15 ottobre 1950

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo articolo che potete leggere anche qui.

La Maharani Gayatri Devi osservava gli alberi del giardino interno nel palazzo di Japur e provava un filo di nostalgia per essere lì e non altrove. Avrebbe desiderato stare a Londra, dove aveva studiato prima del matrimonio con il Maharaja Sawai Man Singh II. Con l’indipendenza dell’India nel 1947 aveva perso lo status regale pur conservando il titolo di principessa.

Era di una bellezza misteriosa come molte delle maharani. Aveva lasciato alle spalle un’infanzia felice trascorsa lontano dall’India. Dapprima a Londra, poi a Losanna. Erano i ricordi londinesi quelli più felici anche se erano lontani nel tempo.

Si domandò se Lord David Mounbatton si ricordava di lei. Erano coetanei, entrambi nati nel 1919 a distanza di pochi giorni. David era nato il 12 maggio e Gayatri il 19 dello stesso mese a Londra. Lei era restata nella capitale inglese fino all’età di dodici anni, prima di ritornare a Cooch Behar nel West Bengal, dove il padre era il principe Jitendra Narayan di Cooch Behar. La madre Indira Raje di Baroda, una principessa della casta Maratha, era innamorata dell’Europa. Ritornò con la figlia quasi subito a Londra, dove la iscrisse in un college esclusivo, il Monkey Club, per avviarla alla professione di segretaria.

Lord David era il figlio cadetto di un Sea Lord inglese, legato alla corona inglese. Si incontrarono al ballo delle debuttanti che tutti gli anni si teneva in febbraio presso il Monkey Club. Gayatri avrebbe compiuto diciott’anni qualche mese più tardi. Ballarono tutta la sera senza stancarsi mai. Parevano una coppia affiatata. Impeccabili nei movimenti, sempre sorridenti con tutti. Lui alto e biondo, lei più bassa e dalla capigliatura corvina. C’era contrasto nei visi: lord David dal pallore chiaro, Gayatri dalla carnagione olivastra. Anche gli occhi erano del tutto diversi. Lui un azzurro ceruleo, lei scuri quasi neri. Però era un gradevole accostamento.

Si frequentarono fino a giugno, quando il padre le ordinò di ritornare senza indugi in India. Si salutarono scambiando la promessa di non perdersi di vista. Gayatri non sapeva che era stato combinato il suo matrimonio con quello che sarebbe diventato, qualche anno più tardi il Maharaja di Japur. Una fastosa cerimonia suggellò le nozze e l’anno successivo divenne la Maharani.

Lei però non aveva dimenticato quel lord inglese alto e biondo dal sorriso dolce, che aveva popolato i suoi sogni di diciottenne. Questo ricordo rimase confinato dentro di lei, anche se ogni tanto riaffiorava il desiderio di conoscere la sua sorte.

Gli anni trascorsero lieti e spensierati, appena lambiti dalla seconda guerra mondiale, che percepiva lontana dai fasti della corte di Japur. Poi arrivò l’indipendenza dell’India e la perdita del suo status regale, senza che questo incidesse minimamente nella sua vita.

Lei era sempre la Maharani, rispettata con deferenza dai suoi concittadini. Continuava a vivere in un’ala del palazzo reale, come se non fosse successo nulla nel 1947.

Il 15 ottobre del 1950 era una giornata soleggiata e calda nonostante fosse la stagione dei monsoni. Gayatri osservava il giardino da una finestra dei suoi appartamenti. In un angolo della stanza stava la dama di compagnia più fidata, che lavorava su un piccolo telaio. Era bassa di statura e coi capelli corvini. La Maharani lo guardò incerta se chiamarla oppure no. Si alzò e si diresse verso la camera da letto.

Da un secretaire aprì un cassettino, nascosto da una ribalta, e prese un sacchetto di pelle. Lo aprì e controllò il contenuto. Erano i gioielli indossati tredici anni prima durante il ballo delle debuttanti. Un collier di diamanti e rubini, un paio di orecchini a goccia, un bracciale d’oro tempestato di rubini e smeraldi. Li ripose nel sacchetto e richiuse il cassetto.

Tornò nella stanza dove Amrisha aveva continuato a lavorare al telaio. L’osservò e rifletté. Aveva saputo che tra quindici giorni un fratello della donna, un cadetto della ‘marine de commerce’, si sarebbe imbarcato su un aereo con destinazione Londra. Qui doveva armare una nave alla fonda a Newcastle upon Tyne in Inghilterra. Di lei poteva fidarsi sia per la discrezione sia per la fedeltà. Sarebbe stato il vettore più sicuro per trasmettere quello che per anni aveva conservato con gelosa segretezza.

Si avvicinò, mentre la ragazza sollevava il viso. Un viso ovale incorniciava due grandi occhi scuri.

«Vieni, Amrisha. Ho bisogno di parlarti» le susssurò con tono autoritario, accennando col capo di sedersi accanto a lei.

«Mi dica, Maharani» rispose con voce deferente.

«Devo trasmettere un cofanetto a Londra in assoluta segretezza. Nessuno deve sapere che proviene da me».

La ragazza strinse le labbra, perché aveva intuito chi doveva trasportarlo.

«Mio fratello, Banshidhar, partirà per Londra il due novembre insieme ad altri suoi compagni. Lui potrebbe portare con sé il suo pacchetto».

«È una persona fidata?» Le domandò, conoscendo già la risposta.

«È la discrezione fatta persona. Sapendo che è lei, Maharani, lo sarà ancora di più» ribattè di slancio con tono sicuro.

«Quando lo vedi?»

«Lo saluterò tra quindici giorni, quando passerà dall’abitazione dei miei genitori a Baroda» rispose abbassando gli occhi.

«Prima che tu parta per Baroda, ti consegnerò il pacchetto e una lettera. Grazie, Amrisha. Puoi tornare alle tue occupazioni» e la congedò.

20 luglio 2013 – Mont Blanc

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo racconto. Lo potete leggere anche qui.

Dal nevaio addossato alla parete rocciosa spuntava un luccichio bruno simile a quello di un oggetto di rame esposto al sole.

Jacques Philpott si fermò un istante per osservare meglio.

Le rocce non luccicano” si disse, mettendo a fuoco il punto da dove provenivano i riflessi.

Si spostò di lato rispetto alla posizione iniziale ma osservò che la coltre di neve fresca adesso era tutta uniforme. Non notava più nessun bagliore dalla nuova ubicazione.

«Eppure qualche istante fa…» borbottò scuotendo il capo.

Jacques era un bel ragazzone di Les Houches, un sobborgo di Chamonix, un po’ orso ma mai scortese. Amava la montagna e in particolare il Mont Blanc, che vedeva tutti i giorni dalla finestra della sua stanza. Quando compì sedici anni, eseguì la prima escursione sul massiccio che si ergeva in tutta la sua imponenza davanti ai suoi occhi. Adesso che di anni ne aveva ventuno lo conosceva come le tasche dei suoi jeans.

«È una montagna infida anche se appare benevola» era solito confidare agli amici. «Non ci si può dare confidenza, perché subito ti tradisce. Una donna è più fedele». La sua era una battuta maschilista ma di elementi femminili ce ne erano pochi nel giro delle sue amicizie e le poche, che erano tutte più maschi di quelli autentici, ridevano a quella boutade.

Era il 20 luglio del 2013, quando di mattina presto era uscito di casa per compiere l’ennesima escursione sul Mont Blanc. Portava con sé un paio di corti sci, le racchette da neve, dei ramponi da ghiaccio e uno zaino con vivande e qualche indumento pesante qualora il tempo virasse improvvisamente al brutto. In montagna non c’era mai da fidarsi che il tempo rimanesse stabile.

La giornata si preannunciava bella e senza vento. Il cielo senza una nuvola cominciava a schiarire e le stelle brillavano ancora nitide, quando avviò il suo 4X4 a inerpicarsi verso il Mont Blanc.

Voleva essere all’inizio del ghiacciaio del Bossons, quando albeggiava per affrontarlo con la luce del sole. Era immenso, bello ma estremamente infido e pericoloso da affrontare con un’illuminazione incerta: crepacci e seracchi erano sempre in agguato. Era la sua intenzione iniziare l’escursione presto per raggiungere la base del Mont Blanc du Tacul per mezzogiorno.

Lasciata l’auto vicinissima alle ultime propaggini del Glacier des Bossons, Jacques mise sulle spalle gli sci, le racchette, i ramponi da ghiaccio e lo zaino. Si avviò verso la lingua di ghiaccio che scendeva dal Mont Blanc come un lungo serpente candido.

