2012 in pillole.

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Ecco un estratto:

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Ringrazio tutti quelli che sono passati di qui solo leggendo o lasciando una traccia e auguro a tutti
Un felice e sereno 2013
Happy New Year
A presto
 
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Capitolo 18 – Epilogo

Al termine di quella giornata di amore Goethe e Angelica promisero di scriversi, come fecero per circa un anno e mezzo, perché un giorno aveva promesso che sarebbe tornato a Roma a prenderla e portarla con sé a Weimar.
 
Roma, il 5 Agosto 1788, martedì
Lei dirà ancora una volta dei sogni, ma io so che Lei mi perdonerà. La notte scorsa mi sono sognata che Lei era tornato. La vedevo arrivare da lontano e Le sono corsa incontro sino alla porta di casa, ho afferrato entrambe le sue mani e le ho premute sul mio cuore così forte che mi sono svegliata, me la sono presa con me stessa per avere sentito la mia felicità sognata con troppa violenza tanto da abbreviarmi così il piacere. Ma sono contenta di questa giornata perché oggi ho ricevuto la Sua cara lettera del 19 luglio. Il fatto che Lei nonostante le tante distrazioni, gli affari e gli amici ritorni con lo spirito a Roma, non mi meraviglia, che Lei si ricordi di me è un segno della Sua bontà per la quale Le sono infinitamente grata. Mi rallegra il fatto che Lei stia bene e Le auguro una ininterrotta serie di giorni piacevoli. Io vivo la vita con la speranza di una migliore. Caro amico, quando ci vedremo di nuovo? Vivo sempre tra timore e speranza è purtroppo è più timore che speranza, ma debbo tacere, a che serve lamentarmi. Lei vuole sapere a cosa sto lavorando. Ho finito le seguenti opere: il ritratto di Lady Harvey, il ritratto del cardinale Rezzonico per il senatore e oggi ho terminato il Virgilio. Sono molto contenta della preparazione in chiaroscuro, il pezzo ha molta forza e i colori sono riusciti molto diafani. Ho lavorato abbastanza e cerco di fare del mio meglio – per fare questo devo immaginare che è domenica e che Lei viene nel mio studio – ah, i bei tempi! La lettera del suo giovane amico mi ha molto rallegrato, mi fa piacere anche sapere che il signor Keiser tornerà e che conoscerò anche il signor Herder. Ma Lei non verrà,questo è l’eterno dolore e la mia angoscia. Stia bene e non si dimentichi di me.
La onoro e La adoro con tutto il cuore.
Angelica.1
 
Così Angelica scriveva a Goethe, che era tornato a Weimar nel giugno 1788, una lettera traboccante di pathos e di amore represso nel ricordo del periodo in cui si erano frequentati con assiduità durante il lungo soggiorno romano del poeta.
Lei aveva posto in un angolo della sua stanza la riproduzione del busto della Juno Ludovisi, che Goethe le aveva lasciato come ricordo della sua assidua presenza, in compagnia del ritratto che non aveva voluto portare con sé.
In una delle prime lettere aveva scritto:
.…Nel mio giardino il Suo pino è ora l’albero a me più caro. Non l’ho trapiantato. Lei quasi riderà della mia preoccupazione ma se in cielo si mostra minaccia di tempesta io corro in giardino e metto la pianta ancora giovane sotto il tetto, affinché non sia danneggiata e abbandono tutte le altre al loro destino….”
Aveva preso l’abitudine a sedersi sotto il pino che lui aveva piantato prima di partire, sperando di sentire la sua voce, la sua presenza e di lenire il grande dolore che aveva provato con la sua partenza.
Era entrata in una crisi profonda e, mentre stava sotto le fronde, pensava: “Il suo congedo mi ha afflitto moltissimo, lasciando nel mio cuore un vuoto difficile da colmare. E’ stata una pugnalata alla schiena. Oramai vivo una vita ancora più triste. Le giornate scorrono lente nella vana speranza di vederlo comparire sull’uscio dello studio. Questo pino è l’elemento più prezioso della mia esistenza. Lo sogno tutte le notti, ma purtroppo è solo una visione onirica che sparisce al sorgere del sole. Riuscirò a sopravvivere?”
Lei soffriva la lontananza, perché non riusciva a cancellare dalla sua vita l’immagine di lui, poi lentamente svanì lasciando un vuoto che mai sarebbe riuscita a colmare.
Le sue lettere di risposta erano cortesi ma sempre più fredde, dopo un po’ di tempo cominciò a non rispondere più finché la corrispondenza non cessò del tutto.
Al rientro a Weimar Goethe trovò la duchessa Anna Amalia, che era intenzionata fermamente a ripercorrere il suo viaggio in Italia. Lei era un’eccellente musicista e usando i testi di Goethe aveva composto due opere cantate, che riscossero un discreto successo.
Aveva un carattere deciso, forte ereditato dallo zio, Federico il Grande di Prussia, da cui aveva ricevuto in eredità anche un buon talento musicale.
La duchessa partì per l’Italia, dove fu raggiunta dal poeta a Venezia. Lui però non volle accompagnarla oltre limitandosi ad attivare le sue conoscenze.
Non sopportava l’idea di rivedere Angelica, che aveva amato con grande passione, perché le lettere di lei e degli amici comuni mostravano che aspettava con ansia il suo ritorno a Roma. Questo pensiero lo turbava, perché non sentiva più nessun afflato d’amore.
Il poeta mise in contatto la duchessa con Angelica, preannunciandole il suo arrivo a Roma.
 
Angelica, mia adorata!
Come state? Ho letto la vostra ultima lettera del 5 Agosto e del 1 Settembre. Sono immerso nelle cure del governo, che sono noiosissime ed assorbono tutto il mio tempo. Come rimpiango Roma, il vostro studio, la vostra presenza, la vostra bella voce! Sembrano ricordi sbiaditi, eppure è passato così poco tempo dalla mia partenza! La mia amatissima Duchessa Anna Amalia di Sassonia – Weimar ha deciso di partire per l’Italia sulle mie orme. E’ una valentissima e bravissima musicista! L’affido nelle vostre mani quando sarà giunta a Roma. Leggo che dopo la mia partenza avete lavorato intensamente completando molti quadri di cui io ho visto solo il un abbozzo.
Vostro devotissimo
Wolfgang 2
 
Weimar, 13 Settembre 1788”
 
Nell’autunno del 1788 Anna Amalia giunse a Roma, andando ad abitare in una bellissima casa con giardino, che Goethe aveva trovato per lei. Era una splendida sistemazione.
Alcune mattine dopo Anna Amalia si presentò nello studio di Angelica per conoscerla.
Sono la duchessa Anna Amalia di Saxe-Weimar. Un amico comune mi ha indirizzato da voi. Johann Wolfgang Goethe” così si presentò dopo avere osservata con cura la pittrice.
Angelica interruppe il dipinto a cui stava lavorando e guardando l’elegante figura della duchessa rispose: “Sono molto onorata di ricevere una persona così importante. Il nostro amico comune mi ha scritto che avrei avuto l’onore di conoscervi. Siate la benvenuta in questa casa. Questo studio è troppo spoglio e inadeguato per ricevervi. Possiamo andare nella mia casa al Pincio poco distante da qui, dove potremmo conversare più comodamente”.
No. Qui è più raccolto, intimo e poi posso osservare i vostri lavori. Mi avevano detto che voi siete una donna eccezionale dotata di gran talento. Mai definizione è stata più sincera. Quello che vedo sui cavalletti supera ogni immaginazione. Wolfgang mi ha parlato in maniera entusiasta di voi dicendomi che avete anche una voce straordinaria oltre all’attitudine per la pittura. E’ vero? Posso ascoltarvi in un qualche Lieder?”
Angelica arrossì leggermente alle parole della duchessa e rispose con calma: “Mi lusingate e adulate con parole così elevate e piene di lodi. Oggi sarei troppo emozionata per cantare qualche Lieder, ma domani, nei prossimi giorni passata l’euforia per tutti questi elogi posso intonarne qualcuno. Mi dicono che voi siete una celebre musicista allieva di un allievo di Bach, capace di comporre musica usando come testo delle composizioni poetiche. Io ho coltivato musica quando ero ancora una fanciulla, poi mi sono dedicata sola alla pittura e scultura”.
Da come le due donne si guardavano, era chiaro che era scoccata un’intesa culturale che preannunciava una relazione che andava oltre l’amicizia.
Per Angelica questa visita era un toccasana per uscire dalla spirale della depressione in cui era caduta. Per dimenticare si era oberata di commissioni, a cui faticava dare esecuzione, perché riusciva a lavorare solo per poche ore al giorno.
Duchessa o posso chiamarvi per nome?” chiese con malcelata impazienza Angelica, “Vorrei che voi siate mia ospite stasera nella mia casa”.
Bene, senza tanti formalismi io vi chiamerò semplicemente Angelica e voi chiamatemi pure Anna Amalia. Avevo un’altra richiesta per stasera, ma rinuncerò volentieri per sedermi al vostro tavolo”, rispose prontamente la duchessa.
Scese un attimo in strada, dove un servitore la stava aspettando, incaricandolo di disdettare l’invito ricevuto per la serata.
Così iniziò tra queste due grandi donne piene di talento e dotate di un carattere di ferro quel sodalizio che durò per tutto il tempo che Anna Amalia rimase a Roma.
Era straordinario come tra loro non ci fosse competizione, ma discussione alla pari sulle loro passioni: musica e pittura, sul modo di lavorare e sulle tecniche artistiche.
Il rapporto era talmente stretto che la duchessa rinunciò alla casa trovata da Goethe e ne affittò un’altra accanto a quella di Angelica per potere esserle ancora più vicina e trascorrere gran parte del suo tempo con lei.
Nel maggio del 1789 la duchessa prese la strada del ritorno a Weimar, lasciando sola ancora una volta Angelica.
Ancora una volta sono stata lasciata da una persona che ho stimato più di ogni altra. E’ destino che io sia infelice”.
Angelica era molto religiosa e cercava conforto nella preghiera alle angustie dell’anima.
Aspetta in pazienza che Dio ti conceda quello che tu ti aspetti. Loda Dio per quello che ti riserva e aspetta. Vedrai che la tua vita sarà più prospera e felice. Credi in Dio e lui ti salverà” questa era la preghiera con cui terminava le orazioni serali.
Trascorsero altri anni senza che lei riuscisse a dimenticare l’amore per Goethe per spegnersi come una candela quando lo stoppino giunge alla fine.
FINE

1La lettera presenta l’uso della terza persona singolare, diversamente dai dialoghi dove ho utilizzato la seconda persona plurale. Il motivo sta che la forma di cortesia, usata nella corrispondenza, prevede l’uso del Sie e della terza persona plurale. Questa lettera fa parte delle dodici che si sono salvate dalla distruzione. Quella successiva è una mia invenzione.
2Questa è un falso, perché non ci sono tracce delle lettere di Goethe verso la pittrice, perché si narra che le abbia bruciate tutte.
 
