Una sera a teatro -parte 1 di 2

Iréne, avvolta nella cappa bordata di pelliccia, saliva lentamente lo scalone di ardesia del Collegio San Carlo nella zona centrale della città. Alzò la vista verso i quadri disposti lungo le pareti, che arcigni parevano seguirla con gli occhi. Si strinse ancor di più nel mantello come per proteggersi da un nemico invisibile. Continuò a salire cercando di distogliere lo sguardo e non pensare a loro.
Aveva deciso di partecipare a questa serata di musica classica per un motivo molto particolare ma l’aveva relegato in fondo all’anima per non pensarci troppo. Non era sua abitudine a partecipare a questi eventi, ma stasera faceva un’eccezione.
Con un sottile senso di inquietudine percorse il corridoio silenzioso che portava nel vestibolo del piccolo teatro collocato all’interno di questo Collegio secolare. Si udivano solo il ticchettio dei suoi tacchi e nulla più. Avvertiva un senso di pace passare tra questi muri che avevano visto numerose generazioni di studenti impegnati ad apprendere il sapere ma nel contempo percepiva che aveva sbagliato a venire. Erano sensazioni contrastanti che non riusciva a conciliare ma le provocavano un senso di angoscia ed euforia allo stesso tempo.
Si avvicinò al tavolo per pagare il biglietto d’ingresso e prendere il programma della serata, che scorse velocemente senza molto interesse. Non amava molto la musica classica in particolare quella strumentale ma aveva deciso di ascoltare questo concerto particolare.
Si guardò intorno alla ricerca di visi amici ma erano tutte facce sconosciute. Comprese di essere nel posto sbagliato: lei vestita in maniera ricercata, loro in jeans e maglione senza nemmeno abbinare troppo i colori. Li udiva parlare ad alta voce come se profanassero il luogo, che invitava al raccoglimento e al silenzio. Stava già meditando di andarsene, quando vide l’amica, la signora Massone, che più che amica era una conoscente un po’ pettegola e invadente. Nonostante questi pensieri tirò un sospiro di sollievo per non sentirsi sola.
Le due donne si mossero all’unisono una verso l’altra per salutarsi.
“Buona sera, contessa Cittadini” disse allegra porgendole la mano.
“Buona sera, signora Massone. Anche lei qui ad ascoltare questa serata di buona musica?”
“Sì. Ma la vedo sola. Il signor conte non è venuto? Non apprezza i virtuosi del pianoforte?” domandò un po’ maligna la donna.
Iréne stette in silenzio per qualche attimo per soppesare le parole della risposta.
“Sì. Mio marito ha preferito rimanersene al calduccio accanto al camino, piuttosto che affrontare il freddo della sera”.
Un lieve sorriso increspò il viso della signora Massone. “Saggia decisione. E’ più prudente di noi donne, che abbiamo privilegiato la voglia di evasione al caldo della casa”.
“Ops ..” aggiunse voltandosi verso chi le stava alle spalle. “Che poco elegante sono stata con lei. Non le ho presentata la mia amica. La contessa Iréne Cittadini” e poi facendosi di lato continuò. “Questa è la mia carissima compagna di uscite serale. La signora Boschetti”.
Uno scambio incrociato di mani e un qualche borbottio che assomigliava a un «piacere» concluse le presentazioni, prima che calasse un silenzio imbarazzato.
“Se non vi dispiace prendo posto in sala” disse Iréne allontanandosi dalle due donne per sedersi nelle ultime file, vicino all’ingresso e porre fine all’imbarazzo di una conversazione mai sbocciata.
La signora Massone osservò l’amica che prendeva posto e, prendendo sotto braccio la signora Boschetti, la guidò verso le prime file.
“Vede” cominciò sottovoce. “La contessa ha una bella e interessante storia dietro di sé. Lei è la figlia di Alberto Pierotti, il fratello minore di Matteo Pierotti, quel ricco uomo d’affari, che sicuramente conosce”.
Un lieve cenno del capo avvalorò le ultime parole, mentre la donna riprese il racconto.
“Alberto era uno scapestrato. Amava girare tra le osterie a bere e ubriacarsi come tanti poveracci e appena poteva scappava a Bologna al Caffè San Pietro, dove si radunavano pittori e scrittori. Lui ambiva a diventare pittore e non ne voleva sapere di studi o mettere la testa a posto. Nel 1939 aveva solo vent’anni con la guerra imminente e dietro l’angolo, quando scappò a Parigi, nascondendosi tra i pittori della rive guache a Montparnasse. Lì scollinò la guerra e l’occupazione tedesca”.
“Ma non era imprudente starsene all’estero in un paese non proprio amico?” chiese la signora Boschetti.
“Ha ragione, Ivana. Ma al ragazzo mancava il senso pratico e la prudenza del fratello. Era un autentico buono a nulla, che amava vivere di espedienti piuttosto che fare una vita normale”.
Un sorriso comparve sui loro volti, che giudicavano questi atteggiamenti come disdicevoli. La signora Massone riprese la narrazione dopo una breve pausa.