Facendo attenzione a dove poneva gli scarponi, saggiando il terreno davanti a lui, si muoveva con cautela, perché i grossi cumuli di neve fresca nascondevano insidie e pericoli.

«Quest’anno è caduta neve anche poche settimane fa» mormorò tenendo gli occhi ben aperti. «Quindi devo stare vigile e attento».

Erano le undici quando arrivò alla base rocciosa del Mont Blanc du Tacul, uno sperone che si erge a più di 4200 metri, di poco più basso della cima del Mont Blanc.

Non era sua intenzione scalarlo, lo aveva già fatto altre volte, ma voleva ammirare la spettacolare vista della vallata sottostante. Era fermo a rifiatare prima di riprendere la via del ritorno, quando notò lo strano luccichio. Non riusciva a localizzarlo con esattezza, perché era sufficiente spostarsi e il candore del nevaio diventava immacolato.

«Devo fare attenzione nel muovermi per non provocare una valanga che sarebbe fatale» affermò avanzando a piccoli passi, tenendo sotto controllo il nevaio.

Il tempo passava, mentre Jacques era alla ricerca dell’oggetto che mandava bagliori a intermittenza.

«Forse affiora appena dalla neve. Cambia l’angolo della luce che lo illumina, quando mi sposto» borbottò fermo sugli sci osservando intorno.

Non perdeva d’occhio la massa nevosa addossata alla parete del Mont Blanc du Tacul, pronto a cambiare veloce la direzione, se vedeva qualche impercettibile movimento.

Nonostante le condizioni climatiche favorevoli ogni muscolo del suo corpo era in tensione, molto di più del normale.

La perlustrazione dell’area circostante assorbì le sue energie mentre il tempo passava inesorabile. Ricominciò a muoversi con estrema cautela. «Altri cinque minuti e poi riprendo la via di casa. Ho perso mezz’ora in ricerche inutili e infruttifere. Potrebbe essere un gancio perso da chi sa chi».

Immerso in queste riflessioni, notò una piccola massa scura, sommersa da un velo di neve, a qualche decina di metri alla sua destra.

«Ecco la cerca è terminata. I riflessi che avevo notato provenivano da qui».

Prima di avvicinarsi si assicurò che nessun distacco di neve fosse presente nelle vicinanze.

«La prudenza non è mai troppa» affermò muovendosi con circospezione.

Passò una mano per togliere la neve ghiacciata e mise a nudo un coperchio brunito. Con lentezza scavò intorno con gesti misurati e calmi, finché una piccola cassetta non apparve dal candido nulla. La sollevò con un po’ di sforzo. Non pesava molto. Quindi decise di prenderla con sé, assicurandola con la corda che teneva nello zaino. Ridiscese di qualche centinaia di metri, allontanandosi dal nevaio per osservarla meglio.

«Ha strani simboli sul coperchio» notò con un misto di curiosità e stupore. «Forse sono cinesi… oppure no».

Scorse questi simboli “मेड इन इंडिया”, scritti sul coperchio, sbiaditi ma leggibili.

È inutile sprecare tempo nel tentativo di decifrarne il significato” rifletté osservando il contenitore che presentava una chiusura insolita. “Non pesa molto ma come l’ho legato è solo d’impiccio per i movimenti”.

Si inginocchiò per controllare se poteva metterla nello zaino.

Togliendo le vivande e la giacca, ci sta. Mangio qualcosa e quello che non sta nelle tasche, lo getto. La giacca la indosso sopra questa più leggera”.

Guardò l’orologio. «Porca miseria! Già l’una! Il tempo è volato via. Devo sbrigarmi. Il Glacier des Bossons con le ombre lunghe del pomeriggio è assai pericoloso» esclamò avviandosi a valle.

Come previsto la discesa non fu agevole. Anche se lo aveva percorso molte volte, il ghiacciaio pareva essere vivo, cambiando fisionomia a ogni istante. I crepacci che aveva evitato nella mattinata adesso parevano essersi spostati. Alcuni erano più larghi, altri quasi chiusi. Alcuni seracchi erano crollati per effetto del rialzo termico di mezzogiorno. Era quasi giunto al termine, quando avverti sotto gli scarponi un tremolio. Si bloccò, facendo un balzo indietro. A pochi centimetri si era aperto un baratro senza fine dinnanzi a lui. Ebbe un moto stupore e si lasciò scappare un «Merde! Per poco non finivo in fondo a questo crepaccio!».

Sentiva le gambe pesanti e una certa rigidità nel corpo, quando alle cinque uscì dal Glacier, dopo aver rischiato più di una volta di finire male. La luce ingannevole del sole ormai più basso delle cime l’aveva tratto in inganno sovente ma si era salvato unicamente perché i riflessi erano pronti. Lasciata la lingua ghiacciata e tornato sul terreno nudo, tirò un sospiro di sollievo.

«Anche stavolta è terminata bene» esclamò incamminandosi verso il suo fuoristrada, che l’aspettava tra il termine della carrareccia e il ghiacciaio. Si diresse verso Les Houches.

Arrivato a casa, estrasse dallo zaino la cassetta.

«Chissà quali tesori contiene» esclamò, osservando la serratura.

Una sera di mezza estate Benedetta…

Copertina Daniele

Benedetta è annoiata. Sbadiglia e intreccia le mani dietro nuca. «È una serata noiosa» e guarda fuori dalla finestra senza vedere nulla. I vetri bagnati non riflettono luci esterne. Si alza e si sistema davanti al computer. Spera di trovare un diversivo per spegnere la noia. Naviga un po’ e poi si collega a Youtube.

«Di solito ci sono video interessanti ma stasera pare un mortorio» borbotta con tono affranto.

Si mette ritta, spalanca gli occhi, non ci vuol credere. «Moreno ha pubblicato sul suo canale un video che è stato visto 65891 volte in due giorni!»

Ricontrolla. Il numero è giusto, anzi si è incrementato di tre unità. Controlla i video precedenti e i numeri sono impietosi: due, dieci, ventidue, zero,…

«Ma cos’ha di tanto interessante da suscitare la curiosità di tanti navigatori?»

Clicca per vederlo. Durata venticinque secondi. Un titolo insignificante “Pratoline”. Le prime immagini sono tremolanti, quelle successive sfocate. Nessun audio, né sottotitoli. Una miseria di video. Riapre il video e non cambia nulla.

«Non è possibile che Moreno col suo video abbia attirato oltre sessantaseimila navigatori» esclama sgranando gli occhi. Il contatore delle visite continua a girare a ritmo folle. «È pur vero che ho dato tre esami massacranti ma è strano non aver sentito nulla dal gruppo. Domani chiamo Luciano. Di sicuro ne saprà di più.»

I ricci rossi si muovono al tempo di musica. Da Itunes sta ascoltando l’ultimo pezzo di Cassandra Wilson. Decide di scaricare l’intero CD sul Ipod. Domani se lo gusterà con le cuffiette mentre va in Università con la metropolitana.

Benedetta è stanca, anzi stressata per l’esame sostenuto in mattinata. Le si chiudono gli occhi. Lei dorme sulla parte sinistra del letto e sul comodino c’è una bella pila di libri che aspettano di essere letti. Prende quello che sta in cima rischiando di far franare a terra gli altri. Dondolano pericolosamente ma per fortuna restano al loro posto.

È una serie di racconti scritti da una scrittrice bengalese dal nome complicato. Sono le storie di giovani bengalesi, come l’autrice, che vivono in America. Alcune sono veramente stranianti, altre allegre. Benedetta ha iniziato a leggere la storia di Neha e Asim. La trama la prende talmente che immagina di viaggiare da Oakland, dove vivono, a Chittagong insieme a loro. In questa città sono rimasti i nonni materni, Hita e Shamsur. Hanno ricevuto un cablo che li ha informati che il nonno era morto e tra due giorni ci sarebbero stati i funerali con la relativa cremazione. I due fratelli non hanno molto tempo per aspettare un volo diretto. Puntano su Mumbai, da lì con voli interni sperano di raggiungere in tempo Chittagong. Un viaggio massacrante per i fusi orari e per le tappe intermedie. Alle sei di mattina, ora locale, arrivano stravolti a destinazione al Shah Amanat International Airport. Noleggiano una macchina con autista e dai finestrini osservano un paesaggio che non è più a loro familiare. Quartieri degradati e altri puliti, accattoni che dormono nei giardini, lussuose macchine e altre che sembrano uscite da un rottamatore. Una leggera nebbia dovuto allo smog e all’orario ovatta le immagini che appaiono sfocate.

