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I blogger autori sono cresciuti di numero e quindi non sempre sarà possibile pubblicare un post al mese. Quindi ho pensato di trasferire il mini racconto che scrivevo per Caffè Letterario sul mio vecchio blog nato sulle ceneri di Window space. Ricomincerò dal primo capitolo e li ripubblicherò tutti, aggiungendo quelli nuovi. Qui su Caffè Letterario metterò solo racconti singoli.
La prima puntata è al seguente indirizzo.

Dalla finestra si scorgeva ..

Solo io per te

.. ma piano, piano, piano
scende la sera come un niente
lenta, che accosta il ribollire
dei ricordi.
 
Sarà dolce la notte
e il suo vegliare
sulle tue labbra, amore
mio lontano
nel tempo e nello spazio.

Capitolo 29

Con la sola luce tremolante di una candela Laura provò e riprovò a scrivere qualcosa. Il suo problema era come iniziare: era la prima volta che si cimentava.

“Scrivo Reverendissimo … no, no! Non è un ecclesiaste. Gentilissimo .. no, no. Forse eccellentissimo .. sì, sì va meglio. Ma poi? Cosa metto? Vediamo un po’ Eccellentissimo Messer Duca .. No, no. Il messer non ci sta. Riproviamo Eccellentissimo Duca. Ricevo la vostra missiva .. No, non ci siamo. Uffa! Cosa si scrive a un duca in risposta a un suo messaggio?”.

La ragazza appoggiò la testa sulle mani a coppa, distesa sul letto, quando udì la voce della madre.

“Laura, spegnete la candela! Cosa state facendo? E’ tempo di dormire”.

“Sì, madre. La spengo subito” e con un soffio la luce tremula diventò oscurità. ” Non riuscivo a prendere sonno e .. Notte, madre”. Accomodò il cuscino di paglia sotto il capo e continuò a pensare al messaggio che doveva consegnare il giorno seguente.

La giornata si annunciava calda e serena, anche se la rugiada imperlava l’orto con minuscole gocce d’acqua. Un leggero velo di foschia aleggiava a mezz’aria a indicare che la notte era stata umida più che fresca.

Laura si levò come al solito al canto del gallo ma con sua sorpresa non era la solita stanza ma una ben più sontuosa, che non conosceva. Il letto ampio, comodo e vellutato non era quello ruvido e nodoso dove la paglia ricoperta da una tela grezza l’accoglieva ogni notte.

Si domandò stupita dove fosse, osservando i tendaggi che ricadevano ai fianchi del baldacchino che stava sopra la sua testa. Inquieta rifletteva quale magia l’avesse colpita, immersa in un effluvio di profumi diversi. Si eresse col busto e toccò il tessuto della camicia da notte: non era grezza, grossolana come quella che usualmente indossava ma morbida e frusciante. Le pareva lino.

“Mai posseduto qualcosa con questo tessuto. Non saprei nemmeno dire quali sensazioni si provano. Solo robusta canapa intessuta a mano. Cos’è questo prodigio?”.

Era immersa in questi mille pensieri e dubbi, quando udì un bussare discreto.

“Chi sarà?” si chiese con un mix di curiosità e ansia.

“Venite” esclamò

“Madonna Laura” disse una serva entrando con un enorme tavolo portatile. “Ecco la vostra colazione. Buona giornata” e silenziosa come era arrivata, se ne uscì lasciando sul letto ogni ben di Dio.

La ragazza osservava stupita quell’oggetto di legno dotato di quattro corte gambe sul quale in bella mostra c’erano tazze e piatti di fine porcellana e due bricchi di ceramica con un decoro smaltato.

Era senza parole per lo stupore.

“Mai vista una magnificenza del genere. Non credevo nemmeno che esistessero simili bellezze. I piatti di terracotta, che mi sono sempre sembrati bellissimi, impallidiscono di fronte a loro come il mendicante nei confronti del principe”.

Laura sollevò un fazzoletto di mussola,, riccamente decorato con due cifre dorate L e D. Questo nascondeva delle minuscole coppie, che profumavano del pane appena cotto.

“Mai viste prima. Ne avevo solo sentito parlare in toni misteriosi. Sono queste dunque le gambe delle ferraresi, sottili e ben tornite. La mitica ciupeta di pane bianco, ben cotto e croccante, che solo i signori si possono permettere!”

Inebriata dai profumi, emozionata per trovarsi in una stanza dai soffitti a cassettoni decorati con gli amorini, non osava toccare nulla per il timore che tutto sparisse come una bolla di sapone, quando vide comparire lui.

“Madonna Laura” udì, ma fu un attimo. Un’altra voce la chiamava quasi urlando: era quella aspra della madre.

Il risveglio non era quello che aveva assaporato poco prima. Aprì gli occhi e si ritrovò nell’usuale stanza, squallida dal pavimento in legno, sconnesso e polveroso, e nel letto stretto e scomodo.

“Laura! E’ tempo di levarsi!”.

Una grossa delusione si dipinse sul volto, perché quel sogno bellissimo era stato interrotto bruscamente da una realtà ben diversa. In compenso sapeva cosa scrivere nel messaggio. Semplicemente ora e luogo senza altri fronzoli.

Giacomo nei giorni successivi fece molte ispezioni nel cunicolo di Porta degli Angeli, portando con sé quello strano bastone, che usò per prendere misure accurate di altezza e larghezza.

Poi si sedeva sotto un pioppo appena prima della porta a riportare su carta col carboncino nero misure e schizzi di quello che aveva misurato e osservato.

Adesso aveva le idee più chiare, anche se molte nubi nere continuavano a offuscare la sua mente. Il cunicolo era stretto e a un certo punto impraticabile. La volta minacciava di franare tutte le volte e rimaneva in ansia finché non ritornava fuori. C’era da lavorare e non era detto che ci sarebbe riuscito. In pratica quel capitano, che senza troppi riguardi l’aveva bloccato, montava la guardia a qualcosa che non serviva a nessuno.

“Sfido chiunque a percorrerlo tutto dal rivellino nord alla Porta degli Angeli senza rimanere bloccato o incastrato. E poi senz’aria con una torcia si rischia di rimanere soffocati dal fumo. Il cunicolo da un senso di claustrofobia incredibile, una sensazione di ansia che toglie il respiro. Per renderlo praticabile serve un lavoro non piccolo e del personale capace”.

