L'incipit

Nei pressi della capanna del nonno, sull’alta cresta da cui si domina un pendio coperto di ippocastani, Claire è in groppa al suo cavallo, avvolta in una spessa coperta. Si è accampata lì per la notte dopo aver acceso il camino di quella piccola costruzione che il nostro antenato eresse più di una generazione fa, e nella quale visse come un eremita o un animale solitario quando arrivò in questo paese per la prima volta. Era uno scapolo pieno di sé, che alla fine entrò in possesso di tutta la terra su cui correva il suo sguardo. A quarant’anni si sposò controvoglia ed ebbe un figlio, a cui lasciò questa fattoria sulla via per Petaluma. Claire si sposta lentamente sulla cresta sovrastante le due vallate piene di bruma mattutina. Alla sua sinistra c’è la costa. Alla sua destra la strada per Sacramento..

Claire leggeva questo frammento della sua vita, esattamente dove la sua vista aveva percepito l’immensità del luogo alcune settimane prime.
Il nonno non lo aveva mai conosciuto, né sapeva come si chiamava la nonna, che pareva svanita come la nebbia ai primi tepori del giorno.
Suo padre aveva abitato da sempre a Sacramento, ma una volta al mese andava a trovare il nonno, che era sempre più vecchio e inselvatichito, ostinato come un mulo.
Non aveva nessuna intenzione di lasciare quella casa isolata e piena di ricordi, senza nessuna comodità, dominante la vallata.
Poi un giorno lo trovò appisolato serenamente sulla vecchia sedia a dondolo davanti al camino spento. Era freddo e rigido, ma la morte aveva sfiorato appena quel vecchio ostinato, mentre si prendeva l’anima. Il trapasso era stato dolce, quasi sereno.
Suo padre era tornato in città a prendere il pastore per portarlo lassù per l’ultima volta. Seppellì il suo vecchio ai piedi della quercia, che aveva piantato quando per la prima volta era arrivato lì.
Chiuse la fattoria e tornò a Sacramento, dimenticando quella casa e i venticinquemila acri di terreno che la circondavano.
Suo padre si sposò tardi, come il nonno. Evidentemente il matrimonio non erano cerimonie che si confacevano troppo in famiglia.
Lei, Claire, nacque dopo qualche anno e crebbe allegra e coccolata dalle zie, tutte zitelle, le sorelle di sua madre.
Per molti anni ignorò che il padre aveva ereditato tutto quel terreno e la fattoria al centro sulle colline che dominavano il fiume Sacramento e la costa sopra San Francisco. E continuò ad ignorarne l’esistenza, finché il padre ormai vecchio e prossimo a raggiungere il nonno, la chiamò a sé per raccontarle tutto del nonno, della fattoria, del terreno.
Claire aveva poco più di trentacinque anni, quando ascoltò il racconto del padre, e subito decise che sarebbe andata a vedere quella casa, chiusa da oltre quarant’anni.
Le vallate intorno a Petulama erano coltivate a vigne, mentre si domandava per quale motivo il padre non aveva ceduto i venticinquemila acri di terreno fertile a qualche produttore di vino. Aveva posto la domanda al padre senza ricevere risposta salvo un “tuo nonno non avrebbe voluto” molto sibillino ed incerto.
Ora toccava a lei mantenere il desiderio di un nonno, a lei sconosciuto fino a poche ore fa.
Gli unici nonni, che ricordava con molta imprecisione, erano i genitori della madre e delle numerose zie, che avevano popolato la sua esistenza fino adesso.
Comprò una cartina dettagliatissima della zona della fattoria del nonno per studiarne la posizione. Poi affittò un suv per raggiungere il luogo che presumeva isolato ed impraticabile per le auto normali e partì per la fattoria, che da qualche giorno aveva ricevuto in eredità con la morte del padre.
Percorse la route 50 che collegava Sacramento alla costa fino al bivio per Petulama dove si addentrò nella Napa valley.
Ai lati della strada c’erano sterminate estensioni di vigne che si smarrivano tra colline e vallate a perdita d’occhio.
A fatica trovò il viottolo che conduceva alla sua nuova proprietà, che interrompeva la distesa di vigneti.
La strada era ombreggiata da enormi ippocastani e querce, cresciuti da quasi cento anni senza l’aiuto di mano umana. Enormi radure ricoperte da erbe alte dieci piedi e cespugli bassi e spinosi si aprivano ad ogni curva, mentre lo sterrato saliva dolce verso il crinale per poi ridiscendere nella vallata successiva.
Claire capì che stava profanando quel luogo con quel suv rumoroso ed inquinante, perché il silenzio era assordante rotto solo dal rombo del possente motore.
La prossima volta, se mai ci sarebbe stata, avrebbe trainato fino al viottolo un trailer con un cavallo a bordo, da dove lo avrebbe usato come mezzo di trasporto fino alla fattoria.
Uscendo dal bosco dopo una curva non troppo dolce apparve la costruzione in legno e muratura abbandonata e circondata da erbe alte, mentre in lontananza il cielo si confondeva con le acque del Pacifico.
Era una splendida giornata di sole con il cielo terso e lindo come appena lavato dalla mano di Dio, solo qualche fiocchetto bianco incipriava l’azzurro. Il sole baciava il legno un po’ inscurito dal tempo e dalla pioggia, mentre le pietre a secco tenute insieme dalla malta una volta chiara avevano acquistato un colorito grigio sporco. I vetri parevano intatti, come le imposte e la porta, in definitiva agli occhi di Claire la fattoria sembrava in buone condizioni.
Prima di scendere indossò indumenti pesanti, anche se il tempo fresco e temperato potevano invitare ad un vestiario più leggero, un paio di stivali di cuoio robusti che abbracciavano l’intero polpaccio e guanti spessi che coprivano bene il polso e l’avambraccio.
Sperava che tutte queste precauzioni non fossero necessarie, perché la presenza di qualche ospite indesiderato non era da scartare.
Falciata l’erba davanti all’ingresso prima di entrare, fece un lungo giro intorno al capanno, ma tutto era in ordine: nessun segno di scasso o altre rotture. All’interno regnava polvere e ragnatele depositate sullo scarso mobilio, che stranamente era ben conservato e nessun ospite era presente o pensava di trovare ospitalità; non c’erano segni di umidità recente o passata, l’interno era ben asciutto e secco.
Per renderla presentabile ci sarebbero voluti molti giorni di intenso lavoro e forse non sarebbero stati sufficienti.
Però era l’esterno che la preoccupava per la folta vegetazione spontanea che era cresciuta selvaggia e rigogliosa. Lei senza l’aiuto di qualcuno non sarebbe stata in grado di provvedere, quindi doveva trovare qualche persona, o meglio una decina di persone, che rendessero praticabile i dintorni della fattoria.Trascorse una mezza giornata ad ammirare la vastità della sua proprietà e la bellezza selvaggia del posto, prima di chiudere tutto e rientrare in città.
Da domani si sarebbe organizzata per migliorare l’aspetto trasandato e di abbandono della capanna del nonno per poi trascorrere qualche giorno lassù con un cavallo, mentre avrebbe esplorato ogni angolo di quel paradiso terrestre.