 

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Capitolo 17 – Il ritorno a casa

Venne l’autunno e poi l’inverno. Il tempo passava veloce, troppo velocemente secondo Angelica, mentre la relazione proseguiva tra alti e bassi. Il loro rapporto si stava raffreddando, come la stagione incipiente, pur continuando a frequentarsi con regolarità.
Lei aveva trovato il tempo per completare l’autoritratto tra una pausa e un incontro amoroso. Questo era rimasto a lungo sotto un candido telo di lino malinconico e triste, mentre quello del poeta giaceva impolverato e negletto in un angolo, coperto da un velo trasparente. Pareva che la stagione autunnale si fosse posata sui due quadri, avvolti dalle brume appena mitigate da un pallido sole.
Goethe sentiva che era giunto il momento dell’addio: la nostalgia della patria, di Weimar, di Charlotte stava diventando troppo insopportabile da sostenere per potersi fermare ancora a lungo a Roma.
Angelica aveva capito che la storia stava terminando e che non sarebbe riuscita a trattenerlo. Da quando a giugno era tornato dal lungo viaggio in Sicilia, aveva percepito che era solo una questione di tempo ma poi sarebbe fuggito da lei per inseguire i suoi fantasmi. «Quanto tempo? Qualche mese o un anno?» si interrogava quasi tutti i giorni senza trovare una risposta. Poi ricacciava in gola le lacrime e scacciava questi pensieri dalla mente.
Sento un vuoto dentro di me” rifletté un giorno di dicembre più triste degli altri giorni. “L’amore mi consuma ma Wolfgang non lo alimenta più col necessario vigore. Anche se non lo dice apertamente, ha deciso di partire, di tornare in patria. Riuscirò a sopravvivere alla sua partenza? Riuscirò a colmare il vuoto che si produrrà dentro di me?”
L’angoscia si impadroniva di Angelica, che aspettava con ansia la decisione del poeta, che tardava ad arrivare. Come la goccia incide anche la pietra più dura, così questi pensieri scavavano nella sua mente giorno dopo giorno un solco che non era colmabile. Si consumava lentamente in uno stillicidio di vane speranze e tristi presentimenti, mentre lei continuava a trascurare i numerosi lavori di cui era oberata.
All’inizio del 1788 Goethe cautamente cominciò a parlare del suo possibile rientro a Weimar, adducendo come pretesto certe lettere del duca Karl August, che gli chiedeva di riprendere il governo del minuscolo ducato.
Angelica, mia cara“ diceva il poeta, “non vorrei lasciarvi qui, ma prendervi con me! Non riesco a decidermi nella risposta al mio Duca, perché vorrei restare accanto a voi. Anche la duchessa Anna Amalia mi scrive chiedendomi di tornare con urgenza, perché vuole ascoltare dalla mia voce il racconto di questo viaggio alla scoperta dell’Italia e del bello, dove ho trovato una donna meravigliosa sia per bellezza sia per capacità artistiche”.
Angelica sapeva che erano solo lusinghe che laceravano la ferita che si stava aprendo dentro di lei.
Wolfgang, non mentirmi” gli rispose con la voce rotta dall’emozione. “Non mentirmi. Stai preparando l’addio e non sai come dirmelo”.
Il poeta capiva che l’innamoramento stava svanendo, come già in passato era capitato più di una volta. “Forse questo viaggio non è stato programmato per sfuggire alle insistenze di Charlotte?” rifletteva mentre osservava il viso delicato e pallido della donna.
Non posso mentire a me stesso,” pensava con apprensione mista ad ansia. “Non posso mentire nemmeno a lei, che ha capito. Però ho la necessità di riacquistare la mia libertà psicologica, di non avere legami stabili. Poi è sposata, ho conosciuto il marito, Antonio Zucchi, le chiacchiere sulla nostra relazione stanno serpeggiando tra gli amici comuni. Posso trattenermi ancora qui? No. Me ne devo tornare a Weimar”
Si avvicinò ad Angelica, stringendola a sé per fugare quei dubbi, sapendo che era un atto inutile. Lei lasciò fare senza opporre resistenza. «Vuole convincermi che le mie paure sono infondate, ma tutto è inutile. Lo so. Vuole tornare libero, andarsene di soppiatto come oltre due anni fa ha fatto partendo da Karlsbad! Però ora godiamoci questi ultimi sprazzi d’amore. Dopo sarà il vuoto dentro di me, dentro la mia vita. Saprò dimenticarlo? Saprò cancellarlo dalla mia esistenza?»
Goethe la trascinò sul divano. “Wolfgang, no! Non qui! Andiamo di sopra!” gli disse.
Salirono in silenzio e giacquero sul letto sempre pronto ad accoglierli.
I giorni passavano, mentre la primavera si avvicinava. In silenzio il poeta cominciò a raccogliere le sue cose: i manoscritti delle opere, le bozze delle poesie, gli appunti del viaggio, i disegni delle scenografie teatrali e tutti i ricordi accumulati in oltre due anni di permanenza a Roma.
Durante le sue visite aveva visto a Villa Ludovisi uno splendido busto di Giunone, decidendo di farne una copia da tenere nella sua stanza romana. Adesso che la partenza si stava approssimando stava coltivando l’idea di lasciarlo a lei come ricordo della loro relazione, anche perché sarebbe stato troppo ingombrante da trascinare in viaggio.
Continuò a frequentare Angelica, a girare per Roma con lei, che al suo passaggio suscitava sguardi di ammirazione e saluti dai passanti.
Angelica soffriva il distacco annunciato in silenzio, ma non dichiarato da Goethe.
Mein Gott!1 Perché devo patire questi tormenti dell’anima? E’ forse la punizione divina del tradimento verso il marito? Vorrei che il giorno non arrivasse mai! Ma arriverà e deflagrerà con la sua forza immane dentro il mio cuore!”
Ormai il tempo volgeva al bello stabile e si annunciava favorevole all’inizio del viaggio di ritorno. Un pomeriggio di fine marzo 1788 Goethe arrivò allo studio di Angelica, che stava lavorando con la morte nel cuore al quadro di Virgilio per non pensare al distacco, che percepiva ormai prossimo.
Angelica, mia adorata!” esordì, “Stamani ho ricevuto una pessima lettera dal mio Duca, che mi ordina di tornare sollecitamente a Weimar per riprendere le cure del governo del ducato. Mi è crollato il mondo addosso! Sono rimasto affranto tutta la mattina. Quindi in fretta e furia devo preparare i bagagli e partire”.
Angelica prese a piangere silenziosamente senza voltarsi verso di lui: “Wolfgang, non mentire, ne siete incapace! E’ arrivato il momento dell’addio tanto annunciato, tanto negato tenacemente da voi. Concedetemi l’ultimo afflato d’amore senza dire nulla. Venite, Saliamo per l’ultima volta quelle scale, che hanno conosciuto il nostro amore. Vi prego, restate in silenzio e in silenzio uscite dalla mia vita”.
Deposti i pennelli, si avviò verso quelle stanze dove si era consumato un amore impossibile, aspettandolo di sopra. Si era chiusa una parentesi della sua vita.
Questa parentesi avrebbe lasciato un ricordo doloroso e incancellabile per Angelica, che aveva sperato fino all’ultimo di non sentire quelle parole di commiato.
Però le udì.

1Mio Dio! Tipica esclamazione tedesca

Capitolo 16 – La storia continua

I giorni si snodarono leggeri e quieti, mentre i due amanti erano sempre più uniti.
Goethe trasformò Iphigenie in Tauris in un’opera teatrale, la lesse dinnanzi a Angelica, che paziente ascoltò il testo.«Questa parte manca di pathos. Qui le parole e la musica non riescono a fondersi in un unico intreccio. Perché? I versi non sono sufficientemente musicali per adattarsi alle melodie. I testi dei Lieder sono particolari. Hanno ritmo e trasmettono sensazioni profonde. Se volete che Iphigenie sia musicata, le strofe devono integrarsi con le note». Erano alcuni dei suggerimenti della pittrice che dava a Goethe, che li recepiva prontamente. «Avete una sensibilità nel cogliere le sfumature veramente straordinaria. Le vostre osservazioni sono preziose, perché sempre pertinenti e calibrate sul testo» le disse un giorno, mentre Angelica si dedicava ad immaginare le scene e costumi, che traduceva in cartoni dipinti con la consueta maestria. Dopo diverse settimane di intenso lavoro il poeta si ritenne soddisfatto dei risultati.
Dunque il viaggio in Sicilia era servito a lui per ritrovare la vena poetica e una splendida amante, a lei per rinsaldare un vincolo amoroso, che pareva svanito in una giornata fredda di fine dicembre.
Angelica in pratica smise nuovamente di lavorare, perché tra ascoltare le letture dell’opera e accompagnare Goethe in giro per la città che conosceva bene non riusciva a trovare più il tempo da dedicare alla sua professione, che trascurava vergognosamente.
L’unico dipinto importante, iniziato durante l’assenza di Goethe, era il ritratto del principino di Gloucester e di sua sorella, che terminò con un molto affanno alla fine dell’estate. Sembrava una fotocopia di quello che era successo con la baronessa de Kruederer. Però memore di quei giorni preferì fare da cicerone a Goethe, sfruttando il suo italiano perfetto, che le consentiva di tradurre esattamente i pensieri dell’amante e le risposte delle persone.
Amavano visitare i monumenti e le gallerie di notte alla luce delle torce. «Vedere un quadro di Raffaello illuminato dal rosso della torcia mi dà un brivido lungo la schiena. Se poi ho una mirabile guida, come siete voi, mia adorata Angelica, il piacere diventa doppio». Così il poeta commentava le escursioni notturne nei musei e gallerie d’arte aperte esclusivamente per loro, sfruttando la fama della pittrice, che riusciva a spalancare tutte le porte anche quelle più ostinatamene chiuse.
 
