Lo chalet sul lago

Questo piccolo pezzo l’avevo preparato per stare al gioco della costruzione di un romanzo a più voci. Non è stato accettato perché c’era già un pezzo sullo stesso argomento. Anziché lasciarlo lì, visto che avevo fatto la fatica di scriverlo ve lo propongo.

Puzzone e il sottomura

Il gestore dello chalet sul lago

Sento suonare furiosamente alla porta.

Chi sarà mai quell’imbecille? Vaffa…”. Alzo le chiappe dalla poltrona dove ci sto divinamente. Metto il libro che sto leggendo sul tavolino di fronte.

Mi domando che fretta c’è a suonare in questo modo. Indugio ancora guardando fuori dalla finestra. La vista mi calma un po’ e l’umore migliora. Vedo il bosco che sta cambiando colore. “È l’autunno”. Starei ore a contemplarlo ma qualcuno sta rompendo. Infatti…

Il campanello squilla di nuovo.

Sono Sandro, il gestore dello chalet L’aquila solitaria dove se capita qualcuno per sbaglio vuol dire che ha smarrito la strada.

Il lago è uno sputo d’acqua e le rive sono quasi a strapiombo. “A chi verrebbe in mente di passare una giornata lì? Solo un mentecatto!” L’unico posto pianeggiante è questo e mio nonno ha costruito con le sue mani questo chalet. Mio padre non ne ha voluto sapere niente e così è toccato a me gestirlo.

Può sembrare strano ma meno clienti vedo e meglio sto. Sono un orso da questo punto di vista. Mi piace il silenzio che il bosco fa pervenire alle mie orecchie. Adoro il profumo dei funghi in questa stagione. Insomma avete capito sono un solitario. Quando ho preso la gestione, mia moglie ha fatto fagotto e se ne è andata. Non so dove, né mi interessa saperlo. Non smetteva mai di lagnarsi, di frignare, perché lei voleva fare sempre bisboccia e io mi scocciavo. “Beh! Adesso nessuno glielo impedisce”. Rido, anzi sorrido a questo pensiero, mentre mi avvio verso la porta.

Il campanello squilla ancora in maniera sconcia.

«Arrivo! E la smetta di suonare» urlo tirandomi su le braghe che come al solito sono scese. Non è bello mostrarsi a un possibile cliente mostrando parte delle mutande. Non è che siano sporche ma non è lo stesso un bel vedere.

Tiro il catenaccio che blocca la porta di abete con un frastuono che mi perfora le tempie. “Dovrò oliarlo, perché tutte le volte produce un suono sinistro e acuto”.

Metto il naso fuori per vedere chi è lo scocciatore. Faccio un “ah!” di sorpresa. Un omone grande e grosso infila la punta della scarpa tra lo stipite e il battente per impedirmi di chiudere la porta.

«Che vuole?» Il mio tono è sgarbato quasi infastidito vedendo un possibile cliente.

«Mi manda la barista».

Mi scappa un «fanculo». Devo dirle di smettere di mandarmi dei clienti.

Se una giornata qualunque di aprile…

Una notte magica San Giovanni

 

Siamo ad aprile ma metto ancora il trench, perché fa freddo. Il sole non si vede coperto da nuvole scure che minacciano pioggia. Stringo la cintura e alzo il bavero dell’impermeabile chiudendolo bene alla gola.

Mi dico che avrei fatto bene a prendere una sciarpa di lana ma mi é sembrato eccessivo. Adesso la rimpiango. Forse anche un cappello non avrebbe suscitato ilarità nei pochi passanti che incrocio. Loro sono vestiti più di me. Il Burberry modello Westminster è bello e chic ma oggi serve a poco. Lo so, mi dico, che è un cappotto inglese assai costoso ma definirlo tale mi sembra esagerato. Oggi servirebbe qualcosa di più pesante.

Cammino svelto lungo Corso Italia diretto alla metropolitana. È una giornata feriale ma sembra domenica mattina presto, quando a Milano sono tutti ancora a dormire dopo i bagordi del sabato sera.

C’è qualcosa che stona ma non percepisco cosa o meglio lo capisco ma mi lascia perplesso. Per essere un mercoledì mattina mi sembra che tutti si siano nascosti. Le persone che incontro sono frettolose ma questo a Milano è la norma. Quello che è fuori standard è l’esiguo numero che camminano, tutti con la testa incassata tra le spalle.