Per Benedetta quel contrasto sono una novità. Aveva letto che in quell’area del sudest asiatico ricchezza e povertà stanno a stretto contatto ma non immaginava che fosse così scioccante. Osserva i due fratelli che anche loro sgranano gli occhi per la sorpresa. Vivono ad Oakland dove sono nati e cresciuti. Lei lavora come ricercatrice nel campus della locale università e lui è odontotecnico. Neha, la sorella più grande, propone a Asim di andare a Bhasam Char, visto che il funerale del nonno si tiene all’imbrunire. «Solo due ore di traghetto. Quando eravamo piccoli, siamo venuti per visitare i nonni che ci hanno portati lì in gita.»

Asim scuote il capo. «Ora è nonna Hita ad aver bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.»

Neha sorride. «Hai ragione. Ma per mezzogiorno siamo di ritorno. Rimaniamo con lei tutto il pomeriggio.» Poi ordina all’autista di portarli al porto dei traghetti.

Sono a metà strada, quando un turbine sconvolge quel tratto di mare nella Baia del Bengala.

Benedetta apre gli occhi stordita. Intorno non c’è assolutamente nulla tranne la sabbia e una luce abbacinante. La t-shirt di cotone azzurra è appiccata alla pelle, mostrando i segni del piccolo seno. Mani e gambe sono ricoperte di sabbia finissima chiara. Si sente smarrita. «Eppure ero sul traghetto.» Geme, mettendosi seduta. Le ultime immagini sono sfocate. Il vecchio che le ha offerto un fascio di foglie di betèl come segno di rispetto e di buon auspicio, lo sguardo adulto del neonato che la madre allatta placidamente. Poi il cielo sempre più scuro, gli animali sulla barca agitati, schiamazzi di gabbiani. Due marinai con gli occhi iniettati di sangue urlano indicando che i giubbotti sono sotto, nella stiva. Lo scafo imbarca acqua, le urla, il terrore, poi il buio.

Si sente osservata. Si gira con lentezza in circolo. Strilla. «Ahhhh!» Chiude la bocca impietrita dal terrore. Una scimmia a qualche metro di distanza la guarda di sbieco. Si muove con calma, sperando di non eccitarla. Però in apparenza non ha intenzioni bellicose. «Ti sei svegliata! Da dove vieni?»

«Parli? Sei tu che parli?» Balbetta con voce incerta.

«E chi se no? Vedi qualcun altro qui? Ma senti questa!» Puntualizza la scimmia che dal tono sembra innervosirsi.

«No, no, hai ragione.» Si affretta a calmarla. «È che non ho mai sentito una scimmia parlare. Dove sono?»

La scimmia fa una smorfia. Forse voleva sorridere. «Non lo so! Ero Bhasar Chor, prima che scomparisse. Mi son svegliata qui come te qualche giorno fa.»

Benedetta strabuzza gli occhi. Tutto gli sembra incomprensibile come se vivesse un sogno impossibile. «Come, scomparsa?» Farfuglia incespicando sulle parole. «La guida sul traghetto ci ha detto che è nata cinquant’anni fa dal nulla…»

«La guida! La guida? Ma dove vivi? Lo sai o no che le variazioni climatiche originate dall’effetto serra generano fenomeni estremi sempre più frequenti?»

«Sì,sì, ma…»

«Lo Tsunami del 2004 ha spazzato città e isole intere. Un’amica a Pucket s’è vista annegare due dei piccoli senza poter farci niente.»

«Mioddio! Sì, sì ma…noi ora cosa facciamo?» Benedetta ricorda di non essersi presentata e allunga la mano ma la ferma a mezz’aria imbarazzata. «Benedetta.»

«Chiamami Challow.» La scimmia si muove facendole segno di seguirla. «Vieni che t’insegno ad acchiappare granchi e gamberi. Sarà la nostra colazione, pranzo e cena. Poi speriamo di trovare qualcosa per ripararci dal sole. Rischiamo di bruciarci.»

La t-shirt, che non ricorda di possedere, e i calzoncini corti con qualche strappo che mostrano l’intimo, si sono asciugati. Sente pizzicare la pelle. La sua carnagione candida sta diventando rossa.

Challow prende un granchio e glielo porge. Lei prova a mangiarlo dopo aver rotto il carapace e spezzate le chele. L’interno è dolce.

Alza gli occhi su, verso il cielo azzurro. Vede proiettata un’ora 9:43. È il soffitto della sua casa di Lambrate. Quasi le dispiace di non essere più con Challow, perché tutto sommato era simpatica.

«Peccato! È stato solo un sogno.»

Benedetta adesso è sveglia.

«Il video di ieri sera e il racconto della… Dai, telefoniamo a Luciano!»

Il sogno del mare

Su Caffè Letterario ho appena pubblicato un nuovo post.

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Fu di sera, già di buio; era ottobre. Il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale.” (Italo Calvino, Il visconte dimezzato. I meridiani – Arnaldo Mondadori Editore)

Marco era un ragazzino magro e ossuto come possono esserlo a dieci anni. Era in quell’età prepuberale in cui era ancora indefinito.

Era al mare ai primi di settembre, quando la stagione sta per lasciare il posto all’autunno. Il cielo era grigio scuro striato di qualche nuvola rossastra. Camminava sulla spiaggia deserta in attesa di rincasare per la cena serale, quando scorse una nave sull’orizzonte. Si fermò a osservarla scivolare snella.

Andava a vela come i vecchi vascelli, quelli di cui aveva diversi poster nella sua cameretta. Era incantato perché sembrava che volasse tra cielo e acqua, perché lì l’orizzonte si confonde. Si notavano solo le vele candide che si stagliavano sul grigio del cielo e due luci. Una a poppa e una prua.

«Chissà dove sta andando?» bisbigliò in un sussurro appena accennato.

Si ritrovò sul ponte di comando lucido a guidare quella ciurma indisciplinata, mentre il timoniere teneva la barra a dritta.

Si sgolava e imprecava ad alta voce. «Alzate la vela maestra! Mollate il fiocco! C’è troppo vento, virate a manca col vento contro!»

La sua voce roca e tagliente dava ordini secchi come schioppettate che arrivano diritti alle orecchie dei marinai.

Il veliero cavalcava agile l’onda bianca, pronta a scendere nell’incavo del mare e poi salire su quella successiva. La prua sottile tagliava il verde marino, mentre una danza di salti e tuffi l’accompagnava.

Marco era ritto come un fuso sulla plancia sferzato dal vento. Alle sue narici arrivava il profumo della salsedine.

«Marco! Che stai a fare imbambolato in riva al mare? La cena è pronta e si sta raffreddando!» Era sua madre che lo chiamava con tono di due ottave più forte del normale.

Il sogno svanì e corse veloce verso casa. Si tolse le scarpe piene di sabbia umida, si lavò le mani velocemente e si sedette tra Flora e Andrea, i suoi fratelli.

Sono passati quarant’anni dal quel incontro serale sulla spiaggia con un vascello che solcava le acque grige del Mar Tirreno. Ormai cinquantenne continua a sognare il mare, mentre osserva corrucciato il brulicare di uomini indaffarati e spenti che si agitano nelle vie della città dove risiede. Odia questa vita anonima e convulsa, ama l’aria aperta, il mare e la sua salsedine, i velieri senza essere ricambiato.

È in piedi davanti alla finestra del suo ufficio che domina la piazza del Mercato, pieno di bancarelle che vendono un po’ di tutto. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte lontano alla ricerca del mare.

È marzo, ma il tempo per rifugiarsi nella vecchia casa delle vacanze in riva al mare tra i filari di vite e il noce dalle larghe chiome non è ancora arrivato. Deve aspettare maggio con le giornate lunghe e calde. Poi ogni fine settimana sarebbe corso là a respirare il profumo del mare.

Si strugge dalla malinconia e dal ricordo, perché non è potuto diventare un marinaio. I suoi vecchi non hanno voluto, doveva diventare Dottore, avere una casa in città, una moglie e dei figli belli come lui.

«Papà» disse un giorno di trent’anni prima, «anche all’Accademia navale divento Dottore».

Suo padre fu irremovibile. Doveva andare a Firenze all’università per diventare Dottore.

Marco chinò il capo. All’esterno sembrò rassegnato a seguire il diktat paterno, ma dentro coltivava l’idea del mare e della vita da marinaio. Rimase un sogno inespresso, perché al termine degli studi trovò Mara e la sposò.

Si trovava bene con lei, anche se il mare non le piaceva. Diceva che le incuteva paura e non sapeva nuotare. Mara ricambiò il suo amore verso Marco. Nacquero due figli belli che assomigliavano a lui. Sara e Andrea, come il fratello minore, morto giovanissimo.