Il poeta, al ritorno a Roma, aveva trovato il suo ritratto finito, esposto in un angolo dell’atelier di Angelica. Però non era risultato di suo gradimento, perché secondo lui aveva un’aria dimessa e semplice. Non riusciva a stimolare in lui l’entusiasmo di quello dell’amico Tischbein, perché era privo di quella solenne aura che emanava l’altro. Tuttavia l’accettò il dono, sia pure senza troppo slancio, senza nascondere apertamente il suo disappunto, confinandolo nello studio dell’amante come un oggetto ingombrante e di poco valore.
Angelica,” disse Goethe, guardando quel ritratto ormai terminato sul cavalletto, “ mi avete ritratto troppo modestamente. Sembro dimesso e senza importanza”.
Wolfgang,” gli rispose la donna “Vi vedo così: bello, giovane e dai lineamenti nobili. Vi sembra troppo dimesso? Allora lascialo sul cavalletto, affinché lo possa ammirare, quando un giorno deciderai di tornare a Weimar. Si, lo so e lo sento, che tra un po’ affronterai il viaggio di ritorno. Non dire nulla! Così posso cullarmi nell’illusione che voi resterete sempre qui con me”.
Goethe stava per replicare, ma tacque, perché sapeva che tra non molto avrebbe cominciato i preparativi per tornare in Sassonia, a Weimar.
Si avvicinò ad Angelica, la prese tra le braccia baciandola con passione, mentre lei si lasciava trasportare dai sensi.
Si, lo sento che Wolfgang sta meditando il ritorno a casa. Lo sento inquieto, stanco del girare per Roma. La vena poetica si sta affievolendo a poco a poco. Ora scrive pochissimo, qualche ritocco in qua e in là. Riuscirò a sopravvivere senza di lui, senza la sua presenza, senza il suo corpo nel mio letto? Io sento amore per lui dentro di me, che arde alimentato dalle mie mani, dalle sue mani. Adesso sono solo le mie che aggiungono della legna per tenere vivo il fuoco della passione. Mi sta baciando con passione. Ma è vera passione la sua? Mi ricordo quei versi che ho ascoltato tempo fa ‘Ob ich dich liebe, weiß ich nicht1 Si, se mi ama non lo so!”
Dopo quel lungo bacio Angelica si staccò da lui e lo prese per mano per condurlo di sopra nel grande letto che aspettava impaziente il caldo dei loro corpi.
Godiamoci ancora questi momenti finché lui è qui e mi desidera ancora! Verranno tempi che io starò sola in queste stanze coi miei pennelli, i ritratti di tanti committenti nobili senza potere assaporare la passione, l’esser donna innamorata e trepidante”.
I pensieri si accavallavano nella mente con tristezza e nostalgia, mentre salivano le scale per consumare alcune ore di passione.
 
Era una fresca giornata di settembre ancora soleggiata e calda, quando Angelica volle condurre Goethe a visitare il famoso palazzo Barberini, ospiti di Cornelia Costanza. Non era facile accedere a quelle stanze, rigorosamente chiuse al pubblico e aperte solo agli amici più intimi della principessa.
Il palazzo era famoso per le numerose tele che adornavano le grandi sale poste al primo e secondo piano e l’ampia scala elicoidale del Borromini, che consentiva l’accesso al piano nobile.
Era a pochi passi dallo studio, nascosto da un alto muro di cinta, che racchiudeva un favoloso giardino all’italiana e un piccolo teatro privato.
Wolfgang, questo è uno dei palazzi più belli di Roma. Forse il più bello secondo il mio gusto. E’ ricco di quadri e affreschi, ma non voglio togliervi la soddisfazione di vederli filtrati dal mio gusto estetico. Sarete voi ad ammirarli e sbalordirvi per la loro bellezza. Cornelia, una vecchia e cara amica, è rimasta vedova da pochi mesi ed è tornata nel suo vecchio appartamento, dove ci riceverà. E’ una donna minuta, apparentemente fragile, ma dal carattere deciso e orgoglioso. Vi stupirà!”
Il cancello era aperto per ricevere i due ospiti così importanti e famosi: un rigoglioso giardino all’italiana li accolse con cespugli di rose di tutti i colori, mentre una imponente magnolia ne ombreggiava una parte.
Dall’esterno sembrava un tipico palazzo cittadino ma l’ampio giardino, che circondava la costruzione, e lo spazioso cortile faceva pensare ad una bella villa suburbana. All’interno dello spazio chiuso da alte mura c’era un teatro dove si svolgevano rappresentazioni teatrali o musicali. All’ingresso furono accolti da Cornelia, che fece gli onori di casa.
Nobildonna Cornelia“ disse Angelica, che la conosceva da tempo. “Questo signore è Johann Wolfgang Goethe, il famoso poeta tedesco, che è venuto in Italia per ammirare Roma, i suoi monumenti e le tutte le opere ivi ospitate”.
Goethe fece un perfetto inchino baciando la mano della donna, dicendo in un italiano approssimativo: “Entrando ho ammirato uno spettacolo inaspettato per chi transita lungo la via senza immaginare quale gioiello sta perdendo. Un giardino meraviglioso, un ingresso degno di un principe e Voi, mia signora, che saluto e ringrazio per il cortese invito”.
Cornelia lusingata e felice dei complimenti fece strada per lo scalone elicoidale fino al suo appartamento, mentre gli ospiti a naso insù osservavano stupefatti gli affreschi che abbellivano gli alti soffitti.
La padrona di casa fece ammirare la collezione di quadri e di mobili, anche se si lamentava che per via dei lasciti testamentari molti quadri e arredi erano stati alienati dagli eredi, desiderosi solo di far moneta. “Quando mio marito è morto, si sono fatti avanti molti eredi ai quali non parve vero poter vendere i quadri ricevuti in eredità” disse con tono amareggiato, mostrando i segni sulle pareti lasciati dai vuoti delle cornici.
Visitarono anche l’enorme biblioteca che occupava il secondo piano di un’intera ala del palazzo. Questa era rimasta integra, lontana dagli appetiti ingordi di eredi senza amore verso il bello. Poterono toccare con mano tomi preziosi e riccamente decorati.
A Goethe piacque moltissimo gustare i quadri in compagnia di Angelica.
Siete una donna dotata di talento ed eccezionale”, diceva il poeta dopo avere ammirato il celebre quadro dell’amante di Raffaello appeso a una parete. “I vostri occhi vedono quello che io non riesco a cogliere nella sua interezza. Voi conoscete le tecniche con cui i dipinti sono stati eseguiti. Però quello che mi affascina in voi è il gusto e l’amore per il bello, per la forma delle immagini!”
Trascorsero piacevolmente l’intera giornata in quella splendida dimora per merito di una padrona di casa dotata di classe ed estremamente colta con cui era una vera soddisfazione conversare di arte e di letteratura.
Mentre accompagnava Angelica verso la casa sul Pincio, Goethe disse: “Quella Nobildonna è veramente straordinaria. Ha un vigore del tutto insospettato. Poi ha una cultura del bello che mi ha ammaliato, era ben degna di un principe!”
Si, Wolfgang, “ continuò Angelica, “come vi avevo preannunciato, è colta e raffinata. L’ho conosciuta appena arrivata a Roma e abbiamo stretto una cordiale amicizia”.
Giunti dinnanzi al portone si salutarono augurandosi una serena serata.