Il fortino del diavolo

Il fortino del diavolo

si erge sul colle,

che domina il golfo

sulla marina blu intenso.

Di là lo sguardo

si spinge lontano

alla ricerca dell’oltremare.

Le grigie pietre hanno ascoltato

fiumi di parole

dette, sussurrate,

urlate

da amanti silenziosi.

E’ un posto misterioso,

ma ricco di sentimenti

che accoglie

come un discreto confessore

le coppie in cerca di intimità.

Era sempre in ritardo

Era in ritardo, sempre in ritardo, era un suo difetto, lo sapeva fin troppo bene, ma adesso non riusciva a trovare la borsa e una volta scovata (sotto la giacca di velluto a coste blu sull’appendiabiti nell’ingresso) erano le chiavi a mancare. Avrebbero dovuto essere nella borsa, ma non c’erano, e così aveva fatto  il giro di tutto l’appartamento – no: due giri, anzi tre – prima che le venisse in mente di frugare nelle tasche dei jeans che aveva messo il giorno prima. Si, certo: ma dov’erano i jeans? Troppo tardi per una fetta di pane tostato. Scordati il panne, scordati la colazione. Aveva finito il succo d’arancia. Finiti anche burro e formaggio spalmabile. Il giornale sullo zerbino, poi, era l’ennessimo intralcio. Tiepido come pipì – era un paragone adeguato? Si. – caffè tiepido come pipì in una tazza sporca.

Sonia guardò l’ora e, accidenti, era ancora più tardi di quello che pensava. La colazione ridotta ad un caffè simile ad acqua sporca appena fuori dal freddo, mentre lei era ancora in mutandine e reggiseno e a piedi nudi e girava a vuoto come un mulino a vento senza controllo.