Marco divenne uno stimato professionista con un ufficio in un vecchio edificio storico. Comprò una casa singola con un piccolo giardino nel quartiere più in della città.

Si rassegnò a malincuore a vivere fra cemento, auto, rumori e polvere in un’abitazione che molti gliela invidiavano, ma che a lui stava stretta.

A questi pensieri gli viene un groppo in gola. Lui ha soddisfatto i suoi vecchi ma dentro di sé si sente infelice. La casa in città l’ha comprata. La moglie c’è come pure i due figli belli come lui. Ha disponibilità di denaro ed è stimato e ricercato. Se suo padre fosse ancora in vita sarebbe felice di vedere il suo ragazzo che ha raggiunto l’obiettivo dei suoi sogni.

Marco per vedere il mare deve andare da solo nella vecchia casa delle vacanze. È spoglia e vuota dopo che i suoi vecchi uno alla volta in punta di piedi se ne sono andati nel piccolo cimitero in fondo alla strada.

Quell’abitazione non la ha voluta mai cedere, come le quindici pertiche di vigna ormai inselvatichitasi. Casa e vigneto sono tenuti in ordine da Giuseppe, il vecchio fattore.

Mara e i due ragazzi non hanno mai voluto vederla sperando che la vendesse.

Marco si mette là dove a dieci anni ha visto la nave con la bandiera imperiale. In quel punto all’orizzonte il cielo si confonde con il mare. Là il sole si inabissa colorando di rosso terra, acqua e cielo. Lui sta lì a bocca aperta per aspirare il gusto del sale che arriva da dietro le dune.

Ancora qualche settimana di supplizio a respirare cemento, poi da solo avrebbe preso quel viottolo polveroso che conduce alla vecchia casa senza luce e senza acqua. Con gli scuri incrostati di sale e le pietre rosse che sono imbiancate. È un casale troppo grande per lui ma avrebbe vissuto nelle stanze al pianoterra.

L’ampia cucina col camino di pietra che guarda l’orizzonte. Un tavolo rustico inscurito dal tempo. Qui sarebbe stato di vedetta, mentre mangia osservando il mare. La vecchia sala da pranzo col divano di cretonne liso e dai colori indefiniti. Questo è il suo letto. Avrebbe riattivato il camino per cuocere e riscaldare l’ambiente.

Sul fratino in cucina avrebbe scritto il suo amore per il mare alla luce della lampada a olio. Qui i ricordi di quaranta anni fa lo conducono per mano.

La fiamma – seconda parte

La bambina senza nome

La seconda parte è pubblicata anche su Caffè Letterario.

La prima parte la trovate qui.

Ecco la seconda e ultima parte

Camminò per tre lune e tre soli, quando, incespicando nel buio, la sua mano percepì una superficie secca e ruvida. La tastò facendo scivolare le dita della destra e il palmo su di essa. Emise un gemito di dolore. Qualcosa di minuscolo si era incuneato sotto l’unghia dell’anulare. Era un pezzo di legno, una scheggia non di più. Forse era una parte di un ramo strappato dal vento oppure uno arbusto rotto dal passaggio di qualche animale. Lo infilò nella bisaccia che portava a tracolla. Tastò il terreno intorno alla ricerca di altre schegge, che ripose insieme alla prima.

Preso dalla frenesia, dal desiderio sfrenato di creare una luce in quel buio così profondo, si accucciò sul terreno. Estrasse quei pezzetti di legno che dispose a formare una piccola piramide. L’ultimo lo afferrò saldo nella destra e cominciò a sfregare, sbattere la pietra contro il pezzo di legno, finché all’improvviso apparvero una, due, tre scintille e si sprigionò una grande fiammata. Dal mucchietto si levarono delle lingue di fuoco che illuminarono il buio della notte. Lui arretrò impaurito per la magia della luce. Si avvicinò e avvertì calore. Si allontanò e il freddo riprese il sopravento. Tornò dove ardevano i legnetti. Raccolse altri pezzi che aggiunse alla pira e il fuoco riprese vigore. Sgranò gli occhi stupito, avvertendo che quella prodigiosa fiamma fosse una magia miracolosa ma anche pericolosa. La facilità, con cui da quel pezzo di legno si erano sprigionate delle lingue rossastre che salivano verso l’alto, era a dir poco prodigiosa. Eppure fino a pochi giorni prima il cielo aveva riversato sulla terra una pioggia torrenziale che l’aveva trasformata in un immenso pantano fangoso.

Quella fiamma però aveva un che di strano e terribile, di affascinante e misterioso. Il modo in cui le scintille guizzavano e si riunivano, vorticavano nell’aria nera, si espandevano e ritiravano la loro luce ardente gli faceva crescere una sensazione di paura e curiosità. Attrazione e repulsione erano i sentimenti che provava senza rendersi conto che si stava muovendo verso il fuoco, sempre più vicino. Se all’inizio, avvicinandosi percepiva dolore sul palmo delle mani, adesso non sentiva più nulla ma solo piacere. Più si accostava, più si accorgeva di non percepire calore, come se le fiamme che danzavano davanti a lui non fosse null’altro che una visione. Le scintille si fondevano davanti ai suoi occhi delineando forme nuove, segrete, svelando immagini diverse. All’improvviso nell’eterno caos del falò, qualcosa apparve e prese vita, unendosi con il suo corpo in una elegante danza. Capelli ardenti, le linee sensuali della bocca, il braciere degli occhi, le dita come lingue di fuoco, i seni morbidi e caldi, il ventre perso nelle vampe. Quella terribile e stupenda creatura lo attirava verso di sé, lo riscaldava con le sue parole e con la passione che sprigionavano i movimenti del suo corpo. Infondeva in lui un calore mai provato prima, che lo avvolgeva, lo faceva sentire strano, stanco in un limbo di piacere e tortura. La fiamma lo avvolse, bruciò i suoi miseri vestiti, lo irradiò di forza ed energia trascinandolo con sé e dentro di sé. Le mani roventi lo cinsero e le labbra cercarono le sue, con la lingua di fuoco caldo che danzava sul suo palato, esplorando la sua bocca. Lui, non potendo capire altro che la sensazione bellissima e tremenda del fuoco, ovunque sopra il suo corpo, rimaneva immobile. Gli occhi divorati dalle fiamme, le labbra schiuse in quell’ardente bacio. Nel crescendo di calore sentì a un tratto la sensazione intensa del piacere, che saliva e aumentava, stimolata dal furore di quelle mani, di quel corpo focoso. Nel delirio del rogo desiderò di possedere quella donna e le sue mani si mossero attraverso di lei.

Preso da quel bacio di fuoco carezzò il grembo caldo di lei, sentendo la fiamma vibrare sotto il suo tocco. Quella figura riprese vigore e ardore e dal ventre salirono fiammate azzurre di piacere. Lui era ormai diventato parte del fuoco, fiamma lui stesso e sopra la pira in fiamme accarezzò con desiderio la donna, risalendo e scendendo con la mano, seguendo le curve di quel corpo perfetto.

Lei, in risposta, lo avvolse nel fuoco della passione, lo spinse dentro di se avviluppandolo tra le fiamme. Lui, immerso nella smania del piacere, non percepiva il dolore del fuoco e del suo corpo in combustione. Godeva del piacere della fiamma. L’abbracciò traendola verso di sé. Le fiamme azzurre aumentarono. Nell’aria risuonava il gemito strano della donna e quello soffocato di lui, chinati l’uno sull’altra, ansimanti. All’improvviso il volto dell’uomo fu investito da una vampata di fiammate rosse. La lingua rossastra si contorse come mossa dal vento. La sua bocca rovente lo avvolse completamente.

Le vampate azzurre si alzarono in alto per gli scatti felini del bacino di lei. Lui sentì la bocca rovente allontanarsi dalla sua. Lei si alzò, attraversandolo totalmente, infiammandogli le viscere e lo cinse di nuovo tra le braccia, stringendo le gambe attorno ai suoi fianchi.

Lui travolto dal desiderio e dalla passione la strinse forte a sé. Lei imprigionata nella sua stretta perdeva man mano la sua parvenza di fiamma, avvolta dalle vampe azzurre del godimento. I loro corpi, le loro essenze erano ormai un’unica cosa, stretti l’uno all’altra in un incendio blu e rosso da cui si alzavano urli e gemiti. Le fiamme azzurre li avvolsero entrambi, tuonarono nei loro ventri, li gettarono nel delirio di un immenso piacere. I loro movimenti convulsi li facevano apparire come un unico grande essere di fuoco. Le vampate celesti si fusero nei loro corpi divenuti un’unica fiamma, finché il piacere non si estinse e di loro non rimase altro che cenere.