1Se mi ama, non lo so
E’ la strofa iniziale di una poesia di Goethe

Capitolo 15 – La passione brucia la carne

Kanntest jeder Zug in meinem Wesen,
spaehtest wie die reinste Nerve klingt,
konntest mich Einem Blicke lesen
den so schwer ein sterblich Aug durchdringt.
Tropftest Maessigung den heissen Blute,
richtetest den wilden irren Lauf,
und in deinen Engelsarmen ruhte
die zerstoerte Brust sich wieder auf,
hieltest zauberleicht ich angebunden
und vergaukeltest ihm manchen Tag.”1
Goethe declamava questi versi, mentre Angelica si sistemava gli abiti prima di uscire dall’appartamento.
Il poeta l’osservò con gli occhi della passione, mentre lei senza falsi pudori si rivestiva dopo il rapporto amoroso lungo e inebriante.
Mentre procedeva con lentezza a indossare la gonna, intonò con la sua bella voce forte, soave e molto sensuale un Lieder dolce, che parlava d’amore.
«Se lontan, ben mio, tu sei
Sono eterni i dì per me,
Son momenti i giorni miei,
Idol mio, vicino a te.»
Il poeta l’ascoltò in silenzio. «Sono ammirato per la bravura nel canto. Ha talento pari a quello della pittura. Ach, mein Gott, ha delle doti fuori del comune. Riesce a modulare la sua voce anche senza musica. Questa singolare abilità mi fa balenare un’idea! Trasformo Iphigenia da opera di prosa in versi per essere rappresentata a teatro, accompagnata dalla musica. Angelica disegnerà le scene. Che meravigliosa intuizione ho avuto!» rifletté, mentre gli brillavano gli occhi per la contentezza.
“Cantate divinamente, mia adorata Angelica” disse al termine del canto. “Chi ha scritto queste meravigliose parole, che parlano al cuore?”
La donna arrossì per il complimento prima di rispondere.
“Non lo so. La cantava mia madre, quando io avevo pochi anni. Ho conservato il testo perché mi riempiva il cuore di tenerezza. Quando sono felice, la canto e mi commuovo”.
A queste parole Goethe non rispose ma rifletté in silenzio. «E’ bella e sa accendere il sacro fuoco della passione! E’ sensuale, misteriosa ed eccitante. Come ho potuto essere così cieco e sordo ai suoi richiami?»
Wolfgang, questo Lieder l’ho cantato per voi, per farvi assaporare la soddisfazione che porto nel cuore. E’ stato tutto dolce ed esaltante dopo tanta astinenza! Vorrei che questi momenti rimanessero fermi nel tempo per gustare con calma il calice dell’amore”.
Goethe si alzò e avvicinandosi la baciò con passione, mentre Angelica si abbandonava tra le braccia.
Con dolcezza la portò nuovamente sul letto perché sentiva ancora il desiderio di lei.
Angelica lasciò fare, perché non si sentiva ancora appagata. «Il piacere è intenso, ma l’amore verso di lui è sublime. Vorrei essere posseduta per godere le gioie dell’essere amata! Mi sento sua col sacro fuoco dell’amore che arde dentro di me! Mai prima d’ora ho provato sensazioni così intense. Mai prima d’ora ho desiderato un uomo con tanto desiderio!»
Era pomeriggio inoltrato quando si prepararono a lasciare le stanze per incamminarsi verso la piazza vicina.
I due amanti emersero dall’appartamento dirigendosi verso Trinità dei Monti, da dove potevano ammirare lo spettacolo di Roma ancora illuminata dal caldo sole che stava colorando di rosso il cielo.
Si sentivano felici come due ragazzini tanto era stato il loro appagamento.
Scesero la scalinata verso la sottostante piazza di Spagna tra i saluti dei passanti e dei conoscenti: Angelica era conosciuta da tutti per la sua fama e la sua bellezza.
Passeggiarono a lungo andando verso il Tevere e da lì a San Pietro, parlando fitto di poesia, di pittura e di musica.
La giornata volgeva al termine, mentre un bel tramonto incendiava la città. Non erano stanchi, né sentivano i morsi della fame, anche se non avevano mangiato nulla dalla mattina.
Stavano tornando indietro verso il Pincio, quando videro sotto un pergolato dei tavoli pronti per la sera. Si sedettero e chiesero all’oste di servire loro qualcosa.
Lo sappiamo che siamo molto in anticipo mentre voi non siete ancora pronti, ma ci va bene qualsiasi cosa abbiate preparato o che sia pronto” disse Goethe alla moglie dell’oste che con un grembiule bianco si era avvicinata per sentire che cosa volevano quest’uomo e questa donna dall’aria signorile. Non era facile vedere persone dall’aspetto distinto ai loro tavoli, frequentati per lo più da gente di livello più basso.
Non c’è nulla sul fuoco” rispose la donna un po’ mortificata, “ma se avete pazienza possiamo prepararvi una cenetta a base di agnello ed erbette. Nel frattempo vi porto pecorino fresco, pane caldo di giornata appena sfornato e un generoso vino rosso per ingannare l’attesa”.
Va benissimo. Oltre al vino portateci anche una brocca di acqua fresca, perché abbiamo la gola secca per il caldo” rispose Goethe.
Angelica era radiosa e bella con i capelli scomposti per la lunga giornata trascorsa nell’appartamento, mentre guardava il poeta con intensità amorosa.
La donna rientrata in cucina parlò al marito, dicendo: “Quella signora, non ricordo dove l’ho vista. Il viso mi è noto, m non riesco mettere a fuoco chi è”.
Non ti ricordi? E’ la famosa pittrice Angelica Kauffmann! Per noi è un onore averla al nostro tavolo! Dobbiamo preparare una cena coi fiocchi, perché chissà quando potremmo averla nuovamente ospite!”
Ora ricordo! Si, è proprio lei! E’ una donna bellissima e affascinante! Anche il suo accompagnatore è un bel giovane. Formano una bella coppia”, disse con un pizzico d’invidia, mentre preparava il piatto con pecorino e pane. L’oste osservò la moglie e le disse ridendo: “Non metterti in testa strane idee. Quel giovane cerca delle donne come la Kauffmann. Di certo non ricorderà il tuo viso”.
La donna non rispose alla punzecchiatura del marito e portò in tavola formaggio, pane, vino e acqua, mugugnando qualcosa che non era intellegibile.
I due amanti parlavano e ridevano, raccontandosi gli ultimi avvenimenti: ne avevano di avvenimenti da descrivere. Goethe ispirato dal luogo e da Angelica disse ad alta voce: “ Questi sono versi che scrivo in vostro onore”.
Du hast mich rein, und wenn ich’s besser wüßte
so gaeb ich’s Dir; ich tue was ich sage.
So schließt sie mich an ihre süßen Brüste
als ob ihr nur an meine Brust behage.

Und wie ich Mund und Aug und Stirne küßte

so war ich doch in wunderbarer Lage:

denn der so hitzig sonst den Meister spielet

weicht schulerhaft zurück und abgekühlet.2
Mi lusingate, Wolfgang! Sono davvero belli e tutti per me!” rispose Angelica arrossendo leggermente.
Era stata una giornata memorabile, da rimanere impressa a lungo nelle loro menti.

1Conoscevi ogni tratto del mio essere,
spiavi come la fibra nervosa più pura risuona,
potevi leggere con un solo sguardo dentro di me,
che l’occhio mortale fatica a penetrare.
Iniettavi moderazione nel sangue ardente,
aggiustavi la corsa selvaggia e pazza,
e tra le tue braccia d’angelo riacquistava
pace il cuore straziato,
lo tenevi legato con una lieve magia
e trascorrevi con lui molti giorni.
2Tu mi hai pura, e quando desiderassi il meglio,
te lo darei! Quel che dico lo faccio.
Lei mi stringe al suo dolce seno,
come se solo sul mio petto provasse piacere.
E mentre baciavo bocca e occhi e fronte
ero in una situazione singolare:
perché quello che di norma si comporta come il padrone
indietreggia come una scolaresca e prova freddo.

Capitolo 14 – L'amore sboccia

I due amanti si fermarono guardandosi a distanza, incerti sul da fare. Sembravano due persone che si studiassero a vicenda.
Goethe avrebbe voluto colmare in un attimo lo spazio che li divideva, ma rimase immobile, scrutando la reazione della pittrice.
Come è bella!” pensò. “Più la guardo, più mi sento attratto dalla sua personalità, da quell’aria sensuale che emana il suo corpo. Perché sono stato così sciocco da offenderla. Mi saprà perdonare e accogliere nuovamente presso di sé?”
Rimase fermo indeciso tra l’andarle incontro e abbracciarla o aspettare che fosse lei a fare il primo passo.
A Angelica era svanita tutta la passione mattutina e ora non sapeva se doveva tornare a casa oppure accettare l’incontro col poeta.
Mi sono svegliata con un grandissimo desiderio di vederlo, toccarlo, parlargli, di stare insieme a lui. Ora non vorrei vederlo, né averlo visto! Però lo desidero, lo voglio. Voglio sentire la sua voce che legge le sue opere. Sento dentro di me la passione troppo a lungo repressa. Cosa devo fare? Sono confusa, ma innamorata o forse sono un’innamorata incerta e indecisa? Mi muovo o resto qui ferma?”
Mentre Angelica, combattuta tra mille dubbi e altrettanti stimoli, rifletteva su quale comportamento tenere, Goethe assunse con decisione l’iniziativa e la raggiunse. Ancora prima che lei potesse proferire parola, le afferrò la mano che baciò con grande calore e disse con voce forte e chiara: “Mia adorata Angelica, sono lieto di rivedervi dopo un interminabile silenzio. Ho fatto un lungo viaggio nel sud dell’Italia visitando posti incantevoli ma col pensiero sempre fisso verso di voi. Sarebbe stato meraviglioso se aveste potuto accompagnarmi, ma purtroppo non è stato così”.
Stette un attimo in silenzio per rifiatare e osservare la reazione della donna, poi riprese senza consentirle di rispondere. “Sono stato maleducato e insolente l’ultima volta che ci siamo visti. Accettate le mie scuse e vi chiedo di perdonare la mia insolenza”. Tacque, guardandola negli occhi con intensità.
Angelica, colta alla sprovvista dalle parole del poeta, rimase muta riflettendo sulle parole da usare nella risposta. Alla fine ruppe il silenzio e cominciò a parlare.
Venite, non è conveniente restare qui sulla pubblica strada a discutere e parlare come popolani qualsiasi. Saliamo nell’appartamento sopra lo studio. Lì potremmo conversare e chiarirci i motivi del dissidio, stando comodamente seduti sul divano, senza essere ascoltati da nessun passante”. Lo prese per mano e con passo deciso lo trascinò dentro, mentre si avviava verso le sue stanze.
Maria, con molta lungimiranza, aveva ordinato ai servi di sistemare l’appartamento con fiori e frutta per renderlo accogliente e confortevole. Il sole inondava la stanza coi suoi raggi dorati giocando a rimpiattino con mobili e suppellettili.
Si sedettero sul grande divano, posto di fronte al camino, e, tenendosi per mano, cominciarono a conversare amichevolmente. La barriera di gelo e di ghiaccio era stata rotta, come i vecchi dissapori erano un ricordo del passato.
Wolfgang, vi perdono l’insolenza delle parole usate e accetto le vostre scuse. In tutti questi mesi ho trepidato nella speranza che arrivasse un giorno come questo. Il mio cuore batteva per voi e non ha mai smesso per tutto il tempo di scandire l’amore che provo per voi. Mi siete mancato. Mi sono mancate le vostre parole. Sono stata sorda perché non udivo la vostra voce. Sono stata muta, perché non potevo chiacchierare piacevolmente con voi”. Mentre pronunciava queste parole, gli occhi della donna non si staccava un attimo dal viso del poeta.
Goethe l’abbracciò baciandola sulle labbra con ardore, mentre Angelica s’accostava a lui per sentire la presenza del suo corpo.
Il bacio durò a lungo, come i sospiri trepidanti di lei. Avrebbe voluto che continuasse all’infinito, anche se faticava a respirare per effetto della pressione che esercitava.
Il poeta si staccò e si raddrizzò. “Sono stato sciocco a disprezzare il vostro sentimento” disse osservandola negli occhi. “Sento dentro di voi la passione che emana il vostro corpo. Siete sensuale e fatico a trattenere il desiderio di unirmi a voi. Siete una donna splendida, raffinata e colta nel corpo e nella mente, che qualunque uomo vorrebbe avere al suo fianco. Come ho potuto essere così cieco e sordo, non vedendo e non percependo il vostro amore puro e sincero?”
Angelica mise un dito sulle labbra di Goethe per farlo tacere: “Non dite nient’altro. Non turbate questa atmosfera incantata con le vostre recriminazioni. Il tempo è passato, è fuggito via tra le nostre mani, non permettendo di ritornare a quell’epoca. Ora comincia un nuovo giorno. E’ splendido, caldo e voluttuoso. Aspetta solo noi per dare inizio al tripudio delle danze. Non temete, vi ho aspettata fiduciosa in questi mesi per rendere possibile il miracolo del nostro incontro”.
Tacque ed aspettò che le mani di lui si posassero sul suo corpo per trascinarla sul letto, che alle loro spalle era pronto ad accoglierli. Goethe capì che era giunto il momento di dare sfogo alla passione troppo a lungo repressa.
Un po’ goffamente cominciò a slacciarle il corsetto bianco con mano incerta e un po’ tremolante sperando di completare in fretta l’operazione.
Il letto ampio e a baldacchino li accolse amorevolmente tra le braccia e assiste muto alle prove d’amore dei due amanti. I raggi del sole frugavano la stanza alla ricerca dei loro corpi, nascosti sotto candide lenzuola.
Erano felici ed appagati, quando si alzarono dal letto senza alcun stimolo di fame perché questa era stata saziata dal loro amore.