“Poi negli anni tumultuosi del dopoguerra conobbe una donna senza censo e anonima, che sposò in gran segreto. La famiglia di origine non seppe nulla finché non nacque Iréne, la signora che le ho presentato stasera”.
Fece una piccola sosta nel parlare, osservando se la signora Boschetti la seguiva nei suoi discorsi.
“Prosegua, Paola. Non conoscevo questi dettagli sui signori Pierotti e sulla contessa”.
“Come le ho detto Alberto era uno scapestrato senza testa e senza talento. Viveva di espedienti e piccoli lavori, facendo debiti a profusione. Sembra che la madre di Iréne sia morta qualche mese dopo la nascita della ragazza. Ma qualcuno vocifera che sia fuggita con un uomo ricco e importante. Tralasciando questi miseri pettegolezzi, la ragazza fu cresciuta in qualche modo dal padre e dai suoi amici in un ambiente malsano e privo di scrupoli o moralità, finché a vent’anni anche Alberto morì lasciandola sola. Lo zio Matteo, di animo generoso, l’accolse nella sua villa, appena fuori la città, e le consentì di completare gli studi. Le diede un futuro meno ambiguo e grigio del padre trasformando una ragazza senza cultura ed educazione in una una splendida fanciulla ammirata da tutti. Dicono che abbia acquisito la bellezza dalla madre, che nessuno ha mai potuto ammirare”.
Fece una piccola pausa voltandosi leggermente verso le ultime file della sala per osservare Iréne, che compunta teneva in grembo la mantella.
“Lo è ancora adesso una stupenda donna nel fiore della maturità, a dire il vero. Ma andiamo avanti col racconto. Molti corteggiatori si fecero avanti ma alla fine la spuntò il conte Cittadini, che la sposò. Non hanno ancora figli ma pare che sia una coppia affiatata” concluse la signora Massone.
“Senza dubbio una storia interessante che non conoscevo, Paola. Ma ora ..” e non riuscì a concludere il pensiero perché il pianista aveva fatto il suo ingresso, accompagnato da un caloroso applauso del pubblico presente. L’artista fece un inchino verso di loro e in un italiano approssimativo si presentò.
Iréne lo vide e cercò di nascondersi, mentre occultava il nervosismo serrando le mani sulla mantella. Alle prime note dello strumento una forte ondata di emozioni l’assalì salendo verso il volto per poi scendere verso il basso. Osservò con attenzione Jacques Saint Just, i capelli ancora lucidi e scuri, la mani diafane e affusolate, che scivolavano leggere a sfiorare i tasti del fortepiano.
La musica settecentesca di Haydn e di Muzio Clementi riempì la sala che ascoltò in silenzio i virtuosismi del pianista fino all’intervallo. Un lungo ed entusiastico applauso accolse la fine della prima parte del programma.
Iréne si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.
“Dov’è il camerino dell’artista” chiese la donna all’addetto del ingresso.
“Nel corridoio la seconda porta” rispose indicando con la mano il percorso. Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata a quella visione, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.
“Desidera?” chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.
“Devo vede Monsieur Saint Just” disse con un filo di voce.
“Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto” replicò accennando a richiuderla.
“Ho un appuntamento con lui” rispose in maniera convincente.
“Aspetti” e sparì.
Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.
La contessa sentiva crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita della decisione. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.
“Jacques!” disse allargando le braccia per abbracciarlo.
“Iréne! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui”.
L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte a sé.
“Lasciati ammirare!” soggiunse, osservandola. “Sei ancor più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita”.
Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano visibilmente commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni.
Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Lei lasciò cadere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi col padre e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.
“Oh!” furono le sole parole che le uscirono. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. “Oh, Jacques!”
“Sst!” e le mise un dito sulla bocca. “Tenez” le disse allungandole una sedia. “Aspettami qui fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti”. E uscì per riprendere a suonare.
Nel mentre la signora Massone la cercava con lo sguardo senza vederla.
“Iréne se ne è andata” confidò all’amica. “Evidentemente quel pianista francese non era di suoi gradimento”.
“Io l’ho trovato fantastico nel suonare quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso” rispose aggrottandole sopracciglia. Non comprendeva le motivazioni per le quali era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.
“Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende”.
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Il Borgo – Capitolo 4