Debbi

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post, che potete leggere anche qui.

La parte in corsivo era l’incipit proposto come sfida al lettore attento alle sfumature.

Era uno stimolo all’inventiva dell’aspirante scrittore, che doveva dimostrarsi abile nel calarsi in un ambiente diverso dal suo.

Ci sarò riuscito? Leggete e poi giudicate.

Nel mentre pubblico il racconto.

Quando riaprì gli occhi, Debbi vide il sole, le foglie verdi e il viso di un uomo. Non si impressionò a quella vista. “So che cos’è tutto questo” e richiuse gli occhi.

Era quello che avevo sempre sognato. Avevo sedici anni allora… In quel istante avevo raggiunto quel mondo pieno di fantasie… Tutto pareva semplice e normale, come il sentimento che provavo adesso.

Scrutavo il volto inginocchiato vicino a me e sapevo che avrei dato la vita per poterlo vedere. Era una faccia senza segni di dolore, di paura o di colpa. La bocca… sì, la bocca era un qualcosa che metteva orgoglio. Era come se sentisse la fierezza di essere orgogliosa.

Continuai a esplorare i tratti del viso. I lineamenti decisi facevano pensare all’arroganza, alla tensione, all’ironia, eppure non c’era niente di tutto questo. Era il compendio di queste sensazioni: un’espressione di serena decisione e sicurezza, un’innocenza spietata che non avrebbe chiesto né accordato pietà. In conclusione era un volto che non aveva niente da nascondere. Sembrava una casa di vetro dove tutto era trasparente…

***

Chi era Debbi? Era la domanda che Barbara si poneva. Aveva tra le mani un brandello di carta, stropicciato e consunto. Era tra le pagine di un suo vecchio diario scolastico, dove annotava con cura i suoi pensieri anziché registrare compiti da fare a casa. Quegli oggetti che le ragazze custodivano con maniacale gelosia, tenendoli sotto chiave.

Era salita nella soffitta a cercare un vecchio oggetto di cui aveva perso memoria. In effetti aveva un vago sentore della forma e non ricordava il nome. Polvere e ragnatele avevano ricoperto tutto con una patina di oblio.

Stava rovistando in un baule con metodo alla sua ricerca, quando notò tra libri ingialliti e malmessi, blocchi di carta pieni di scarabocchi una copertina di pelle blu o meglio il dorso blu di qualcosa che stonava nel contesto. Un tempo era tenuto insieme da un elastico rosso, che adesso era diventato un segno appiccicaticcio appena definito. Era malconcio con la copertina staccata dal dorso e coi fogli che si staccavano tenendolo in mano.

L’aprì con cautela. Fu un tuffo nel passato. Tornò ragazza: i primi amori, le prime delusioni. Poi trovò i disegni infantili in stile Heidi dell’amica Serena, la sua compagna di banco. Infine delle fotografie in bianco e nero dai bordi seghettati, che facevano tenerezza. Ritraevano lei con le amiche, dei ragazzi, i primi amori disperati. Tra le ultime pagine scorse piegato in quattro parti un pezzetto di carta scolorito, quasi illeggibile.

Barbara lo girava e rigirava. Era stato strappato malamente da un quaderno a quadretti, su cui erano scritte un paio di frasi, cancellate con un tratto di biro e riscritte più volte. La grafia non era la sua, perché questa era lineare e rotonda, mentre lei usava tratti più spigolosi. Chi l’aveva scritto? Un maschio? Una femmina? Per alcuni svolazzi sulla A e sulla P era quasi certa che fosse una mano femminile, ma il resto era neutro. Avrebbe potuto essere un ragazzo o una ragazza in maniera indifferente ma di una cosa era sicura: non era la sua grafia.

Lei scriveva con caratteri minuscoli, nervosi, inclinati a destra con le righe che tendevano a salire verso l’alto tutte sbilenche, come se una calamita attirasse la penna in direzione del bordo superiore.

La grafia dell’ignota scrittrice era perfettamente dritta, come le cancellature e le riscritture. I caratteri allineati della medesima grandezza mostravano una precisione e un ordine che lei non aveva mai posseduto.

Barbara teneva in mano quel pezzetto di carta ingiallito con delicatezza. Faceva attenzione perché non si sbriciolasse, prima di essere in grado di conoscere l’autore e comprendere il senso delle poche frasi riportate.

«È il riassunto di un libro letto?» Scosse la testa, perché non ne aveva lo stile. «Forse è una frase tratta da un romanzo che l’aveva colpita. Ma quale romanzo? Eppure è così particolare che lo ricorderei se…». Strinse gli occhi e corrugò la fronte per concentrarsi nel tentativo di ricordarne il nome. «Ma forse è l’incipit di un racconto…». Chiuse le palpebre e si appoggiò al vecchio canterano coperto da un telo bianco. Il foglio planò con delicatezza accanto a lei. «Ma quale racconto? Io non ci ho mai provato. Basta leggere poche righe di questo diario per capire il perché. Non è il mio stile».

Riaprì il diario alla ricerca di qualche indizio. Si accoccolò sui talloni, appoggiando la schiena al baule aperto mentre teneva il diario sulle gambe.

Lunedì 6 maggio 1974

Oggi ho conosciuto Roby, finalmente! Gli ho parlato o meglio ho farfugliato qualcosa mentre le orecchie diventavano rosso fuoco e non solo loro! …

A quella lettura un sorriso compiaciuto le comparve sulle labbra. «Che imbranata ero a diventare rossa come un peperoncino. Oggi di sicuro sarei più aggressiva verso chi mi piace o mi attira». Però rise perché in verità mentiva a se stessa. Non era cambiata più di tanto da quegli anni.

Ricordò chi era Roby: il ragazzo più ricercato del liceo scientifico Roiti. Fece un rapido calcolo di quanti anni doveva avere nel 1974: ne aveva solo sedici. Lui frequentava la V C. Lei era in III A. Non era stato il primo ragazzo, né sarebbe stato l’ultimo. Eppure era arrossita come una ragazzina al primo amore.

«Sì, era un vecchio per me con i suoi diciotto anni». Chiuse gli occhi ritornando sedicenne. «Arrivava a scuola su una rombante Fiat Abarth 500 rossa dagli scarichi cromati lucidi ed enormi e il motore truccato». Li riaprì e scoppiò in una fragorosa risata. «Sì, tutte noi ragazze avremmo fatto carte false pur di sederci accanto a lui».

Poi una smorfia di tristezza le velò gli occhi al pensiero di quegli anni. Erano ricordi che bruciavano, ripensando come era cambiata da quegli anni.

«Allora ero timida e imbranata coi possibili morosi. Faticavo a spiaccicare due parole in fila senza diventare rossa dalla punta dei capelli ai piedi. Sembrava che tutti i pensieri si fossero volatilizzati, quando dovevo parlare con un ragazzo che mi piaceva. Si creava un vuoto nella testa e mi bloccavo».

Con Roby il copione non era mutato. Proseguì nella lettura di quegli appunti scritti venti anni prima.

Arrivata a trentasei anni, era ancora single perché non era mai riuscita a domare il suo carattere spigoloso e aggressivo. Eppure era in sostanza una timida che rappresentava la molla, che attirava i ragazzi allora e adesso gli uomini. In quegli anni la timidezza si palesava nel suo goffo agire tramite un gesticolare nervoso, con le parole che non uscivano dalla bocca, dal suo arrossire quando un ragazzo le parlava. Però ben presto loro si stancavano delle sue indecisioni e del suo mutismo e l’abbandonavano al suo destino. La situazione non era cambiata di molto nemmeno adesso che era una giovane donna in carriera.

Barbara ricordò come avesse timore del suo corpo che secondo lei era sgraziato e poco interessante. In realtà non era vero, perché era la seconda molla che attirava gli sguardi maschili. La sua figura era slanciata e ben proporzionata coi fianchi stretti e il seno sodo. La statura era superiore rispetto alle coetanee tarchiate e formose col viso deturpato dall’acne giovanile. La sua pelle bianca liscia senza i segni della pubertà valorizzava gli occhi blu e i capelli biondi appena mossi. Eppure si sentiva a disagio all’interno del suo fisico.

Nonostante un’intelligenza pronta e reattiva che esprimeva attraverso la scrittura brillante e asciutta, si ingarbugliava non poco quando doveva parlare. Si chiudeva a riccio impedendo ai coetanei di capire la sua vera essenza.

Questo era stato il suo limite durante il percorso scolastico. I professori l’avevano ritenuta una mediocre, anche se otteneva dei voti superiori alla media.