Capitolo 13 – La passione riprende

Maria sentendo Angelica che la chiamava accorse immediatamente per servirla, aprì la porta e domandò: “Desidera alzarsi, mia Signora? Preparo la colazione o il bagno?”
Maria, ho fretta. Devo uscire al più presto per raggiungere lo studio. Preparali entrambi e velocemente”, rispose nervosamente. “Mi metto quel vestito bianco e nero di organza e seta con il mantello azzurro. Non restate lì ferma, ma servitemi immediatamente”.
Angelica aspettò che la governante liberasse le grandi finestre dai pesanti tendaggi notturni per osservare il cielo e l’ampio giardino, prima di uscire dalle candide lenzuola.
Era emozionata come una ragazzina quando va al primo appuntamento galante, fremente di gioia e di passione. Avrebbe voluto già essere fuori sulla strada e volare allo studio per aspettare Goethe sulla porta.
Maria si muoveva freneticamente per assecondare la sua signora, ma non sapeva da dove cominciare, quale priorità doveva seguire, facendo innervosire Angelica. Chiese a gran voce di portare la colazione e dell’acqua calda, mentre lei toglieva dal guardaroba le vesti richieste.
Terminate frettolosamente colazione e lavaggi mattutini, l’aiutò a vestirsi e pettinarsi, sistemando con cura tutti particolari del vestito.
Angelica era resa splendente e radiosa dal vestito che metteva in risalto la bellezza delicata e dolce del viso e della figura.
La giornata era già calda anche se era mitigata da un venticello fresco e lo sarebbe diventata ancora di più col trascorrere delle ore: sembrava che preannunciasse il clima dei due amanti.
 
Anche la notte di Goethe era trascorsa agitata per effetto del messaggio ricevuto dai servitori di Angelica, che gli chiedevano di recarsi la mattina seguente nello studio di Via Sistina.
Ci devo andare? Cosa mi dirà? Cosa dovrò dirle? Il messaggio è stato ambiguo perché mi ha chiesto solo di recarmi allo studio. Forse mi vuole dire che non dobbiamo più vederci, che è ancora adirata per il mio comportamento. Forse …, ma se io le recito questa poesia, forse …
 

Sah ein Knab’ ein Röslein stehn,

Röslein auf der Heiden,

war so jung und morgenschoen,

lief er schnell es nah zu sehn,

sah’s mit vielen Freuden.

Röslein, Röslein, Röslein rot,

Röslein auf der Heiden.1

 
Oppure quest’altra
 

Kennst du das Land? Wo di Citronen bluehn,

Im dunkeln Laub die Gold-Orangen gluehn,

Ein sanfter Wind vom blauen Himmel weht,

Die Myrte still und hoch der Lorbr steht,

Kennst du es wohl’

Dahin! Dahin!

Moecht’ ich mit dir, o mein Geliebter, ziehn.2

 
No, no, non sono adatte! Devo pensare ad altro. Ma mi vorrà rivedere ancora?”
Eccitato e ansioso uscì dalla locanda dirigendosi verso lo studio, mentre pensava a quali versi poteva ricorrere per farsi perdonare il modo indecoroso della sua ultima visita.
Camminava in fretta senza curarsi di chi incrociava, mentre recitava versi noti o altri nati lì per strada. Si fermava, riprendeva a camminare, si fermava nuovamente e poi ricominciava. Non riusciva a trovare l’ispirazione appropriata. Eppure doveva trovare le parole giuste per riconquistare il cuore di Angelica.
Stava salendo lungo il colle del Quirinale, quando si aprì l’interruttore dello stimolo poetico.
Si, questi sono i versi giusti. Li devo tenere a mente, non posso dimenticarli, altrimenti sono perduto!”, così parlava ad alta voce giunto in cima alla salita, ansando vistosamente per la fatica della veloce camminata.
Adesso aveva un passo più franco e spedito, mentre ardeva dal desiderio di giungere in fretta allo studio, dove avrebbe aspettato Angelica.
 
Mentre Goethe camminava, pensava, parlava da solo ad alta voce, lei completava i preparativi della sua persona. La pettinatura non andava bene, doveva essere rifatta, il corpetto era troppo stretto, la gonna era troppo ingombrante, la collana non si notava. Ogni cosa veniva fatta e rifatta una, due, tre … cento volte, mentre Maria pazientemente e senza proferire il minimo lamento dava seguito alle richieste, ai capricci di Angelica. Passò quasi un’ora prima che ogni dettaglio fosse messo a punto secondo i suoi desideri. Si sentiva in ansia, avrebbe voluto accorciare i tempi, ma non era riuscita a superare le indecisioni, a essere soddisfatta di tutti i particolari, mentre la governante con pazienza e in silenzio cercava di accontentarla.
Finalmente fu pronta per andarsene con la fiduciosa certezza di trovare Goethe ad aspettarla. Da dove nascesse questa sicurezza non lo conosceva neppure lei ma era certa che fosse là. Intuito femminile o preveggenza?
Accompagnata da Maria usci dal grande portone della casa per incamminarsi verso lo studio, ma appena fu in strada, cade in preda all’ansia e al timore che il sogno svanisse come nebbia al sole. Il dubbio era che avesse scambiato una visione bellissima con una realtà ben più amara. Mentre una grande confusione mescolava pensieri e sensi, lo vide. Il cuore accelerò i battiti, mentre le gambe si rifiutarono di obbedire alla mente. L’angoscia diventò concreta, palpabile facendosi beffe dell’entusiasmo di Angelica.

1Vide un fanciullo che aveva scorto una roselina,
una roselina di brughiera,
era fresca e bella come l’aurora,
corse svelto per osservarla da vicino,
la scrutò pieno di gioia.
Roselina, roselina, roselina rossa,
roselina di brughiera.
2Conosci il paese dove fioriscono i limoni?
Dove le arance dorate splendono tra foglie scure?
Un mite vento spira dal cielo blu,
il mirto sta quieto e l’alloro è eccelso,
lo conosci bene?
Laggiù, laggiù
vorrei trasferirmi con te, o mio amore.

Capitolo 12 – Il ritorno

La Sicilia mi fa intendere l’Asia e l’Africa e non è poca cosa trovarsi nel centro meraviglioso dove sono diretti tanti raggi della storia universale”. Il poeta, appena messo piede a terra dopo il disastroso viaggio in piroscafo da Napoli a Palermo, esprimeva la sua gioia dell’incontro con questa terra assolata e bruciata dal sole. Aveva sofferto il mal di mare per quattro giorni, quanti erano stati quelli della traversata, aspettando solo il momento di potere calpestare nuovamente la terraferma. E lo fece alla sua maniera.
Ancora una volta era ricorso allo stratagemma di viaggiare in incognito sotto il falso nome di Philippe Moeller ma il mondo è piccolo e ovunque trovava qualcuno che lo riconosceva. Così ben presto era dovuto uscire allo scoperto, aveva perso quella copertura per rimanere nell’ombra. Non appena a Palermo si diffuse la voce che Goethe era in città, il Viceré lo aveva mandato a prendere nella locanda dove alloggiava per averlo a corte e rendergli omaggio.
Angelica ascoltava con attenzione ciò che gli amici le narravano del viaggio in Sicilia del poeta, che inviava lettere piene di entusiasmo per questa terra, tanto che scrisse in una dei primi messaggi recapitati a Roma: “L’Italia senza la Sicilia non lascia l’immagine nell’animo: qui, solo qui, è la chiave di tutto”.
Era entusiasta di questa terra, che il compagno di viaggio Kniep dipingeva con molta maestria. Sentiva rinascere dentro di sé una fresca sferzata di ispirazione poetica, annotando con cura tutto quello che vedeva e provava per tradurli in versi e poemi.
Era maggio quando Goethe carico di ricordi e di sensazioni cominciò il lungo viaggio che lo doveva ricondurre a Roma.
Era una calda giornata di giugno, l’otto, quando rientrò nella città eterna dopo un’assenza durata cinque mesi.
Era stanco, accaldato e impolverato a causa delle strade secche per la lunga siccità. Il viaggio sulla carrozza non consentiva molte distrazioni perché buche ed acciottolato sconnesso provocavano continui sobbalzi tanto da rendere impossibile prendere appunti o fare disegni, esattamente come quando era partito per Napoli.
Era tornato alla locanda, che per tutti questi mesi gli aveva conservato la stanza e custodito il bagaglio non essenziale che non aveva portato con sé. Il padrone era sulla porta ad aspettarlo, facendogli grandi feste insieme ad alcuni amici fidati.
Goethe era talmente prostrato dal viaggio da Napoli a Roma che per diversi giorni rimase nella sua stanza per riprendersi.
Angelica seppe il giorno dopo che l’amato poeta era tornato e cominciò a fantasticare sul suo ritorno.
Chissà se la nostra lite ha lasciato il segno? In tutti questi mesi non ho mai disperato che la nostra rottura si sarebbe ricomposta. Io sarò stata dura, ma lui ha oltrepassato il segno accusandomi di essere una donna di strada che mendica un po’ di sesso. Gli farò una sorpresa, donandogli il ritratto che ho terminato nelle scorse settimane. Mi hanno detto che Tischbein gli ha fatto un quadro in cui Wolfgang appare come un dio che osserva l’agro romano con lo sfondo dei colli laziali. Però io l’ho ritratto come lo vedo: un giovane uomo intelligente e sensibile.”
 