Era il 5 settembre del 2009, quando Laura scese in strada per aspettare i compagni di questo viaggio visionario e fantastico. Era eccitata, come la prima volta che aveva affrontato da sola un tour in Germania, e nel contempo intimorita e impaurita per la complessità del progetto che desiderava avviare.

La giornata prometteva bene. Un bel sole caldo riscaldava l’aria, appeso in un cielo terso e limpido privo di nuvole. Aveva trepidato leggendo le previsioni meteorologiche di Arpa dell’Emilia Romagna nei giorni precedenti. «Oggi annunciano sole pieno e tempo sereno con temperature intorno ai 20°» diceva dentro di sé per esorcizzare il timore che avessero sbagliato le stime. «Non sarebbe la prima volta e neppure l’ultima» rifletteva mentre si lisciava i capelli per il nervosismo.

Era raccolta in queste riflessioni, quando osservò una vecchia Punto che accostava timidamente al marciapiede qualche metro dopo di lei. Non aveva mai visto i loro visi come loro non avevano avuto la possibilità di vedere una sua fotografia. Quindi era un incontro al buio e tutte le cautele erano d’obbligo per non incappare in malintesi antipatici.

“Forse è Giacomo” pensò rimanendo immobile dov’era.

Dall’auto scese un ragazzo non molto alto coi capelli scuri tagliati corti ma non troppo. Una leggera peluria biondo rossiccia incorniciava il viso ma era lo sguardo franco e accattivante che la colpì. Si mossero quasi all’unisono andandosi incontro.

“Laura?” chiese un po’ incerto.

“Giacomo?” rispose la ragazza, allungando la mano.

“Felice di conoscerti” replicò, stringendola con vigoria senza stritolarla.

Una risata ruppe l’incantesimo del momento, sciogliendo quel leggero velo di incertezza che li aveva colti.

“Manca solo Eva”. Tacque una frazione di secondo prima di riprendere a parlare. “Hai qualcosa da caricare sulla mia Panda 4X4?”

“Si” disse, aprendo il baule della Punto per estrarre uno zaino della Invicta gonfio e pesante.

Erano intenti nel trasbordo, quando videro una Polo grigia che avanzava verso di loro con lentezza come se stesse cercando qualcuno. Laura notò che era una coppia di ragazzi, un uomo e una donna, e non li associò a Eva. «Dovrebbe arrivare una ragazza e non una coppia. Forse stanno cercando qualcun altro che non sono io» rifletté, osservando l’auto con la coda dell’occhio, mentre manovrava per accostare al marciapiede. Parcheggiò dinnanzi alla macchina di Giacomo, perfettamente allineata al cordolo.

“Forse hanno necessità di informazioni” si disse controllando le mosse degli occupanti.

Un ragazzo e una ragazza si mossero verso di loro. La giovane non era molto alta e aveva un bel sorriso luminoso. A Laura piacque immediatamente. Il giovane era alto e biondo dal viso serio e leggermente annoiato. Però si faceva notare per il modo franco di camminare. Sicuro di sé e per nulla altezzoso.

