Capitolo 7

Giacomo, dopo essersi accomiatato da Giulia e Ginevra, dandosi appuntamento per la sera, cominciò a girare per le vie intorno alla Cattedrale.
Era smarrito perché non riconosceva quasi nulla né vie né abitazioni. Una carrozza chiusa lo attendeva nei pressi di Palazzo Paradiso per riportarlo a casa.
“Quale casa?” si domandò perso mentre percorreva via Gorgadello facendo attenzione ai numerosi rigagnoli che come torrentelli scorrevano verso il Palazzo Ducale.
“E a casa chi troverò? Una moglie? Dei figli? Fratelli e sorelle?” continuava a riflettere un po’ angosciato.
Il timore di non sapere cosa avrebbe trovato, la quasi certezza di non conoscere il proprio cognome erano il viatico che gli faceva compagnia in questo girare in una città che non riconosceva come propria, almeno in gran parte. Percorse un tratto di strada verso la chiesa di San Francesco, che scorgeva in lontananza. Qualcosa di familiare finalmente gli rischiarò la vista.
“Quale palazzo mi ospiterà stasera? Qui sembrano tutte nuove costruzioni. Giulia ha parlato di quello che occupa un isolato in Voltapaletto. Però qui sono tutti immensi e freschi di calce. Il cocchiere saprà condurmi sicuramente a quello giusto. Mi sento fuori posto, anche se pare che tutti facciano a gara per mettermi a mio agio”.
La sera declinava rapidamente e le strade diventavano buie in fretta. Giacomo si affrettò a tornare dove stazionava la carrozza. Non si sentiva sicuro nell’oscurità incipiente.
“A casa” disse una volta salitovi mentre si abbandonava sul comodo sedile di raso rosso. “Tanto lui sa dov’è la mia casa in questa epoca. Io no”. Era una sensazione strana quella di non conoscere chi era in questa epoca.
Lentamente si avviò verso la Zuecca che risalì per uscire da Porta San Giovanni. Quello che lo stupiva era che la strada era più stretta di quel che ricordava. Adesso era un immenso cantiere sia a destra che a sinistra, che confondeva i suoi ricordi. Raggiunse la porta che era già chiusa e vigilata dal corpo di guardia. All’imbrunire dunque le porte cittadine venivano sprangate fino al sorgere del nuovo sole. La carrozza si fermò, mentre il cocchiere confabulò col capitano. Un lento cigolio avvertì Giacomo che i soldati stavano aprendo il portone per consentire l’uscita. Percepì che si era rimessa in moto dall’andamento saltellante delle ruote sul terreno irregolare.
Scostò la tendina per scrutare fuori ma osservò solo buio e un accenno di bruma che si levava dai campi. Le strade gli erano sconosciute o quanto meno non identificabili con quelle che conosceva. Qualche misera abitazione sorgeva qua e là ai bordi ma su tutto regnava oscurità e foschia.
Si domandava come il cocchiere riuscisse a guidare senza perdersi ma in particolare si chiese con quale coraggio avrebbe affrontato il percorso inverso per raggiungere il luogo del convivio.
