Era sempre in ritardo

Era in ritardo, sempre in ritardo, era un suo difetto, lo sapeva fin troppo bene, ma adesso non riusciva a trovare la borsa e una volta scovata (sotto la giacca di velluto a coste blu sull’appendiabiti nell’ingresso) erano le chiavi a mancare. Avrebbero dovuto essere nella borsa, ma non c’erano, e così aveva fatto  il giro di tutto l’appartamento – no: due giri, anzi tre – prima che le venisse in mente di frugare nelle tasche dei jeans che aveva messo il giorno prima. Si, certo: ma dov’erano i jeans? Troppo tardi per una fetta di pane tostato. Scordati il panne, scordati la colazione. Aveva finito il succo d’arancia. Finiti anche burro e formaggio spalmabile. Il giornale sullo zerbino, poi, era l’ennessimo intralcio. Tiepido come pipì – era un paragone adeguato? Si. – caffè tiepido come pipì in una tazza sporca.

Sonia guardò l’ora e, accidenti, era ancora più tardi di quello che pensava. La colazione ridotta ad un caffè simile ad acqua sporca appena fuori dal freddo, mentre lei era ancora in mutandine e reggiseno e a piedi nudi e girava a vuoto come un mulino a vento senza controllo.

Se voleva uscire per andare a lavorare, doveva cominciare col vestirsi, ma la mente era rivolta ancora alla serata di ieri, quando aveva conosciuto Mattia.

“Perché sto pensando a Mattia?” si interrogò dubbiosa anche perché a parte il nome non ricordava quasi nulla. Era alto, molto alto – no, adesso che ci pensava bene – non era alto, ma di media statura, forse un metro e settanta o qualche centimetro di più. La corporatura era snella, ma forse ricordava male o almeno così rifletteva.

“Accidenti, perché mi ostino a pensare a lui? Sono incerta su tutto a parte il nome.” così sperava in cuor suo, perché ora aveva anche il dubbio che il nome non fosse Mattia.

Alzò gli occhi vedendo il grande orologio di legno ed acciaio appeso alla parete della cucina: segnava già le nove e qualche minuto, mentre la lancetta lunga si spostava sempre a piccoli scatti cadenzati dal cuore di quarzo.“Porca miseria!” imprecò ad alta voce Sonia “Sono passati altri dieci minuti e sono sempre qui”, ma le gambe ostinatamente restavano ancorate al terreno, come se una colla invisibile fosse stata spalmata sotto le piante dei piedi.

L’ex Sala Borsa è stata per diversi secoli il Monte dei Pegni della città, dove moltitudini di poveri e ricchi decaduti avevano portato le cose più preziose nella vana speranza di trovare il denaro per riscattarle. Di questo antico uffizio sono rimasti solo i fittoni di marmo, una volta bianco, istoriati che circondano su due lati l’edificio. Quando nell’ottocento i Monte dei pegni vennero aboliti, l’edificio divenne la sede delle contrattazioni tra i contadini che volevano vendere i loro raccolti e chi era disponibile ad acquistarli. La grande sala al pianoterra tutte le mattine si animava con l’arrivo dei venditori e degli acquirenti, mentre il frastuono saliva verso l’alto con il vociare convulso delle trattative nella formazione del prezzo di acquisto. Poi verso 1960 questo vociare confuso si andò quietando fino a diventare silenzio, mentre la grande sala restava deserta e vuota. Lasciò il posto alla domenica ai venditori di francobolli e monete, mentre l’atmosfera diventava più cheta e solo il brusio soffuso si poteva ascoltare. Poi l’oblio, l’incuria regnarono sovrane finché nuove mani non  hanno riportato il vecchio edifcio a nuova vita.

Nelle splendide sale del piano nobile che guardano il castello ora si tenevano mostre, incontri ed altro ancora. Ieri sera in queste stanze c’era l’inaugurazione della mostra di due giovani e rampanti grafici, che volevano mostrare alla città la loro bravura.

La cornice era splendida, come Sonia aveva potuto osservare salendo lo stupendo scalone di marmo, e l’accoglienza era morbida ed ovattata: luci soffuse, musica invitante in sottofondo, un buffet stuzzicante e particolare.

