Il viaggio – 1

Luca spense il telefono, perché non voleva essere disturbato. Poi chi lo avrebbe chiamato, si domandava, attento al traffico nervoso che scorreva impetuoso attorno a lui. A parte Ersilia, che di certo non voleva ascoltare, non c’erano altre voci note da incrociare via etere. Quindi era meglio che tacesse muto e silenzioso.
Aveva preso una strada che non conosceva o quanto meno ne ignorava l’esistenza, perché aveva deciso in un momento di lucida follia che avrebbe inseguito quello che per quaranta anni non aveva fatto: seguire l’istinto ed abbandonarsi all’oblio.
Lui si sentiva profondamente malinconico, ma doveva per forza di cose essere allegro ed estroverso. Così la sua personalità si era scissa in maniera dicotomica in due parti: quella da mostrare al mondo intero e quella che cullava armoniosamente durante i sogni notturni.
Lui amava la seconda, quella vera, quella che gli dava tutte le soddisfazioni, che la prima gli negava. Durante il sonno immaginava di inseguire la Gloria, non quella dolce ragazza che aveva amato segretamente da ragazzo, ma la prima pagina della rivista letteraria “Il sabato”, dove gli autori famosi venivano intervistati. Però si domandava incerto e dubbioso se sarebbe riuscito rispondere alle varie domande, perché un conto era sognare, ben diverso era rispondere a tono su qualcosa che non conosceva.
Quali domande gli avrebbero potuto rivolgere, continuava ad interrogarsi, perché lui in quaranta anni non aveva scritto un rigo di nulla. Lui sognava ad occhi aperti che avrebbe vinto il premio Pulizter o il Nobel per la letteratura con un romanzo grosso come una torta nuziale dal titolo indefinito e dalla trama inconsistente.
Era un autentico sogno il suo, nel senso che sarebbe stato irrealizzabile.
“Non ha importanza” diceva sempre a quella parte di Luca, che svegliatasi con quella esterna e fasulla si abbandonava alla malinconia del nuovo giorno.
Però era bello lasciarsi cullare nel sonno da quelle visioni piene di luccicanti mondi da prime pagine anziché stare accanto alla grigia Ersilia, che ronfava pesante e senza luci vicino a lui.
Era affezionato alla moglie, che lo sopportava da molti anni.
Mentre guidava guardingo, attento ai cartelli e alle trappole del traffico, ripensò con malinconia a quanti tempo era passato quando l’aveva conosciuta.
“Sono passati troppi anni” disse alla sua controfigura mentre la musica dei Rolling Stones invadeva il suo spazio mentale entrando in contesa con la concentrazione.
Era a quell’epoca un giovane di belle speranze, neppure troppo bello, un po’ grassoccio ed imbranato quel tanto che bastava per sembrare a volte un tontolone. Lei, sicuramente, era una bella ragazza, leggermente più alta di lui e più vecchia di un paio d’anni, longilinea dalle lunghe gambe dritte come un fuso.
Mentre armeggiava impaziente e smarrito con l’autoradio alla ricerca di qualcosa di piacevole da ascoltare, si domandava perché tornava sempre a quel punto di cinquanta anni prima, quando aveva solo sedici anni.
La parte simulatrice di Luca fingeva di non saperlo, perché era talmente abituata a fingere che il vero gli pareva falso.
“Come puoi non conoscere i motivi?” gli rinfacciava il brandello malinconico, che già si inumidiva l’occhio al semplice ricordo di quegli anni dorati.
Luca era in terza liceo con viso butterato da una fastidiosa acne e gironzolava speranzoso nei paraggi della V A, la classe dove Ersilia imponeva la sua bellezza. Ci voleva poco, perché le altre ragazze erano meno di due mani tanto scorfani quanto secchione da fare invidia a Pico della Mirandola. Insomma erano tanto brave quanto inversamente erano graziose, beh!, dei mostri inguardabili proprio no, ma non facevano di sicuro concorrenza a Miss Italia. Magre, ossute, con seno inesistente, qualche brufolo mal coperto dalla cipria erano il campionario migliore del loro aspetto. Dunque Ersilia era la Nefertiti della classe, che attirava i compagni come il fiore era preso d’assalto da api e farfalle.
Luca non aveva speranze di essere notato perché, quando lei gli rivolgeva la parola, lui diventava rosso come un gambero e si impappinava come un principiante. Tutti i discorsi che aveva preparato con cura, qualora l’agognata preda si fosse degnata di un uno sguardo o di una parola, finivano in monosillabi incomprensibili e balbettanti, mentre la testa si svuotava d’incanto come un cestello saccheggiato dall’orso Yoghi.
Rimaneva lì impallato a bocca semi socchiusa con l’occhio spento e perso nel vuoto, finché Ersilia ridendo non si allontanava sotto braccio a quell’antipatico di Roberto. Allora si ridestava come la bella addormentata nel bosco mentre tutti i pensieri che erano fuggiti o si erano nascosti tra le pieghe della mente ritornavano allegri e beffardi a popolare la sua testa. Era un copione quotidiano, al quale non riusciva a trovare un rimedio.
Quello che più lo feriva erano i commenti dei compagni che riferivano come il tontolone di Luca aveva fatto girare la testa alla maliarda, così era chiamata la bella Ersilia, ma che quell’imbranato restava muto come un pesce, anzi farfugliava parole senza senso.
I sensi suonarono un campanello per avvertirlo che c’era un pericolo imminente.
Il fiume dei ricordi si essiccò o meglio sparì tra le rocce carsiche della memoria in attesa di ricomparire spumeggiante e limpido dopo il percorso sotterraneo.