Lui continuava a sentirsi fuori posto ma scacciò questo pensiero, perché voleva scoprire le motivazioni per le quali era piombato in un secolo che non gli apparteneva. Si concentrò sui rumori che ascoltava. Per le azioni ci sarebbe stato tempo.
Il lento battere degli zoccoli del cavallo, il cigolare delle ruote sul terreno irregolare, gli sbalzi della carrozza sulle asperità della strada furono i compagni di viaggio di Giacomo, immerso nei suoi pensieri.
Avvertì che la carrozza si era fermata di nuovo.
“Siamo arrivati?” rifletté scrutando fuori. La sagoma di una chiesetta compariva alla sua destra, mentre in lontananza si vedevano dei fuochi tremolanti che illuminavano un viottolo.
Il cancello cigolante si aprì e la marcia fu ripresa.
“Messer Giacomo, siamo arrivati” udì la voce ormai familiare del cocchiere mentre si apriva la porta per scendere.
Giacomo osservò la facciata della sua abitazione senza riuscire a memorizzare nulla.
“Ci sarà tempo per osservarla meglio. Ora le ombre impediscono di vederne i contorni”.
Accompagnato da un domestico con un grande candelabro raggiunse quella, che suppose, fosse la sua stanza.
Una graziosa serva gli portò dell’acqua calda e gli disse: “Madonna Isabella vi aspetta nelle sue stanze”.
L’informazione lo fece riflettere.
“Dunque sono sposato”. Era una nuova indicazione che si aggiungeva alle altre. Lentamente il mosaico avrebbe mostrato il disegno complessivo.
La ragazza, vestita con panni di lana ruvida, l’aiutò a togliersi il mantello e il farsetto. Poi versò l’acqua in un bacile elegante e dai riflessi metallici, invitandolo a immergervi i piedi che strofinò con forza.
Giacomo si domandò chi fosse questa serva e le chiese chi era, perché gli sembrava un viso nuovo.
“Sono Ghitta, messer Giacomo, per servirla” rispose pronta mostrando un viso furbo e pulito.
“Zucola mi ha assegnato a lei in sostituzione di Lorenzo, che è stato arruolato nell’esercito del Duca”. Precisò con una punta di orgoglio.
“Zucola? Lorenzo? E chi sono costoro? Servi? Domestici? Qui tutto si complica e si fatica a capire il nesso tra nomi e mansioni” rifletteva Giacomo, sbottonando un corpetto con le maniche.
La ragazza continuò a parlare, a spiegare mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti.
“Sono la figlia di Antonio, un contadino di messer Ercole, vostro fratello. Oggi è il mio primo giorno. Sarò la vostra cameriera personale”.
Giacomo si fermò un istante a riflettere perché oltre che a una moglie aveva anche un fratello.
Ghitta afferrò la calzamaglia per sfilarla e nel farlo toccò le parti intime emettendo un gridolino tra lo stupore e la gioia.
“Quanti anni hai?” le chiese, un po’ infastidito, anche se quel tocco aveva risvegliato qualcosa di sopito.
“Diciotto, messer Giacomo. E non sono ancora maritata perché mio padre non ha i soldi della dote” rispose pronta.
Raccolse tutti gli indumenti e sparì velocemente in una porta.
C’era qualcosa che non quadrava mentre era rimasto praticamente solo con un camicione di lana.