Goethe era tornato pieno di brio, ispirato e pronto a riprendere la scrittura delle tante opere incompiute che erano state interrotte più volte.
Era ricercatissimo coll’agenda piena di impegni, perché tutti volevano sapere, sentire, ascoltare i suoi racconti.
E’ stata impressionante la moltitudine di persone durante la processione della festa di Santa Rosalia. La devozione, le preghiere, i petali di rose che cadevano dai balconi sono stato uno spettacolo magnifico e impareggiabile, che ho potuto ammirare dal balcone del Viceré. Non avrei mai creduto che per un Santo si festeggiasse così intensamente.”
Questo era uno dei tanti episodi che narrava agli ospiti, che lo ascoltavano in religioso silenzio, non osando interromperlo durante la narrazione.
E’ una vera sfortuna, quando si è inseguiti e tentati da ogni sorta di fantasma! Una mattina di buon ora camminavo spedito, quando ho visto un giardino aperto e sono entrato. C’erano tutte le specie di piante del creato, anche quelle che non avevo mai visto! Ho alzato gli occhi e ho osservato dietro il vetro di una finestra una splendida fanciulla, che mi scrutava incuriosita. Non sapevo più cosa guardare quella meravigliosa visione o quello spettacolo naturale. Ero ancora lì incerto sul da farsi, quando un domestico uscì dal portone per invitarmi a salire in casa. Ho passato una splendida giornata con una guida che sembrava un angelo: mi ha spiegato e nominato uno per uno tutte le piante, i fiori e gli alberi presenti in quel giardino che sembrava il paradiso terrestre.”
Goethe però si stava stancando di raccontare tutte le meraviglie che aveva visto passando di salotto in salotto, di osteria in osteria, sentiva che gli mancava qualcosa, sentiva che doveva andare in Via Sistina da Angelica, la sua musa, colei che con pazienza ascoltava, dava pareri su quanto stava scrivendo. Poi aveva la necessità di ascoltare la sua voce, deliziosa e sensuale e forse anche di qualcosa d’altro.
Come posso presentarmi al suo studio dopo la furiosa litigata che abbiamo avuto? Sono stato veramente indelicato nelle espressioni! Lei dichiara il suo amore per me, io la ripago dandole della donna di strada. Saprà perdonarmi? Saprà accettarmi ancora? Ah! Se avessi qualcuno che interceda per me!” così pensava una sera il poeta seduto davanti ad un bicchiere di vino rosso ed piatto di gustoso agnello.
 
Mentre Maria scioglieva i capelli ad Angelica, seduta nella poltrona della camera da letto, come per telepatia anche lei lo pensava sospirando. “Wolfgang è tornato da due settimane, ma non è ancora venuto allo studio, né mi ha mandato qualche messaggio tramite amici comuni. Io l’amo e lo perdonerei se si presentasse davanti alla porta! Però temo che lui sia ormai perduto, perché preferisce i salotti delle nobildonne romane alla mia poltrona di raso rosso! Come posso attirare la sua attenzione?” Si struggeva mentre le lacrime salivano sugli occhi e da lì scendevano leggere sulle guance.
Maria, sempre attenta a cogliere ogni emozione di Angelica, le disse: “Mia Signora, perché piangete? Quale pena d’amore, se si tratta di amore, vi appanna gli occhi e la mente? Posso fare qualcosa per voi?”
Maria, siete davvero gentile e premurosa, ma credo che non possiate fare nulla per me. L’uomo per cui piango è vicino fisicamente, ma lontano col pensiero.”
Si asciugò le lacrime con un fazzoletto di mussola bianca ricamato con le sue cifre, andò come il solito ad inginocchiarsi sotto la Madonna, dicendo le usuali preghiere serali e poi si coricò con la mente piena di pensieri, che parlavano con voci diverse e discordanti.
Maria rimboccò le lenzuola, spense i candelabri uscendo dalla stanza silenziosamente. Si recò nelle cucine alla ricerca di Manico, perché voleva affidargli il compito di rintracciare Goethe. La ricerca ebbe successo sperato, in questa maniera seppe che Angelica stava aspettando con impazienza una visita nello studio.
Lei ebbe incubi e sogni quella notte: angeli e demoni si rincorrevano nella sua mente, mentre smaniava di passione e amore. Il viso del poeta era sempre lì etereo, impalpabile, sfuggente, mentre soffriva le pene d’amore. Non sapeva se era più desiderabile che il sogno perdurasse all’infinito o svanisse come una bolla di sapone.
Le ore della notte trascorsero veloci e ben presto l’alba di un nuovo giorno stava spuntando, facendo capolino tra le pieghe della tenda.
Si svegliò con la certezza che Wolfgang sarebbe tornato da lei. Era una convinzione che misteriosamente faceva capolino nella sua mente, come il raggio di sole si era intrufolato nella stanza bucando i pesanti tendaggi, mentre subito dopo l’angoscia la colse impetuosa, come la rapida spumeggiava nell’orrido.
E’ un sogno quello che penso oppure è realtà? Il mio cuore batte leggero ma impetuosamente. I miei sensi sono all’erta perché sentono i suoi passi che salgono le scale e quel bussare discreto ma deciso alla mia porta”.
Si esprimeva ad alta voce e, presa dall’ansia di verificare la veridicità di quella sensazione del tutto irrazionale, chiamò: “Maria, presto venite! Desidero alzarmi per andare allo studio!”
Goethe era là davanti al portone in attesa di Angelica.