Se voleva uscire per andare a lavorare, doveva cominciare col vestirsi, ma la mente era rivolta ancora alla serata di ieri, quando aveva conosciuto Mattia.

“Perché sto pensando a Mattia?” si interrogò dubbiosa anche perché a parte il nome non ricordava quasi nulla. Era alto, molto alto – no, adesso che ci pensava bene – non era alto, ma di media statura, forse un metro e settanta o qualche centimetro di più. La corporatura era snella, ma forse ricordava male o almeno così rifletteva.

“Accidenti, perché mi ostino a pensare a lui? Sono incerta su tutto a parte il nome.” così sperava in cuor suo, perché ora aveva anche il dubbio che il nome non fosse Mattia.

Alzò gli occhi vedendo il grande orologio di legno ed acciaio appeso alla parete della cucina: segnava già le nove e qualche minuto, mentre la lancetta lunga si spostava sempre a piccoli scatti cadenzati dal cuore di quarzo.“Porca miseria!” imprecò ad alta voce Sonia “Sono passati altri dieci minuti e sono sempre qui”, ma le gambe ostinatamente restavano ancorate al terreno, come se una colla invisibile fosse stata spalmata sotto le piante dei piedi.

L’ex Sala Borsa è stata per diversi secoli il Monte dei Pegni della città, dove moltitudini di poveri e ricchi decaduti avevano portato le cose più preziose nella vana speranza di trovare il denaro per riscattarle. Di questo antico uffizio sono rimasti solo i fittoni di marmo, una volta bianco, istoriati che circondano su due lati l’edificio. Quando nell’ottocento i Monte dei pegni vennero aboliti, l’edificio divenne la sede delle contrattazioni tra i contadini che volevano vendere i loro raccolti e chi era disponibile ad acquistarli. La grande sala al pianoterra tutte le mattine si animava con l’arrivo dei venditori e degli acquirenti, mentre il frastuono saliva verso l’alto con il vociare convulso delle trattative nella formazione del prezzo di acquisto. Poi verso 1960 questo vociare confuso si andò quietando fino a diventare silenzio, mentre la grande sala restava deserta e vuota. Lasciò il posto alla domenica ai venditori di francobolli e monete, mentre l’atmosfera diventava più cheta e solo il brusio soffuso si poteva ascoltare. Poi l’oblio, l’incuria regnarono sovrane finché nuove mani non  hanno riportato il vecchio edifcio a nuova vita.

Nelle splendide sale del piano nobile che guardano il castello ora si tenevano mostre, incontri ed altro ancora. Ieri sera in queste stanze c’era l’inaugurazione della mostra di due giovani e rampanti grafici, che volevano mostrare alla città la loro bravura.

La cornice era splendida, come Sonia aveva potuto osservare salendo lo stupendo scalone di marmo, e l’accoglienza era morbida ed ovattata: luci soffuse, musica invitante in sottofondo, un buffet stuzzicante e particolare.

Molti giovani come Sonia si aggiravano discreti per le sale osservando e commentando le le opere dei due grafici, illuminate nel punto giusto per godersele nella pienezza, mentre pescavano dai supporti dessert invitanti e gustosi.

Appena entrata aveva intravisto quel ragazzo, ma poi l’aveva perso di vista, dimenticandolo finché non lo vide intento a sorseggiare un calice di vino bianco davanti all’albero della vita, come scoprì più tardi Sonia.

Lei aveva un sorbetto in mano e si guardava intorno per scoprire vecchie conoscenze o trovarne delle nuove.

Si avvicinò e disse: “Ciao”. Lui si girò con calma, la squadrò dai capelli alla punta dei piedi e rispose laconico al saluto. Lei continuò con alcune frasi di circostanza sull’opera che stava di fronte a loro, mentre lui continuava a sorseggiare il vino e la osservava con attenzione senza dire molto di più.

La situazione era ridicola o quanto meno buffa, perché Sonia non conosceva il ragazzo e lui non voleva mostrarsi scortese. L’arrivo provvidenziale di Berenice, una dei due grafici, mise fine al siparietto, presentando Mattia a Sonia. Conversarono a tre parlando del lavoro di Berenice come grafico, di loro, di conoscenze comuni e di altro ancora. Poi rimasero solo loro due a parlare o meglio a trasmettersi messaggi in codice del tipo “sei single?”.

Erano le otto quando ridendo ridiscesero lo scalone di marmo riafforando nella sera tiepida ed invitante della città che lentamente stava svuotandosi di luci e persone.

