attorno alla falda del cappello, non osando intervenire nella disputa della moglie con sua figlia. Ne avevano già discusso a lungo tra di loro e non avevano trovato un punto di raccordo. Paola sembrava contraria alla relazione tra Laura e Alfonso, Francesco era più possibilista, perché realisticamente parlando non sapeva come romperla senza suscitare le ire del Duca. Lui era potente e avrebbe potuto prendere la figlia senza che loro potessero metterci impedimenti. Tra il contrastare con ferocia il rapporto e l’assecondarlo senza troppi cedimenti e rinunce l’uomo preferiva la seconda strada, più morbida e meno insidiosa, perché col tempo, se la relazione si fosse consolidata, avrebbero potuto ricavare qualche vantaggio. Non comprendeva l’atteggiamento della moglie, che inizialmente aveva premuto con insistenza, mentre adesso frenava con molta decisione.

“Sei come tutte le altre” sbottò Paola come un tuono dopo il lampo.

“Ma madre! Fino all’altro ieri avreste fatto di tutto perché mi gettassi fra le braccia del Duca. Mi chiedevate se volevo diventare novizia. E poi ..” Laura fece una breve sospensione come per recuperare frammenti di ricordi e le parole giuste senza urtare la suscettibilità della madre. “Non avete accennato a qualcosa di voi accaduto tempo fa? Non ricordo bene la discussione ma rammento che ..” continuò la ragazza lasciando volutamente in sospeso i particolari.

“Come vi permettete di parlare così a vostra madre?” replicò stizzita per essere stata colta con le mani nel sacco.

“Forse sarebbe bene, che la vostra discussione la continuate in cucina. Qui chiunque passa per la via sente le vostre voci” disse calmo Francesco, invitandole a ritirarsi più all’interno dell’abitazione a far baccano.

Le due donne accolsero l’invito trasferendosi in cucina, dove si sedettero intorno al tavolo.

“Madre, non intendevo mancarvi di rispetto ma qualche tempo fa avete accennato a qualcosa, quando ho ricevuto il primo invito. Eravate scandalizzata al pensiero che non fossi andata a letto col Duca. Ora mi rinfacciate di averlo fatto. Vi chiedo: voi eravate illibata quando avete sposato Francesco?”

“No, no di certo” rispose senza pensarci troppo, memore di quei famosi incontri. “Però non ho ..”

“Madre, non c’è necessità di spiegarmi con chi l’avete fatto”.

“Sì, è vero ma almeno da quegli incontri ho ricavato qualcosa. Tu invece, niente”.

“Madre, se il Duca mi avesse dato degli scudi d’oro mi sentirei come una donna di malaffare, che presta il proprio corpo in cambio di denaro”.

“Sarà come dici tu ma se domani il tuo Duca ti lascia non sei più vergine. Chi ti vorrà? Almeno io ero già promessa sposa a Francesco. Poi quegli scudi sono stati una manna per pochi incontri” replicò accalorata Paola.

“Madre, il Duca mi rispetta e mi tratta come una Madonna. Io provo affetto per lui ..”

“Sarà come dici ma non è detto che tra qualche tempo non si stanchi. Il Duca è sposato con una bellissima donna, potente e pericolosa. Lui non l’abbandonerà mai per prenderti come moglie. Io dal mio conte per poche volte ho ricavato un bel mucchietto di scudi d’oro e non mi sono sentita una donna di malaffare. E’ stata una semplice transazione d’affari: ho dato qualcosa in cambio di fiorini. E non pochi”.

Laura scosse il capo, perché quello che le stava confessando la madre era veramente grave ai suoi occhi. Si domandò se suo padre era a conoscenza di questo. “Cosa importa se lo sa oppure no. Io mi sentirei sporca per sempre” rifletté la ragazza.

Paola capì di essersi lasciata trasportare troppo dalla foga, rivelandole un peccato giovanile. Lei lo considerava veniale, già estinto, un semplice ricordo di una prima volta neppure esaltante.

“Laura, sono stata troppo impulsiva e dura nel parlarti. Ha ragione tuo padre. Aspettiamo e valutiamo gli eventi. Se ora sei felice, lo siamo anche noi” e l’abbracciò con trasporto.

“Madre, grazie per aver compreso le mie istanze. Prometto che le vostre confidenze rimarranno un segreto tra noi. Se l’avete fatto, avevate delle buone ragioni. Non sta a me giudicare”.

Un bacio suggellò la ritrovata armonia.