“Ciao. Sono Eva” esordì la ragazza. “Laura?”

“Ciao” rispose. “Benvenuta in questa compagnia di visionari amanti della natura”.

Osservò il ragazzo con attenzione domandandosi se era un semplice accompagnatore oppure era un aggregato inatteso e dell’ultima ora.

“Questo è ..” disse Eva girandosi verso il compagno che stava alle sue spalle. “Questo è Marco, il mio ragazzo. Se non è d’impiccio, ci farà compagnia in questa escursione”.

“Ciao” rispose Laura, che quasi si stava dimenticando di Giacomo. “Certamente è il benvenuto tra noi”. Poi come colta da un’improvvisa folgorazione aggiunse ridendo per coprire l’imbarazzo. “Non vi ho presentato Giacomo, l’altro componente della spedizione”.

Una serie di «Ciao» e un intreccio di mani misero fine alle presentazioni.

“Ho strappato Marco dal suo antro, la camera oscura. Lui ama la fotografia ed è un valente fotografo. Credo che le sue magie ci possano essere utili oggi ma anche domani se il progetto prende forma” disse Eva per giustificare la presenza del compagno.

“Meraviglioso” esclamò Laura battendo le mani come una bambina felice di aver ricevuto un regalo inatteso.

“Calma, calma. Eva mi spaccia per un Frank Capa in miniatura ma sono molto meno abile. Un modesto dilettante al quale piace inquadrare degli oggetti e delle persone” replicò senza troppi trionfalismi.

“Non dategli ascolto. Marco è bravissimo. Vedrete e toccherete con mano la sua abilità con gli obiettivi”.

“Bene. Che ne dite di avviarci?” chiese Laura. “Avete qualcosa da scaricare, prima di metterci in viaggio?”

Marco si avviò col suo passo deciso e svelto verso il baule della Polo, da dove tolse uno zaino, una sacca e delle borse tipiche del fotografo.

Il viaggio stava iniziando sotto i migliori auspici. Lasciata Bologna avevano deciso di percorrere la via Emilia per godersi un viaggio meno monotono rispetto all’autostrada.

“Facciamo una sosta da Dino” disse Laura, dirigendosi verso Castelguelfo.

“Chi sarebbe?” chiese Eva.

“Un bar pasticceria dove possiamo fare un’ottima colazione e portare con noi un bel dolce della casa”.

“Ma lo conosci?” chiese curioso Giacomo.

“No. Cercando sul web qualche notizia ho trovato sul sito Itinerari di Bologna che andando verso Castiglioncello c’è questa ottima pasticceria”.

“Ma allora ci usi come cavie?” proseguì per nulla convinto Giacomo. A questa battuta tutti risero, perché era stata detta con un tono talmente serio e compunto che non era possibile resistere.

“Ma no! Ne ho sentito parlare. Un tempo era famosa. Cosa costa fermarci?” disse cercando di togliere i dubbi.

“Ma perché parli al passato?” continuò imperterrito l’ingegnere. Ormai il dialogo pareva surreale: da una parte Laura che tentava di fugare le perplessità senza riuscirci, dall’altro Giacomo che incalzava con nuove domande senza essere persuaso dalle spiegazioni.

“Ma sei sempre così diffidente?” chiese Eva.

“No, non sono diffidente” si difese il ragazzo. “Mi piace capire quello che si fa e ..”

“Spaccare il capello in quattro” sbottò Marco.

“No, no!” disse Laura. “Sei un ingegnere tosto e quadrato. Fai benissimo a chiedere”. Non voleva dare l’impressione che tutti remassero contro di lui.

“Beh! Insomma .. Manca molto per arrivare da Dino. Almeno il caffè lo fa?” replicò arrossendo un po’.

“Credo di sì. La pubblicità parlava di pasticceria bar. Non siamo molto distanti. Ancora qualche minuto di strada”.

“Sembri pratica delle strade ..” notò Giacomo.