Sonia avrebbe voluto fare la sfrontata chiedendogli di trascorrere il resto della serata insieme, perché non aveva impegni e in particolare non aveva voglia di stare da sola. Però non sentiva venire da lui alcun segnale di incoraggiamento, perché lo percepiva un tantino freddo e distaccato, come se non fosse interessato alla persona di Sonia.

E Mattia svanì nel buio della via che porta verso le mura cittadine, mentre lei lentamente si avviava verso il parcheggio ormai svuotato di macchine.

Si riscosse mentre l’occhio correva al quadrante grigio appeso di fronte a lei, ed una nuova imprecazione uscì prepotente dalla bocca, perché era passata un’altra mezz’ora.

Si doveva sbrigare ad uscire per andare in ufficio, perché altrimenti l’avrebbero data per dispersa.

Non c’era tempo di pensare troppo all’abbigliamento, al trucco, ai capelli. La colazione ormai era data per persa, per il trucco ci avrebbe pensato poi, preso un fermaglio a casaccio raccolse i capelli dietro la nuca in un qualche modo, ma non poteva uscire in mutandine e reggiseno e a piedi nudi.

Prese dei jeans da una gruccia, una camicietta leggera, i collant colorati di blu, le prime scarpe che trovò in un mobiletto, assemblò il vestiario sulla sua persona senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Dall’appendiabiti nell’ingresso pigliò la giacca di velluto a coste blu e la borsa e corse a perdifiato giù per le scale verso la rastrelliera delle biciclette. Ne prese una a caso senza guardare, mentre lanciava una nuova imprecazione perché aveva una bicicletta da uomo.

“Pazienza” disse ridendo “Così sono più fighetta!” e via pedalando di gran lena verso il centro tutta felice e contenta.

Antica poesia cheyenne

Non amo riportare nel blog poesie o post che non ho scritto io, ma ogni tanto faccio delle eccezioni.

La poesia riportata sotto mi ha colpito e ho pensato di proporvela. E’ una antica poesia cheyenne, un dei tanti popoli che componevano le popolazioni indiane dell’America.

La forza del nostro popolo

è nelle donne.

Non conta quanto

siano dritte le nostre frecce,

né quanto coraggiosi

siano i nostri guerrieri.

Nessuna nazione è sconfitta,

finché i cuori delle nostre donne

sono sulla terra.

E’ un autentico inno verso la popolazione femminile.

Quella domenica mattina …

Quella domenica mattina di maggio, la ragazza che in seguito avrebbe destato scalpore in tutta New York si svegliò un po’ troppo presto per l’ora in cui si era coricata.

Dal sonno passò bruscamente alla piena consapevolezza e alla disperazione. Si trattava di una forma di disperazione che aveva conosciuto in precedenza perlomeno duemila volte, dato che in un anno solare ci sono trecentosessantacinque mattine.

Di solito causa della sua disperazione era il rimorso, e di duplice natura: rimorso perché sapeva che qualunque cosa avesse fatto in seguito non sarebbe servita a rimediare all’errore già compiuto.

Le cause specifiche di quei momenti di terrore e di solitudine non erano da imputarsi sempre alle parole o alle azioni che sembravano esserne parte…

Anna si alzò dal letto con l’angoscia nel cuore aprendo la finestra della camera sul paesaggio dietro il residence che guardava il Central Park. Era stato un terribile incubo, quello che aveva avuto durante la notte.

Era stata proiettata in una dimensione a lei sconosciuta, in un mondo pieno di persone che parlavano un lingua che non capiva.

Perché aveva commesso l’errore di andare il quel bordello di lusso per sole donne nella 1st Avenue al quinto piano?

Erano passati pochi minuti dopo il suo ingresso, mentre era ancora intenta ad osservarsi intorno, quando sentì voci concitate e un rumore di porte aperte con violenza e di passi pesanti tipici degli anfibi. Si girò e vide dinnanzi agli occhi un nugolo di persone che portavano una pettorina blu con la scritta in bianco NYPD.

“Che diavolo significava quella scritta e chi erano quegli uomini urlanti e dalla grinta feroce che ci ammassavano come pecore al centro della stanza?” si chiedeva Anna impaurita e sgomenta.

Ben presto avrebbe capito tutto.