Giacomo si gettò a capofitto nell’impresa di rendere i due cunicoli sicuri e progettare il terzo. Aveva le idee sufficientemente chiare ma come realizzarle era tutto un mistero. Doveva trovare dei lavoranti che operassero in silenzio, doveva trovare le lire marchesane per pagare la loro omertà, non doveva trascurare le relazioni che stava intessendo in casa e fuori. Insomma aveva molti problemi da risolvere con soluzioni per nulla scontate e neppure troppo chiare. L’unica certezza era che lui metteva le idee e gli altri la realizzazione. Progetti ambiziosi che richiedevano attenzione. Le settimane passavano mentre lui cercava di sbrogliare la matassa dell’incarico del Duca, che presto si sarebbe fatto vivo per farsi ragguagliare sullo stato dell’arte.

Erano i primi di luglio quando ricevette un messaggio del segretario, Bernardino de’ Prosperi, che lo convocava nello studio ducale per il giorno 15 alle 10. Giacomo si interrogò sui motivi dell’incontro.

“Di sicuro il Duca vorrà conoscere lo stato di avanzamento dei lavori ma non ho molte novità in verità. Oggi devo incontrare un capomastro e qualche lavorante per la paga e altro. Oltre a questo non ho altro da comunicare” rifletté amaramente. “Però è l’occasione buona per mettere in chiaro alcuni punti. L’accesso al rivellino nord, la costruzione di alcuni sfiati lungo il percorso e il compenso. Aspettiamo”.

Aveva alcuni giorni di tempo per organizzarsi al meglio. Non immaginava che essere l’ingegnere del Duca fosse così complicato.

“Va bene che ci sono stati alcuni piacevoli fuori programma ma il resto è abbastanza oneroso. Nella mia epoca sarebbe stato molto più lieve. Qualche mazzetta, lavoro scarso e poi sarebbero stati gli altri a lavorare per me. Meno rogne, meno beghe”.

E si avviò per uscire.

Capitolo 30

Naturalmente fu un fiasco colossale all’inizio. Aveva deciso di trascorrere la notte con Isabella ma se ne pentì non appena varcò la soglia della camera da letto. Giacomo si spogliò con gran fatica, sudando copiosamente in una stanza laterale. Non c’era Ghitta ad aiutarlo nell’opera Quando s’infilò nel letto ampio e non troppo comodo, la donna era già sotto le lenzuola, fingendo di dormire.

“Cominciamo bene” sussurrò a denti stretti.

Allungò una mano e avvertì una pesante stoffa, che l’avvolgeva come un sarcofago. Si avvicinò, ma lei si allontanò.

“Se ti muovi ancora, cadi per terra” ridacchiò l’uomo e si avvicinò ancora.

Non cadde, ma con mossa improvvisa si arrotolò nel lenzuolo come una mummia. Era ancora più inaccessibile.

“Bene!” esclamò alzandosi. “Preferisco il mio letto, più confortevole, e ..” e lasciò sfumare le ultime parole. Tanto era chiaro che la servetta ruspante gli dava più soddisfazioni della moglie che si negava con sdegno.

“Dove andate?” chiese Isabella con una voce che pareva venire dall’oltretomba.

“Madonna, qui non si fa nulla. Torno nella mia camera più accogliente e meno ostile. Almeno dormo senza disturbare nessuno. Poi non lamentatevi se …” e raccolti i suoi indumenti sgattaiolò nel corridoio, senza preoccuparsi di essere vestito di nulla.

La donna rimase basita. Non si aspettava un simile comportamento, perché Giacomo le appariva diverso nelle reazioni da quello, che conosceva da quindici anni, e per di più le pareva che fosse anche più giovane ma forse era solo in apparenza. «Sarebbe montato su tutte le furie. Mi avrebbe strappato di dosso tutto con furia, montandomi con furore e senza troppi riguardi e gentilezze». A lei questo piaceva moltissimo, anche se non le dava nessuna soddisfazione e talvolta le procurava dolore. Tuttavia durante l’amplesso carpito con la forza riusciva a liberare le proprie fantasie erotiche. Per il soddisfacimento personale c’erano molti pretendenti da Abramo a Alì, sempre pronti ai suoi richiami. «Però è differente quello dei miei ricordi. E’ come se avesse fatto una inversione a U, tanto è mutato il comportamento». Si pentì quasi subito del proprio atteggiamento, perché percepiva un umidiccio strano tra le gambe e un certo stimolo, che non aveva conosciuto fino a quel momento.