Scendo le scale di Piazza Missori per prendere la linea gialla. Due fermate e sono in via Montenapoleone. Qui ho appuntamento con Sofia, una bella ragazza di venticinque anni. Ha un paio di anni meno di me ma è molto matura per la sua età. Ci troviamo bene insieme ma non è la mia ragazza. Il problema non è l’età: è che non è il mio tipo dal punto di vista fisico. Il corpo filiforme con un seno appena pronunciato non è il mio massimo. Mi piacciono le donne in ciccia. Non grasse ma con quel filo di carne che quando le abbracci senti consistenza.

Quando prendo Sofia fra le mie braccia per salutarla con un casto bacio sulle guance, sento solo ossa e fragilità. Temo sempre quando la stringo di rompere un prezioso calice di cristallo. Però con lei mi trovo bene. È solare, sorride sempre in maniera spontanea. Si può parlare di tutto: di libri, di musica e delle notizie del giorno senza mai annoiarsi. Però non è il mio tipo. La considero la sorella minore che non ho ma non la mia compagna. Forse lei è delusa dal mio atteggiamento ma io sono fatto così. Deve piacermi sotto tutti i punti di vista.

Immerso nei miei pensieri arrivo ai tornelli per obliterare il biglietto. Mi fermo stranito. Possibile che non ci sia anima viva, mi dico guardandomi intorno, nemmeno qualcuno nel gabbiotto da dove controlla che nessuno li salti?

Mi stringo nelle spalle e penso che sia una giornata di festa. “Ma è possibile?”

Scuoto la testa come per scacciare questa ipotesi balzana, mentre infilo il biglietto nella fessura per sbloccare l’apertura. Passo oltre e faccio i gradini che mi portano alla banchina. Odio le scale mobili senza nessun motivo e preferisco le scale. Mi fermo poco prima della linea gialla dove curiosamente ci sono dei dischi con su scritto ‘tu resti qui’. Una giornata strana senza dubbio, mentre ascolto la voce gracchiante di una donna. «Il convoglio arriva tra tre minuti. Rispettare la linea gialla e il distanziamento. Nessun assembramento».

Mi guardo intorno e mi accorgo di essere l’unico viaggiatore che aspetta. Altra stranezza della giornata, perché di norma c’è calca per prendere la metropolitana. Però è quella parola ‘distanziamento’ che ballonzola nella mia testa. Mi chiedo il motivo ma non finisco di riflettere, quando arriva il convoglio. Le porte si aprono ed entro. «I signori viaggiatori sono pregati di non sedersi sui sedili contrassegnati con una croce. I trasgressori sono puniti con quattrocento euro di multa».

Sento il clac delle porte che si chiudono mentre il convoglio prende velocità. Le stranezze si sommano da quando sono uscito dall’Hotel Charlie, penso sedendomi su un sedile privo di contrassegni. Io vivo in questo albergo, quando sono a Milano e tutto mi è sembrato normale. La receptionist bionda ossigenata con il sorriso falso sulle labbra. Il cameriere che mi ha servito la colazione stamattina. Gli inservienti che si muovono lentamente nell’attesa che gli ospiti lascino le loro stanze. Ho visto pure Piero, l’altro habitué dell’hotel. Però appena ho messo un piede fuori della porta girevole lo scenario è mutato. Pochissimi passanti, zero macchine, qualche rara bicicletta, mezzo davvero insolito per Milano.

Sono immerso nei miei pensieri, quando sento la solita voce gracchiante che annuncia: «Montenapoleone. Prossima fermata Montenapoleone». Mi riscuoto, perché non mi sono accorto della fermata Duomo. Mi alzo e mi preparo a uscire. Nemmeno qui vedo anima viva. Si sentono solo i miei passi che salgono le scale. Fuori la giornata non è mutata: sempre grigia con minaccia di pioggia. Mi rifugio nel Caffè degli artisti, dove mi aspetta Sofia.

Il locale è sempre animato a qualsiasi ora del giorno e oggi non fa eccezione. Come per magia quella sensazione strana che mi ha accompagnato svanisce. Tiro un sospiro di sollievo, perché tutto torna alla normalità. Forse era solo suggestione.