Dopo l’atterraggio all’aereoporto JFK aveva preso una Yellow Cab per farsi portare a AKA Hotel Central Park, dove aveva riservato un piccolo appartamento per un mese. Sul sedile e nelle tasche c’erano una quantità impressionante di brochure pubblicitarie, che raccolse a manciate infilandole nel borsone che aveva con sé. Però in una tasca del sedile faceva capolino un depliant, del quale si intravedevano pochi centimetri. “Sex and City – for only women” leggeva Anna, che incuriosita lo estrasse sotto lo sguardo sogghigante del conducente portoricano. Lesse poche righe, ma capì che era un lussuoso ritrovo per sole donne. Rapidamente e furtivamente lo mise nell’ampia tracolla che sembrava più una misteriosa valigia delle Indie che una borsetta da donna. Dentro c’era di tutto dal pettine ai trucchi, dai fazzoletti di carta agli assorbenti, dal portafoglio al telefono, dall’agenda telefonica ai condom e tantissime altre cose. Ogni volta l’esplorazione della tracolla era una piccola caccia al tesoro, che terminava spesso con lo sfinimento di Anna che rinunciava all’oggetto cercato.

Sistematasi nell’appartamento si dimenticò ben presto della pubblicità, rimasta confusa tra mille altri oggetti della tracolla, finché una sera, mentre cercava il trucco per gli occhi, uscì ammiccante e voglioso di stupire. Lo lesse con attenzione dimenticando l’oggetto cercato e disse che forse valeva fare una visita a questo ritrovo esclusivo per donne, dove con 150 dollari potevi trascorrere una serata fuori dagli schemi, mangiando e bevendo a volontà.

Così decise che domani sera, sabato, ci sarebbe andata.

L’esterno del palazzo a quindici piani era in granito grigio curato e gradevole alla vista, l’enorme atrio consentiva l’accesso alle scale ed a numerosi ascensori guardato a vista da un gallonato nero, che assomigliava più ad un cerbero che ad un portiere.

Una bella targa dorata recitava “Women’s Club Luxury and Amusement – fith floor – lift B and C” sotto il naso di Anna, che rassicurata entrò decisa nell’atrio dirigendosi verso gli ascensori, ma una voce maschile la bloccò. Era il gallonato che le chiedeva dove stava andando. Lei nel suo inglese approssimativo cercò di spiegare che aveva trovato la pubblicità del club per donne in un taxi, mentre gli mostrava il depliant. Lui cominciò a parlare a raffica come una mitragliatrice, mentre lei capì pochi spezzoni, tra cui doveva dire come si chiamava e da dove veniva.

Anna in preda al panico e pronta a rinunciare alla serata particolare stava per ritornare sui suoi passi, quando il gallonato dopo una breve telefonata le diede il via libera.

Una massiccia porta in ciliegio introduceva in un’ampia sala con molti divani colore cremisi, dove sostavano molte donne firmate dalla testa ai piedi, quadri con temi erotici od agresti e busti maschili adornavano le pareti, in angolo una donna avanti nell’età fungeva da cassa, dove altre donne facevano la fila per pagare l’importo dovuto. Ogni tanto dalle numerose porte chiuse che si affacciavano si aprivano per lasciare entrare delle signore.

Anna era ancora intenta ad osservare tutto quando sentì il trambusto dell’irruzione di molti uomini e donne e poco dopo si ritrovò nel centro della sala pigiata con altre donne vocianti e piangenti che premevano il loro corpo sul suo.

Non capiva nulla impaurita dal frastuono strillante di voci non familiari né nella lingua né nel suono, spintonata, trascinata e stipata in un furgone buio e maleodorante.

“Dove sto andando?” si chiese, poi timidamente rivolse la stessa domanda ad una donna che alitava alcol e fumo a pochi centimetri dal suo viso e le cui mani premevano sul suo seno e sul basso ventre. Non rispose o quanto meno non capì la risposta. Sospirò e aspettò con pazienza di capire la destinazione della corsa, mentre la donna aveva appoggiato il viso sul collo e si teneva stretta a lei.

Udiva una sirena ad intermittenza finché non cessò con lo stridere delle gomme sull’asfalto asciutto. La corsa era finita all’interno di un cortile illuminato a giorno e guardato a vista da agenti armati di fucile. Ebbe paura e con cuore in gola seguì le altre donne nell’edificio rischiarato da luci al neon. Adesso comprendeva che era in una stazione di polizia di New York, mentre un brivido di panico percorse la schiena.

“Cosa ho fatto?” si domandava inquieta “Ero in un club per donne e non facevo nulla”.

Trascorse quasi tutta la notte tra pianti ed imprecazioni, tra domande inutili che non afferrava e le dita impiastricciate di un liquido nero, schedata, fotografata, spogliata e palpeggiata in ogni angolo da una donnona grassa, che sembrava godere nel toccare ogni orifizio, umiliata come donna e come persona.