“Come potevo immaginare che Giacomo era così cambiato? Che sia merito delle cure assidue della Ghitta o delle donne che frequenta a Ferrara?” rifletté, mentre la curiosità e una certa stimolazione sessuale la fecero alzare. Indossata una vestaglia da camera si diresse verso la camera del consorte.

Senza bussare entrò sicura e nella penombra si tolse tutto rimanendo nuda. Stava infilandosi nel letto quando udì la voce ironica di Giacomo che la raggelò fermandola.

“Mi spiace ma sono occupato. Tornate più tardi, quando sarà il vostro turno. Sempre che ne abbia ancora voglia”.

Era sempre più basita che infuriata, perché ancora una volta era riuscito a farsi beffe di lei in modo garbato ma deciso. Riconobbe il risolino di scherno di Ghitta dopo che Giacomo aveva pronunciato quelle parole. Provò umiliazione piuttosto che adirarsi, perché riservava alla serva maggiori attenzioni rispetto a lei. Mentre restava immobile nuda nella penombra, rifletteva indecisa se restare lì in attesa o tornarsene nelle proprie stanze.

“In fondo me lo sono meritata. Lui era venuto ma io mi sono negata”.

Percepiva che rimanendo significava assistere al rapporto tra il marito e la serva, ma andandosene equivaleva ammettere la sconfitta. Era incerta e combattuta tra i due pensieri, quando udì nuovamente la voce di Giacomo.

“Vedo che avete avuto la pazienza di aspettare. Quindi se volete infilarvi nel letto, Ghitta vi farà un po’ di posto, spostandosi più in là- Il letto è ampio e comodo anche per tre persone”.

L’umiliazione era forte, ma lo stimolo ancor di più. Così senza dire una parola si trovò tra l’uomo e la serva. Una posizione insolita e inedita che la eccitò ulteriormente.

La mattina li colse abbracciati con vigore.

“Madonna” disse Giacomo. “Spero che sia stato di vostro gradimento la nottata. Che ne dice la nostra Ghitta?”

“Certamente, Messere. Con voi non ci si annoia mai” replicò la serva.

Isabella grugnì più di soddisfazione che di disappunto ma non voleva umiliarsi ancora con qualche affermazione di gradimento. La notte era passata in maniera piacevole e soprattutto fuori dell’ordinario ma aveva dovuto dividere il letto e l’uomo con la serva. Questo lo riteneva intollerabile ma si controllò.

“Ghitta” disse Giacomo serafico. ” Abbiamo fame. Preparaci la colazione. Oggi sarà una giornata intensa e laborioso. Dobbiamo iniziarla bene”.

Ghitta uscì velocemente dal letto, infilandosi il solito camicione e sparì alla loro vista. Le sarebbe piaciuto ascoltare i loro discorsi ma sapeva che l’uomo si sarebbe infuriato se avesse disatteso il suo ordine. Inoltre non poteva raccontare in cucina che aveva trascorso la notte con i propri padroni nello stesso letto, perché avrebbe rischiato una bastonatura coi fiocchi.

“Ghitta sembrate una gattina dopo che ha mangiato un topolino, tanto siete soddisfatta” le disse Geltrude.

“Niente, niente” replicò ammiccando. “Una piacevole nottata. Ma non ho tempo per raccontarvi i particolari. Messere Giacomo ha ordinato una colazione sostanziosa per lui e Madonna Isabella. Però ha fretta per via di certi impegni in città”.

La cuoca sollevò un sopracciglio e stava per replicare, quando la ragazza la gelò.

“Niente chiacchiere. Datevi da fare. Messere Giacomo mi ha minacciato una bastonatura se tardo troppo”.

Senza aggiungere altro preparò il tavolino portatile con piatti, posate e teli di lino, togliendosi dagli impicci. Era ben conscia che nel tempo di una Ave Maria tutto il palazzo avrebbe saputo che Madonna Isabella aveva trascorso la notte col marito, con qualche presenza inquietante. Tutti erano a conoscenza che Ghitta dormiva negli appartamenti del padrone e quindi era in una posizione privilegiata come osservatrice.

Per qualche giorno sarebbe stata ricercata e interrogata sulla notte degli amori da parte del resto della servitù.

“E’ vero che non posso raccontare come sono andate le cose ma con un po’ di fantasia e qualche elemento reale mi divertirò tantissimo a descrivere quello che hanno fatto Messere Giacomo e Madonna Isabella” rifletteva gongolante, mentre portava la colazione ai padroni.

“Se sapessero ..”.