Sofia mi aspetta seduto al nostro tavolo, quello in angolo vicino alla vetrata. Si alza e mi abbraccia dandomi un bacio sulle guance. Che strano, mi dico, di solito è il contrario. Ci sediamo e mi prende le mani. Vorrei sottrarmi alla stretta ma ho il timore che si offenda. Lascio fare. «Cosa prendi? Io la solita cioccolata in tazza con la brioche» le chiedo mentre la osservo in viso. Ha una strana espressione: lo sguardo è tra il preoccupato e lo speranzoso. Non capisco cosa mi voglia trasmettere. Sto per chiedere il motivo, quando mi precede.

«Da stasera alle venti non si potrà più circolare liberamente fino a nuovo ordine. Si rischia una multa salata o la galera».

La guardo stranito, perché mi sembra una cosa inverosimile ma tengo per me questi pensieri. «Vuol dire che non ci vedremo nei prossimi giorni e non potrò tornare a casa?»

Sofia annuisce e chiede speranzosa: «Traslochi da me oppure mi ospiti nella tua stanza?»

La richiesta mi coglie di sorpresa e farfuglio qualcosa che lei interpreta come un sì. Adesso sono incastrato e devo solo scegliere dove.

Pseudo recensione di un libro inesistente

copertina Amanda e il bosco degli elfi

Casualmente mi sono imbattuto in un libro inedito, nel senso che non è mai apparso nelle librerie e non verrà mai stampato: “Quando i ricordi tornano...” ed. orsobianco, 2009 e l’ho letto tutto d’un fiato, in apnea. Fortunatamente non era lungo, altrimenti ci sarei rimasto secco. Però questi sono dettagli inutili. Passiamo alla recensione non voluta.

Con piacere al suo interno ho scoperto un romanzo nel romanzo “La fine attraverso la trombata, più nota come i misteri di Cala Violinas” della scrittrice spagnola Maria por Desgracia Navidad, famosa per scrivere i suoi libri in judezmo.

E’ una vera chicca che brilla nel firmamento delle scrittrici di nicchia ma talmente di nicchia che non si vedeva un accidente. La mia buona sorte è stata l’elmetto da minatore con un lucignolo incastrato sopra. Ho pensato di essere una statua al camposanto. Abbandonati questi pensieri tristi, subito mi sono dato da fare per recuperarlo nella lingua originale e tradurlo in italiano. Qualcuno, più vispo e ardito degli altri, mi ha chiesto che lingua è il judezmo e altri, più creduloni, mi hanno domandato «Ma conosci il judezmo?». No, no! Non lo conosco affatto, né ho l’intenzione di impararlo. Nemmeno so se esiste veramente. «Ma come avresti fatto a tradurlo, se non conosci una parola di judezmo e non sai se è una lingua viva?». Niente panico, siamo tutti inglesi! Il piccolo segreto si chiama traduttore di Google, che traduce tutto ma proprio tutto, compresi i peli delle parti nascoste. Però la mia è stata fatica vana, perché il libro si è materializzato già pronto per la lettura. «Che c…!» diranno i più benevoli. In effetti non mi sono lamentato per nulla. Comunque lasciamo perdere questi particolari da guardoni della lettura e concentriamoci sul romanzo, che mi ha lasciato di sasso. Speriamo bene che mi rimetta in fretta. Restare di sasso non fa bene alle articolazioni.

Riporto un breve brano per mostrare la bravura di questa scrittrice, tanto nota da essere totalmente sconosciuta.

Io e Andrea di mattina di buon’ora mettemmo in mare il vaurien. Era una splendida giornata per veleggiare. Tirava un alito di vento verso nord est che avrebbe favorito alla sera il ritorno da Cala Violinas. Andrea era abbastanza abile nello sfruttare la bava contraria per risalire la costa con una bella andatura di bolina.”

E’ la storia intrigante di due donne e un uomo, che si inseguono cercando amore mercenario tra loro. Chi avrebbe immaginato che una donna amasse un’altra donna per farsi scopare dal suo uomo? Quasi da non crederci se non ci fosse stato il nero sul bianco.

E’ una storia avvincente, quasi originale nella sua banalità con colpi di scena che rasentano i colpi di sole che i tre protagonisti hanno di continuo sulla meravigliosa spiaggia di Cala Violinas.