Era l’alba, quando finalmente era stata accompagnata fuori senza troppi complimenti e molte spiegazioni, ed era stata abbandonata sulla strada senza avere un’idea in quale parte di New York fosse. Vide un Yellow Cab, che la raccolse per depositarla davanti al AKA Hotel.

Si spogliò, fece una lunga d
occia e sfinita si addormentò nel grande letto.

Al risveglio avrebbe ripensato a tutti gli eventi che erano capitati fino a quel momento.

Ora voleva solo dormire e dimenticare.

Tutti i ricordi alla fine …

“Tutti i ricordi alla fine si cancellano. E poi restano i sogni. A quel punto, ormai soli, è a essi che affidi il fardello della tua vita. Presto non ricorderò più niente, niente a parte quella storia che tornava tutte le sere appena mi addormentavo. E’ diventata il ricordo più intimo e remoto. Risale forse all’epoca dei miei quattro o cinque anni. Scesa la notte, il buio s’infittiva nella stanza; chiudevo gli occhi e tutto ricominciava. Ero un bambino molto piccolo e uscivo di casa. Prendevo la via che portava alla scuola o fino a i giardini. Tutto era deserto. Una grande calma meravigliosa si era posta sul mondo. Nella luce di un giorno che stava finendo, camminavo a lungo ma senza fatica. Godevo della mia straordinaria leggerezza e della facilità con cui passavo tra le cose. Attraverso la città; le facciate grigie degli edifici..”

Questo era il mondo fantastico di Roberto, che si crogiolava dalla mattina alla sera in mille pensieri strambi e sognanti.

Era un ragazzone alto e magro, che frequentava l’università, dove stava seduto con lo sguardo perso nel vuoto a lezione. Prendeva appunti non della lezione che non ascoltava, ma dei suoi pensieri che sgorgavano frizzanti come la sorgente del torrente di montagna.

Riempiva l’enorme quaderno a quadretti dalla copertina con il viso buffo di un cartone giapponese, di cui non ricordava nemmeno più il nome, perché gli piacevano i grandi occhi sgranati e la bocca spalancata.

La sua scrittura minuta scorreva veloce sulla carta e riempiva fogli su fogli tra la curiosità dei compagni che lo osservavano stupiti a scrivere storie fantastiche.

“…Il cielo era plumbeo e tendeva al grigio sporco tanto da confondersi sull’orizzonte con le case. I pochi alberi spelacchiati intristivano la visuale, ma io vedevo il sole splendere sopra di me. Ero etereo, diafano come l’aria che respiravo. I miei occhi vedevano quello che gli altri non percepivano visivamente, penetrando i loro corpi e le loro menti. Captavo i pensieri più reconditi, come se fossi in grado di leggere dentro. Però spesso parlavano con una lingua sconosciuta, che veniva da lontano. Io mi beavo nella mia ignoranza perché questo mi appagava internamente.

Che importanza aveva leggere le preoccupazioni di Agnese, che non sapeva come arrivare a fine mese? Oppure conoscere le pene di amore di Ilaria, che litiga in continuazione con Giuseppe? Era bello sapere che potevo farlo, ma non lo facevo!…”

Roberto si chiedeva come aveva fatto ad arrivare all’università sempre immerso come era nell’aria rarefatta della ionosfera.

Quando a sei anni entrò nella scuola elementare delle suore, la sua testa era altrove, intento come era a pensare che poteva passare ovunque anche attraverso le porte.

“Roberto,” diceva la suora maestra “cosa stai scrivendo? Porta qua quel quaderno!”

E lui manco rispondeva, mentre continuava a scrivere. Alla fine dell’anno, la suora preside disse alla madre del bambino: “Sarà intelligente, saprà anche scrivere, ma lui non è presente con la testa. Forse è meglio che lo iscriva alla scuola pubblica. Lì riuscirà benissimo a scuola”.

Anna, la madre di Roberto, guardò rassegnata al peggio la suora preside, mentre diceva che lui rimaneva con il cucchiaio della minestra a mezz’aria per tutto il tempo del pranzo senza ascoltare le suppliche sue e della nonna. “Cosa possiamo fare?” parlava sconsolata per l’atteggiamento del bambino “Non riusciamo ad indurlo a scendere sulla terra. Nella scuola pubblica riuscirà a non essere il dileggio dei compagni? Noi contavamo su di voi, ma adesso abbiamo capito che siamo soli nella nostra battaglia”.