Poi visitò quel punto X sulla pianta. Era una solida casa con fregi in arenaria rossa, più o meno a quello che ricordava della passata vita. Un sorriso di scherno comparve sulle labbra.

“Più che passata vita direi quella futura. Qui sono in una dimensione che non conosco, dove stento a riconoscermi. Dei ricordi non me faccio nulla ma solo paragoni e qualche rimpianto”.

Si domandava dei motivi per i quali il Duca voleva costruire un terzo cunicolo per arrivare al Palazzo X, perché più che una casa era un imponente palazzo circondato da case basse senza molte pretese. Tutto era diverso dai suoi ricordi a parte il Monte di Pietà e qualche abitazione lungo via dei Piopponi.

Doveva tornare a corte e parlare col segretario e col Duca. L’impegno richiesto reclamava molti fiorini e forse non sarebbero stati sufficienti per portare a termine l’impresa.

La sera di metà maggio stava declinando col sole che tingeva di rosso alcune nuvole che solo pochi istanti prima erano candide. Sembrava che si fossero macchiate col sangue di qualche divinità. Non era tempo di voli poetici, doveva rincasare prima che l’oscurità calasse.

Forse stasera era nella vena buona di mettere alla prova la moglie, che si lamentava delle scarse attenzioni.

Chissà se ci sarebbe riuscito.

Un raggio di sole

Un raggio di sole,
simile allo scarno braccio,
invade,
penetra
l’oscura stanza.
Fuori gli elementi si sono scatenati
in un vigoroso e sinfonico concerto di voci.
L’irregolare picchiare delle gocce,
il furioso martellare della pioggia
è stato simile al cupo
e melanconico rullare del tamburo,
che c’accompagna nell’ultimo viaggio.
Ora il sole ha sconfitto l’oscurità
e gli elementi scatenati.
Dalla strada
un gradevole odore di terra bagnata
riempe le narici dilatate
a cogliere l’attimo fuggente di felicità.
A poco a poco,
a tratti
con lentezza quasi esasperante
il raggio di sole
percorre ed esplora
le pareti della stanza
che proseguono verso l’infinito.
A gara le rondini tornano gaie
a solcare il cielo ancor più terso,
perché invisibili particelle d’acqua
riflettono la luce, impreziosendolo
di un azzurro sempre più bello.
Il tuono, il lampo,
riposto il fragoroso rombo e l’accecante guizzo,
si quietano e osservano tranquilli
preparandosi a portare su nuove terre
altre angosce, altre ansie, altri timori.
Il continuo rinnovarsi incanta il fanciullo,
che impaurito da tanta violenza
stava sbigottito accanto alla madre,
che lo conforta.
E’ attratto da tutto,
ma tutto respinge spaventato
e aspetta fiducioso il sereno
e il ritorno della calma
per riacquistare la fresca baldanza dell’età,
ricca di gioie, povera di amarezze.
L’aria mitigata si prepara
ad accogliere la sera,
che più fresca si avvicina in silenzio alle case.
Calano le tenebre,
scende la notte
salgono le stelle
s’illumina la luna.
Tutto riposa tranquillo
e tutti sognano felici,
mentre compare la gioia ristoratrice del sonno.

capitolo 28

Arrivato in città, Giacomo passò una magnifica serata con Giulia. Andarono a teatro per presenziare alla recita del Eroticon di Vespasiano Strozzi. Ebbe un grande successo suscitando i desideri dei due amanti. Forse non c’era la necessità di ascoltare quei sonetti ma sicuramente diede un bel impulso alla nottata.

Di buon mattino, salutando con un certo dispiacere la donna, raggiunse la propria abitazione. Non poteva rimandare ulteriormente l’avvio dello studio di quei cunicoli. Ghitta aveva il broncio che crebbe, annusando le vesti del padrone: non avevano il consueto odore, che lei conosceva bene. Giacomo non tentò di rabbonirla, perché doveva imparare che non le doveva spiegazioni.

“Ghitta” le disse con tono serio, quello delle occasioni importanti. “Non desidero essere disturbato per nessun motivo, anche se fosse il nostro amato Duca. Voi, se volete, potete stare ma in silenzio”.

La serva annuì e l’aiutò a dispiegare le carte sul tavolo, mentre osservava con curiosità quei disegni poco familiari. Avrebbe voluto porgli molte domande cosa erano quei tracciati, quei disegni colorati e cosa c’era scritto ma si trattenne per non suscitare la collera del padrone. Erano mappe della città che, per essendo approssimative e quasi ingenue, rappresentavano quanto di meglio esisteva in quell’epoca.

Giacomo tracciò dei segni, seguì l’andamento di una strada, fece più di uno schizzo della sezione di un buco sul retro della mappa. La ragazza scrutava incuriosita e ammirata i disegni il cui significato le era ignoto, mentre il malumore lentamente si scioglieva, lasciando il posto al sereno. Gli portò una brocca di acqua fresca e qualche frutto di stagione sempre senza proferire una parola, finché non ce la fece più a resistere e iniziò a parlare.

“Messere ..” cominciò Ghitta, contravvenendo le disposizioni di Giacomo, rompendo il silenzio assoluto della stanza.

“Ghitta, cosa vi ho chiesto?”.

“Silenzio, Messere”disse sorridente e per nulla impacciata.

“Dunque tacete e non distraetemi” concluse l’uomo.

Aveva un certo impaccio nel mettere le misure. Lui ricordava solo quelle in metri mentre in quest’epoca si usavano altre unità per nulla familiari e senza possibilità di convertirle in qualcosa che conosceva.

“Piede? Braccio? O ..? Ma poi quanto equivalgono in metri. Un uomo armato quanto è alto? Mi sembra di impazzire non riuscire a dimensionare un buco perché non ho un’idea delle misure che si usano”.

Si guardò intorno alla ricerca di un campione ma nella stanza non c’era altro che Ghitta. Sconsolato in mancanza di alternative ripiegò su di lei, che in realtà era bassettina ma che poteva costituire una buona pietra di paragone.

“Ghitta, mi sono sempre chiesto quanto siete alta. Non intendo ironizzare sulla vostra statura ma ..”

“Uffa!” esclamò la ragazza rabbuiando in viso. “Sono piccola, lo so. Mia madre non è riuscita a fare niente di meglio”.