Quale meraviglia può cogliere il lettore leggendo un altro passo del libro.

E così Andrea mi abbandonò con Ester.

Quegli occhi verdi, a volte socchiusi, a volte scintillanti come smeraldi fin dal primo momento mi procuravano delle sensazioni che non ero mai riuscita a classificare.

Adesso immerse in un’atmosfera magica e musicale avevo timore delle mie reazioni, che volevo reprimere e soffocare nella mia mente.

Dunque Ester e Miriam sono sole e nude sulla spiaggia più musicale del sud della Spagna sotto i raggi implacabili del Sole rovente come la passione che le avrebbe travolte.

Maria por Disgracia Navidad riesce ad esprimere con pochi tratti di penna i sentimenti che sbocciano tra le due donne senza cadere mai nell’erotico, solo pruriginosa astuzia per incuriosire il lettore, che ci casca come una pera matura.

E che dire del rapporto caldo come la sabbia di mezzogiorno che Ester e Andrea avranno sul finire del romanzo tra le dune notturne mentre Miriam angosciata cerca di spiare il loro amplesso per una doppia gelosia nei confronti di Ester che la stava tradendo col suo uomo, e di Andrea, che gli soffiava la donna della passione e del cuore.

Il fresco della notte, l’odore inconfondibile del mare si fece strada nella mente che cominciava a pensare a dove erano finiti Andrea e Ester.

I cattivi pensieri frullavano come maionese impazzita nella testa mentre un senso di angoscia e di rabbia mi spingeva a muovermi…

Veramente è di una bravura che non si può misurare nelle descrizioni, nei sentimenti, nella storia quasi piatta da rasentare la noia. Non saprei come valutarla tanto sono incapace nella scrittura. Quindi fidatevi perché il ciel v’aiuta.

Che dire ancora, dopo che l’ho premiata con ben cinque stelline? E voi direte «E che me ne importa delle tue stelline del c…». A me nulla come a voi del resto.

Un ultimo consiglio per l’acquisto.

Leggete questo romanzo e non vi pentirete. Però io mi rendo irreperibile. Non si sa mai che qualcuno non mi insegua col forcone.

La Bestia, il Principe Azzurro e il Principe – Le fiabe mai raccontate

foto di Veronica
foto di Veronica

La locanda “Alla Strega Violina” stava nel centro del paese. Era l’unico posto dove gli uomini di Pizzi si trovavano per giocare a carte, a bere vino e vedere la televisione satellitare. Era un edificio quadrato con la base in muratura e il resto in legno in mezzo a una corte dove il fico faceva buona guardia con la sua maestosa chioma. Lo chiamavano ‘rubacuori’, perché nessuno resisteva a staccare dai rami un fico. Nero, piccolo e dolcissimo.

L’oste era un tale Franceschiello, un compare che aveva imparato l’arte onorata dal brigante Sparasassi. Furbo e accorto aveva fregato un po’ tutti nella regione di Fiabilanda, facendo i soldi a spese dei gonzi, che si ritenevano più scaltri di lui. Con questi denari si era comprato un bel pezzo di terreno, dove al centro aveva costruito la locanda.

Al piano terra stavano due grandi sale più i servizi. Al primo piano le camere per gli ospiti di passaggio per Pizzi, diretti al Castello della Fantasia, un posto fantastico, dove si era ammessi solo se l’immaginazione superava la realtà. In tanti ci provavano, in pochi ce la facevano. Tuttavia il flusso dei viandanti era cospicuo, facendo le fortune di Franceschiello, che ancora una volta aveva dimostrato di avere buon fiuto per gli affari. Insomma aveva sempre tutte le camere affittate. Chi non trovava posto si adattava a dormire per terra nella rimessa degli Ippogrifi per quattro soldi di cacio. Insomma faceva soldi che accumulava nell’unica banca di Fiabilanda, la ‘Banca di Pollicino’, che chiamavano familiarmente ‘Polli’, come quelli da spennare.