“Eh! Beh! Sì” farfugliò Laura. “Non hai mai sentito parlare del outlet di Castelguelfo?”

“No. Mai” esclamò divertito il ragazzo. “E roba da donne ..” aggiunse calando di nuovo la maschera della persona seria.

“Ci passiamo di fianco. E’ ancora presto ma tra poco le strade saranno intasate di macchine”.

L’atmosfera nell’abitacolo s’era riscaldata con battute e frecciate ma si respirava un bel clima.

Fatta la sosta da Dino, ripresero la via Emilia fino a Imola, dove presero la provinciale la Montanara che avrebbe condotto verso la meta del viaggio.

Era passato da poco più di un’ora dalla partenza, quando raggiunsero Castel del Rio, prima di affrontare l’ultimo tratto del viaggio verso il borgo fantasma. Si fermarono in paese per una rapida visita, perché avevano letto che meritava una piccola sosta, prima di proseguire per Moraduccio, quattro case immerse nel verde dei primi contrafforti dell’Appenino tosco-emiliano al confine con la Toscana.

Marco estrasse una reflex per scattare diverse istantanee degli angoli più caratteristici del paese. L’occasione permise a Laura di osservare meglio la coppia, che le pareva ben assortita e affiatata. Lui di sicuro non aveva il sorriso contagioso, perché era sempre serio ma mai col broncio. Dalla battuta pronta e incisiva non perdeva l’occasione per far sentire la sua voce. Alla ragazza fece un’ottima impressione e avvertì una certa invidia nei confronti di Eva, solare e sorridente. Se il ragazzo appariva introverso, lei era di certo estroversa. L’impressione era che fossero complementari e mai antagonisti. Mentre osservava il ragazzo, concentrato nello scegliere l’inquadratura più vicina ai suoi gusti di fotografo, la ragazza chiacchierava fittamente con Giacomo, come se fosse disinteressata a Marco.

Laura rifletté che era solo apparenza, perché con discrezione seguiva l’armeggiare del compagno, pronta a portargli la borsa, qualora se ne presentasse la necessità.

“Si” convenne dopo queste osservazioni. “Sicuramente è una coppia ben affiatata. Nessuno dei due sta col fiato sul collo dell’altro”.

Mentre faceva queste considerazioni, la sua attenzione cadde su Giacomo, che era rimasto defilato dopo il duetto per la sosta da Dino.

“L’ho trascurato” pensò la ragazza. “Dopo il primo contatto ho scambiato con lui solo quattro battute per lo più banali e scontate”.

Non era riuscita ancora a inquadrarlo perfettamente. Le sembrava tetragono agli entusiasmi suoi e di Eva ma forse era solo una sensazione passeggera.

Mentre Laura era impegnata a valutare e riflettere sui compagni di viaggio, Giacomo analizzava Laura, Eva e Marco.

Gli era sembrato che Laura prestasse troppo interesse a Marco, che per contro pareva poco interessato a lei. Però era simpatica e piena di idee. «Un piccolo vulcano in perenne eruzione» era il concetto che si era fatto. Senza dubbio aveva un certo fascino che colpiva la sua immaginazione. “Alta nella media. E’ leggermente più bassa di me. Se mettesse i tacchi mi sovrasterebbe” rifletteva, osservandola con rapidità mentre chiacchierava con Eva. “Però sono quegli occhi mobili e luminosi il punto di forza del suo aspetto. Quel grigio per nulla slavato, appena venato di un azzurro pallido mi hanno colpito fino dal primo istante”.

Un altro aspetto aveva accesso il suo interesse: la capacità di parlare con proprietà su argomenti diversi tra loro.

Fino quel momento non era pentito di aver accettato questa avventura quasi irrealizzabile. “Sono tutti veramente simpatici. Ascoltarli è un vero spasso”.

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Andando in treno – parte 2

Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.

Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morieri” dissi riacquistando l’uso della parola.

Infatti” replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. “Ho ottantatre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina ..” e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.

Guardi” e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.

Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.

Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli”.

Già” ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.

Mi dica” proseguii con tono dubbioso, “chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?”

Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.