“Non inquietatevi. Mi interessa per certi conti. Ha importanza comprendere la differenza esistente tra voi e un uomo armato”.

“Un abisso! Io si e no gli arrivo alla pancia. Sapete all’altezza giusta per ..” cominciò ridacchiando.

“Ghitta! Non vi ho chiesto di scendere a questi particolari!” l’interruppe prima che concludesse il discorso. “Mi interessa conoscere quanti piedi o braccia siete alta. Poi se vuoi affrontiamo anche questo altro aspetto del problema”.

“Ma non lo so. Nessuno mi ha mai misurata! Un uomo armato sarà un poco più alto di voi” concluse sorniona la ragazza.

“Bell’aiuto mi date! Devo fare tutto da me”.

“Però se vado da Zelinda, lei dovrebbe avere un asta che usa per misurare le dimensioni delle tende” e detto questo sparì velocemente.

Giacomo si rilassò in attesa del ritorno di Ghitta e rifletté sulla costruzione del terzo cunicolo.

“Non è eccessivamente lungo. Ma per chi serve? In quella X chi ci abita?”. Ricordava che nella sua epoca su quel angolo c’era un palazzo rossiccio con un bel parco. “Domani vado a vedere cosa c’è e mi rendo conto bene delle distanze”. Era immerso in queste riflessioni, quando udì la voce della serva che stava rientrando con un bastone nodoso, lucido per essere stato toccato da molte mani.

“E questo cosa sarebbe? La vostra unità di misura?”.

“Penso di sì. Quando viene Abramo, sapete quel commerciante ..”

“Ghitta, ho capito. Quello che mi mette le corna. Non c’è la necessità di spiegarlo ancora una volta” replicò tagliando corto le maldicenze, che lo stavano disturbando non poco. Ironizzare che le figlie non gli assomigliavano poteva starci come battuta spot ma poi gli subentrava una sensazione di fastidio sapere che la moglie lo tradiva. In lui non c’era nessuna forma di gelosia nei confronti di Isabella, che gli era totalmente indifferente, ma il solo pensiero gli causava una percezione di banale seccatura e di malumore che faticava a controllare.

“Dunque questo Abramo usa questo bastone?”

“No, no! Zelinda dice che le serve stoffa per cinque volte il bastone. Ma lui estrae da un fodero di cuoio un po’ consunto un’asta di ferro e ne taglia sei volte. Dice che .. Non ricordo cosa dice, perché l’ho visto solo armeggiare senza udire le parole”.

“Fa niente, Ghitta. Questo bastone è prezioso. Ora vieni qui che ti misuro”. A occhio era poco meno di un metro, circa quattro palmi.

Con buona approssimazione scrisse dei numeri che avevano un significato solo per lui. Il giorno dopo avrebbe ispezionato il cunicolo della Porta degli Angeli e si sarebbe fatta un’idea più precisa.

“Ghitta, questo bastone mi serve nei prossimi giorni. Zelinda ne farà senza ..”

“Ma mi bastonerà se non glielo riporto” esclamò terrorizzata.

“Ah! Ah! Sono o non sono il padrone di casa? Tutto mi appartiene, bastone compreso. Se ha delle rimostranza mandala da me” e il bastone finì sul tavolo.

Erano passate poche ore dalla battaglia con la madre, quando spuntarono puntuali le amiche. Laura le accolse nella bottega e continuò a lavorare. Sperava che la presenza del padre e la scarsa attenzione fiaccasse la loro resistenza ma fu tutto inutile. La bombardarono di domande come se la volessero lapidare. Una sassata dopo l’altra senza sprecare un colpo.

La ragazza si difese con ordine senza perdere mai la pazienza, replicando quando c’erano i motivi, glissando sui quesiti più insidiosi. Poi al tocco se ne andarono per nulla soddisfatte e il martirio finì. Il resto della giornata filò liscio senza altre curiosità morbose da parte di qualcuno.

Nei giorni seguenti non successe nulla di nuovo, togliendo alla notizia quel pizzico di curiosità pruriginosa che c’era stata dopo che la voce sulla mitica carrozza ducale e sulla ragazza si era spara nel rione. Lentamente le chiacchiere si smorzarono mentre si dimenticarono della giornata trascorsa nella delizia di Belfiore.

Laura rifiatò e riprese le consuete attività di levarsi al canto del gallo e di coricarsi dopo l’imbrunire. L’assedio delle amiche divenne più blando, meno ossessivo, mentre lei copriva con la polvere dell’oblio quel piacevole ricordo. Non desiderava cullarsi nelle fantasie di aver centrato il cuore del Duca, per poi riaprire gli occhi e scoprite che era stato un bel sogno.

Erano passate due settimane e qualche giorno, quando un messo ducale le recapitò un nuovo messaggio. Questa volta passò quasi inosservato, perché solo poche persone notarono il suo arrivo senza che la notizia si diffondesse a macchia d’olio in un amen. Non era stato così sfrontato da catturare l’attenzione di tutti, come il precedente ma discreto e felpato, quasi in sordina. Il paggio assomigliava più a un servitore che si recasse dal berrettaio per ordinare un nuovo capello da cerimonia per il padrone che a un messaggero ducale. Senza troppe fanfare consegnò la missiva chiusa dal sigillo ducale direttamente nelle mani di Laura, che casualmente era sola nella bottega.

Con un misto di trepidazione e di curiosità aprì il messaggio senza l’impicciona di Paola dietro le spalle. Poteva leggerlo senza apprensione o sotto le domande incalzanti della madre

“Madonna Laura!

Vi aspetto per rinnovare la piacevole giornata di Belfiore. Questa volta siete attesa ai Giardini del Cavo, nella Pescheria. Domani passerà un messo a raccogliere il vostro messaggio di risposta.

Ditemi dove la carrozza vi dovrà attendere. Circolano molte lingue maligne si voi, si di me e non voglio alimentarle. E’ stato imprudente il mio solerte segretario nell’organizzare l’incontro precedente. E di questo me ne dovrà rendere conto. Avevo richiesto cautela e discrezione ma si è mosso con goffaggine, disattendendo le mie disposizioni.

Vi aspetto.

Vostro Alfonso”

Dunque era lei ad organizzare il punto d’incontro fuori dagli occhi indiscreti delle persone del rione e forse della madre.

“Qual’è un punto sufficientemente vicino da essere raggiunto a piedi e abbastanza lontano per non essere visto da persone del rione? Ma il giardino del Cavo dove si trova con precisione?” si domandava incerta la ragazza.