Maggio era il mese delle partenze. La duchessa era partita con la sua piccola corte per le consuete vacanze estive, che giungevano benedette dopo il lungo inverno.

Il Castello era animato dai consueti caroselli delle guardie ma era privo della presenza femminile, che aveva seguito Lucrezia alla delizia di Belriguardo. Solo i suoni scanditi dai passi dei soldati ducali sul selciato del cortile d’onore si udivano, mentre alla domenica dopo la messa mattutina nella cappella del Castello non c’era più quel passeggio che aveva animato quelle precedenti. I pettegolezzi e le chiacchiere erano più smorzate, la curiosità cortigiana, alimentata dagli umori dei funzionari di corte, dai soldati, si scioglieva con la calura estiva nell’aria rarefatta e afosa del porticato, che sarebbe tornato ad animarsi tra qualche mese, quando la Duchessa avrebbe fatto ritorno. Adesso c’era solo lo stanco movimento dei funzionari e delle guardie ducali, che cercavano riparo nelle zone d’ombra del cortile.

Alfonso era libero di muoversi senza l’assillo psicologico della presenza della Duchessa e dei figli, ammesso che ci fosse stata questa sudditanza. Riceveva nello studio ducale il segretario, i magistrati dei savi e tutti dignitari che curavano il governo del ducato ma molto spesso si trasferiva o nelle delizie cittadine o nel casale del Verginese dove aveva incontri galanti lontano da occhi indiscreti. Non erano certamente appuntamenti segreti, perché era difficile sfuggire all’attenzione dei cortigiani e dei ferraresi ma avvenivano nel chiuso delle stanze delle delizie, impenetrabili a coloro che non potevano accedervi. Solo paggi fidati o persone di fiducia potevano avvicinare il duca e chi sgarrava diventava un personaggio non gradito e bandito dalla corte ducale, quando andava bene.

Dopo l’incontro alla Castellina, nei Giardini del Cavo, che lasciò estasiata Laura, la mitica carrozza ducale faceva la spola col casale del Verginese, una grande casa di campagna immersa nel verde della campagna ferrarese.

Era diventata il loro nido, dove trascorrevano le lunghe giornate di giugno nella pace e nel silenzio del fondo agricolo, rotto solo dal frinire delle cicale e dal ronzio delle zanzare. L’ampio podere che circondava il casale era un enorme frutteto dove si coltivano molte varietà di frutta alternate a essenze arboree imponenti. Era il brolo o l’orto annesso al casale dove l’effetto scenico era meraviglioso. Il grande viale d’ingresso contornato da melograni, sorbi e noccioli accoglieva i due amanti ma era l’enorme chioma del noce il punto preferito da Laura e Alfonso.

“Madonna” diceva il Duca seduto sul prato all’ombra del noce. “Voi siete di una grazia che non mi stancherei mai di osservarvi”.

“Mio Signore” replicava la ragazza arrossendo per il complimento.

“Non chiamatemi mio Signore. Per voi sono semplicemente Alfonso”.

“Non so se ci riuscirò, anche se mi sforzo di pensarlo”.

“Ebbene provateci. Non costa nulla!” replicò un divertito Alfonso.

“Ci proverò ma non garantisco i risultati” disse Laura sorridente.

I giorni passavano veloci insieme all’estate. Era una sera di luglio, calda e afosa, quando Alfonso le lanciò una proposta.

“Stasera non ho voglia di tornare in città. Qui si sta bene al riparo del noce o dell’acero, ammirando le aiuole fiorite. Fermiamoci per la notte, che si annuncia calda”.

“Mio .. Alfonso. Mi aspettano in città. Mia madre sarebbe preoccupata non vedendomi tornare alla solita ora”.

“Quale problema insolubile c’è? Manderò un paggio per avvisare la vostra signora madre che non sarete con loro stanotte. Ma ditemi com’è la vostra madre?”

Laura si schernì e rispose con garbo.

“Vedete, mia madre è come tutte le madri. Si preoccupano per le figlie e ..”

“Cos’ha da temere da me? Il sono il Duca e non un messere qualsiasi che frequenta le figlie solo per piacere” rispose piccato.

“Non volevo offendervi con le mie parole. Mia madre è come tutte le madri. Sono sempre in ansia per le figlie. Ebbene mandate un paggio per avvertire che non sarò di ritorno stasera”.

Il duca fece approntare il banchetto sotto il pergolato della vigna, allietato dal suono del liuto.

Quella fu una sera importante per Laura.