Molti giovani come Sonia si aggiravano discreti per le sale osservando e commentando le le opere dei due grafici, illuminate nel punto giusto per godersele nella pienezza, mentre pescavano dai supporti dessert invitanti e gustosi.

Appena entrata aveva intravisto quel ragazzo, ma poi l’aveva perso di vista, dimenticandolo finché non lo vide intento a sorseggiare un calice di vino bianco davanti all’albero della vita, come scoprì più tardi Sonia.

Lei aveva un sorbetto in mano e si guardava intorno per scoprire vecchie conoscenze o trovarne delle nuove.

Si avvicinò e disse: “Ciao”. Lui si girò con calma, la squadrò dai capelli alla punta dei piedi e rispose laconico al saluto. Lei continuò con alcune frasi di circostanza sull’opera che stava di fronte a loro, mentre lui continuava a sorseggiare il vino e la osservava con attenzione senza dire molto di più.

La situazione era ridicola o quanto meno buffa, perché Sonia non conosceva il ragazzo e lui non voleva mostrarsi scortese. L’arrivo provvidenziale di Berenice, una dei due grafici, mise fine al siparietto, presentando Mattia a Sonia. Conversarono a tre parlando del lavoro di Berenice come grafico, di loro, di conoscenze comuni e di altro ancora. Poi rimasero solo loro due a parlare o meglio a trasmettersi messaggi in codice del tipo “sei single?”.

Erano le otto quando ridendo ridiscesero lo scalone di marmo riafforando nella sera tiepida ed invitante della città che lentamente stava svuotandosi di luci e persone.

Sonia avrebbe voluto fare la sfrontata chiedendogli di trascorrere il resto della serata insieme, perché non aveva impegni e in particolare non aveva voglia di stare da sola. Però non sentiva venire da lui alcun segnale di incoraggiamento, perché lo percepiva un tantino freddo e distaccato, come se non fosse interessato alla persona di Sonia.

E Mattia svanì nel buio della via che porta verso le mura cittadine, mentre lei lentamente si avviava verso il parcheggio ormai svuotato di macchine.

Si riscosse mentre l’occhio correva al quadrante grigio appeso di fronte a lei, ed una nuova imprecazione uscì prepotente dalla bocca, perché era passata un’altra mezz’ora.

Si doveva sbrigare ad uscire per andare in ufficio, perché altrimenti l’avrebbero data per dispersa.

Non c’era tempo di pensare troppo all’abbigliamento, al trucco, ai capelli. La colazione ormai era data per persa, per il trucco ci avrebbe pensato poi, preso un fermaglio a casaccio raccolse i capelli dietro la nuca in un qualche modo, ma non poteva uscire in mutandine e reggiseno e a piedi nudi.

Prese dei jeans da una gruccia, una camicietta leggera, i collant colorati di blu, le prime scarpe che trovò in un mobiletto, assemblò il vestiario sulla sua persona senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio. Dall’appendiabiti nell’ingresso pigliò la giacca di velluto a coste blu e la borsa e corse a perdifiato giù per le scale verso la rastrelliera delle biciclette. Ne prese una a caso senza guardare, mentre lanciava una nuova imprecazione perché aveva una bicicletta da uomo.

“Pazienza” disse ridendo “Così sono più fighetta!” e via pedalando di gran lena verso il centro tutta felice e contenta.

9 risposte a “Era sempre in ritardo”

  1. Forse quanto accade tra Sonia e Mattia, rimane quasi un sogno. Un incontro e tante emozioni vissute unilateralmente. Il pesiero di lui che sfuma gradualemente sino a non ricordare neppure se era tanto o così alto. Poi la vita che riprende i ritmi della quotidianità e ancora tanta spensierata allegria di una ragazza che ha la vita davanti.
    “Pazienza”….si riesce a dirlo quando si ha ancora tutta l’esistenza davanti. My compliments………:-)))

  2. Quanta fretta! Eppure riesce ad essere in ritardo… “Ma le gambe ostinatamente restavano ancorate al terreno, come se una colla invisibile fosse stata spalmata sotto le piante dei piedi”: concede tempo solo all’immaginazione!
    Bel racconto, Orsetto.
    Un abbraccio,
    Rosalba

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