Nella prima sala al pianoterra c’erano i tavoli dove a mezzogiorno e alle venti si mangiava, mentre nel restante tempo servivano per fare oziare gli uomini di Pizzi. Nella seconda sala, aperta dalle venti fino alla mattina, c’era il grande schermo in 16k UHD, dove si vedeva la televisione di stato, GF TV, l’unica che trasmetteva nella regione in regime di monopolio. Altre possibilità non ce ne erano. O così o pomì. La programmazione? Rigorosamente film e programmi sereni, che finivano come nelle fiabe della migliore tradizione. ‘E tutti vissero felici e contenti’. Solo alla domenica c’era un diversivo. Si poteva osservare Valentino Rossi e Lewis Hamilton che correvano a trecento chilometri all’ora come pazzi spericolati, tra capitomboli impressionanti e sportellate da capogiro. Nessun altro sport era permesso. In particolare era bandito il calcio, perché creava tumulti e litigi. E poi gli ultras invece di amarsi se le suonavano di santa ragione. Dunque abolito per legge e punito. Chi osava infrangere il divieto era costretto per punizione a vedersi per dodici mesi senza interruzione di sorta Pollyanna oppure Love Story a scelta. Tutti i giorni per dodici ore filate. Chi era stato colto a barare, dopo l’espiazione della pena, era talmente rintronato che baciava persino le chiappe del primo ministro Medici, notoriamente sporche. Insomma un lavaggio del cervello dagli effetti irreversibili. Lupo Ezechiele fu il primo a essere colto in flagranza di reato. Adesso serviva messa e accompagnava Cappuccetto Rosso dalla nonna nel bosco. Dopo i primi sprovveduti, gli altri hanno preso a rigare dritti.

Era la sera di San Martino, l’undici novembre di un anno che non finiva mai. Nella sala dei tavolini in un angolo stavano la Bestia, il Principe Azzurro e il Principe, quello senza attributi o colori variopinti, il consorte della Sirenetta. C’erano solo loro, gli altri erano nella sala della TV a guardare il solito programma scemo di Scotti Unavolta, che col suo faccione bonario presentava ‘Caduti in piedi’. Un programma talmente mieloso, che la Principessa sul pisello cadeva addormentata sulla sedia. Il suo respiro ronfante era la sinfonia di sottofondo al programma. Gli altri? Si sentivano solo le grasse risate dei pizzini. Non sono quella della mafia ma così si chiamano gli abitanti di Pizzi.

Dunque il trio era nel tavolino d’angolo a giocare coi dadi. La Bestia, sfortunato in amore, si rifaceva a spese dei due principi, che invece erano fortunati con le donne. Tutte le femmine dai dieci anni in sù li sognavano e sbavavano al pensiero che arrivassero con la cabrio decapottabile rigorosamente bianca e prenderle e portarle nel loro castello. La Bestia invece no. Nessuna lo voleva per le mani. Solo la Bella resisteva alla sua presenza.

Ma non indugiamo su questi dettagli marginali, che annoiano e appesantiscono la narrazione.

La Besta beveva il solito immarcescibile succo di Bruttezza, un liquido giallognolo, colore del piscio, e tirava i dadi.

“Dodici” annunciò la Bestia con voce afona e lo sguardo vuoto.

Sul tavolo due bei sei erano le facce visibili dei dadi.

“Hai un culo della malore!” sbottò il Principe Azzurro, gettando le sue fiche verso al Bestia. Aveva la faccia schifata. ‘Mai vista una fortuna così’ pensò, osservando il vuoto delle fiche. Doveva pensare a come giustificare a Prezzemolina che aveva perso l’intero stipendio della novena.

“Sarai cornuto stasera!” rincarò la dose il Principe, quello semplice. Notando che davanti a lui c’erano due fiche. Immaginava cosa avrebbe detto stasera la Sirenetta.

La Bestia rise, raccogliendo le fiche, che i due perdenti gli avevano lanciato. Aveva una montagna di fiche, che impilò per colore e dimensioni. ‘Posso regalare alla Bella due vestiti nuovi, un monile di giada antico’ si disse, ridendo sotto i baffi. ‘Poi ne avanza per andare a trovare nel bosco la figlia del Sultano’. Si deve sapere che lei doveva sbarcare il lunario dopo che era stata cacciata di casa col marito dallo suocero.

“Ci ha provato una volta col principe dell’oriente” ridacchiò la Bestia, mostrando le otturazioni scadenti dei suoi denti. “Ma ha preso un fracasso di legnate!”