Michi, vuoi la rivincita?” udì dalla voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.

Sss! Non disturbarmi” replicò con un sussurro appena accennato.

Chi è?” domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. “Chi è? Lo sapessi!” Urlò come un tuono in piena notte.

E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?” gli chiesi con un tono più moderato.

Lo sapessi!” ribadì questa volta meno irritato.

Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente l’avrebbe conosciuto.

Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.

Guardi” cominciò sospirando. “Guardi, la mia vita è come un reality” e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.

Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero ancora all’università ma entrai lo stesso a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale, così che evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra”.

Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.

Era il dicembre del 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Dunque quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto del 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla”.

Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.

Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?” mi domandò a bruciapelo.

No” risposi. “Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia ..”.

Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.

Vede” disse indicando una pagina. “Mi dice che oggi è «martedì», il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?”

Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori, che non percepivo per nulla.

E qui” aggiunse indicando una fotografia. “Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma io non so ballare e quella giovane donna non la conosco!”

Si calmi” gli dissi cercando di tranquillizzarlo.

Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?”

Certamente” replicai poco convinto.

Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro ..”

Però quella pagina è davvero seducente..” provai a contraddirlo.

Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?”

Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.

Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.

«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».

Mi distrassi un attimo.

Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?” ma allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.

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Leggo questo post, che trovo magnifico, di una cara blogger, appassionata come me di Leopardi, scrittore, poeta e grande filosofo.
Spero che possiate giustarlo anche chi passando da me, lo leggerà.

Il Borgo – Capitolo 3

Esaminò con cura l’elenco di località che attualmente erano abitate da fantasmi e un tempo da persone, per restringere il cerchio su un posto che fosse vicino a Bologna e interessante per farlo rivivere.

La scelta cade su Castiglioncello che distava da Bologna appena cinquanta chilometri. Se faceva una ricerca col nome compariva solo una celebre località turistica della costa toscana, mentre il borgo fantasma rimaneva tale.

Trovò qualche indicazione su come arrivarci, qualche descrizione sparsa in qua e in là con diverse fotografie. Era veramente poco per cominciare un’avventura della quale non conosceva né i dettagli né come sarebbe finita. Però non si scoraggiò. Non era facile dissuaderla una volta che aveva in mente un obiettivo.

La sua idea era pazzesca: rimettere in sesto un borgo e poi abitarlo.

“Con quali soldi?” si domandò con un filo di incoscienza. “Non lavoro e non produco reddito ma vivo alle spalle dei miei genitori. Studio ancora con una prospettiva futura incerta. Mi chiedo se riuscirò a dare corpo a questo sogno”.

Naturalmente erano solo riflessioni inutili, perché aveva ormai deciso di ridare vita a questo borgo popolato da ruderi ed erbacce.

Parlarne coi genitori non ci pensava per nulla, almeno in questa fase. Sarebbe stato troppo prematuro. E poi avrebbero mosso mille obiezioni, tutte giuste e pertinenti, nel tentativo vano di farla ragionare.

“Da dove comincio?” si pose come primo quesito. “Una visita al borgo può starci. Anzi è una tappa obbligata per rendermi conto della grandezza dell’impresa”. Era un puro eufemismo, perché il progetto era talmente complesso che il solo pensarci faceva venire il mal di testa. “Un paio d’ore di macchina per raggiungere la località. Poi osserverò di persona lo stato di abbandono del borgo e le condizioni dei ruderi”.

Doveva coinvolgere qualcuno in questo primo approccio, perché quattro occhi vedono meglio di due, mentre due teste ragionano meglio di una.

“Chi potrà essere?” si chiese come secondo quesito, mentre sognante già immaginava di essere la castellana del borgo. “Chi? Nessuna amica ha mai approvato questa mia mania di cercare località sconosciute e misteriose. Amici? Ne ho ben pochi ..”. Un largo sorriso le illuminò il viso, perché era terribilmente single. Quei pochi ragazzi che avevano tentato di abbordarla erano stati messi in fuga dal suo carattere ribelle e scontroso, dalle sue idee e passioni. Tempo di conoscerla solo appena un poco e poi «Rimaniamo buoni amici» dicevano prima di defilarsi elegantemente e sparire dal radar di Laura. Le rare amiche la sopportavano di più, perché era l’unica sempre disponibile senza essere mai troppo invadente.