Come per contrappasso per superare questa timidezza innata aveva assunto col passare degli anni una personalità spigolosa e urticante che aveva tenuto lontano da lei i possibili corteggiatori. Non solo quelli.

Finita l’università aveva affrontato il mondo del lavoro con molte difficoltà. L’ingresso non fu facile, perché, quando affrontava test attitudinali e colloqui di assunzione, lasciava nello sconcerto gli esaminatori. Erano incapaci di decifrarne la personalità e comprenderne le potenzialità. Anche se mostrava una mente pronta e acuta nel rispondere alle domande più insidiose, non era in grado di esprimere con chiarezza una frase di senso compiuto tenendo atteggiamenti talvolta irritanti.

Ricordò che, se voleva essere indipendente, doveva trovare un lavoro dignitoso. Ebbe la fortuna di trovare un posto dove non le si chiedeva di parlare ma di scrivere. Una casa editrice importante era alla ricerca di una persona che doveva analizzare il contenuto dei manoscritti. Non doveva parlare ma scrivere se era meritevole di essere pubblicato. Le sue grandi capacità di analisi furono ben presto apprezzate. Aveva selezionato sempre il romanzo vincente senza mai sbagliare una valutazione. I libri da lei scelti finivano sempre in cima alle vendite. Le bastavano poche pagine per capire se manoscritto era in fieri un bestseller oppure sarebbe stato un fiasco colossale. In breve tempo aveva scalato le gerarchie interne e tutti i testi prima di essere stampati passavano dalla sua scrivania per il parere definitivo.

Ben presto si sparse la notizia che se un autore voleva pubblicare il suo testo doveva passare il giudizio di Barbara. Era diventata lo spauracchio di tutti gli scrittori, che cominciarono a tempestarla di inviti e omaggi con la speranza di ottenere una valutazione positiva. La vita sotto i riflettori non era adatta a lei.

Seduta sui talloni si riscosse e interruppe il fiume dei ricordi e riprese la lettura del diario.

«Dove ero rimasta? Ah! Stavo leggendo di Roby. Mi domando dove sarà in questo momento».

Lui era stato l’unico che, invece di ridere delle parole arruffate, le aveva chiesto: «Esci con me?». Non era molto cambiata, perché il suo viso diventò rosso incandescente a questo ricordo.

Barbara rise. Era stata una scena quasi fantozziana. Lei tra l’interdetto e la sorpresa rispose con un sì appena percettibile prima di scappare in aula. Ignorava dove e quando, mentre lui meravigliato era rimasto a bocca aperta per la sua fuga.

L’incontro fu un fiasco colossale, come era certificato dalla sua grafia ormai scolorita dal tempo. Rammentò che non era riuscita a dire tre parole di fila senza farfugliarne altre tre incongruenti tra l’ilarità e lo sconcerto di Roby. In compenso le scoccò un bacio mozzafiato da lasciarla tramortita per i resto della serata.

La relazione durò qualche mese finché lui stanco della timidezza di Barbara in tutti i sensi non la scaricò senza troppi rimpianti per Eleonora, meno bella e intelligente, ma in compenso molto più disinibita.

Barbara chiuse il vaso dei ricordi, riponendo il diario dove l’aveva trovato, mentre portò con sé il foglio per rileggerlo.

Ebbe un flash e capì che il destino aveva scritto quel pezzo di carta in cui si specchiava amaramente.

La bambina senza nome – parte nona

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la nona parte del racconto La bambina senza nome.

Lo potete leggere anche qui.

La visione che si presentò a Lorenzo lo lasciò di stucco. Dalla scala a chiocciola era apparsa Bea che teneva sulle braccia vestiti, intimo e in mano un paio di scarpe col tacchetto. Però quello che lo sorprese di più era il ghigno feroce del suo viso. Era la prima volta che la vedeva con gli occhi semichiusi e le labbra serrate che stravolgevano il suo viso sempre disteso.

«Vuoi assistere alla vestizione oppure preferisci raggiungere Samuele?» La voce era arrochita e per nulla dolce. Senza aggiungere altro lo scostò ed entrò nella stanza. Fermatasi dinnanzi a Esme, si voltò verso Lorenzo. «Una volta vestita, la puoi condurre dalla Giannina a scegliersi l’abbigliamento che meglio le piace. Anzi è meglio che gliela porti io. Tu sei troppo tenero con lei. Ricorda che questi sono in prestito e si chiamano Pietro torna indietro».

Posato il mucchietto sull’ottomana, ne estrasse un paio di slip di colore azzurro che valutò se potevano andare. «Togliti il telo e indossa questo!»

Come risposta Esme con le mani lo rincalzò e le lanciò uno sguardo di sfida come a dire ‘se vuoi me lo togli tu’.

Bea con un gesto rapido glielo strappò e le allungò le mutandine. «Queste non te le metto io!»

Lorenzo osservò la scena con la bocca semi aperta. Una Bea così determinata non l’aveva ancora vista. Non distolse lo sguardo dalla nudità della ragazza. “È cresciuta e come!” Folti riccioli scuri adornavano il basso ventre, che era piatto e tonico. Molti più numerosi di quando le aveva tolto il sacco. Il seno si era rassodato come aveva intuito qualche istante prima, vedendo il rigonfiamento sotto il telo.

Bea soppesò il reggiseno per determinare se non fosse troppo piccolo. Lei li aveva non troppo pronunciati ma usava quelli a balconcino per renderli più voluminosi. Scrollò il capo e glielo agganciò dopo aver allentate le spalline. Un paio di tocchi per sistemare le zinne che tendevano a trasbordare. Con un colpo secco le tolse il turbante. Una cascata di capelli neri e fini si allungò sotto le spalle. Erano ancora umidi. Col phon e la spazzola in un baleno glieli asciugò.

La vista era mozzafiato. Alta come Bea aveva un fisico tonico senza una smagliatura. Il viso ovale presentavano due lampioni al posto degli occhi che lampeggiavano senza sosta per l’ira repressa. Minacciavano a ogni istante vendetta contro quella donna che osava comandarla. Le labbra sottili, quasi esangui, e il naso dritto alla francese completavano il quadro. Lorenzo non le staccava gli occhi da dosso.

Bea dopo diverse prove optò per una camicetta azzurra e una gonna blu che valorizzavano il viso e le braccia. Per le scarpe non ci fu problema. Portava il suo stesso numero.

Tutto questo si era svolto in un’atmosfera impregnata dai grugniti di Bea e dai sospiri di Lorenzo. Esme sembrava una bambola di porcellana, inerte tra le braccia di una bambina a volte un po’ capricciosa.

«Andiamo!» Bea usò un tono autoritario e leggermente sgarbato senza che la ragazza muovesse un muscolo.

Afferrate le due borse, che contenevano quello da rendere, e il braccio di Esme, la trascinò fuori dalla stanza, sparendo dalla vista di Lorenzo.

Tutto era successo in fretta e solamente dopo qualche minuto comprese che erano andate dalla Giannina. Si riscosse dalla sorpresa degli avvenimenti che si erano svolti in rapida successione senza che lui avesse fatto nulla.

«Non posso ospitarla qui, anche se io dormissi sull’ottomana. È una donna. Per di più splendida! La sua metamorfosi nell’arco di poche ore ha qualcosa di prodigioso e di certo non è un essere umano» bofonchiò, mentre cercava di dare una parvenza di ordine al suo regno sconvolto dalla presenza di quelle due femmine.

Entrò nella sala, dove erano rimasti solo Otello e Chiccaja, seduti allo stesso tavolo. Bevevano l’ultimo calice della giornata prima di tornare alle loro dimore.

Lorenzo si avvicinò al bancone. Samuele era nel retro e mise la testa fuori dalla tenda a righe.

«Sam, hai una stanza libera per Esme?»

L’amico sbarrò gli occhi e lo fissò come se fosse uno zombie, arretrando di un passo. “Esme?” Pensò in una frazione di secondo chi fosse senza trovare risposta. “Lorenzo ha raccolto una bambina per strada che poi è cresciuta un po’ magicamente. Ma di Esme non mi ha mi ha detto nulla”. Non gli risultava che avesse trovato un’altra bambina o ragazza nel frattempo. Era salito nelle sue stanze e non era mai ridisceso. Come un flash ricordò che poco prima Bea gli aveva urlato che andava dalla Giannina. Non si era chiesto il motivo ma adesso cominciò a farsi strada l’idea che tra la richiesta di Lorenzo e l’andata della moglie in merceria ci fosse un qualche collegamento. Quale non lo immaginava ma quasi di sicuro era per quella bambina raccattata per strada. Un brivido di paura per Beatrix gli attraversò la schiena.