“Solito maschilista” rimbeccò il Principe Azzurro, mentre agitava i dadi nel bussolotto di pelle umana.

“Ah! Ah!” rise a bocca larga la Bestia. “Prezzemolina ha un palco in testa che fa invidia al Cervo Maestoso del bosco di Fiabilanda”.

Il Principe Azzurro smise di agitare il bussolotto e guardò di sbieco la Bestia. Guai a toccargli la sua Prezzemolina. “Beh!” pensò il Principe Azzurro, che inghiottì la saliva, facendo ballonzolare il pomo di Adamo. “Biancaneve è stato un bel bocconcino. A letto è stata super. Altroché quell’insipida della Prez, che ogni sera ha una scusa buona per mettersi a dormire. Il mio omonimo, il marito di Bianca, è una frana a letto, secondo lei. Ma vale a capire queste donne”.

“Cosa vorresti insinuare?” affermò con forza il Principe Azzurro.

“Nulla, nulla” si affrettò a dire la Bestia, conosceva quanto fosse irritabile il Principe Azzurro. “Pollicino va a raccontare in giro che ha visto la cabrio decappottabile bianca parcheggiata davanti alla casa dei sette nani”.

Il Principe, quello semplice, impalmato con la Sirenetta, scoppiò in una lunga risata. “Touchè!” fece lui, volgendosi verso il principe Azzurro visibilmente contrariato per queste chiacchiere, tipiche di Alfonso Signorotti.

“Dai! Muovi le mani e tira i dadi” disse la Bestia, che tracannava un boccale di birra rossa, sporcando con la schiuma la barba ormai bianca.

Il Principe Azzurro sentì alle sue spalle un fracasso indiavolato di tavoli e sedie sbattute a terra. Si girò, bianco cadaverico in viso. ‘Se fosse Prez…’ pensò, mosse gli occhi lentamente verso quel rumore. ‘Starei fresco. Una bastonata non me la scanso di certo’

Vide arrivare come una Furia la Bella, che prese la Bestia per un orecchio, tirandolo su di forza dalla sedia.

“A casa, sfaticato!” berciò nervosa e irata la Bella. “Devi lucidare i pavimenti, lavare i vetri e fare il bucato! E te ne stai con questi altri due fannulloni a giocarti i soldi del mutuo del palazzo!”

La Bestia fece una smorfia di dolore. La tirata di orecchie era troppo violenta. Cercò di arraffare le fiche dal tavolo, che caddero rumorosamente a terra.

“Lasciale lì!” gli intimò la Bella, trascinandolo per la sala.

Il Principe Azzurro rise, mentre il colorito del viso tornava normale. Stava per chinarsi a raccogliere le fiche cadute, quando si ritrovò a bocconi sul pavimento. Un dolore atroce lo colse sulla schiena. Udì una voce familaire.

“Che razza di principe sei!” ringhiò Prezzemolina con in mano il manico della scopa. “Dovevi andare al mercato a comprare la cena. E dove ti trovo? Con altri due smidollati e buona a nulla! Ha perdere tutti i tuoi soldi”.

Lo afferrò per la giubba, rimettendolo in piedi. “E poi a casa facciamo i conti” latrò Prezzemolina. “Mi devi delle spiegazioni sulla visita ai sette nani in loro assenza”.

IL Principe, quello semplice e senza attributi, ghignava a più non posso. Osservò il mucchio di fiche tra il tavolo e il pavimento. Aprì il tascapane per metterle dentro, quando fu investito da un’odna marina, che lo bagnò da capo ai piedi. ‘È arrivata anche lei’ mormorò rassegnato alla bastonata, che non arrivò.

“Finisci di raccogliere le fiche” disse gentile la Sirenetta con un largo sorriso stampato sulle labbra colorate di un bel rosso acceso. “Però il tascapane lo dai a me. Ti va di lusso, stasera. I pavimenti del castello ti aspettano”.

E tutti vissero infelici e scontenti.

La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina – Le fiabe mai raccontate

il mio frutteto - Foto personale
il mio frutteto – Foto personale

Una sera di fine ottobre si ritrovarono sul social Fiabe&co2.0 La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina.