Porre delle domande poteva suscitare la curiosità di qualcuno. Vagamente aveva sentito dire che era un posto incantevole, parzialmente sotterraneo dove scorrevano acque fresche e corroboranti tra fiori e frutteti. Uno dei posti prediletti dalla Duchessa e la sua corte di dame.

“Non è stato forse imprudente, il nostro amato Duca nel proporre questo nuovo incontro?”.

Scosse la testa mentre stringeva al petto quella missiva come se fosse il suo amore. La felicità cresceva ad ogni istante ma doveva pensare alla risposta.

“In fondo a via della Rotta potrebbe essere una buona locazione. Non dista molto dalla bottega. Difficilmente qualche persona che conosco passa da quelle parti. E poi c’è l’ospedale di Santa Giustina a pochi passi. Mi pare il luogo giusto. Visibile ma sufficientemente anonimo da passare inosservato”.

Laura aveva deciso per la piazzetta antistante la chiesa di Santa Giustina, dove avrebbe acceso un cero per Santa Giustina, la protettrice delle ragazze nubili.

Il problema era scrivere il messaggio per il Duca, perché non aveva un’idea di come impostarlo e metterlo in forma corretta.

“Stasera porto in camera qualche carboncino e qualche pelle per esercitarmi prima di mettere tutto sulla carta in maniera definitiva”.

Allegra e sorridente infilò il messaggio nel corpetto tra la stoffa e la pelle per sentire il calore che emanava.

Al vento lascio ..

Al vento lascio le mie parole,
perché le disperda fra la gente
quale testamento d’una persona
schiacciata dal dolore umano.
Alla terra lascio le mie spoglie,
perché le riduca e uguagli al nulla.
Il mio spirito lo lascio a te,
perché viva e si perpetui in eterno.
Il vento chi è?
Vuote parole senza costrutto,
che si agitano per il mondo,
sperando che germoglino
altrui esseri inutili come me.
La terra cosa è?
Materia amorfa che vegeta
in un corpo senza vita.
Solo lo spirito vive
e viene ricordato,
finché, travolto dalla dimenticanza umana,
cessa di esistere
e diventa: è stato.
 
Al vento lascio”: qui compare una persona, velata di ricordi e carica di disperazione, che non può esistere temporalmente, perché esiste solo nella fantasia del poeta che è senza spazio e senza tempo.
Ogni cosa passa e va: “tutto scorre”, “tutto è stato” diceva nell’antichità saggiamente Eraclito, intuendo quello che è più labile e fatuo nel destino umano.
Solo e solamente lo spirito può continuare a vivere, può continuare a perpetuarsi, tramandarsi nei secoli, a condizione che in noi esista un “tu” che ricordi, che affidi, al di sopra dello spazio e del tempo, a chi verrà dopo di noi, la nostra eredità.
L’uomo è soprattutto uomo e, come tale, è destinato al nulla, al cessare di essere, a diventare polvere.
Proprio per questo anche lo spirito cessa, non è più: è stato. Perché? Perché fa parte di noi, come noi facciamo parte di questa terra che col tempo non sarà più. Perché noi dimentichiamo e copriamo sotto il velo dell’oblio ogni cosa: tutto si ricopre di polvere e si consuma, non resiste all’usura del tempo.
Viviamo e dimentichiamo, riviviamo e ricordiamo ed infine torniamo a dimenticare ed a vivere ed ancora a coprirsi di polvere e così via: è un gioco incessante di chiaro e di scuro, che è nato con la terra e si perpetuerà nel tempo con l’uomo.

Capitolo 27

Giacomo aveva lasciato alle spalle la baruffa con Isabella, che aveva minacciato tuoni e fulmini se non avesse messo la testa a posto e ordine alla sua vita, rispettando i doveri coniugali e familiari.

“Siete voi, l’uomo, e dovete dirigere la casa, pagare i fornitori e gestire i contadini. Voi non ci siete mai quando serve. Devo fare tutto io!” attaccò la donna appena lui mise piede nella stanza.

“Ma Madonna Isabella, io sono l’ingegnere del Duca e ..” replicò con soavità.

“Ma quale ingegnere! Voi siete il mio sposo e dovete accudire me e le bambine ..” urlò con quanta voce aveva in corpo.

Giacomo impallidì e stava per esplodere con un «Ho anche delle figlie?», quando, mordendosi le labbra, si trattenne dal dire qualcosa. Cercò vanamente di darsi un contegno, perché erano ormai quasi quattro mesi che frequentava questa casa e nessuno aveva avuto il coraggio di avvertirlo della figliolanza. Come una cipolla si spoglia, levando una buccia dopo l’altra, così scopriva una moltitudine di aspetti che lo coinvolgevano un po’ alla spicciolata.

“Ma loro stanno bene? Non me le mostrate mai e come faccio a seguirle?” disse timidamente per rifilare la patata bollente alla moglie.

“E come? Tornate a ore impossibili oppure vi assentate per giorni. State chiuso nelle vostre stanze con quella Ghitta ..”

“Veramente Ghitta me l’avete assegnata voi! E poi se non ci fosse lei ..”.

“Sì, se non ci fosse lei, ne avreste trovata un’altra di gonna per soddisfare i vostri istinti. Uno sposo così fedifrago, come posso mostrarlo alle mie figlie?” replicò acida.

“Ecco il punto. Sono figlie vostre e ..” incalzò Giacomo. “Voi me le negate e le mettete contro di me come se fossi un mostro”.

L’ultima stoccata aveva colto nel segno e Isabella era a corto di munizioni da sparare, perché colta dall’ira si era tirata la zappa sui piedi.

“Poi” aggiunse trionfante, affondando il coltello nella piaga. “Voi alla notte avete mille mali e non siete mai disponibile. Che devo fare? Una petizione al Duca o una richiesta al Vescovo?”.

La donna aveva perso ogni velleità e riusciva solo a balbettare qualche parola poco coesa, ormai sconfitta sul piano della dialettica.

“Se non avete altro da dirmi, mi ritiro nelle mie stanze a mangiare qualcosa. Ho un lavoro urgente e delicato da svolgere per il Duca e non vorrei perdere tempo in chiacchiere di poco conto. A proposito. Stasera posso passare dalla vostra stanza?”.