Capitolo 29

Con la sola luce tremolante di una candela Laura provò e riprovò a scrivere qualcosa. Il suo problema era come iniziare: era la prima volta che si cimentava.

“Scrivo Reverendissimo … no, no! Non è un ecclesiaste. Gentilissimo .. no, no. Forse eccellentissimo .. sì, sì va meglio. Ma poi? Cosa metto? Vediamo un po’ Eccellentissimo Messer Duca .. No, no. Il messer non ci sta. Riproviamo Eccellentissimo Duca. Ricevo la vostra missiva .. No, non ci siamo. Uffa! Cosa si scrive a un duca in risposta a un suo messaggio?”.

La ragazza appoggiò la testa sulle mani a coppa, distesa sul letto, quando udì la voce della madre.

“Laura, spegnete la candela! Cosa state facendo? E’ tempo di dormire”.

“Sì, madre. La spengo subito” e con un soffio la luce tremula diventò oscurità. ” Non riuscivo a prendere sonno e .. Notte, madre”. Accomodò il cuscino di paglia sotto il capo e continuò a pensare al messaggio che doveva consegnare il giorno seguente.

La giornata si annunciava calda e serena, anche se la rugiada imperlava l’orto con minuscole gocce d’acqua. Un leggero velo di foschia aleggiava a mezz’aria a indicare che la notte era stata umida più che fresca.

Laura si levò come al solito al canto del gallo ma con sua sorpresa non era la solita stanza ma una ben più sontuosa, che non conosceva. Il letto ampio, comodo e vellutato non era quello ruvido e nodoso dove la paglia ricoperta da una tela grezza l’accoglieva ogni notte.

Si domandò stupita dove fosse, osservando i tendaggi che ricadevano ai fianchi del baldacchino che stava sopra la sua testa. Inquieta rifletteva quale magia l’avesse colpita, immersa in un effluvio di profumi diversi. Si eresse col busto e toccò il tessuto della camicia da notte: non era grezza, grossolana come quella che usualmente indossava ma morbida e frusciante. Le pareva lino.

“Mai posseduto qualcosa con questo tessuto. Non saprei nemmeno dire quali sensazioni si provano. Solo robusta canapa intessuta a mano. Cos’è questo prodigio?”.

Era immersa in questi mille pensieri e dubbi, quando udì un bussare discreto.

“Chi sarà?” si chiese con un mix di curiosità e ansia.

“Venite” esclamò

“Madonna Laura” disse una serva entrando con un enorme tavolo portatile. “Ecco la vostra colazione. Buona giornata” e silenziosa come era arrivata, se ne uscì lasciando sul letto ogni ben di Dio.

La ragazza osservava stupita quell’oggetto di legno dotato di quattro corte gambe sul quale in bella mostra c’erano tazze e piatti di fine porcellana e due bricchi di ceramica con un decoro smaltato.

Era senza parole per lo stupore.

“Mai vista una magnificenza del genere. Non credevo nemmeno che esistessero simili bellezze. I piatti di terracotta, che mi sono sempre sembrati bellissimi, impallidiscono di fronte a loro come il mendicante nei confronti del principe”.

Laura sollevò un fazzoletto di mussola,, riccamente decorato con due cifre dorate L e D. Questo nascondeva delle minuscole coppie, che profumavano del pane appena cotto.

“Mai viste prima. Ne avevo solo sentito parlare in toni misteriosi. Sono queste dunque le gambe delle ferraresi, sottili e ben tornite. La mitica ciupeta di pane bianco, ben cotto e croccante, che solo i signori si possono permettere!”

Inebriata dai profumi, emozionata per trovarsi in una stanza dai soffitti a cassettoni decorati con gli amorini, non osava toccare nulla per il timore che tutto sparisse come una bolla di sapone, quando vide comparire lui.

“Madonna Laura” udì, ma fu un attimo. Un’altra voce la chiamava quasi urlando: era quella aspra della madre.

Il risveglio non era quello che aveva assaporato poco prima. Aprì gli occhi e si ritrovò nell’usuale stanza, squallida dal pavimento in legno, sconnesso e polveroso, e nel letto stretto e scomodo.

“Laura! E’ tempo di levarsi!”.

Una grossa delusione si dipinse sul volto, perché quel sogno bellissimo era stato interrotto bruscamente da una realtà ben diversa. In compenso sapeva cosa scrivere nel messaggio. Semplicemente ora e luogo senza altri fronzoli.

Giacomo nei giorni successivi fece molte ispezioni nel cunicolo di Porta degli Angeli, portando con sé quello strano bastone, che usò per prendere misure accurate di altezza e larghezza.