Samuele stava per formulare la domanda sui motivi della richiesta, quando Otello con il suo vocione urlò: «La cinna dove l’hai nascosta?»

Lorenzo sorrise storto e non rispose.

Ottava parte La bambina senza nome

Krimhilde e le fanciulle scomparse

Su Caffè Letterario è apparsa da poco l’ottava puntata de Una bambina senza nome, che potete leggere anche qui.

Bea apparve sulla porta di comunicazione tra le due stanze. I lunghi serici capelli neri apparivano aggrovigliati come se una mano diabolica si fosse divertito a intrecciarli. Il viso rosso congestionato per l’ira che covava nel suo interno. Gli occhi spiritati per la vista del diavolo in persona. Vistose chiazze di bagnato lasciavano intravedere il reggiseno a balconcino. Sembrava infuriata. Anzi lo era.

Lorenzo si alzò per andarle incontro. Aveva lo sguardo moscio per averla coinvolta nel bagno di Esme, che seguiva con lo sguardo ferino le sue mosse.

Bea aprì e chiuse più volte la bocca come se fosse stata colta da afasia. Sbatté con violenza le palpebre, ma poi pian piano gli occhi ritornarono alla normalità del misto marrone e verde. Il viso riacquistò il colorito di sempre: quel incarnato leggermente olivastro che le donava fascino. La vista di Lorenzo preoccupato per lei aveva avuto il potere di rasserenarla dopo la lunga lotta con quella ragazza per lavarla e toglierle tutte quelle croste nere di cui il suo corpo era ricoperto.

Lorenzo le baciò le guance mentre la stringeva a sé con affetto. Avvertì delle fitte dolorose nella nuca. “Di certo è Esme che non gradisce le mie effusioni a Bea. Lei non è nulla per me ma Bea invece sì. È la moglie del mio miglior amico”. Poi la condusse sull’ottomana accanto a lui, tenendole la mano. Percepiva che si era calmata.

Esme lanciò occhiate assassine verso Lorenzo e Bea e il giallo dell’iride diventò ancor più luminoso come se si fosse incendiato. Era nel centro della stanza e sembrava cresciuta ancora.

«Non voleva farsi toccare da me!» affermò Bea con un tono leggermente stridulo della voce. «Nella reazione scomposta della ragazza è uscita dalla vasca un bel po’ di acqua! Un macello! Il tuo bagno sembra un campo di battaglia allagato! Giuro che non ho capito il motivo».

Lorenzo sorrise, stringendole le spalle. “Adesso viene il bello. Provare quello che ho comprato”. Affidare il compito a Bea non ci pensava per nulla. Doveva farlo lui. Dalle due borse tolse gli acquisti.

Bea scoppiò a ridere. «Pensi che quelle mutandine possano andarle bene?» E osservò quell’indumento adatto più a una bambola che alla ragazza ben sviluppata che stava ritta di fronte a loro. Si alzò di scatto e scomparve alla loro vista.

Esme con un sorriso sicuro si avvicinò a Lorenzo che con garbo la allontanò per farle comprendere che non desiderava troppa intimità tra loro. Fece un passo indietro con gli occhi velati di delusione.

Lui cercò di rimettere insieme i pezzi della giornata iniziata con l’incontro con Esme. Però sembrava che procedesse male. I commenti acidi dei clienti di Samuele, gli acquisti inutili dalla Giannina e guardò scoraggiato quello che era ammucchiato in disordine sull’ottomana. Alzò gli occhi verso la ragazza e poi li abbassò sui vestiti. Scosse il capo. Non c’era nulla che fosse indossabile.

Esme con fare civettuolo allentò il telo mostrando la coscia fino all’inguine. Una ciocca di capelli neri e umidi fece capolino dal turbante. Sperava di smuovere Lorenzo ma lui finse di non vedere nulla. Lui si sistemò sull’ottomana ed ebbe un lampo. “Questo devo riportarlo indietro e prendere qualcosa di più adatto. Ma quale taglia?” Scrutò la figura della ragazza ferma sul centro della stanza e deglutì. “Sì, è cresciuta ancora! Il seno appare sodo e fatica a restare dentro il telo. Vicino a Bea è alta quanto lei”.

Esme aveva lo sguardo deluso, perché non era riuscita a smuoverlo dal suo rifiuto di avvicinarsi. Quella donna le era antipatica ed era stata costretta a sentire le sue manacce sulla pelle.

La mente di Lorenzo lavorava a pieno regime, perché si trovava in una situazione ancor più delicata da quando erano saliti nelle sue stanze. Se l’acquisto di nuovi vestiti poteva rappresentare una questione marginale, la notte invece era oggettivamente un grosso problema. “Di certo non può rimanere qui oppure sono io a traslocare. Se una stanza del bed and breakfast è libera, potrebbe essere una soluzione soddisfacente. Ma se non ci fosse?” Scosse la testa e socchiuse gli occhi ma li riaprì subito Esme era vicinissima e lui sentiva il suo alito caldo sul viso. Si spostò bruscamente e con il braccio le comandò di tornare al suo posto. Il telo era quasi tutto discinto e lasciava intravvedere il corpo nudo.

Lorenzo si alzò e rimise nelle due borse gli acquisti alla rinfusa. Doveva tornare dalla Giannina per comprare altri capi, ma rimase a bocca aperta con gli occhi sgranati per la sorpresa sulla soglia dell’ingresso.

La bambina senza nome – parte settima

Prosegue la storia Di Lorenzo e della bambina raccolta per strada. La trovate su Caffè Letterario e anche qui.

Copertina Daniele

Secondo Samuele l’edificio, che ospitava la trattoria, era del quindicesimo secolo quando Monteacuto delle Alpi era un importante snodo di passaggio tra Bologna e Pistoia.

Per Lorenzo invece era più recente e avrebbe avuto circa trecento anni. Duecento in meno. «Una bella età comunque» dichiarava, «e li porta bene!» E non aveva cambiato idea nemmeno quando durante i lavori di ristrutturazione erano state trovate tracce di un incendio nella parte superiore del sottotetto.

Samuele un paio di anni dopo aver preso la residenza decise che era venuto il momento di rendere l’edificio più moderno e sicuro. Chiese l’aiuto di Lorenzo, che era tornato da Milano piuttosto ammosciato, per ristrutturare l’intero complesso formato da un corpo principale e una struttura secondaria accostata sul retro.

L’edificio di forma rettangolare con il lato più lungo si affacciava davanti su un ampio spazio suddiviso in due parti: una tenuta a prato e l’altra a parcheggio per i clienti della trattoria. Sul retro stava addossata una struttura più bassa che sembrava più vecchia del corpo principale. Lorenzo ipotizzò che fosse il nucleo originale della struttura, dove i viandanti diretti a Pistoia potevano sostare con le loro cavalcature. Le due ampie rimesse assomigliavano molto a scuderie, mentre sopra stavano delle stanze che il nonno Checco aveva strutturato in appartamento per Eleni e sua figlia. Dopo questo intervento la parte superiore aveva perso la struttura originale.

Visto che Beatrix avrebbe traslocato da Samuele, decisero di trasformarlo in un bed and breakfast, mentre una delle due rimesse era diventata un mini appartamento per aumentare la capienza e valorizzare l’intero complesso.

Come in tutte le vecchie dimore, la soffitta era il posto dove dormiva la servitù. La vecchia scala ripida e scomoda venne sostituita con una più comoda a chiocciola. La soffitta venne suddivisa in due parti. Una avrebbe funto da ripostiglio e l’altra parte sarebbe stata destinata a Lorenzo.

Arrivati nel sottotetto c’era un disimpegno disadorno, che prendeva luce da una piccola finestra a lato. Qui si aprivano due porte. Quella di destra conduceva al minuscolo appartamento occupato da Lorenzo, mentre sulla sinistra si accedeva al ripostiglio vero e proprio.

Lorenzo entrò con la ragazza in una stanza che fungeva da salotto o angolo relax. Una vecchia ottomana di cotone color écru a disegni floreali era addossata alla parete con un tavolino rotondo di ciliegio alla sua sinistra. A sinistra una minuscola libreria in legno laccato nero e sulla destra un mobile basso in radica. A completare l’arredo un tavolino con sopra un televisore. Era mobilio restaurato, in parte recuperato dal vecchio sottotetto. Due velux filtravano la luce per illuminare la stanza.