“Ma veramente. Non so.. Sarebbe meglio di no. Sapete ..” farfugliò incerta e colta di sorpresa da questa richiesta che era nella carte de dolèance. Negarsi aveva avuto il significato della resa senza condizione ed era un argomento che non poteva più spenderlo.

“Sapete che non avete voglia della mia compagnia” tagliò corto Giacomo e con un inchino la salutò, uscendo dalla stanza.

Chiusa la porta dei suoi appartamenti, chiese a Ghitta se le figlie stavano bene.

“Sì, le ho viste mentre voi eravate da Madonna Isabella. Non so il perché ma vi assomigliano poco. Beatrice ha un curioso naso e una capigliatura ricciolina come quella degli ebrei. Lucrezia è un amore, ma ha un colorito scuro e capelli folti e neri”.

“Volete dire per caso che non sono figlie mie?” chiese burbero, anche se dentro di sé ridacchiava.

“No, messere. Non intendevo dire questo. Non mi piace malignare come una comare. Ma la cuoca dice sempre che ..”

“Cosa dice la cuoca? Mi interessa conoscere il pensiero di chi lavora in questa casa. Dimmi, cosa ha detto la cuoca?”

Ghitta divenne rossa come un pomodoro maturo, poi disse in maniera appena sussurrata. “Dice che Beatrice assomiglia a Abramo ..”

“Abramo? E’ chi è costui?” domandò curioso e inquieto, immaginando già la risposta.

“E’ il commerciante di tessuti, che visita regolarmente la casa” pronunciò tutto d’un fiato la serva, come sgravata da un macigno che le pesava troppo.

“E Lucrezia di chi sarebbe figlia, visto il colorito non pallido?” incalzò Giacomo.

“Ma non so. Però posso sentire da Geltrude ..”.

“E chi sarebbe Geltrude?”

“La cuoca, naturalmente” replicò sorridente.

“Fa la cuoca o la comare?”

“Entrambe le cose!”

“Bene dopo i pettegolezzi, portami qualcosa da mangiare. Queste chiacchiere mi hanno messo appetito. Vorrei fare un riposino prima di riprendere un certo lavoro”.

Mangiò e il riposino fu rimandato ad altro giorno. Ghitta aveva degli argomenti molto persuasivi. Naturalmente anche quel certo lavoro fu spostato al giorno successivo. Adesso doveva tornare in città per l’appuntamento con Giulia. La serva corrugò la fronte e le chiese se sarebbe tornato per la sera.

“Non lo so. Dipende da certi affari” disse Giacomo in maniera enigmatica, prima di allontanarsi con la carrozza.

Il nuovo giorno arrivò soleggiato e caldo ma Laura rimase sepolta da una marea di domande che qualche volta facevano male come sassate.

Quando il cielo cominciò a rischiarare, la ragazza si alzò un po’ intontita per la notte trascorsa agitata e quasi insonne, preparandosi per la nuova giornata di lavoro. La visita alla delizia era stata archiviata come una bella parentesi, di cui ignorava quali sarebbero stati gli sviluppi futuri. Si lavò nella speranza di togliersi la patina dell’insonnia, indossò un comodo camicione di canapa grezza e ruvida e scese in cucina, dove trovò la madre pronta a porle raffiche di domande. Non poteva sottrarsi come la sera precedente e come San Sebastiano si preparò al martirio trafitta dalle frecce delle domande.

“Ieri sera avevo mille quesiti da porvi ma voi li avete scansati con eleganza. Oggi esigo risposte precise e coerenti. Come avete trascorso la giornata? Non mi lascio abbindolare da repliche fumose e incerte. Siete avvertita a rispondere dicendo la verità”.

“Madre, è stata una giornata meravigliosa tra suoni e cibo. Il nostro amatissimo Duca è stato un cavaliere perfetto. Non ne ho mai incontrato uno …”

“Forse volete dire che per l’intero pomeriggio vi siete guardati negli occhi, tenendovi per mano e declamando sonetti d’amore? Ma che figlia ho generato! Il nostro eccellentissimo Duca avrà pensato che siete fredda come il marmo! E così avete sprecato questa nuova occasione. Il destino non bussa più di due volte ..”

“Ma madre, cosa dovevamo fare?” la interruppe, abbassando gli occhi, per non mostrare l’imbarazzo su quello che Paola si aspettava che dicesse.

“Cosa dovevate fare? Devo forse spiegarlo a mia figlia, che pare una vergine Maria votata alla castità? Tra un uomo e una donna cosa si fa? Mi pare una sola cosa e voi niente .. Ci potreste ricavare un bel po’ di fiorini d’oro e forse altro. Prima o poi deve capitare. Ed è meglio con nostro Duca che con un uomo qualsiasi. Fosse capitato a me! Invece ..”.

“Invece cosa, Madre?” domandò Laura che intuiva la risposta.

“Invece mi sono dovuta accontentare di ..”. Fece una pausa e stava per confessare il tradimento con quel conte, quando udì il tossire discreto del marito e si fermò in tempo.

“Ma non sono pentita di averlo fatto con Francesco” aggiunse voltandosi verso di lui.

“Beh, veramente .. forse non era la prima volta” replicò imbarazzato l’uomo.

“Ero illibata quando l’abbiamo fatto la prima volta! Non ricordi le macchie di sangue sul lenzuolo?”.

“In effetti mi sembrava pomodoro ma forse è meglio parlare di questi argomenti intimi e delicati in privato e non di fronte a nostra figlia”.

Paola arrossì violentemente mentre Laura sorrideva compiaciuta per lo scivolone della madre.

“Poi madre, mi racconterete tutto nell’intimità della mia stanza. Ora non mi sembra il momento adatto”. Si sedette e bevette la scodella di latte, ormai tiepido. Doveva imparare ancora molti segreti di come comportarsi con un uomo. Per il momento riteneva che l’atteggiamento assunto fosse quello più fruttifero.

“Aprire le gambe con troppa docilità non mi porta da nessuna parte. Il nostro Duca mi avrebbe liquidato con qualche fiorino, come usa con le donne di malaffare. E mi sarei sentita come loro. Una sottile differenza ci avrebbe diviso: io avrei provato vergogna, loro lo fanno per mestiere. Per contro negarsi con garbo ha suscitato l’interesse verso di me. Aspettiamo e vediamo i risultati” rifletté mentre inzuppava un pezzo di pane nel latte ormai freddo.