Capitolo 11 – Durante l'attesa del ritorno

Angelica stava completando il ritratto di Goethe, quando si ritrovò bambina attenta a osservare il padre, Josef, mentre dipingeva paesaggi, personaggi e soprattutto decorazioni religiose nelle chiese. Con gli occhi sognanti e il pennello a mezz’aria smise di dipingere e cominciò a sognare. Un flusso caotico di pensieri di ricordi si affacciarono nella mente senza che riuscisse a mettere ordine.
Sono nata a Chur nel cantone dei Grigioni per puro caso, ma le mie radici affondano nel Voralberg a Schwarzenberg, dove ho tutti i miei parenti, anche se ci sono passata raramente”. Erano queste le esternazioni, che riempivano immancabilmente le conversazioni con gli amici venuti a trovarla.
Della madre Cleofe, che aveva perso quando era ancora giovane, ricordava che era di aspetto piacente, minuta ed estremamente religiosa. Questa rigidezza etica e morale erano state per lei una fonte continua di dissidi interni per tutta la vita, sempre combattuta tra il rispetto della morale cattolica impartitale e la libertà dei costumi nelle relazioni. Al pensiero della madre un lieve rossore le imporporò le guance perché era certa che non avrebbe mai approvato i comportamenti attuali. Se fosse ancora in vita, immaginava che avrebbe affermato con tono categorico: «Espierete le vostre colpe tra i supplizi nelle fiamme eterne dell’inferno». Scacciati questi pensieri amari, ritornò con la mente alla madre, mentre si dilettava di musica e cantava. Ricordava che rimaneva a lungo ad ascoltare quei suoni, che le rimbombavano ancora adesso nella mente melodiosi e affascinanti. “Amava la musica e ha saputo trasmettermi questo amore. Se non avessi scelto di diventare pittrice, ora sarei una famosa musicista”. Sapeva di avere un grande talento musicale ereditato da Cleofe ma lo aveva sprecato per seguire le orme del padre. “Se non fosse morta così presto, forse avrei seguito l’inclinazione musicale o come valente soprano o come musicista. Però il destino ha provveduto in altro modo, facendomi seguire l’attività di mio padre”.
Un lieve sospiro interruppe il flusso dei pensieri mentre osservava sul cavalletto la tela, che non progrediva molto.
Mio padre non è stato un pittore di grande estro o talento, perché non riusciva a gestire correttamente i colori. Ma mi ha insegnato ad amare il bello, le proporzioni e la forma, mi ha sostenuto e incitato a diventare pittrice e scultrice. Mi ha insegnato quella tecnica pittorica che a lui era mancata. Mi ha portato con sé a girare per l’Italia facendomi conoscere tutti i grandi artisti. Mi ha introdotto nel mondo dell’arte, presentandomi ai primi committenti, ai quali aveva mostrato i miei disegni. Se sono diventata quella che sono, lo devo a lui”. Era il commosso ricordo che aveva della figura paterna, che aveva segnato profondamente la sua esistenza. Il padre era uno dei tanti pittori itineranti che prestavano la loro opera nel decorare chiese, conventi e case. Era ricercato perché costava poco pur producendo apprezzabili opere senza mai diventare ricco o famoso.
Dalla cittadina svizzera di Chur era venuta in Italia sul lago di Como all’età di undici anni seguendo il padre nella sua attività, mentre operava per conto del vescovo Monsignor Nevroni a dipingere soggetti sacri. “Il vescovo è stato il primo a notarmi, mentre mi dilettavo a dipingere i ritratti delle persone che ci circondavano. Sono rimasta per dieci anni in Italia. Qui mi sono formata come pittrice e ho acquisito il gusto e la passione per l’arte attraverso l’apprezzamento della plasticità dei pittori e scultori più famosi da Michelangelo a Raffaello”.
Con gli occhi velati dalla nostalgia ricordava i primi incarichi ufficiali, quando era poco più di una bambina. “Avevo solo dodici anni, quando il vescovo di Como mi ha commissionato il suo ritratto da appendere sulla parete nella sala conciliare della curia vescovile. E’ stata un’esperienza memorabile, perché sono entrata ufficialmente a fare parte della cerchia dei pittori. Chissà dove è quel quadro. E’ ancora appeso o giace impolverato in un qualche oscuro scantinato?”
Interruppe di dipingere perché la marea dei ricordi la stava sommergendo. “Sono stati anni intensi mentre giravo per la pianura lombarda ed emiliana. La mia fama di brava ritrattista prese forma proprio in quei frangenti. Modena, Milano, Morbegno e altre città ancora mi accolsero, dove ho lasciato molti dipinti”.
Gli occhi si inumidirono quando ricordò il primo soggiorno romano col padre: “Avevo solo ventiquattro anni quando l’Accademia di San Lucia mi accolse come membro onorario. Io ero una bambina rispetto agli altri accademici dai capelli bianchi e molto più anziani di me. L’accademia è la più antica università dell’arte, dove si accettano solo le persone dotate di talento artistico. Che emozione ho provato entrando in quell’aula solenne e enorme. Quella fu l’occasione per la mia consacrazione definitiva, diventando parte stabile del consesso degli artisti”.
Si fermò di nuovo, mentre dipingeva il ritratto di Goethe, per intonare una breve canzone. “Lieber Gott1 disse durante una pausa, volgendo gli occhi verso il soffitto. “Mi hai dato grandi doni: dipingere con maestria, scrivere musica col testo, suonare da virtuosa il cembalo e una notevole voce da soprano. Potevo eccellere in tutte queste arti, ma la pittura e la scultura sono risultate vincenti nella sfida di essere in alternativa una cantante o una musicista. Quanti dubbi mi hanno assalita durante quegli anni, quando ero ancora adolescente! Però il contatto con i grandi pittori e scultori italiani hanno fugato qualsiasi incertezza! Ho scelto la strada dell’arte e ora sono famosa e ricercata”.
Il suo carattere volitivo e deciso si era forgiato e maturato, quando ventiseienne era partita da sola per Londra dove si trasferì presso lo studio londinese di Joshua Reynolds, il più famoso ritrattista dell’epoca, per migliorare la già pur apprezzabile dote di valida pittrice. Qui era stata raggiunta dal padre, che la seguiva come un’ombra, poiché Angelica rendeva parecchi zecchini d’oro coi suoi ritratti. Era un’autentica miniera d’oro, perché era diventata famosa e ricercata per il suo talento.
Devo tutto a Joshua, quando mi ha accolto nel suo studio. Mi ha plasmato graficamente e mi ha insegnato a miscelare i colori. Però soprattutto è stato per me un secondo padre, insegnandomi a stare in società, a respingere i pretendenti troppo insistenti, a imporre le mie idee ai committenti. In quegli anni ho lavorato sodo e sono maturata sia artisticamente sia come donna”.
Sono stati anni importanti quelli, come rammentava Angelica.
Mi hanno chiamata la poetessa del pennello per l’abilità nel dipingere i ritratti della ricca borghesia inglese e dei nobili londinesi” mentre rievocava con una punta di vanità i vari epiteti che avevano coniato per lei. “Ero io a dettare le mode e gli stili, a influenzare gli altri artisti e non il viceversa. Ero ricercata e adorata dall’alta società di Londra. Ero talmente famosa che in un anno ho accumulato tanto denaro da potermi permettere l’acquisto di una comoda casa”.
Mentre ricordava Reynolds e i trascorsi londinesi, un pizzico d’orgoglio la colse nuovamente. “Che soddisfazione ho provato quando la Royal Academy mi ha accolta come membro fondatore. Io sono stata la prima donna a entrare in quel ambiente maschilista! Dopo di me è stata accolta Mary Moser. Gli altri 28 membri erano tutti uomini. E questo lo devo a Joshua, che ha perorato la mia causa con grande forza e determinazione”.
La malinconia salì dentro di lei, mentre rammentava il doppio matrimonio, il primo con il Conte de Horn, un impostore, e il secondo con Antonio Zucchi, un pittore più vecchio di lei di ben 15 anni.
Nel periodo londinese aveva sposato un ciarlatano, che l’aveva raggirata con false credenziali aristocratiche. “Nonostante le avvertenze di Joshua sono stata abbagliata dai modi di fare e dalle finte carte di questo pseudo conte. Sono stata una sempliciotta, quando lui mi chiese di tenere segreta la notizia del matrimonio. Non avevo compreso il raggiro che stava operando ai miei danni. Gran parte della ricchezza posseduta è volata via come le rondini in autunno”.Un lungo sospiro interruppe questa amara riflessione prima di riprendere il filo del discorso. “Come sono stata ingenua! Quell’impostore ha rovinato gli anni più belli della mia vita senza che avessi percepito l’inganno che mi aveva teso”. Le tornava in mente che non era riuscita a liberarsene nonostante l’interessamento di Reynolds, finché la morte non lo aveva colto e l’aveva trasformata in una vedova.
“Al suo decesso ho dovuto accettare come secondo marito Antonio, solo perché ho girato per l’Europa con lui per pura convenienza, spacciandolo per tale. La società non accetta che una donna, non sposata, giri da sola per il mondo. Quindi lo ho scelto come accompagnatore anche perché mio padre mi ha imposto che lui fosse il curatore del mio patrimonio. Io non sono mai andata troppo d’accordo col denaro, che arriva con facilità attraverso la mia attività. Sono diventata talmente ricca da permettermi l’acquisto del grande palazzo con annesso parco sul Pincio, dove abito, e di questo studio, dove lavoro, con l’attiguo appartamento”.
Il secondo non era stato un matrimonio d’amore ma di puro interesse, come spesso capitava a quei tempi. Aveva la necessità di un solido amministratore che gestisse dopo la morte del padre il cospicuo patrimonio accumulato, perché era tanto abile coi pennelli, quanto incapace di gestire il danaro che percepiva dai molti committenti.
Aveva poco più di quarant’anni, quando l’aveva sposato, ma era troppo vecchio per lei, ancora bella e piacente, cercata dagli uomini e odiata dalle donne. Era stato un comodo paravento per respingere i corteggiamenti più assidui e insistenti.
Perché mi sono lasciata convincere a sposare Zucchi? Avrei dovuto resistere e cercare un altro uomo. Non mi ha donato mai un attimo di amore, uno slancio, un sentimento diverso dal formale. Ho bisogno di sentirmi donna, di amare ed essere riamata. Il sesso non è solo una necessità fisiologica, ma un modo di esprimere gli impulsi che nascono dentro di noi. Ora è ancora più vecchio senza più speranza che possa donarmi quello che cerco. Gli sono fedele a modo mio, senza mancargli di rispetto”.
Da cinque anni abitava a Roma nella bella e grande casa poco distante da Via Sistina sul Pincio, dopo avere vissuto per quindici anni a Londra, che aveva lasciata definitivamente dopo il secondo matrimonio. Il palazzo romano, che era stato di proprietà del pittore Anton Raphael Mengs, era molto ampio con una vista mozzafiato di Roma, che si poteva ammirare dall’alto. Nella parte posteriore un bel giardino comodo e spazioso consentiva di godersi il fresco durante i mesi estivi. In via Sistina, nel cuore pulsante di Roma, aveva lo studio con annesso un piccolo appartamento di servizio. La casa, già nota e frequentata col vecchio proprietario, era diventata ben presto il crocevia di tutti i tedeschi che venivano per svago o per studio nella città eterna, perché, mentre loro portavano le ultime notizie dalla Germania, apprendevano le novità su Roma e sui vari artisti che vì operavano.