Eppure era una bella ragazza dai capelli mossi color castano che incorniciavano un viso regolare. Non aveva uno charme prorompente ma attirava gli sguardi degli uomini. Il tallone d’Achille era il carattere tutto pepe, un trottolino mai fermo dalla battuta pronta e tagliente. Non era facile domarla, perché amava la propria indipendenza, forte di un carattere deciso e per nulla accondiscendente.

Era agosto, anzi verso la fine del mese, quando pensò di dar vita al progetto.

“Se voglio organizzare qualcosa devo darmi da fare. Settembre è un mese ideale per uscire all’aria aperta ma le giornate sono corte e le probabilità di temporali in montagna sono elevate. Quindi devo sbrigarmi prima che poi sia troppo tardi”.

Rifletté e decise che Facebook sarebbe stato il veicolo ideale per trovare qualche compagno di viaggio o meglio qualche pazzo come lei.

«Cerco un compagno o compagna, che ami l’avventura per un progetto pazzesco nella vicinanze di Bologna» era l’annuncio sulla sua pagina del social network, che frequentava in maniera saltuaria.

“Mi do tempo una settimana per trovare qualcuno, poi vado da sola” si disse dopo aver scritto questo tra gli eventi. “Però dovrei mandarlo in giro. Ma a chi? Gli amici si contano sulle dita di una mano. Le visite ancora meno. Devo cominciare a esplorare gli amici dei pochi amici che ho e allargare il giro”.

Si dedicò con passione e puntiglio alle visite dopo aver stretto nuove amicizie., creando un certo movimento. Scrisse qualche riflessione intelligente, qualche battuta tra l’ironico e il sornione, finché racimolò due contatti. Le parvero interessanti: una ragazza di Modena e un ragazzo di Ferrara. Entrambi avevano più o meno la sua età tra i ventidue e ventiquattro anni.

La ragazza, Eva, studiava architettura a Ferrara, era incuriosita dal progetto e mostrava segni di vivo interesse. Sarebbe stata un’ottima occasione per applicare quello che stava studiando e avrebbe potuto essere un buon argomento di tesi.

Il ragazzo, Giacomo, amava viaggiare, le avventure anche pericolose ed era attratto da tutto quello che era fuori dell’ordinario. Si era appena laureato in Ingegneria. Si concedeva questa avventura come premio del traguardo raggiunto.

Si diedero appuntamento al primo sabato di settembre sotto casa di Laura, nel quartiere Mazzini, alle nove del mattino.

Cominciava la grande impresa tra allegria e sole caldo.

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Annie Valentine Cook – sono nata il giorno di San Valentino (parte finale)