Non andò meglio nella elementare Montessori, dove fu la croce e la delizia del maestro e dei compagni. Però lui era abilissimo e sempre pronto nelle interrogazioni. Tutti erano sempre a bocca aperta, perché Roberto sapeva scrivere e fare di conto meglio di tutti i compagni. “Come fa ad essere così bravo, se non ascolta, non partecipa alla vita della classe?” si domandava Bernagozzi, il maestro pelato e un po’ panciuto, che non sapeva se ridere o piangere per Roberto.

Alla media Tasso fu ancora peggio, perché scriveva solo sul quaderno col cartone giapponese e faceva atto di presenza alle 8 e 15, quando suonava la campanella di entrata. Poi spariva nel suo mondo fantastico popolato di cartoni e visioni dai volti familiari dei cartoni.

“… Certo sono nel mondo di Disney a cercare il cartone perduto. Paperino è simpatico, ma è troppo triste, perché perde sempre. Gastone mi sta antipatico perché la fortuna sorride sempre e solo con lui. Non riesco trovare un cartone simpatico e normale…”

Giuditta, compagna di banco rossa di capelli e dalla lingua sciolta, aveva provato a scuotere il mondo di Roberto, parlando in continuazione e domandando cosa scrivesse.

“Muh!” era l’unico mugolio di risposta e lei di rimando “Non parli? Sei muto? Eppure senti e hai scritto una montagna di fogli”.

L’anno dopo Giuditta chiese ed ottenne di andare in banco con Paolo, perché almeno quello parla ed ascolta.

I compagni erano terrorizzati al pensiero di finire in banco con lui, che biascicava solo “Buongiorno, ciao, mi chiamo Roberto F., , ho fame” e poche altre parole.

Essere nel suo stesso banco era la morte civile e il dileggio dei compagni.

Tutti chiesero di essere esonerati e di stare lontano dall’appestato, perché cosi veniva bollato a scuola.

Anche la media Tasso fu lasciata alle spalle con l’esame di terza media superato col massimo dei voti tra stupore ed incredulità di tutti.

Era indeciso tra il classico e lo scientifico, perché eccelleva in tutto, ma alla fine optò per il liceo scientifico Roiti.

Giuditta lo seguiva come un’ombra, anche se accuratamente evitava di pestare quella di Roberto. Era innamorata cotta di questo lungagnone dall’aria trasecolata che sapeva sempre tutto e non sbagliava un compito in classe. Le tentò tutte per farsi notare, ma forse sarebbe riuscita a commuovere il busto di Dante che troneggiava all’ingresso del liceo e non lui, che scriveva sempre in silenzio.

“Eppure è un bel ragazzo!” si diceva Giuditta “Però mi sembra tonto perché non mi degna di uno sguardo!”

Furono cinque anni di passione, poi alla fine convenne che non era il suo tipo e ripiegò su Fabrizio, un ragazzo meno interessante di Roberto, ma che era dotato di parola e sapeva pure baciare!

Oltremare

Marzo 2008

 Da questo breve incipit

“Fu di sera, già di buio; era ottobre. Il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale.” (Italo Calvino, Il visconte dimezzato. I Meridiani – Arnaldo Mondadori Editore)

nasce il breve racconto che segue.

Marco aveva dieci anni, quando quella sera vide la nave, e subito s’accese la fantasia.

Era sul ponte di comando a guidare quella ciurma indisciplinata, mentre il timoniere teneva la barra a dritta.

Si sgolava ed imprecava ad alta voce.

“Alzate la vela maestra! Mollate il fiocco! C’è troppo vento, virate a manca col vento contro!”

La voce roca e tagliente dava ordini secchi come schioppettate che arrivano diritti al cuore dei marinai.

Il vascello cavalcava agile l’onda bianca, pronta a scendere nell’incavo del mare e poi salire su quella successiva.

Marco era lì ritto come un fuso sulla plancia sferzato da vento e salsedine, pronto ad odorare il vento e dirigersi dove questo vola dritto.

La prua agile e sottile taglia il verde marino come la lama nel burro, mentre dietro una danza di salti e tuffi l’accompagna.

 

Ormai cinquantenne sogna il mare, mentre osserva corrucciato il brulicare di uomini indaffarati e spenti che si agitano nella vita cittadina.

E’ ora un cittadino, che ama l’aria, la salsedine e la nave senza essere ricambiato.

E’ marzo, ma il tempo per rifugiarsi nella vecchia casa in riva al mare tra filari di vite e noci dalle larghe chiome non è ancora arrivato.