Leggo questo articolo di Grazia Giordani e non posso che trovarmi d’accordo.

Intervista semiseria sulla poesia

Eccoci alla seconda parte della pseudo intervista. Seconda e ultima, per fortuna.
 
EGO Mi complimento ..
NWB Per cosa, di grazia?
EGO Dovresti essere contento. Nessun buh! Da curva sud verso la squadra ospite ma tanti elogi. Dovresti essere soddisfatto. Che effetto ti fa?
NWB A dire il vero il primo sorpreso sono stato io. Ma i fischi dal loggione sono sempre lì a portata di bocca. A Ferrara, molti anni fa, c’era un cinema, lì adesso c’è la solita banca, dove si programmavano film di terzo o quarto livello. Erano talmente scadenti e consunti che la pellicola si interrompeva inevitabilmente sulla scena cruciale, immaginate già in che punto. Allora il pubblico incattivito cominciava a fischiare e a gridare “Crema, vogliano indietro i nostri soldi!” Ovviamente Crema era il nome del proprietario. Mi sa che stavolta qualche lettore contrariato scriverà “NWB, scrivi qualcosa di decente!”.
EGO Va bene chiudiamo qui la parentesi sul passato e affrontiamo il tema della seconda parte.
NWB Aspetto solo le domande. Mi raccomando non troppo cattive.
EGO Cominciamo con una domanda banale, che non può mancare. Perché scrivi poesie?
NWB Uhm! Domanda banale ma insidiosa. Direi quasi ..
EGO Perché?
NWB Perché? Perché continui a girare il coltello nella piaga. Proseguiamo. Si perde nel tempo, quando avevo sedici anni. Pensavo, incautamente, di diventare uno scrittore famoso. Ovviamente non lo diventai, anche perché non riuscivo a scrivere più di due paragrafi, poi l’inchiostro diventava secco o simpatico. Qualche tentativo lo ho conservato a memoria futura per ricordarmi quanto ero vanitoso. Posso assicurarti che c’è da arrossire per le cretinate che scrivevo.
EGO Cosa c’entra con le poesie?
NWB Se hai pazienza di dico il perché..
EGO Purché non fai il giro del mondo in mille giorni ..
NWB Dicevo dunque. Ero uno scrittore fallito mai nemmeno tentato. C’erano i primi amori, le prime cotte travolgenti. Così scrissi le prime poesie d’amore dedicate a loro. Ci riuscivo perché fino a dieci righe le mettevo insieme.
EGO E loro cosa dicevano?
NWB Nulla.
EGO Come nulla? Scrivi poesie d’amore e loro zitte? Nemmeno un commento del tipo fanno schifo?
NWB Il problema era che le scrivevo e basta. Loro erano all’oscuro di tutto: delle poesie e della passione travolgente che provavo.
EGO Buffo modo di amare. Passioni segrete con tanto di dedica e zero riscontri. Poi immagino che ti sarai stancato di dedicare poesie a dei fantasmi che popolavano i tuoi sogni.
NWB Beh! Non erano proprio dei fantasmi ma delle ragazze in carne e ossa. Solo che ero timido ..
EGO Questa è buona. Me la devo annotare. Poeta timido con dedica d’autore. Però hai continuato a scrivere.
NWB Certamente. Ormai ci avevo preso la mano. Adesso pensavo di oscurare Leopardi, il mio poeta preferito, o Petrarca, altro grande che adoravo.
EGO E come è finita?
NWB Esattamente come per lo scrittore. Non sono diventato famoso ma Leopardi e Petrarca continuano ad essere in cima alle mie preferenze.
EGO Però hai avuto il coraggio di pubblicarle prima su splinder con il blog “Poesie in libertà – ovvero lo specchio dell’anima” e ..
NWB In effetti qualche tentativo timido, con scarsi risultati ovvero nessuno le ha degnate di un commento malevolo o benevolo, l’avevo fatto sulla piattaforma di window. Blog aperto e chiuso nell’arco di due mesi.
EGO Forse perché aveva avuto troppo successo in senso negativo?
NWB No, no! A parte le due o tre poesie, ignorate completamente mi ero spaventato per il seguito che avevo. Diverse decine di commenti per ogni post. Secondo me troppi.
EGO Dunque tornando a splinder hai cominciato con solo poesie.
NWB Si, solo poesie come era il titolo del blog. Poesie con dedica e altre vecchie e nuove, scritte in quel primo periodo felice.
EGO E questa volta come è andata? Meglio credo visto che ne hai proposte un discreto numero.
NWB Non mi lamento. Direi una buona accoglienza..
EGO Sempre modesto..
NWB No, cerco di mantenere i piedi per terra e riporre i sogni nel cassetto.
EGO Però se hai pubblicato le prime poesie dopo tanto tempo, vuol dire che le avevi conservate.
NWB Certamente. Trascritte su un quaderno in bella grafia con la penna stilografica e inchiostro nero di china ..
EGO Ah! Trascritte .. come mai?
NWB Beh! L’idea di diventare famoso non mi ha mai abbandonato. Così riflettevo. Quando sarò morto, prima no, non è possibile, scopriranno il mitico quaderno rosso ..
EGO Come quello di Mao?
NWB Ma quello è il libretto! No. Dunque quando troveranno in fondo al cassetto questo quaderno, allora verranno pubblicate postume e saranno un caso letterario.
EGO Continui a sognare a occhi aperti..
NWB Cosa costa? Nulla! Comunque ora sono pubbliche su internet e il problema non si pone.
EGO Le hai pubblicate tutte?
NWB No, sono una piccola parte. Il resto rimane sul quaderno rosso.
EGO Pensi di pubblicarle?
NWB Va bene sognare una volta, ma due è troppo.
EGO Cosa vuoi dire?
NWB Ho pubblicato quelle che ritenevo meritevoli e qualcuna la sto pubblicando ogni tanto su wordpress per rompere la monotonia dei miei romanzi a puntate. Così..
EGO Così possono dire i suoi lettori che sei molto eclettico?
NWB L’hai detto tu. Io mi sono fermato prima.
EGO Vedo che siamo ormai alle battute finali.
NWB Menomale. Cominciavo già a sudare, visti i 34 gradi e 70% di umidità.
EGO Pensi che possa farti qualche altra intervista. Che ne so, sulle tue letture, su i tuoi autori preferiti ..
NWB Spero proprio di no. Vorrei evitare, a chi mi legge, la penosa lettura dei miei starnazzi. Comunque grazie. Ma direi grazie a chi avrà il coraggio di leggermi ancora.