Era il social emergente, che aveva schiantato e spazzato via la concorrenza. Twitter era fallito un anno prima. Un crack così non l’aveva mai visto nessuno. Milioni di azionisti avevano minacciato di picchiare a sangue Dorsey, il CEO, perché era riuscito ad azzerare tutti i loro soldi.

Tumbir navigava a vista tra le acque infide di scogli sommersi. Di certo non sarebbe arrivato a fine anno.

Istangram aveva chiuso due anni prima. Di questo si erano persi i ricordi. Nessuno lo rimpiangeva.

WordPress vivacchiava tra i sussulti di Lady Nadia e gli anatemi di Lady Alessandra. Però era gratis e qualche fan incallito, come Newwhitebear, lo frequentava ancora. Li chiamavano i ‘nostalgici’.

Facebook aveva conservato qualche milione di iscritti. Gli irriducibili, come si definivano loro ma Zuckenberg pensava di chiudere bottega. Pieno di grana poteva permettersi di vivere di rendita, facendo il finto filantropo.

Insomma una disfatta su tutta la linea.

Un giorno di qualche anno fa i fratelli Grimm con la collaborazione di Andersen, Perrault e Afanasjev decisero che era tempo di cambiamenti. “Basta la foresta pietrificata dei social spammatori!” argomentarono, dondosi da fare nel creare da nulla la loro creatura. Nacque Fiabe&co2.0. Fu un successone. Tutti in fila per iscriversi. A darsi di gomito per affermare ‘io mi sono iscritto ancor prima che emettesse un vagito”.

Ma adesso torniamo alle nostre amiche che videochattano, videoparlano, videoano solo. Insomma fanno quello che meglio riesce a loro.

La Bella non ricordava il proprio nome, anzi era l’unico che conoscesse. Da quando era in fasce la chiamavano così. E quello era rimasto appiccicato come un nastro adesivo. Lei era La Bella e basta. Non che le dispiacesse sentirsi chiamare così. Tutt’altro! Sapeva di essere il meglio del reame ma fingeva umiltà, mentre dentro di sé gongolava per la soddisfazione, pensando come erano scorfano le sorelle. Ma l’aspetto peggiore era come erano finite. La maggiore aveva sposato una persona, che passava il suo tempo a specchiarsi. Non faceva altra attività che quella. La sorella maggiore, se voleva un po’ di sesso, doveva arrangiarsi come poteva. Il marito era fisso davanti allo specchio. “Manco fosse Narciso” pensò La Bella, sghignazzando. La seconda aveva incrociato uno bello spirito. Tanto bello, quanto vanesio. “Beh!” si diceva sempre, “almeno ho sposato la Bestia. Bruttina ma tanto di buon cuore. E poi mi lascia campo libero. Faccio quello che voglio” e giù una sghignazzata da far spavento anche alla Bestia.

La Sirenetta stava sul proprio scoglio a Copenhagen, sempre indaffarata mandare via gli scocciatori, che pretendevano di prendersi un pezzo della sua coda. Aveva faticato un sacco a recuperarla. Mica adesso poteva regalarla impunemente ai turisti armati di forbici e macchine fotografiche. I più terribili erano i giapponesi. Sembravano cavallette. Un sospiro le sfuggì dalla bocca. Il principe consorte se ne stava sempre dentro il suo palazzo di rilucente pietra gialla. La Sirenetta non era convinta che fosse vera pietra ma mattoni auriferi. Rilucevano troppo. E quando non era dentro, stava sul terrazzo a rimirare il chiaro di luna. “Uffa, che barba” si disse la Sirenetta, vagamente annoiata. “Se non fossi su questo scoglio a prendere sole e difendermi dagli scocciatori. Sai che noia, sai che barba!” La Sirenetta segnava al sorgere del sole un’asta, che barrava al tramonto. Teneva il conto di quanti giorni le rimanessero da vivere, prima di diventare spuma nell’acqua. “E va bene che campo trecento anni. E di giorni ne mancono ancora un bel po’” rifletté, mentre si metteva in posa davanti alla webcam. “Però prima di diventare spuma, mi voglio godere la vita”.