Il viaggio

Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché non lo sapeva nemmeno lui. I capelli, prima di perderli, erano quasi neri tanto erano scuri e non schiarivano nemmeno col sole. Quindi da questo versante il sopranome non era pervenuto.
Le sue tendenze politiche non viravano a sinistra, ma lui si era sempre professato come apolitico, perché andava a votare quando ne aveva voglia e di solito metteva la crocetta su quei partitini curiosi ed impossibili da essere seri. Quando era dentro quei squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con una tenda dal colore indefinito per votare, era preso dalla voglia irresistibile di cercare il simbolo più insolito ed improbabile da contrassegnare con una bella X. Si diceva sempre che non c’era gusto di votare Democrazia Cristiana o Partito Comunista, perché erano i più gettonati, ma doveva aiutare quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze da persone come lui.
Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente ics il partito “PAPI”. “Eh! Sì quelli erano dei bei tempi” diceva sempre al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.
C’era una particolarità che lo incuriosiva parecchio ed era questa. Scorrendo le preferenze ai singoli candidati, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Ebbene lui si domandava sempre: “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla. Dunque nemmeno le inclinazioni politiche svelavano il mistero.
In conclusione il sopranome era un enigma che Luca non aveva mai voluto conoscere, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, aveva all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.
Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, si sentiva in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia e per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, aveva già trentacinque anni e zero matrimoni. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada e faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale non ricordava nulla né nome né viso. Però non gliene importava nulla se il bambinone non voleva crescere in coppia. Era affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso.
Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo disse ad Ersilia: “Domani parto per il mondo. Mi vedrai al ritorno”.
La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.
“Ho capito bene?” rimbeccò acida la donna.
“Vado a preparare una borsa con le mie cose” rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso e pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera.
Così disse e così fece.
Il giorno dopo stava facendo discorsi infervorati ad un gestore di una pompa di benzina, dove c’era anche una minuscola officina, su viaggi, lavoro e pensioni da fame, ma anche su donne, politica e calcio.
Il gestore alto, ossuto, peloso e sporco di grasso e di benzina lo ascoltava non troppo convinto ed un tantino infastidito, perché non gli andava di parlare di determinati argomenti con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat un po’ anzianotta e scrostata del tempo, pensava che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio freddo che nonostante la calura di Giugno gli provocava dei brividi nel corpo.
“Il pieno sono 45€” disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole che lui non raccoglieva ed ignorava.
Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Kakà, di veline e altre donne uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da tre giorni, mentre nessun collega di lavoro lo stava ascoltando, come era normale quattro giorni prima.
Adesso il gestore era visibilmente contrariato, perché quell’uomo non solo parlava di temi che non lo affascinavano, ma stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.
“Mi dia 45€. E sposti la macchina, perché c’è coda dietro di lei” ribatté irritato e seccato con un mozzicone di sigaretta spento e unto di grasso, che faceva capolino tra le labbra serrate, senza prestare la minima attenzione al fiume che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.
Luca D’Astolfi era un piccoletto, che tendeva alla pinguedine dei suoi sessantasei anni, stempiato, ma forse sarebbe più corretto dire calvo, e tutto eccitato per aver raggiunto la pensione. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedeva benissimo anche senza, mentre in realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.
A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare parole, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò tutto offeso.
Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.

La prima guida

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare ai primi di ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro  permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre molti amici andavano in campagna a raccogliere la frutta ed altri partecipavano alla campagna bieticola nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino, che in realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scopersi quando morì che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti comuni, ai quali eravamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via, ma bensì reminiscenze scolastiche Penelope, Laerte o melomani Aida, Radames oppure esotici Widmer, Wilmer. Questa era una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite. Come d’incanto i neonati assumevano sembianze umane e da quel momento in poi credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali, finché non scoprivano il loro vero nome, che ignoravano tranquillamente fino al momento nel quale compariva nel necrologio: Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me era rimasto sempre lo zio Lino.
Accanto a questa curiosa abitudine ce ne era un’altra quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso ed inspiegabile. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica: da lì passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico, perché le autostrade sarebbe venute molti anni dopo. Quindi in luglio ed agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi  Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion ed aveva un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, chiamato “Pipi” era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare Pipi.
Confinante c’era una baracchina di legno verde dove si vendevano gelati Alemagna confezionati, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Comunque avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato, Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero sudato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi l’operazione si svolse liscia come l’olio, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta ed oliata e mi consentiva nei rari momenti di relax di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio” e mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità, ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte ad una situazione di pericolo o intricata.
La Topolino aveva la particolarità che per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Fatte poche centinaia di metri tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione ancora. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un favoloso semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano solo le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca ed arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me che ero in preda al panico e con le mani appiccate al volante era come scalare l’Everest a mani nude. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione senza altri inconvenienti di rilievo, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi tanto ero sudato per l’agitazione, con la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e con la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Però tutto questo svanì come per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida, molto più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e di avere maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

Disegni e arabeschi

Sopra di te il cielo
disegna figure
col ritmo della fantasia,
che si striano di luci e ombre.
Guardi e osservi,
ma non provi niente.
Pensi e rifletti,
 e senti un canto corale
che esce dalla mente.
Disegni e arabeschi si intrecciano
ora lenti ora veloci
seguendo il ritmo della fantasia.
Ti domandi:
‘Chi sei?’
e nulla è la risposta.
Chiudi gli occhi
e volano via
le nuvole striate di grigio e di bianco,
sfilacciate nel cielo azzurro
che imbrunisce
nello spirito.