Nota per i lettori

Gli ultimi tre post rimangono tali, perché sono sono stati pensati così.
Però mi hanno fornito un’idea, che non so se riuscirò a realizzarla come l’ho pensata.
Il post che segue rappresenta l’inizio e spero di riuscire a dare un seguito.
Vediamo strada facendo.

Micol e il viaggio

Era una sera di fine luglio, quando Micol prese la corriera “Korner Platz – Jenesien Gasthof Konig” come tutte le sere da due anni. Partì stracolma di persone dalla piazza sotto il monumento di Hofer come sempre a quest’ora della giornata.
Micol fu fortunata a trovare un posto vicino al finestrino abbassato passando sulle gambe di uno sconosciuto, che brontolò qualche parola in tedesco che non afferrò pienamente, quando si sedette dopo aver buttato lo zainetto sotto il sedile.
Lo guardò male senza aprire bocca, perché non le andava di parlare con uomini sconosciuti specialmente su questa corriera sempre piena di uomini e donne diversi.
La serata non prometteva bene, perché era rumorosa, piena di polvere ed offuscata dalla calura che opprimeva la città come una cappa di piombo fuso in attesa della brezza notturna. Le strade assolate erano invase da persone, che, abbandonati in fretta gli uffici torridi, cercavano ristoro nel loro appartamenti altrettanto infuocati. Quest’anno erano stati vietati i condizionatori per risparmiare energia, così la gente cadeva come mosche sotto il sole che picchiava implacabile. Per fortuna all’imbrunire un vento gelido incuneato tra le strette vallate di Sarnital raffreddava l’ambiente mentre alle persone era consentito di respirare.
Micol era giovane e robusta e sopportava meglio di altri la calura di una estate ardente come il fuoco che scoppiettava allegro nella stufa di maiolica posta nel centro della stanza da pranzo.
Era bello sedersi intorno appoggiando la schiena al caldo durante le lunghe veglie d’inverno, mentre fuori fioccava le neve e il vento disperdeva i fiocchi.
Aveva venticinque anni e da due sopportava quel viaggio che la portava tutti i giorni in centro città con qualsiasi tempo. Quando faceva molto freddo e le strade erano lucide lastre di ghiaccio sporco, incrociava le dita per scaramanzia e ringraziava il santo protettore che era sempre al suo fianco ad ogni tragitto.
Era tutto sommato una ragazza appena fuori dal bello col viso rotondo e paffutello, dove spiccavano due grandi occhi verdi, e dalla statura che tradiva le origini non tirolesi. Aveva imparato il tedesco alla scuola materna delle Marcelline, dove era stata accettata con grandi sforzi e suppliche perché era l’unica di lingua italiana. Aveva sempre mal sopportato quello sdoppiamento della personalità, ma adesso ringraziava di cuore quella scelta, perché era una bilingue perfetta.
Quella sera era cominciato male il viaggio di ritorno, perché la calura aveva eccitato gli animi, divenuti irritabili e irascibili per un nonnulla come le cime rosseggianti che facevano conca alla città. All’interno c’erano sicuramente oltre quaranta gradi, pensava mestamente Micol col sudore che appiccicava la camicetta alla pelle, e senza un alito di vento per allontanare quel lezzo di cipolla mischiato al disgusto del vino, che i vicini emanavano senza troppo ritegno.
L’uomo sconosciuto al suo fianco continuava a guardarla con un’intensità sospetta, come se la volesse spogliare, mentre lei imprecava contro tutta quella gente che si ammassava come bestiame sulla corriera.
Sporgeva la testa fuori dal finestrino per quel tanto che poteva dalla sua posizione cercando di captare qualche bava d’aria rovente. Si sentiva osservata, ma non poteva fare nulla per togliersi da dosso quelle punture che l’occhio generava sulla pelle.
Le sembrava di giacere nuda su un lenzuolo, su una lastra di metallo o di marmo, scrutata da mille sguardi di persone ignote e sconosciute, pronte a toccarla, a far scivolare le mani sulla pelle come le gocce di sudore che scendevano e rotolavano in minuscole perline bagnate tra i seni e dietro la schiena.
La lingua pareva ingrossata tanto faticava ad uscire dalla bocca per umettare le labbra screpolate e disidratate, perché aveva finito da tempo la scorta di acqua che portava nello zainetto.
Il viaggio fu lungo e penoso tra imprecazioni, bestemmie e rutti di gente ubriaca e nervosa che litigava col vicino senza ritegno, mentre Micol era riuscita a tenere abbassato il finestrino che faceva entrare a fiotti aria fresca che le scompigliava i capelli neri.
Lentamente l’uomo sconosciuto si avvicinava a lei, che si addossava al finestrino come un’acciuga marinata. Ormai era immobilizzata, mentre ansia e terrore scendevano come una cappa di gelo sul corpo accaldato e sudaticcio, ed avvertì una mano che frugava sotto la camicetta e l’altra che tentava di insinuarsi nei jeans.
Micol era un animale braccato dai cani e rintanato in un pertugio senza uscita, perché anche se avesse gridato nessuno l’avrebbe ascoltata.
Lo lasciò armeggiare per qualche istante, mentre studiava una via d’uscita: altri posti liberi non c’erano, ma vicino all’autista c’era un minuscolo spazio. Forse era lì la sua salvezza.
Con mossa improvvisa afferrò con una mano lo zainetto sotto il sedile e con l’altra abbrancò saldamente i testicoli dell’uomo che urlò dal dolore mollando la presa.
Tutti si girarono mentre i suoni svanivano fuori dai finestrini per capire chi aveva strillato quel rumore sguaiato.
In un baleno Micol si portò vicino all’uscita pronta a scendere per raggiungere la casa di corsa e con la speranza di sfuggirgli.
L’uomo accasciato sul sedile ululava dal dolore con gli occhi pieni di lacrime ed arrossati dalla collera, perché la preda era momentaneamente fuggita. Barcollando tra spintoni e bestemmie cercò di avvicinarsi a Micol, ma per sua sfortuna incrociò una persona alticcia che gli mise le mani addosso.
L’alterco durò quel tanto che le permise di scendere e vedere la chiusura della porta alle spalle, mentre si avviava col cuore in gola verso casa. Si fermò un istante per esaminare chi c’era alle spalle, mentre vide l’uomo sconosciuto che gesticolava con l’autista nel tentativo di aprire la porta.
Micol s’affrettò leggera come una piuma verso l’intrico dei vicoli stretti che la inghiottirono tra le ombre calanti della sera. Conosceva ogni anfratto, ogni pertugio tra case e staccionate, dove bambina aveva giocato a nascondino per molte estati, e si sentiva ormai al sicuro.
Chiuso il portone di casa con qualche affanno e sospiro di sollievo, rifletté che era ormai giunto il momento di sospendere quei viaggi.