Ma il tempo scorre

Ma il tempo scorre

Mostrador de um relógio Foto de Jose Goncalves D

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Il tempo scorre

tra le mani,

scivola via

veloce

così il presente

è già passato,

come il futuro

si fa presente.

Vorrei fermare

il tempo,

ma non posso.

Vorrei retrocedere

il tempo,

ma non riesco.

Così in un soffio

scappa

e mi lascia qui

senza te.

Capitolo 6

Castello Estense, salotto ducale. Vespro stesso giorno
 
Alfonso entrò nello studio ducale per vedere lo stato dell’arte. Era rimasto solo la sua sedia “Savonarola” nella stanza. Ponteggi e pitture ovunque, il salotto ducale era un cantiere aperto. Una squadra di pittori era all’opera per affrescare il soffitto. Si intravvedeva il disegno, appena abbozzato. Tutta l’area intorno alla torre Marchesana e nella via Coperta era un laboratorio, una fucina per ridisegnare i suoi appartamenti.
Si sedette a contemplare l’opera, che prometteva bene, ma la mente era occupata da un altro pensiero: Laura, la figlia del berrettaio.
“E’ una donna che emana forza e tranquillità. Nessun timore. Ha tenuto sempre gli occhi puntati verso di me senza mai abbassarli. Mi ha stregato”.
Si stupiva nel formulare questi pensieri. Era la prima volta che una donna generava in lui queste riflessioni.
Il Duca guardava il soffitto senza vedere niente mentre la mente associava Lucrezia.
“E’ sempre stata disponibile ma ora dopo otto gravidanze e faticose maternità la sua salute è sempre più un’incognita e fatica a riprendersi. E’ ancora una bella donna ma va declinando. Non riesco a comprenderla perché ha abbracciato il terz’ordine francescano, legandosi ai seguaci di San Bernardino e Santa Caterina. Sembra che voglia espiare delle colpe delle quali sicuramente si è macchiata nel passato, ma  che non mi interessano”.
I suoi pensieri erano rivolti solo all’unione carnale, a tenerla occupata nel governo della famiglia e del ducato, quando lui si doveva assentare per seguire una guerra o perorare una causa dei suoi possedimenti. Un sorriso comparve sul viso bruciato dal sole, mentre ricordava che in quasi quindici anni di matrimonio aveva generato quattro figli ancora in vita, l’ultimo dei quali era nato solo l’anno prima. Il ducato era salvo, perché la discendenza era assicurata: il papa, del quale era feudatario per Ferrara, non poteva revocare l’investitura agli eredi naturali, anche se era in corso un nuovo braccio di ferro con Clemente VII per i possedimenti modenesi. La scomunica era stata tolta ma stava ancor lottando per riottenere i territori di Modena e Reggio.
Dunque non era il pensiero di Lucrezia che lo tormentava ma la caparbia volontà di opporsi alle mire del Papa sul suo ducato.
“Ho accettato di sposare Lucrezia perché era la figlia del potente Papa Borgia ma in verità non ne ero molto felice. E’ vero che ha portato in dote una montagna di fiorini d’oro ma la sua bellezza è stata come un fiore che attrae le api. Ora questi pensieri sono svaniti perché non temo più che si svii. L’ho domata, imbrigliata ma è diventata passiva, Non c’è più gusto di passare le notti con lei. Devo ammettere che mi ha concesso un bel erede”.