Capitolo 26

Laura nei giorni seguenti dovette rispondere a molte domande sia da parte della madre sia delle amiche. Un vero tormento, un autentico incubo.

“Cosa vi ha detto il Duca? Tornerete nella delizia? Quando?”. Erano solo alcuni dei quesiti con cui Paola subissò la figlia al suo rientro a casa sulla carrozza dalle tendine rosse.

Ovviamente la notizia che la ragazza era salita sulla mitica carrozza fece rapidamente il giro della strada di bocca in bocca e ogni volta arricchito con nuovi particolari, frutto dell’immaginazione collettiva.

Subito dopo che si era sparsa la voce che Laura era salita sulla carrozza ducale, le amiche, come il falco si getta sulla preda che si muove ignara della minaccia, così si presentarono per avere ragguagli e informazioni di prima mano dalla madre, senza trovarla disponibile ad aprire il cassetto delle novità.

“Dovete aspettare il rientro di Laura per avere ragguagli freschi”. Così le liquidò Paola.

Quando a pomeriggio inoltrato la carrozza percorse nuovamente Via di Ripa Grande, per depositare sull’uscio della bottega del berrettaio la ragazza, tutta la strada fu un ribollire di curiosi che affollò la strada e non si fecero pregare nel dire la loro: frecciate, neppure troppo velate,

sorrisi maliziosi, commenti acidi.

“E’ andata a letto col Duca e non lo nasconde nemmeno”. “Ha sempre fatto l’altezzosa come se lei fosse diversa. Alla fine è della stessa pasta delle altre”. “Ora non può più permettersi di criticare che lei non sarebbe mai andata a letto con qualcuno prima del matrimonio”. E le parole volavano come macigni. Tutti commentarono poco benevolmente.

Era da poco ritornata, estenuata dalle raffiche di domande di Paola, quando le amiche bussarono alla porta per ricevere le ultime notizie.

“Sono stanca. Stasera non ho nessuna voglia di chiacchierare” disse quando furono ammesse al suo cospetto.

“Stanca?” e un risolino perfido spuntò sulla bocca di Anna. “Io sarei al settimo cielo. Passare la giornata con nostro Duca? Un sogno. Dimmi. E’ stato bello? Che sensazioni hai provato”

“Il nostro Duca è un bell’uomo forte e gagliardo come dicono?” incalzò Beatrice.

“Raccontaci. Moriamo dal desiderio di conoscere tutti i particolari” continuò Isabella.

“Vi prego, andatevene. Domani e nei giorni seguenti, prometto, risponderò a tutte le domande. Ora desidero stare in silenzio nella mia stanza” disse stancamente la ragazza, ben sapendo che non avrebbero mollato la presa con molta facilità.

“Il nostro Duca ti ha prosciugato. Ehm! Ehm! Immagino che il piacere sia stato pari alla passione visto che sei ridotta a uno straccio” aggiunse Ippolita velenosamente. Le domande diventavano sempre più mirate e indiscrete senza che Laura potesse mettervi un argine, finché non intervenne Paola a chiudere la discussione.

“Ora basta! Ho sopportato a sufficienza. O ve ne andate come siete venute oppure mi metto alla porta con questa scopa” disse con un tono che non prometteva nulla di buono, agitando una ramazza minacciosamente.

“Ma Madonna Paola ..” cominciò Anna.

“Niente ma. Ora fuori!” urlò minacciando di abbattere il manico su quella più vicina.

Visto che la situazione sembrava precipitare, Anna e le altre infilarono velocemente la porta abbandonando il campo.

“A domani” urlò Isabella prima di chiudere l’uscio dietro di sé.

“Grazie, madre. Ho la necessità di restare in silenzio e al buio nella mia stanza” disse quietamente Laura, incamminandosi verso le scale.

“Un momento” replicò Paola. “Ditemi. Siete passata dal letto del nostro Duca?”

La ragazza la guardò stranita, scuotendo il capo in segno di diniego e cominciò a salire i gradini, seguita dalla madre, che non mollava la presa, perché voleva sapere.

“E cosa avete fatto in tutte quelle ore? Vi siete guardati negli occhi senza dire o fare nulla? Non abbiate timore di parlare di questo con vostra madre. E’ normale che un uomo e una donna finiscano a letto, soprattutto se l’uomo è il nostro Duca”.

“Madre, vi giuro che il nostro Duca non mi ha nemmeno sfiorato con un dito. Sono ancora illibata. Abbiamo passato un piacevole pomeriggio insieme e nulla più. Ma ora, vi prego, lasciatemi sola. Ho necessità di silenzio e buio”.

Paola, visto che le sue insistenze non riuscivano a scalfire la determinazione della ragazza a voler rimanere sola, scese nuovamente in cucina, scuotendo il capo. Borbottava delle parole sconclusionate, poco convinta che la figlia avesse raccontato la verità. Credeva che Laura si vergognasse nel descrivere che era stata posseduta dal Duca. Non ci trovava nulla di disonorevole, perché le tornavano alla mente due episodi di molti anni prima, quando era giovane e piena di ideali sull’amore e sulla fedeltà coniugale. Questi pensieri tuttavia furono accantonati in due occasioni. Aveva solo diciotto anni ed era bella, una bellezza che piaceva agli uomini, che la corteggiavano assiduamente, come adesso facevano con Laura. Aveva già conosciuto Francesco ed era prossima al matrimonio, quando era passata dal letto di un conte che l’aveva discretamente assillata per molte settimane, finché non aveva ceduto per un paio di incontri né esaltanti né piacevoli. A ripensarci adesso col senno della maturità non ci trovava nulla di disdicevole, perché ne aveva ricavata una discreta somma di fiorini d’oro, che era stata un’autentica manna per la dote. Era tornato poi alla carica con insistenza anche dopo il matrimonio, senza che potesse dire di no: le avevano fatto gola i cinquanta scudi promessi. Così aveva ceduto ancora una volta. Questa volta il marito aveva mangiato la foglia, ma non disse nulla e finse di non accorgersi dei suoi maneggi. Quei soldi che arrivavano inaspettati in casa erano benedetti e avrebbero permesso loro di acquistare la casa dove abitavano adesso. Quella era stata l’ultima volta, anche perché qualche settimana dopo il conte era morto, stroncato dai suoi vizi. Paola si era sempre domandata se Francesco si fosse accorto dei suoi tradimenti col conte per via degli scudi che si erano materializzati dal nulla, senza mai trovare il coraggio di chiederlo apertamente. Pensò di sondare il marito cautamente stasera nell’intimità del letto ma un sussulto di dignità ebbe il sopravento e decise di non indagare oltre. Era meglio non riesumare una vecchia storia, ormai sepolta dall’oblio. Un sospiro di malinconia uscì dalle labbra, perché adesso, passati i quaranta e col fisico appesantito da tre gravidanze, non avrebbe più suscitato i desideri di qualche conte.