Prezzemolina, con le stimate del prezzemolo come marchio di fabbrica sul palmo della mano sinistra, curava le sue preziose trecce lunghe venti braccia. “Uffa” si disse un giorno. “Questi capelli saranno la mi rovina”. Perdeva delle ore a lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Poi quando aveva finito ricominciava a scioglierli, lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Insomma un ciclo perpetuo a movimento continuo. Il solito principe, che aveva sfidato l’orchessa per impalmarla, soffiava come un mantice in azione dal fabbro ferraio “Da quando è scesa dalla torre” pensò arrabbiato, “non fa altro che quello. Giorno e notte. Se mi avvicino per fare all’amore, mi risponde ‘Aspetto, quando ho finito’”

Dunque le tre amiche, che si erano incontrate per la prima volta su Fiabe&co2,0, tutte le sere alle venti avevano l’appuntamento. Cascasse il mondo, tremasse la terra, avessero un febbrone da cavallo, si trovavano sempre davanti al monitor. Cuffie nelle orecchie, webcam attiva, microfono aperto e pronte a digitare sulla tastiera.

“Che stai facendo, Sirenetta?” le chiese La Bella, che non capiva i movimenti dell’amica.

La Bella udì un forte brontolio simile al mare in burrasca. “E va bene che suo padre è il dio del mare. Ma ricordarlo sempre è troppo” si disse, storcendo il naso.

“Lasciami perdere” borbottò la Sirenetta, mentre teneva stretto lo smartphone tra orecchio e spalla. Quello era sempre attivo. La chiamavano la telefonista seriale. Sempre con lei, ovunque fosse. Anche in bagno.

“Ma dimmi cosa è successo?” si inserì Prezzemolina, che aveva appena finito di raccogliere la treccia ma si apprestava a scioglierla.

“Amiche care” sbuffò la Sirenetta. “Qualche coglione di writer si è divertito a scrivere sul mio scoglio preferito”.

La Bella sorrise. Prezzemolina aggrottò la fronte.

“Ma cosa ha scritto?” chiese curiosa Prezzemolina, mentre era alle prese con la sua treccia.

“Ha scritto che i danesi non vogliono migranti provenienti dal mare” esclamò con il viso rosso per la rabbia la Sirenetta. “’Torna da dove sei venuta. I danesi non ti vogliono sui loro scogli’ Ma vi sembra il modo di ringraziare chi attira milioni di visitatori l’anno?”

La Bella si allontanò un attimo fuori dalla visuale della webcam, chiudendo il microfono. Non riusciva a trattenere una risata fragorosa. Poi ricomposta si mise di nuovo in postazione.

“Ma non hai la pelle scura, Sirenetta!” chiosò La Bella con lo sguardo serio, mentre rideva di lei.

La Sirenetta arrossì un pochino, prima di rispondere.

“Beh! In realtà” sospirò rumorosamente la Sirenetta. “Un pochino lo sono. Sai a forza di stare sullo scoglio al sole, mi sono dorata. È bella ma pare l’abbronzatura del muratore”.

Una breve risata uscì dalla bocca della Sirenetta, che continuava a dare olio di gomito per togliere le scritte dallo scoglio.

Prezzemolina, rimasta in silenzio fino a quel momento, decise di intervenire.

“Sono dei razzisti, quei danesi!” fece alzando la voce. “Dovrebbero essere più riconoscenti, quegli zoticoni!”

La Bella di rincalzo. “Non ti meritano, Sirenetta. Posso darti ospitalità nel pazzo della Bestia. È tanto vasto che a volte mi perdo. Per fortuna il lupo, che si è pappato l’orchessa mi ritrova e mi riporta nelle mie stanze”.

La Sirenetta strabuzzò gli occhi. “E come ci arrivo?” disse, interrompendo per un attimo di strofinare lo scoglio.

Prezzemolina sospirò, pensando che sarebbe bello trovarsi tutte e tre sotto lo stesso tetto. “Sai quante chiacchiere?”

Prezzemolina stava per dire qualcosa, quando udì una possente voce.

“Bella, che fai? Ho fame!”

“Uffa” disse La Bella, corrugando la fronte. “Ma lo sai che sto parlando con le amiche. Ancora un attimino”.

Poi volgendo lo sguardo alla webcam, aggiunse. “Lui pensa solo a mangiare. È grasso come un porcello all’ingrasso. Ci sentiamo domani alla stessa ora”.

“Ciao” rispose la Sirenetta. “A domani”. E spense la webcam.

“A domani” disse Prezzemolina, che stava rifacendo la treccia.