La fugace immagine di Ercole, il primogenito passò nella sua mente. Lo vide, nonostante i suoi otto anni, forte e robusto, dal carattere risoluto e già sufficientemente scaltro nel farsi valere. “Sarà il mio successore alla guida del ducato quando Dio mi avrà richiamato a sé”.
Si domandò meravigliato le motivazioni di queste associazioni, che erano state avviate dal solo pensare alla donna vista nella mattinata, neppure logicamente correlate tra loro. Era un vagare  saltando da una considerazione all’altra sul filo della ragione.
Adesso però i suoi pensieri erano tornati a concentrarsi su Laura, la giovane dalla personalità forte e indipendente, che in qualche modo l’aveva attratto. Era titubante nel lanciarsi in questa nuova avventura.
“Perché?” si domandò mentre continuava a fissare inutilmente il soffitto.
Doveva riconoscere che Lucrezia aveva dimostrato delle capacità politiche, insospettate in una donna ed era molto amata dai ferraresi che vedevano in lei oltre la bellezza anche la bontà d’animo verso i poveri.
“Abbiamo gusti differenti in tema di arte. Lei si è circondata di poeti e letterati mentre io ho chiamato grandi pittori e scultori per abbellire i camerini del mio appartamento sopra la via Coperta. Io preferisco l’arcigno Cosmè Tura, lo scarno e rarefatto Ercole de’ Roberti, il potente Dosso Dossi, il sereno ma maschio Lorenzo Costa, mentre lei adora le dolci pennellate del Garofalo per decorare le sue stanze. Ma perché mi ritrovo a rincorrere questi pensieri?”.
Tutti questi turbinii di considerazioni avevano travolto Alfonso distraendolo dalla visione di come procedeva l’affresco del soffitto.
Però tornava con la mente alla mattina quando si era recato da Francesco, il berrettaio, con la scusa di ordinare un cappello da usare nelle prossime feste di carnevale.
Dunque era Laura il centro dei suoi pensieri, mentre il divagare su Lucrezia era solo un diversivo. Doveva rifletterci ma percepiva di essere stranamente incerto, lui che non aveva minimamente disdegnato di accoppiarsi anche con donne del mestiere.
Ancora una volta gli tornò prepotente alla mente Lucrezia e decise di rendergli omaggio prima di coricarsi.
Percorsi i corridoi che lo conducevano all’appartamento della moglie, la trovò intenta a giocare coi tarocchi nella sala dei Giochi.
“Madonna Lucrezia” esordì Alfonso sedendosi tra lei e Laura Rolla.
“Come state? Mi pare che abbiate una buona cera. Chi vince? E quale premio toccherà in sorte alla vincitrice?”.
“Va meglio, mio Signore” replicò serenamente la duchessa.
“Nulla. Giochiamo per ingannare il tempo prima di coricarci per il riposo notturno. Ma ora scusatemi” e si alzò diafana uscendo dalla sala.
Il duca rimase pensieroso faticava a comprenderne l’atteggiamento. Il suo temperamento robusto gli impose di salutare la compagnia delle donne che stavano con Lucrezia e rientrare nel proprio appartamento senza attenderne il ritorno.