“E mia figlia fa la preziosa col nostro Duca. Potrebbe rimediare molti fiorini d’oro e forse anche possedimenti ma si nega come una novizia. Dovrò fare una bella chiacchierata con lei domani e svegliarla un po’”.

Giacomo rientrò all’indomani a metà giornata. Era sul viale d’ingresso, quando arrivò verso di lui una Ghitta po’ agitata. La corsa forsennata della ragazza non preannunciava nulla di buono così che due diversi stati d’animo si facevano strada dentro di lui. Era incuriosito di sapere se dovesse apprendere altri aspetti che non conosceva sulla sua nuova esistenza ma nello stesso tempo avvertiva un senso di inquietudine che cercava di mascherare.

“Messere” disse con la voce rotta per la lunga corsa. “Messere, la sua signora è fuori di sé. Ha urlato e strepitato tutto ieri, perché voi eravate sparito. Nessuno era a conoscenza dove eravate, quando sono giunti i messi del Duca. Ha minacciato di cacciarvi fuori di casa. Stamane era ancora più furiosa, perché siete rimasto fuori anche stanotte. Vuole vedervi subito. Così ha ordinato a tutta la servitù di condurvi da lei senza alcun indugio. Cosa faccio? Annuncio il vostro arrivo?”.

“Calma, Ghitta, calma. Riprendete fiato e vi ringrazio della premura che mi usate. Rientriamo insieme senza fretta. Madonna Isabella aspetterà paziente che mi sia lavato e profumato. Poi ..”.

“Ma ha ordinato ..” tentò di replicare la ragazza.

“Ghitta, niente ma. Prima ho intenzione di fare un bagno e voi mi servite per preparare l’acqua e quant’altro. Poi avrete il mio permesso di annunciare a Madonna Isabella che l’andrò a farle visita prima del desinare. Così ..”

“Così le andrà di traverso il cibo” chiosò garrula.

“Siete impagabile” replicò sorridente Giacomo. “Avete compreso pienamente il mio disegno”.

Camminarono verso l’ingresso, quando all’improvviso la serva sbottò con un’affermazione che fece sorridere Giacomo.

“E’ vero che avete un’amante nella corte del Duca?”

Lui si fermò, corrugò la fronte e poi scoppiò a ridere. Non si aspettava una simile domanda.

“Un’amante? Siete per caso gelosa?”

“No, insomma sì.. Si dà il caso che ..”

“Siete troppo preziosa per me, perché mi possa permettere di farvi ingelosire. Un’amante? Non una ma mille. Una è troppo poco, mille sono troppe da soddisfare tutte. Però sapete come sono le donne. Ogni tanto hanno mal di testa e non sono disponibili. Quindi serve qualcuna di scorta. Contenta?” e una nuova risata risuonò nel viale alberato.

“Chi dice queste sciocchezze?” chiese serio l’uomo.

“Invero non saprei. Ma un’amica che lavora per il conte Costabili afferma che una cameriera di un palazzo di Ferrara vi ha visto entrare e uscire più di una volta dalla camera della sua signora”.

“Magari, Ghitta, magari. Mi devo accontentare di Madonna Isabella e senza di voi cosa farei?” ed entrò decisamente nel palazzo.

Giacomo era un po’ scocciato da queste chiacchiere. Non che gli creasse disturbo, perché definire Giulia un’amante era veramente troppo, anche se aveva passato più di una notte in piacevole compagnia ma essere al centro di pettegolezzi tra la servitù dei signori di Ferrara non gli garbava molto.

“Nel pomeriggio quando rivedrò Giulia gliene parlerò, anche perché le voci sono uscite dai suoi servitori” rifletté mentre entrava nelle sue stanze seguito da Ghitta.

“Ho forse fatto male a chiedervi questo? Avete cambiato umore”.

“No, anzi vi ringrazio per l’informazione”. E aggiunse con tono serio “Sarò più discreto quando frequenterò le camera da letto delle madonne. Ma ora pensiamo al bagno. Sento il bisogno di immergermi nell’acqua fresca e profumata che solo voi sapete preparare con molta abilità”.

La serva lo aiutò a togliersi i vestiti impolverati e sporchi dopo la ricognizione del cunicolo alla Porta degli Angeli.

“Dove siete andato stanotte per sporcare così corsetto e calzamaglia. Dovrò lavarli con molta cura per farli tornare a un aspetto decente. Sembra che ..” cominciò Ghitta riponendo gli abiti che si stava togliendo.

“Non siate impertinente. Sono l’ingegnere del Duca e ho ispezionato certe postazioni. Di notte si fanno altre attività e senza vestiti in dosso” replicò sornione, mentre la ragazza sorrise. Aveva intuito il messaggio piuttosto palese che aveva mandato.

Il bagno ristoratore fu piacevole e rilassante. Giacomo si sentiva rinato e profumava di acqua di rose. La serva era veramente abile nel miscelare gli aromi. Disteso sul letto, Ghitta lo massaggiava con delicatezza in ogni parte del corpo, quando udì un bussare discreto.

“Uffa. Non ci si può nemmeno rilassare che arriva qualcuno a distrarvi. Allungatemi quella tunica. E’ sconveniente farsi sorprendere nudo nel letto con una giovane che lo massaggia” disse indicando una veste da camera di lino bianco appoggiata su una sedia.

Dopo qualche istante la serva ricomparve annunciando che Zelinda, la cameriera personale di Madonna Isabella, aveva un’ambasciata per lui.

“Fattevi riferire cosa vuole. E se desidera una risposta, attenda finché non sono vestito” replicò contrariato.