Poi si sedeva sotto un pioppo appena prima della porta a riportare su carta col carboncino nero misure e schizzi di quello che aveva misurato e osservato.

Adesso aveva le idee più chiare, anche se molte nubi nere continuavano a offuscare la sua mente. Il cunicolo era stretto e a un certo punto impraticabile. La volta minacciava di franare tutte le volte e rimaneva in ansia finché non ritornava fuori. C’era da lavorare e non era detto che ci sarebbe riuscito. In pratica quel capitano, che senza troppi riguardi l’aveva bloccato, montava la guardia a qualcosa che non serviva a nessuno.

“Sfido chiunque a percorrerlo tutto dal rivellino nord alla Porta degli Angeli senza rimanere bloccato o incastrato. E poi senz’aria con una torcia si rischia di rimanere soffocati dal fumo. Il cunicolo da un senso di claustrofobia incredibile, una sensazione di ansia che toglie il respiro. Per renderlo praticabile serve un lavoro non piccolo e del personale capace”.

Poi visitò quel punto X sulla pianta. Era una solida casa con fregi in arenaria rossa, più o meno a quello che ricordava della passata vita. Un sorriso di scherno comparve sulle labbra.

“Più che passata vita direi quella futura. Qui sono in una dimensione che non conosco, dove stento a riconoscermi. Dei ricordi non me faccio nulla ma solo paragoni e qualche rimpianto”.

Si domandava dei motivi per i quali il Duca voleva costruire un terzo cunicolo per arrivare al Palazzo X, perché più che una casa era un imponente palazzo circondato da case basse senza molte pretese. Tutto era diverso dai suoi ricordi a parte il Monte di Pietà e qualche abitazione lungo via dei Piopponi.

Doveva tornare a corte e parlare col segretario e col Duca. L’impegno richiesto reclamava molti fiorini e forse non sarebbero stati sufficienti per portare a termine l’impresa.

La sera di metà maggio stava declinando col sole che tingeva di rosso alcune nuvole che solo pochi istanti prima erano candide. Sembrava che si fossero macchiate col sangue di qualche divinità. Non era tempo di voli poetici, doveva rincasare prima che l’oscurità calasse.

Forse stasera era nella vena buona di mettere alla prova la moglie, che si lamentava delle scarse attenzioni.

Chissà se ci sarebbe riuscito.

capitolo 28

Arrivato in città, Giacomo passò una magnifica serata con Giulia. Andarono a teatro per presenziare alla recita del Eroticon di Vespasiano Strozzi. Ebbe un grande successo suscitando i desideri dei due amanti. Forse non c’era la necessità di ascoltare quei sonetti ma sicuramente diede un bel impulso alla nottata.

Di buon mattino, salutando con un certo dispiacere la donna, raggiunse la propria abitazione. Non poteva rimandare ulteriormente l’avvio dello studio di quei cunicoli. Ghitta aveva il broncio che crebbe, annusando le vesti del padrone: non avevano il consueto odore, che lei conosceva bene. Giacomo non tentò di rabbonirla, perché doveva imparare che non le doveva spiegazioni.

“Ghitta” le disse con tono serio, quello delle occasioni importanti. “Non desidero essere disturbato per nessun motivo, anche se fosse il nostro amato Duca. Voi, se volete, potete stare ma in silenzio”.

La serva annuì e l’aiutò a dispiegare le carte sul tavolo, mentre osservava con curiosità quei disegni poco familiari. Avrebbe voluto porgli molte domande cosa erano quei tracciati, quei disegni colorati e cosa c’era scritto ma si trattenne per non suscitare la collera del padrone. Erano mappe della città che, per essendo approssimative e quasi ingenue, rappresentavano quanto di meglio esisteva in quell’epoca.

Giacomo tracciò dei segni, seguì l’andamento di una strada, fece più di uno schizzo della sezione di un buco sul retro della mappa. La ragazza scrutava incuriosita e ammirata i disegni il cui significato le era ignoto, mentre il malumore lentamente si scioglieva, lasciando il posto al sereno. Gli portò una brocca di acqua fresca e qualche frutto di stagione sempre senza proferire una parola, finché non ce la fece più a resistere e iniziò a parlare.

“Messere ..” cominciò Ghitta, contravvenendo le disposizioni di Giacomo, rompendo il silenzio assoluto della stanza.

“Ghitta, cosa vi ho chiesto?”.

“Silenzio, Messere”disse sorridente e per nulla impacciata.