Il campo

Il campo

La terra è mossa

in un ammasso di zolle scure,

come i pensieri

nella mia mente.

Gruppi di uccelli

banchettano felici

tra blocchi di terra

come la mia anima

si ciba di te.

Il seme del grano

scende in profondità

a mettere le radici,

come l’amore

aligna nel mio cuore.

Hai sognato questo libro?

Di solito non faccio pubblicità a qualcosa, ma a questo romanzo edito da pochi giorni sì. L’ho letto quando ero ancora un manoscritto grezzo, ho discusso con l’autore su quello che secondo me non andava. Adesso è un qualcosa di concreto e sono lieto di spendere queste poche righe perché qualcuno lo compri.
un romanzo politico di oroscopi e tarocchi.
Il romanzo surrealista di un premier travolto dagli scandali e di un’opposizione imbelle. La ribellione del ragazzo autistico che si sbava addosso. L’antiutopia di una misteriosa città sconosciuta le cui arterie si chiamano Prenestina e Lungotevere, e secoli prima vi erano state costruite, in vista di un Giubileo, chiese dove oggi si ritrovano gli scoppiati e si tengono performance di artisti visionari.
L’evoluzione della psicanalisi in un futuro in cui il concetto di persona non è più legato a quello di individuo. Un gattopardo del futuro in cui imprese multinazionali e servizi deviati vogliono cambiare tutto per non cambiare niente.
Sono le prime frasi della prefazione scritta da iQuindici per il romanzo La Comunità dei Sogni di Daniele Vazquez, appena uscito in libreria per i tipi di Gilgamesh Edizioni, piccola e coraggiosa casa editrice mantovana di qualità che ha incrociato la nostra strada nel fortunato momento della scoperta di questo romanzo.
A noi il racconto di Daniele è piaciuto moltissimo: 380 pagine che filano via lisce come l’olio, spiazzandoti di continuo per la loro visionaria verosimiglianza paradossale . Ed è piaciuta moltissimo la scelta sua e dell’editore di pubblicare sotto licenza Creative Commons!
Per questo a breve sarà scaricabile dalla nostra Biblio Copyleft, ma nel frattempo vi invitiamo a comprarlo: dall’editore non avrete nemmeno il fardello delle spese di spedizione!

E allora che aspettate? La traiettoria di una fuga non è falsificabile: e tu scappi o resti?!

Capitolo 5

Ferrara, mattina del !6 Gennaio 1517
A metà della strada in leggera salita, che da Piazza di Porta Paola portava verso il Baluardo di Santa Maria, c’era una bottega bassa dove un berrettaio di nome Francesco fabbricava copricapo per nobili e popolani con l’aiuto della figlia Laura.
La stanza dava direttamente sulla strada, riparata solo da una pesante tenda. Spifferi e odori maleodoranti entravano a gelare lui e la figlia intenti a preparare un cappello per le feste del prossimo carnevale.
Laura era una giovane donna di circa sedici anni, allegra e vivace, che per alleviare gelo e fatica canticchiava uno scioglilingua

I luin a tel dag mi
par ca se ta ti to ti
ti ta ti to tutti ti ta ti to.[1]