1Mio Dio

Capitolo 10 – Viaggio in Sicilia

Goethe camminava immerso in una nebbiolina ghiacciata per le strade deserte di Roma, bagnate dall’umidità della notte, per raggiungere l’osteria al Servello, mentre continuava a imprecare contro quella donna che aveva osato sfidarlo mettendolo alla porta come l’ultimo dei servitori.
“Non mi vedrà mai più. Mai più” urlava incollerito mentre affrontava le viuzze strette e maleodoranti che conduceva al lungoTevere per trovare rifugio da Faustina.
La sala era affollata e fumosa come al solito e per farsi udire si doveva gridare. Il poeta si guardò intorno con gli occhi simili a brace ardenti senza scorgere la serva. Strattonò una donna che serviva ai tavoli. Non la conosceva ma non importava.
“Dov’è Faustina?” le urlò nelle orecchie, mentre una brocca di vino volava sul pavimento.
La serva lo fissò malamente prima di sbottare in una imprecazione più adatta a carrettiere che a una bocca femminile. “Non sono sua madre” gli ringhiò sul viso. “E ora lasciatemi se non volete che vi spacchi quest’altra brocca sulla testa”.
Goethe la lasciò, allontanandosi di due passi, prima di girarsi e uscire nell’umido della sera. Passò di osteria in osteria furibondo per lo smacco subito, cercando di calmarsi col vino e allegre compagnie, ritornando alla locanda, dove alloggiava, sul far dell’alba con le gambe incerte e traballanti.
Dormì per tutto il giorno senza mangiare, fu un sonno agitato e tempestoso con incubi e sogni in cui Angelica lo cacciava da qualunque posto si trovasse.
Quando si destò con la bocca impastata dell’ubriaco, era ormai sera. Il risveglio fu amaro con una sensazione di sgradevole incertezza e, dopo essersi data una sistemata sommaria, consumò solitario e scuro in volto il pasto serale in un’osteria poco distante, perché doveva riflettere sulla situazione.
Era stato scaricato da una donna, che gli piaceva e gli donava gradevoli sensazioni, perché si trovava bene nello studio di lei, che per lui rappresentava una seconda casa, ma la scenata della sera precedente costituiva uno smacco, che aveva ferito il suo orgoglio di maschio. I pensieri frullavano inquieti nella testa del poeta, mentre mangiava il piatto di fettuccine sorseggiando del generoso vino rosso dei colli di Frascati. Non aveva molto appetito ma lo stomaco brontolava per il lungo digiuno e reclamava un po’ di cibo dopo il tanto bere della notte precedente. Doveva riorganizzare la propria permanenza a Roma, trovare nuovi stimoli per chiudere questa parentesi che si stava rivelando un disastro. Cominciò a ragionare sulle prossime mosse.
E’ tempo che riprenda il mio viaggio in Italia, andando verso sud, verso quel mondo misterioso vicino all’Africa. Devo parlare con Johann Tischbein per sentire se è disponibile ad accompagnarmi. Preferisco avere un buon compagno di viaggio con cui posso parlare, scambiare le opinioni, annotare quel che vedo. Ho la necessità di non pensare più ad Angelica per un po’ di tempo! La relazione è entrata in stallo, in un vicolo cieco e oscuro e deve essere rivista. La lontananza farà bene a entrambi”.
Però il pensiero della donna dominava ancora la sua mente, perché sentiva una forte attrazione, difficile da sradicare, verso la personalità di Angelica.
“Johann” gli disse qualche sera dopo aver preso la decisione di ricominciare il tragitto intrapreso diversi mesi prima. “L’aria di Roma sta diventando cupa e mi sta annoiando”.
“Perché?” gli domandò l’amico, mentre nell’osteria al Servello sorseggiavano del vino.
“Voglio sentirmi libero come un uccello. Volare e cantare senza nessun obbligo”.
Tischbein lo scrutò con attenzione e scoppiò in una risata. “Amico mio, avete troppe sottane da curare e volete scappare da loro. Ma ditemi dove pensate di dirigervi?”
Goethe rimase in silenzio prima di esprimere l’idea che gli era balenata nei giorni precedenti.
“La Sicilia è la meta. Ma prima voglio passare per Napoli” gli rispose, versandosi un altro bicchiere di vino.
“Mi pare una buona idea”. Gli diede un colpetto sulla spalla prima di iniziare a parlare di donne, di poesia e di pittura. Per il futuro viaggio ci sarebbero state altre serate per approfondire l’argomento.
Le settimane successive furono impiegate da Goethe per i preparativi del lungo viaggio, forse due o tre mesi, che l’avrebbe condotto verso Palermo e la Sicilia con una lunga sosta a Napoli per conoscere meglio questa città, descritta con tanto entusiasmo dagli amici tedeschi e decantata tante volte nelle veglie serali dal padre.
Si trovava con Tischbein quasi tutti i giorni nell’osteria al Servello vicino al Tevere tra le viuzze strette, dove i mercanti d’arte tenevano le loro botteghe, per discutere di pittura, di poesia e del prossimo cammino, che avrebbe intrapreso tra alcune settimane, tra un piatto di pasta e un bicchiere di vino.
Conosceva Johann, un discreto pittore, da molti anni, ed era riuscito a fargli ottenere un buon sussidio per consentirgli la permanenza in Italia, in particolare a Roma, con frequenti puntate a Napoli. Nella città eterna aveva un modesto appartamento nella zona dei mercanti, dove a volte il poeta pernottava, quando faceva tardi all’osteria.
Wolfgang, non so se potrò accompagnarvi nel viaggio in Sicilia, perché ho paura della traversata via mare. Vedrete che troverò qualcuno che vi terrà compagnia nel lungo tragitto verso quelle terre calde e misteriose” gli confessò una sera Tischbein, quando la partenza era ormai vicina.
Johann, vorrei che mi accompagnaste almeno fino a Napoli, facendomi da guida durante la visita alla città, perché la conoscete bene.” rispose Goethe “Però prima di partire vorrei vedere il carnevale romano e divertirmi tra le vie in festa”.
L’organizzazione del viaggio lo teneva così occupato che dimenticò Angelica o almeno non era in cima alle sue preoccupazioni e pensieri.
Arrivarono i giorni del carnevale romano, che era particolarmente festoso, perché durante quei giorni di grande baldoria e di orgie sfrenate era permesso circolare per strada mascherati senza limitazioni negli atti e nei comportamenti.
Apparve agli occhi del poeta come una grande festa, che non era concessa propriamente al popolo ma piuttosto era questa che donava se stessa a tutti i popolani. Era un bagordo gioioso e licenzioso che ricordava i saturnali di molti secoli prima come proseguimento della mitica “età dell’oro” del dio Saturno.
Vide i signori servire i propri servi che dovevano avere il cuore sulle labbra, quando per una volta l’anno volevano dire la verità sui loro signori senza essere presi a bastonate.
Tutti giravano in maschera lungo il Corso, la grande e larga via che passava attraverso il centro di Roma, mentre grandi feste e balli all’aperto animavano le vie intorno e le osterie, dove si consumavano grandi libagioni di vino. Era anche periodo rischioso perché pericolose violenze avvenivano per strade male illuminate a causa delle persone rissose e ubriache, che attaccavano briga per un nonnulla o uno sguardo giudicato offensivo.
A Goethe apparve come uno spettacolo che superava l’immaginazione e i variopinti racconti che i visitatori tedeschi avevano descritto al ritorno in patria.
 
La mattina del 22 febbraio 1787 Goethe accompagnato da Tischbein lasciava Roma lungo la via Appia puntando verso Velletri su una carrozza chiusa. Era l’inizio di un lungo viaggio, che l’avrebbe tenuto lontano dalla città eterna per diversi mesi. La campagna romana era incerta sotto il sole pallido del mattino, perché risentiva degli influssi dell’inverno morente e della primavera che cominciava ad annunciarsi. Tuttavia presentava un certo fascino che attirò i due viaggiatori.
E’ veramente difficile prendere appunti o fare qualche disegno” disse Goethe all’amico. “Godiamoci il paesaggio e le impressioni che esso suscita in noi. La strada è talmente dissestata che non consente di appuntare sensazioni o schizzare i paesaggi che sfilano davanti ai nostri occhi”. Decisero di conservare il ricordo nelle loro teste per tradurli sulla carta con calma alla sera.
Goethe ammirava il panorama mentre commentava. “La campagna sta timidamente togliendosi i vestiti invernali per indossare quelli della primavera. Tra l’erba che sta spuntando crescono i crochi bianchi come minuscoli puntini colorati. E’ una meraviglia osservare la natura che si risveglia dopo la lunga parentesi invernale”.
Il 26 febbraio dopo avere attraversato l’agro romano e quello pontino, acquitrinoso e malsano, raggiunsero finalmente Napoli, mentre gli affioravano nella mente i racconti del padre, tante volte ascoltati da bambino, quando 25 anni prima aveva visitato la città durante il viaggio in Italia.
Durante il passaggio per la campagna romana Goethe convinse Tischbein a fare un quadro, che fu realizzato in poco tempo durante la sosta a Napoli. Il poeta ne rimase entusiasta, perché il ritratto con lo sfondo dell’agro appena attraversato lo rappresentava come un dio della mitologia greca-romana, mentre quello che stava dipingendo Angelica gli appariva troppo dimesso e modesto.
Il poeta commentò eccitato: “E’ un quadro straordinario! Sono stato ritratto come un viaggiatore che percorre l’agro romano non da semplice e modesto viaggiatore ma come un dio, seduto un antico rudere, mentre osserva altre vestigia dell’antica Roma. Domino la scena, che mi fa da contorno!”
Il poeta, che viaggiava come al solito sotto il falso nome di Philippe Moeller, ben presto fu riconosciuto dalla folta colonia tedesca, tanto che rapidamente si diffuse la voce che era in città.
Kniep, un discreto paesaggista ad acquarello, non appena sentì che era a Napoli, si precipitò a conoscerlo accompagnato da una conoscenza comune.
Sono Cristoph Heinrich Kniep. Molto onorato di potervi incontrare e conoscere di persona, ” disse l’artista ormai più italiano che tedesco.
“E noi siamo lieti di fare la vostra conoscenza, Herr Kniep” rispose il poeta, che lo prese subito in simpatia.
Da quel momento fu sempre con loro, ovunque andassero facendo da cicerone e interprete con la gente del luogo.
Un giorno disse: “Mi hanno detto che cercate un compagno di viaggio fino alla Sicilia. Bene ecco di fronte a voi c’è la persona che cercate. Posso dipingere per voi tutti i posti che visiteremo”.
“E’ vero. Sono alla ricerca di una persona che mi tenga compagnia durante la visita a quell’isola remota. Se siete disponibile, siete il benvenuto” rispose Goethe, siglando l’accordo con una stretta di mano.
Così alla fine del mese di marzo del 1787, salutato l’amico Tischbein, che rimaneva a Napoli, Kniep si imbarcò sul piroscafo per Palermo col poeta, dove sarebbero giunti dopo un viaggio di quattro giorni non propriamente felice per il mare agitato. Da qui cominciava il lungo giro per l’isola prima del ritorno a Roma.
 
Dopo quella sera tempestosa Angelica per diversi giorni non frequentò lo studio rimanendo chiusa nelle sue stanze piangendo e interrogandosi sul futuro.
La ferita inferta da Goethe era troppo profonda da rimarginarsi subito, lasciandola prostrata e infelice senza alcuno stimolo per superare la crisi profonda in cui era sprofondata.
Facendosi forza per affrontare la delusione patita riprese la strada dello studio.
Wolfgang è stato davvero meschino nei miei confronti, dimostrandosi privo di tatto e offensivo, dandomi della donna di strada” rifletteva nel chiuso dell’atelier. “Non è stato capace di intuire l’amore che provo per lui. E’ stato egoista e maldestro pensando che tutto il mondo ruotasse intorno a lui. Devo dimenticarlo e riprendere a lavorare di buona lena per recuperare tutto il tempo perduto.”
Consegnò alla baronessa de Kruederer il quadro prima della partenza per Copenhagen, ricevendone elogi e ringraziamenti. Poi cominciò o terminò altri quadri, mentre la delusione si stemperava col passare dei giorni.
Seppe da conoscenze comuni che Goethe era in procinto di partire di nuovo. Non riuscì a conoscerne la destinazione. L’unica certezza era che non stava intraprendendo il viaggio di ritorno.
Questa informazione mitigò parzialmente l’ansia, mentre si dedicava con grande impegno a dipingere per dimenticarlo.