“Dunque tacete e non distraetemi” concluse l’uomo.

Aveva un certo impaccio nel mettere le misure. Lui ricordava solo quelle in metri mentre in quest’epoca si usavano altre unità per nulla familiari e senza possibilità di convertirle in qualcosa che conosceva.

“Piede? Braccio? O ..? Ma poi quanto equivalgono in metri. Un uomo armato quanto è alto? Mi sembra di impazzire non riuscire a dimensionare un buco perché non ho un’idea delle misure che si usano”.

Si guardò intorno alla ricerca di un campione ma nella stanza non c’era altro che Ghitta. Sconsolato in mancanza di alternative ripiegò su di lei, che in realtà era bassettina ma che poteva costituire una buona pietra di paragone.

“Ghitta, mi sono sempre chiesto quanto siete alta. Non intendo ironizzare sulla vostra statura ma ..”

“Uffa!” esclamò la ragazza rabbuiando in viso. “Sono piccola, lo so. Mia madre non è riuscita a fare niente di meglio”.

“Non inquietatevi. Mi interessa per certi conti. Ha importanza comprendere la differenza esistente tra voi e un uomo armato”.

“Un abisso! Io si e no gli arrivo alla pancia. Sapete all’altezza giusta per ..” cominciò ridacchiando.

“Ghitta! Non vi ho chiesto di scendere a questi particolari!” l’interruppe prima che concludesse il discorso. “Mi interessa conoscere quanti piedi o braccia siete alta. Poi se vuoi affrontiamo anche questo altro aspetto del problema”.

“Ma non lo so. Nessuno mi ha mai misurata! Un uomo armato sarà un poco più alto di voi” concluse sorniona la ragazza.

“Bell’aiuto mi date! Devo fare tutto da me”.

“Però se vado da Zelinda, lei dovrebbe avere un asta che usa per misurare le dimensioni delle tende” e detto questo sparì velocemente.

Giacomo si rilassò in attesa del ritorno di Ghitta e rifletté sulla costruzione del terzo cunicolo.

“Non è eccessivamente lungo. Ma per chi serve? In quella X chi ci abita?”. Ricordava che nella sua epoca su quel angolo c’era un palazzo rossiccio con un bel parco. “Domani vado a vedere cosa c’è e mi rendo conto bene delle distanze”. Era immerso in queste riflessioni, quando udì la voce della serva che stava rientrando con un bastone nodoso, lucido per essere stato toccato da molte mani.

“E questo cosa sarebbe? La vostra unità di misura?”.

“Penso di sì. Quando viene Abramo, sapete quel commerciante ..”

“Ghitta, ho capito. Quello che mi mette le corna. Non c’è la necessità di spiegarlo ancora una volta” replicò tagliando corto le maldicenze, che lo stavano disturbando non poco. Ironizzare che le figlie non gli assomigliavano poteva starci come battuta spot ma poi gli subentrava una sensazione di fastidio sapere che la moglie lo tradiva. In lui non c’era nessuna forma di gelosia nei confronti di Isabella, che gli era totalmente indifferente, ma il solo pensiero gli causava una percezione di banale seccatura e di malumore che faticava a controllare.

“Dunque questo Abramo usa questo bastone?”

“No, no! Zelinda dice che le serve stoffa per cinque volte il bastone. Ma lui estrae da un fodero di cuoio un po’ consunto un’asta di ferro e ne taglia sei volte. Dice che .. Non ricordo cosa dice, perché l’ho visto solo armeggiare senza udire le parole”.

“Fa niente, Ghitta. Questo bastone è prezioso. Ora vieni qui che ti misuro”. A occhio era poco meno di un metro, circa quattro palmi.

Con buona approssimazione scrisse dei numeri che avevano un significato solo per lui. Il giorno dopo avrebbe ispezionato il cunicolo della Porta degli Angeli e si sarebbe fatta un’idea più precisa.

“Ghitta, questo bastone mi serve nei prossimi giorni. Zelinda ne farà senza ..”

“Ma mi bastonerà se non glielo riporto” esclamò terrorizzata.

“Ah! Ah! Sono o non sono il padrone di casa? Tutto mi appartiene, bastone compreso. Se ha delle rimostranza mandala da me” e il bastone finì sul tavolo.

Erano passate poche ore dalla battaglia con la madre, quando spuntarono puntuali le amiche. Laura le accolse nella bottega e continuò a lavorare. Sperava che la presenza del padre e la scarsa attenzione fiaccasse la loro resistenza ma fu tutto inutile. La bombardarono di domande come se la volessero lapidare. Una sassata dopo l’altra senza sprecare un colpo.