Era una bella ragazza dai lunghi capelli corvini, che erano raccolti sulla testa secondo le tradizioni delle donne di basso rango, e dalle guance perennemente rosse per il freddo. Stava accanto a un braciere per meglio riscaldarsi, facendo attenzione di non bruciacchiare la stoffa con qualche favilla sprigionata dalla legna.
Vestita rozzamente come una popolana con una pesante zimarra bianca di lino grezzo senza maniche sopra una tunica di panno di ruvida lana colorato, metteva in risalto la delicatezza del viso, il corpo minuto e il seno appena pronunciato.
Era riuscita a non diventare una sposa bambina, come molte altre coetanee che adesso erano sfiorite da gravose gravidanze e da una faticosa conduzione della casa.
La fama della sua bellezza circolava per il ducato, tanto che qualche nobile con la scusa di assumerla tra i domestici ci aveva provato con qualche avance, ottenendo il fermo diniego suo e del padre.
“Piuttosto che finire come Anna entro in convento come mia sorella!” diceva sempre alle amiche, che ridevano delle sue affermazioni. Erano convinte che alla fine avrebbe ceduto finendo in qualche casa patrizia come l’amante di un ricco nobile.
“Sei troppo bella per rimanere libera in attesa dell’uomo dei tuoi sogni” replicavano ironicamente.
Lei era determinata nel suo obiettivo: sposare una persona che l’avrebbe trattata come un essere umano.
Suo padre preferirebbe che rimanesse nella bottega, perché era veramente abile nel cucire insieme i vari pezzi che formavano il copricapo. Per questa sua abilità il lavoro non mancava, anche se i guadagni erano scarsi. C’erano sempre in cassa qualche diamante o delle mezze lira di Ferrara per le necessità correnti ma niente di più. Se arriva uno scudo o un fiorino d’oro, era festa grande ma erano una rarità. Vivevano modestamente coi pochi soldi che ricavavano dalla confezione di berrette secondo la moda francese o di feltri di velluto spagnoleggianti.
Laura continuava a modulare la filastrocca come se fosse una dolce ninna nanna, quando emerse dalla tenda che divideva la stanza dalla strada un uomo vestito elegantemente con un vestito di raso rosso e blu e una cappa di ermellino bianco per proteggersi dal freddo.
Il padre si alzò immediatamente in segno di deferente ossequio. Aveva riconosciuto immediatamente che la persona, entrata nella sua bottega, era il Duca di Ferrara.
“Mi hanno detto che qui preparate i migliori berretti del ducato” disse senza troppi preamboli osservando la figura minuta di Laura che continuava il suo lavoro senza degnarlo di uno sguardo.
“Se vi hanno detto così, me ne compiaccio. Come posso servirvi, mio amato Duca?” domandò Francesco non dissimulando imbarazzo e deferenza.
“Dunque è questa giovane dama, quella dalle mani d’oro?” proseguì ignorando la risposta del berrettaio, mentre concentrava la vista sulla ragazza.
Laura sobbalzò e rimase muta, sbiancando in viso prima di imporporarsi per il turbamento che le parole avevano provocato. Il freddo era sparito sostituito dal caldo dell’emozione per la presenza del Duca e perché si rivolgeva a lei senza mezzi termini. Lo guardò con attenzione perché era la prima volta che poteva osservarlo da vicino. Un uomo, senza dubbio affascinante, con una folta barba ben curata e un viso abbronzato e duro che emanava una forte virilità. Il suo cuore prese a battere furiosamente, perché aveva compreso che la visita era per lei e non per l’attività che svolgevano.
Si alzò, avvicinandosi per inginocchiarsi come deferente omaggio alla persona.
Il Duca rise, alzandole il viso con la mano guantata. La fissò negli occhi scuri, invitandola a mettersi ritta.
“Dunque siete voi, la fanciulla della quale mi hanno decantato le doti. Come vi chiamate?”
“Laura. Laura Dianti detta Eustochia, mio signore”.
Alfonso aggrottò un sopraciglio per la risposta senza approfondire il motivo di quel sopranome. La trovava fresca e bella, risvegliando in lui delle sensazioni che parevano affievolite dopo quindici anni di matrimonio con Lucrezia.
“Mastro Francesco vi ordino di preparare un cappello a falda larga per le cerimonie del carnevale che cominciano tra venti giorni. Verrò tra due giorni per la prima prova” disse continuando a fissare la ragazza senza lasciarle la mano.
“Che tipo di cappello, mio signore?” replicò timidamente l’uomo.
“Quelli dell’ultima moda, alla francese. Per il colore mi fido della sensibilità di questa fanciulla” e si girò dirigendosi verso l’apertura.
Dalla tenda svolazzante Laura vide Alfonso circondato da un drappello di soldati che si stavano allontanando verso una carrozza che stava aspettando.
La mente era in subbuglio, il cuore continuava a battere impetuosamente, al freddo era subentrato un calore in tutto il corpo tanto che, se avesse potuto, si sarebbe tolte le vesti.
“Il Duca ha messo il suo occhio su di me” si disse mentre il padre in agitazione parlava e si muoveva con frenesia.
“E’ un uomo affascinante che strega chiunque lo avvicini”.
Il berrettaio chiamò ad alta voce la moglie.
“Paola. C’era il Duca nella mia bottega!”
Laura nel mentre percepiva sensazioni contrastanti senza riuscire a collegarle logicamente tra loro.
“Oggi è accaduto qualcosa di straordinario. Un incontro che lascerà un’impronta nella mia vita”.
Rifletteva ignorando le voci concitate dei genitori.