Si strugge dalla malinconia e dal ricordo, perché non è potuto diventare un marinaio. I suoi vecchi non hanno voluto, doveva diventare Dottore, avere una bella casa in città, una moglie e dei figli belli come lui.

“Papà, “disse un giorno “anche all’Accademia divento Dottore”, ma il padre fu irremovibile. Doveva andare in città all’università per diventare Dottore.

Marco si rassegnò esternamente, ma dentro coltivava l’idea del mare, ma la coltivò solo, perché trovò Mara e la sposò.

Anche a Mara il mare non piaceva, diceva che incuteva paura e poi non sapeva nuotare.

Si rassegnò a malincuore a vivere fra cemento, auto, rumori e polvere in una casa che molti dicevano essere confortevole, ma che a lui stava stretta.

Marco per vedere il mare doveva andare da solo nella vecchia casa paterna, ormai spoglia e vuota dopo che i suoi vecchi uno alla volta in punta di piedi se ne sono andati nel piccolo cimitero in fondo alla strada.

Quella casa non la volle vendere mai, come le 15 pertiche di vigna ormai inselvatichitasi, ma sempre tenuta ordinata da Giuseppe, il vecchio fattore.

Si metteva là dove a dieci anni aveva visto la nave con la bandiera imperiale ad osservare il punto in cui l’orizzonte si confonde con l’acqua. Là il sole si inabissa colorando di rosso terra, acqua e cielo e lui stava lì a bocca aperta per aspirare il gusto del sale che arrivava da dietro le dune.

Ancora qualche settimana di supplizio a respirare cemento, poi da solo avrebbe preso quel viottolo polveroso che conduceva alla casa da ragazzo, senza luce e senza acqua.

Avrebbe riattivato il camino per cuocere e riscaldare l’ambiente e avrebbe scritto il suo amore per il mare alla luce della lampada ad olio dopo essere stato là dove i ricordi di quaranta anni fa lo conducevano per mano.

 

 

Albatros

Albatros

 Vola leggero
con la morte
nel cuore
nella speranza
di trovare una terra
remota.
Tu, sullo scoglio
battuto dal vento
dell’amore,
assisti
al volo del albatros,
che reca un messaggio
di pace.

Ignoto

Ignoto

Ignoto
è là,
oltre il muro di cinta,
che mi nasconde
il tuo volto.
Fantasie di avventure,
desideri di amare
è il blù
dei tuoi occhi.
Colore d’oltremare,
simbolo di avventura
stanno dentro di te,
che amo
come l’ignoto
mi affascina.

Vento Rosso di Giuliana Argenio

Vento Rosso di Giuliana Argenio

 
Seguendo le indicazioni di una carissima amica ho comprato e letto “Vento Rosso” di Giuliana Argenio
(
http://argeniogiuliana.splinder.com/   http://parolaailettori.splinder.com/  http://www.ilfiloonline.it/autori/2007/argenio.asp ).
Conoscendo bene la grande sensibilità letteraria ed umana di lei non ho mai avuto dubbi sulla bontà del racconto, ma questa certezza è stata rafforzata dalla lettura del libro.
La struttura narrativa apparentemente slegata sotto forma di flashback  ma intimamente connessa ed organizzata va assaporata, centellinata frase dopo frase, parola dopo parola, virgola dopo virgola.
Di norma quando un libro mi piace, lo divoro in un attimo, non smettendo di leggerlo fintantoché non arrivo all’ultima pagina bianca. Ho letto questo libro, invece, con calma scorrendo pensieri e punteggiatura, ritornando sui miei passi per rileggere emozioni ed immagini.
Ho compiuto esattamente lo stesso percorso che faccio quando entrato in un museo osservo i quadri appesi alla parete oppure ammirando gli interni sontuosi di una chiesa.
E’ una delicata storia d’amore dove i due protagonisti Mauro, il poeta fingitore, ed Emma, la donna delusa dalla proprio esistenza, non si parlano di passioni, ma trasmettono silenziose sensazioni amorose col gesto, col pensiero.
Sono personaggi appena abbozzati, ma completi, dove il lettore li deve perfezionare e plasmare con la propria immaginazione per farli propri.
In numerosi punti la narrazione assume una liricità da trasformarsi in poesia.
Indubbiamente sono stati 15€ spesi bene, perché mi hanno lasciato internamente una sensazione  di dolci emozioni, mentre la mente si cullava nelle splendide immagini descritte del libro.