La ragazza si difese con ordine senza perdere mai la pazienza, replicando quando c’erano i motivi, glissando sui quesiti più insidiosi. Poi al tocco se ne andarono per nulla soddisfatte e il martirio finì. Il resto della giornata filò liscio senza altre curiosità morbose da parte di qualcuno.

Nei giorni seguenti non successe nulla di nuovo, togliendo alla notizia quel pizzico di curiosità pruriginosa che c’era stata dopo che la voce sulla mitica carrozza ducale e sulla ragazza si era spara nel rione. Lentamente le chiacchiere si smorzarono mentre si dimenticarono della giornata trascorsa nella delizia di Belfiore.

Laura rifiatò e riprese le consuete attività di levarsi al canto del gallo e di coricarsi dopo l’imbrunire. L’assedio delle amiche divenne più blando, meno ossessivo, mentre lei copriva con la polvere dell’oblio quel piacevole ricordo. Non desiderava cullarsi nelle fantasie di aver centrato il cuore del Duca, per poi riaprire gli occhi e scoprite che era stato un bel sogno.

Erano passate due settimane e qualche giorno, quando un messo ducale le recapitò un nuovo messaggio. Questa volta passò quasi inosservato, perché solo poche persone notarono il suo arrivo senza che la notizia si diffondesse a macchia d’olio in un amen. Non era stato così sfrontato da catturare l’attenzione di tutti, come il precedente ma discreto e felpato, quasi in sordina. Il paggio assomigliava più a un servitore che si recasse dal berrettaio per ordinare un nuovo capello da cerimonia per il padrone che a un messaggero ducale. Senza troppe fanfare consegnò la missiva chiusa dal sigillo ducale direttamente nelle mani di Laura, che casualmente era sola nella bottega.

Con un misto di trepidazione e di curiosità aprì il messaggio senza l’impicciona di Paola dietro le spalle. Poteva leggerlo senza apprensione o sotto le domande incalzanti della madre

“Madonna Laura!

Vi aspetto per rinnovare la piacevole giornata di Belfiore. Questa volta siete attesa ai Giardini del Cavo, nella Pescheria. Domani passerà un messo a raccogliere il vostro messaggio di risposta.

Ditemi dove la carrozza vi dovrà attendere. Circolano molte lingue maligne si voi, si di me e non voglio alimentarle. E’ stato imprudente il mio solerte segretario nell’organizzare l’incontro precedente. E di questo me ne dovrà rendere conto. Avevo richiesto cautela e discrezione ma si è mosso con goffaggine, disattendendo le mie disposizioni.

Vi aspetto.

Vostro Alfonso”

Dunque era lei ad organizzare il punto d’incontro fuori dagli occhi indiscreti delle persone del rione e forse della madre.

“Qual’è un punto sufficientemente vicino da essere raggiunto a piedi e abbastanza lontano per non essere visto da persone del rione? Ma il giardino del Cavo dove si trova con precisione?” si domandava incerta la ragazza.

Porre delle domande poteva suscitare la curiosità di qualcuno. Vagamente aveva sentito dire che era un posto incantevole, parzialmente sotterraneo dove scorrevano acque fresche e corroboranti tra fiori e frutteti. Uno dei posti prediletti dalla Duchessa e la sua corte di dame.

“Non è stato forse imprudente, il nostro amato Duca nel proporre questo nuovo incontro?”.

Scosse la testa mentre stringeva al petto quella missiva come se fosse il suo amore. La felicità cresceva ad ogni istante ma doveva pensare alla risposta.

“In fondo a via della Rotta potrebbe essere una buona locazione. Non dista molto dalla bottega. Difficilmente qualche persona che conosco passa da quelle parti. E poi c’è l’ospedale di Santa Giustina a pochi passi. Mi pare il luogo giusto. Visibile ma sufficientemente anonimo da passare inosservato”.

Laura aveva deciso per la piazzetta antistante la chiesa di Santa Giustina, dove avrebbe acceso un cero per Santa Giustina, la protettrice delle ragazze nubili.

Il problema era scrivere il messaggio per il Duca, perché non aveva un’idea di come impostarlo e metterlo in forma corretta.

“Stasera porto in camera qualche carboncino e qualche pelle per esercitarmi prima di mettere tutto sulla carta in maniera definitiva”.

Allegra e sorridente infilò il messaggio nel corpetto tra la stoffa e la pelle per sentire il calore che emanava.