[1] Traduzione
I lupini te li do io,
perché se te li prendi tu
tu te li prendi tutti,
tu te li prendi.

Arcobaleno

Arcobaleno

Nella magia dell’arcobaleno,

che colora

il cielo ancora imperlato di pioggia,

vado alla ricerca

della radice della vita.

Inseguo un sogno,

la fantasia vola,

ma la radice non si trova.

Sfuma sull’orizzonte,

là dove declinano i campi,

tra alberi e campagna,

appena accennato.

Ma il sogno resta

e le radici della vita

si trovano,

là dove nasce l’arcobaleno.

Capitolo 4

“E’ un grande onore per noi avere come ospite a questo tavolo l’illustre ingegnere del nostro amato Duca” disse la contessina Giulia.
Giacomo rimase in silenzio, metabolizzando questa nuova informazione, che apriva uno spiraglio sulla sua posizione sociale.
“Dunque io sono l’ingegnere del Duca? Di quale Duca?” ripeteva mentalmente prima di riacquistare la parola.
“Contessina Giulia, il piacere è tutto mio, sono onorato dalla vostra presenza e lusingato dal vostro invito”.
“Vi prego, messer Giacomo. Non chiamatemi contessina. Semplicemente Giulia” replicò arrossendo leggermente la ragazza.
“Come volete voi, dama Giulia”.
Poi allungò una mano verso l’altra donna nella speranza che si tradisse, dichiarando la sua identità.
Lui cercava di mascherare come ignorasse in quale anno si trovava catapultato a sua insaputa. Questo gli dava una sensazione di incertezza che lo rendeva insicuro nelle parole e nelle azioni. Il percorso della conoscenza era tortuoso e buio e non mostrava nessuna luce in fondo al tunnel. Solo qualche lampo a sprazzi.
Ragionando sull’informazione di prima, dedusse che doveva essere uno compreso tra il 1506 e 1598, quando la casata d’Este era stata costretta a traslocare a Modena.
“Quasi un secolo! Non è uno scherzo quanti avvenimenti si sono succeduti in quegli anni” rifletteva con un filo di apprensione.
“E voi, dama ..” e fece una pausa sperando nel soccorso di una parola amica.
“.. Perché portate i segni del lutto?” proseguì Giacomo, prendendole una mano per baciarla come si soleva fare nel porgere un omaggio deferente.
“Madonna Ginevra è rimasta vedova da pochi mesi. Io la ospito per riprendersi dal dolore”. Gli venne in soccorso la contessina.
“Sono profondamente addolorato per la grave perdita del vostro consorte. Dunque vi trattenete per qualche tempo a Ferrara. Spero che vi troviate a vostro agio”.
La donna annuì in segno affermativo e lo ringraziò per le buone parole che stava spendendo. Si limitava a parlare solo se sollecitata, ascoltando in silenzio il dialogo tra Giacomo e Giulia.
Giacomo, presa confidenza e sicurezza, propose di avvicinarsi al camino, dove bruciava un gran ciocco che scoppiettava allegro.
“Qui la vista è piacevole ma il calore stenta ad arrivare. Oggi è una rigida giornata invernale e si sta meglio accanto al focolare”.
Usava parole ambigue per non incappare in qualche svarione che lo avrebbe messo in difficoltà. Però non erano le parole o la conversazione che lo atterrivano ma piuttosto dove avrebbe mangiato a mezzogiorno e dormito stanotte. Ignorava completamente dove avesse l’abitazione o meglio lui conosceva dove abitava nella sua epoca  e non in questa, dove era finito.
Nel suo mondo c’erano diverse trattorie nei dintorni ma non era scontato che ce ne fossero altrettante anche in questo. Si guardò il polso sinistro come se portasse l’orologio ma non vide altro che lo sbuffo di pelliccia che fuoriusciva dalla manica.
“Chissà che ore sono? Qui le cadenze sono scandite secondo altri ritmi. Il levare del sole e il passaggio dalla luce al buio. Tra questi due estremi variabili giorno per giorno si dipana la vita quotidiana”.
Erano questi i pensieri di Giacomo mentre Giulia continuava a parlare. Si era perso altrove, non ascoltando quello che la donna diceva.
“Sta attento alle parole e non divagare su altri argomenti, perché ..”
“Cosa ne pensate, messer Giacomo?” furono le ultime parole che arrivarono come un fulmine a ciel sereno.
Lui deglutì a fatica e doveva ammettere che si era distratto.
“Vi prego, messer Giacomo, di essere nostro ospite alla cena di messer Cristofaro, il cuoco del nostro Duca” gli venne in soccorso Ginevra.
“Proprio il famoso cuoco Cristofaro Messi che organizzerà un banchetto nella mia dimora in Strada per San Francesco. Ci terrei molto alla vostra presenza” rimarcò Giulia vedendo l’occhio smarrito e dubbioso di Giacomo.
“Il vostro invito mi coglie di sorpresa e mi lusinga molto, dama Giulia. Ebbene, visto che avete perorato con molto calore che io presenzi con la mia persona nella vostra augusta dimora, sarò lieto di sedermi alla vostra tavola. A che ora?”.
“Due tocchi dopo il vespro inizia il banchetto. Ma voi potete anche essere nostro ospite prima”.
Un tocco forte risuonò nella stanza a indicare un botto dopo mezzodì.
Giacomo preso il coraggio a due mani, dopo avere fatto tintinnare le monete nel tascapane, chiese loro di fargli compagnia nel pranzo del mezzogiorno, qualora fossero libere da impegni. Per la trattoria sarebbe andato a caso.
“Bella idea, messer Giacomo! Mi hanno detto che nella via della Gatamarcia c’è una trattoria gestita da un’ebrea, Balebusta, dove si possono gustare i loro tipici piatti. Non ho mai avuto il coraggio di avventurarmi per quelle vie del ghetto, che dicono poco raccomandabili. Però con voi la percorro con animo sereno”.
“Ebbene, sento un certo languore e l’ora mi sembra propizia” disse alzandosi.
Con galanteria aiutò le due donne a sistemarsi. Salutato con la mano il paggio si diressero verso la trattoria continuando i discorsi interrotti.