Lorenzo proseguì nella seconda stanza, arredata in modo minimale. Un letto matrimoniale in ferro battuto con testiere laccate a simboli floreali. Un comodino col piano di marmo accanto. Un armadio di ciliegio verde chiaro e una cassettiera bassa completavano gli arredi. Tre minuscole finestre e due velux la rendevano luminosa.

La ragazza lo seguiva docile. Si lasciò condurre nel bagno, dotato di una vasca con seduta e di una comoda doccia oltre agli altri sanitari. L’ambiente era abbastanza spazioso e un velux consentiva di arearlo e dare luce.

Lorenzo rimuginava che doveva dare un nome a questa fanciulla. «Visto che non vuoi dirmi come ti chiami. Per me e per gli altri sarai Esmeralda. Dunque ti chiamerò Esme per semplificare il nome».

Per un attimo lei sollevò il viso e lo guardò negli occhi come per confermare che avrebbe risposto a questo nome.

Da un armadietto bianco estrasse due teli da bagno e un paio di salviette, un guanto di juta grezza e due ciabatte di spugna.

Aperto il rubinetto dell’acqua calda riempì la vasca. La saggiò con un gomito come si fa per i bambini, vi versò senza economie dei sali profumati e invitò Esme a togliersi il sacco che indossava da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia.

Lei rimase immobile nel centro del bagno. Lorenzo sbuffò innervosito e mormorò «Fa resistenza passiva».

Stizzito afferrò dal basso il sacco e con un colpo deciso glielo tolse. Lei rimase nuda come aveva ipotizzato ma senza dare segni d’imbarazzo. Lorenzo distolse lo sguardo da quelle nudità, anche perché nel basso ventre appariva una leggera peluria nera e il seno era appena pronunciato. Con l’indice dalla mano la invitò a entrare nella vasca che emanava un impercettibile vapore profumato alle rose.

Non dovette forzarla perché di sua spontanea volontà si immerse nell’acqua, che al contatto col suo corpo si intorbidì subito.

Adesso veniva la parte più imbarazzante: sfregare con vigore il sapone sulla sua pelle compresi i genitali e il seno. Era la prima volta che lo faceva con una donna e si percepiva il suo disagio nell’adempiere a questa azione.

Un tocco delicato sulla spalla lo fece voltare. Un sorriso gli spianò le rughe dalla fronte. Aveva di fronte Bea sorridente e ironica. Le lasciò sollevato il guanto insaponato senza troppo dispiacere.

Seduto pensoso sull’ottomana Lorenzo, sorreggeva la testa sul palmo della mano appoggiata sulla sponda. Non sentiva nulla, il tempo volava e lui tremò per Bea. “Quella ragazza sembra diabolica e per nulla umana” e ricordò l’esclamazione di Otello. Abbassò leggermente le palpebre corrugando la fronte.

Quando comparve Esme avvolta in un telo bianco che lasciava scoperte due gambe snelle e slanciate e la parte superiore del petto, si raddrizzò. Un turbante azzurro avvolgeva la testa, mettendo in risalto gli occhi gialli che splendevano come oro zecchino.

Con lo sguardo la fissò come non era mai accaduto da quando l’aveva raccolta. Lorenzo sobbalzò a quella vista, ma si ricompose avvertendo fastidio per le occhiate insistenti che Esme gli lanciava.

Aspettò impaziente che comparisse Bea che tardava a mostrarsi. “Che le sia capitato qualcosa di spiacevole?”

La bambina senza nome – terza parte

Copertina Daniele

Le altre parti le trovate prima e seconda.

La terza parte è stata pubblicata su Caffè Letterario ma la potete leggere anche qui.

In breve sul vassoio rimasero le briciole. La bambina li aveva divorati in pochi minuti. Pareva avesse una fame vecchia come il mondo.

Sandro e Otello ripresero la loro partita a carte contro Checco e Chiccaja ma sembravano forzati, senza entusiasmo. Se prima dell’arrivo di Lorenzo con la bambina ogni giocata era un lazzo, una battuta pungente, adesso il clima si era raffreddato. Poche parole ma molti sguardi inquieti verso quella cinna che suscitava troppi interrogativi su chi fosse in realtà.

Pipin e Al Pâg’ smisero di parlare di Thiago Motta, di Orso, di Skorupski e bisbigliavano osservando di sottecchi la bambina a divorare quei panini che loro ne avrebbero mangiati appena uno nello stesso tempo. Zuan di Chiccon invece era rimasto in silenzio con lo sguardo assorto, quasi assente. L’occhio era spento e le labbra serrate, ridotte a un sottile filo.

Samuele percepì che il clima era cambiato in peggio. Quelle sette persone non più giovanissime, anzi avanti nell’età, erano una costante fissa di quella sala. Non mancavano mai sia che fuori diluviasse, sia che una tormenta di neve avesse bloccato il paese. Loro erano sempre presenti e riempivano la sala col loro vociare un po’ sgraziato. Eppure era stata sufficiente la presenza di un’estranea, di una bambina enigmatica per cambiare l’atmosfera da gaia a pensierosa.

Provò a concentrarsi sul motivo della chiamata a Lorenzo ma la mente tornava di continuo su quella domanda “Chi è questa bambina?”. Non era una normale cinna come Elena, la figlia di Federico, il veterinario. “No, no!” e scosse la testa come per rafforzare il pensiero. “No! Troppo diversa e vestita male per essere un bambina di un paese nelle vicinanze”. E poi le conosceva tutte quelle dei borghi che facevano corolla a Monteacuto. Non ci voleva molto. Si potevano contare con le dita di una mano. “Dunque da dove è spuntata?” Per Samuele era un enigma irrisolto. “Lorenzo ha parlato di averla raccolta vicino alla Fonte Vecchia. Che sappia non ci sono case, nemmeno casolari nelle vicinanze. Solo roccia, arbusti e castagni. Se uno si perde lì, passano giorni prima che qualcuno lo possa soccorrere”.

Lorenzo era rimasto senza parole vedendo la piccola divorare quella montagna di panini farciti con abbondanza da Samuele. Ne voleva prendere uno da accompagnare al rosso frizzante ma non aveva fatto in tempo. La mano era rimasta a mezz’aria e vuota. Però lo stomaco brontolava perché voleva essere riempito. «Sam, me ne prepari uno con crudo e formaggio di capra stagionato?».

Samuele compì una piroetta e sparì in cucina per tornare con un mezzo sfilatino su un piatto. Lo consegnò direttamente nelle mani di Lorenzo, perché se l’avesse posato sul bancone le mani rapaci della cinna l’avrebbero artigliato prima che lui potesse afferrarlo.

Gli occhi gialli della bambina ebbero un guizzo di disappunto come una fiammata per spegnersi subito.

Lorenzo sussultò ma non mollò la presa. Aveva scorto quel lampo maligno. “Chi ho raccolto per strada?” pensò mentre masticava con vigore un boccone strappato dal pane che teneva saldo nella sinistra. Deglutì rumorosamente mentre sorseggiava il vino. Non gli era sfuggito l’atteggiamento della bambina che aveva lanciato un’occhiata carica di odio. “Eppure si avrebbe dovuto sfamare con dieci o dodici panini”. Sorrise perché definirli così era un eufemismo viste le dimensioni. Chiedere a Samuele un altro vassoio per la piccola era fuori discussione. Avrebbe spazzato via in poco tempo tutto. Si pulì la bocca dalle briciole col dorso della mano e finì il suo calice di rosso.

«Come ti chiami?» Chiese con tono dolce, cercando i suoi occhi rivolti verso il basso.

La domanda ebbe il potere di catalizzare tutti gli sguardi sulla bambina, mentre si udiva solo il roco ansare di Otello.

Nessuna risposta.

«Chi sei?»

Ancora silenzio. Sembrava che tutti avessero smesso di respirare tanto era assordante.

Adesso erano gli occhi di nove persone a fissarla senza un attimo di sosta. Tutti in attesa di una risposta che non arrivava e forse non sarebbe mai pervenuta.

Lorenzo, visti gli inutili tentativi di farla parlare, si rivolse a Samuele. «Quale impellente problema mi ha fatto scomodare dalla routine quotidiana?»

L’oste socchiuse prima l’occhio sinistro, poi quello destro come volesse concentrarsi sulla risposta. Li riaprì insieme e ammise con candore che in quel momento lo ignorava. «Ma sono certo che l’argomento era davvero importante se ti chiesto di salire dalla città».

Lorenzo strinse le labbra e serrò la mandibola per evitare una risposta che avrebbe provocato la rottura di un’amicizia che durava dall’età scolare. Non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Adesso era lì e ci sarebbe rimasto, anche se la bambina raccolta per strada gli provocava strane sensazioni.