Libri e pensieri

Libri e pensieri

(immagine tratta da wx1.org un sito di libri usati)

Fogli che muovono

l’aria,

lettere

che escono

per formare

parole

e sapere.

Si sente

il fruscio

della tua presenza,

che aleggia

leggera

sopra le nuvole bianche

del cielo.

Ecco il sapore

del sapere.

Capitolo 3

«Dove sono finito?». Era questo il pensiero fisso di Giacomo. Tutto gli appariva antico, come se fosse stato proiettato in un mondo gestito dalla macchina del tempo a ritroso.
Sfogliava un libro vecchio di cinquecento anni, stampato con curiosi caratteri e scritto in un latino diverso da quello studiato sui banchi di scuola molti anni prima.
Però un particolare continuava a ballare nella mente.
“Come fa a conoscere il mio nome quell’inserviente, curiosamente vestito da paggio, che monta la guardia alla stanza?”.
Era quel «messer Giacomo» che continuava a torturarlo. E poi chi erano quelle due dame dell’apparente età di venticinque anni, che continuavano a fissarlo e a parlare sottovoce. Lui percepiva solo un brusio formato da minuscole parole. Sentiva sulla pelle il loro sguardo.
Per allentare la tensione guardò fuori dalla finestra e vide un enorme albero che campeggiava nel cortile. Dalle foglie gli pareva una magnolia, mentre il cielo era di un azzurro intenso senza nessuna nuvola appesa in alto. Eppure ricordava una mattina fredda e nebbiosa, mentre ora risplendeva un pallido sole.
I rigori erano quelli di gennaio ma l’anno non era quello della sua epoca. Tutto era fuori fase come la sua mente confusa e incerta.
“In quale anno sono finito? Sicuramente dopo il “ e osservo il dorso di cuoio dove era stampigliata una data in caratteri romani: MDVI.
“.. 1506 è l’anno di stampa. Quindi sono negli anni successivi. Ma quale? Due, tre o dieci anni? Oppure cento? A chi potrei chiederlo? Ma forse è meglio ignorare e fingere di saperlo”.
Chiuse il grosso volume e osservò ancora una volta la sala.
Le due dame continuavano a parlare sottovoce coprendo la bocca con un elegante ventaglio d’avorio e piume di struzzo, che lasciava scoperti solo gli occhi.
Giacomo pensò che stessero parlando di lui ma ne ignorava il motivo. Per lui erano due belle donne e nulla più. Pensò che fosse riduttivo il solo pensiero che fossero due belle ragazze, perché in effetti da quello che aveva intravisto erano due bellezze diverse ma che avrebbero acceso la passione di molti uomini. Rifletté che avrebbero potuto essere le sue figlie, se specchiandosi nel vetro della finestra non avesse visto la sua immagine molto ringiovanita.
Rimase sbigottito e perplesso. Il vetro leggermente imperlato di ghiaccio rimandava un viso giovanile con uno strano copricapo di velluto rosso. Gli ricordava quelli visti a Palazzo Schifanoia diversi anni prima. Si toccò la testa che effettivamente portava qualcosa che lui non sapeva. Lo tolse per esaminarlo. La foggia era pertinente a quella dei suoi ricordi. Lo rimise prontamente sul capo, perché il freddo nella sala era pungente. Il fuoco del camino era insufficiente a riscaldare la grande stanza.
Si toccò il viso per sentire la morbida peluria della barba non troppo lunga nemmeno troppa corta, esattamente come la ricordava. Qualcosa tornava e combaciava con i suoi ricordi.
Però erano troppi i quesiti irrisolti per risollevargli il morale. Le mani erano fredde, perché aveva tolto i morbidi guanti di capretto, foderati di agnello. Portava un farsetto rosso di raso rifinito sui bordi di calda pelliccia bianca e una pesante calzamaglia nera. Nonostante fosse ben coperto sentiva insinuare sotto gli abiti un senso di gelo che gli faceva accapponare la pelle. Un brivido percorse la sua figura.
A rifletterci gli pareva di essere ridicolo vestito così. Però forse sarebbe passato inosservato oppure sarebbe stato ammirato per la sua eleganza, perché tutto era fuori tempo come le dame, agghindate con una foggia cinquecentesca, e il paggio posto a guardia dell’ingresso.
Ancora una volta si pose il quesito in quale epoca era finito e il perché ci era finito. Però non trovava spiegazioni logiche a parte la fantasia che fossero stati quei fantasmi che aleggiavano intorno a lui prima di piombare in un secolo che non era il suo.
Si frizionò con vigore le mani che erano diventate dure come il ghiaccio prima di rimettere i guanti. Sistemò il giustacuore e il piccolo borsello legato in cintura, mentre si avvolgeva nel mantello di ermellino per meglio proteggersi dal freddo.
Tornò a osservare le due donne, che sembravano più a loro agio nel gelido ambiente. Uno sguardo complice scoccò tra lui e quella coi capelli scuri e il viso rotondo. Gli parve di riconoscere un implicito invito ad andare da loro.
“Fantasie, Giacomo. Fantasie” si ripeté continuando a fissarle.
“Perché mai dovrebbero aspirare alla tua compagnia? Loro ti guardano perché sei la sola persona presente in questa gelida sala”.
Distolse lo sguardo ma percepì il loro su di lui e tornò a osservarle, quando la più giovane avvolta in un mantello di volpe rossa si alzò muovendosi verso di lui.
La lingua gli pareva che si fosse seccata mentre deglutiva vistosamente.
“Messer Giacomo” disse con tono lieve la dama.
“Sì” fu l’unica risposta che gli uscì dalle labbra.
“Messer Giacomo, la contessina Giulia la invita al suo tavolo” e allungò una mano per pregarlo a seguirla.
Giacomo si alzò e con un inchino omaggiò la dama.
Adesso conosceva il nome della sconosciuta. Era ancora poco ma un passo alla volta e avrebbe scoperto dove si trovava e il perché.