Era una splendida bambina coi capelli scuri e la carnagione leggermente ambrata come se si fosse dorata al sole. Quel colore metteva in risalto il viso delicato e due grandi occhi azzurri, alquanto singolari nel complesso di quella figura acerba. Quando il primo giorno della Primary School si presentò al cancello del college, la suora guardò male prima lei poi la madre e storse il naso.
Non si accettano bambine di colore. Avete sbagliato ingresso. Più avanti c’è la scuola pubblica” disse con tono acido sbarrando il passo.
Patricia la fulminò e senza aprire bocca avanzò trascinando Annie Valentine per guadagnare il grande portone.
Dove credete di andare?” proseguì aspra e dura.
Nel St. Therese’s College. Ora fattevi da parte, perché devo entrare” rispose fiammeggiante la donna. “Se non vi sbrigate, domani andrete a spazzare i corridoi”.
L’alterco, che stava radunando una piccola folla di curiosi, non sfuggì alle attenzioni di Madre Marie, la superiora, che accorse immediatamente.
Annie Valentine era frastornata, perché non comprendeva tutto quel trambusto. Avrebbe fatto volentieri a meno di andare a scuola ma la madre le aveva spiegato che era un posto dove avrebbe conosciuto altre bambine e imparato a leggere e a scrivere. Però il primo impatto non era quello che le avevano descritto i genitori. Suore altezzose, bambine che arricciavano il naso vedendola.
Che sta succedendo?” chiese Madre Marie, osservando prima la consorella poi la donna di colore.
Nulla” rispose calma Patricia. “Questa suora” e la indicò col capo “mi ha sbarrato l’accesso senza motivo, impedendomi di accompagnare Annie Valentine Cook, mia figlia, di entrare regolarmente a scuola, alla quale è iscritta”.
Il nome le suscitò un ricordo e un lampo nella mente. Era la figlia di un commodoro della Royal Navy, che a Plymouth era conosciuto e stimato, soprattutto adesso che infuriava la guerra e con l’Inghilterra sotto attacco, un personaggio importante da trattare con tutti i riguardi.
La prego di scusare sorella Agnes, che non l’ha riconosciuta. E’ un onore avere nel nostro college la figlia del commodoro Cook” disse mettendosi da parte e fulminando con un occhiataccia la suora guardiana, per nulla convinta del proprio errore.
Non fu l’unico episodio sgradevole che Annie Valentine conservava nella mente di quei lunghi sette anni trascorsi in questa scuola esclusiva e altezzosa tra angherie e piccoli soprusi che dovette subire da suore e campagne.
Con immenso sollievo salutò tutti nell’agosto del 1947 quando per l’ultima volta varcò quel cancello che le erano apparse come le sbarre di una prigione dorata. Adesso era una splendida ragazzina di tredici anni dal seno acerbo e dalle movenze feline e suscitava l’ammirazione dei coetanei e le invidie delle altre ragazze magre e dal viso deturpato dall’acne giovanile.
La rigida educazione religiosa del college lasciarono un’impronta indelebile nel suo carattere ingenuo e aperto. Mostrava una fiducia nel suo prossimo spontanea e sincera, senza ravvisare malizie o fraintendimenti. Questa semplicità nel carattere la rendeva vittima di sottili tranelli, nei quali cadeva quasi senza accorgersene.
Quando nel dicembre dello stesso anno salpò coi genitori per fare ritorno nell’isola di Antigua, la sua spensierata innocenza fu oggetto di molte attenzioni da parte di uomini che avrebbero desiderato possederla. Sembrava più matura della sua età, come se fosse una ragazza di qualche anno più vecchia. Sarebbe caduta nella rete di queste persone se i genitori non l’avessero tenuta continuamente sotto controllo.
A diciotto anni era diventata una splendida fanciulla corteggiata da moltissimi uomini. Era un fiore da cogliere ma non era ancora arrivato il momento di recidere il gambo. Lei era ancora indecisa a chi donarsi per prima, non vedeva inganni nelle loro attenzioni ma un sottile gioco di corteggiamento.
Le suore mi hanno insegnato di mantenermi pura fino al giorno del matrimonio” si diceva mentre sdraiata sulla sabbia bianca della spiaggia di Deep Bay si dorava al sole di giugno. “Mi domando per quale motivo dovrei conservarmi casta. Sento un forte richiamo verso gli uomini. Loro mi ronzano attorno fastidiosi come calabroni. Ma tutto questo mi eccita e mi stimola eroticamente”.
Era luglio 1955, quando seduta sul molo del porto di St. John’s vide sbarcare da una nave da crociera un ragazzone biondo, alto come una guglia della cattedrale. Rimase affascinata, lo seguì con lo sguardo finché non sparì tra la calca della folla. Stanca e annoiata riprese la strada di casa, mentre il sole picchiava duro. Non pensava più a quel ragazzo, quando all’improvviso lo incrociò su High St. Ebbe un tuffo al cuore, si fermò per osservarlo con cura mentre camminava spedito con una piccola valigia verde.
Dove sarà diretto?” si chiese, sperando che le chiedesse qualche informazione.
Come se un sottile filo avesse guidato i pensieri dell’uomo, lui si fermò alla ricerca di qualcuno. La vide ferma sul marciapiede e si avvicinò.
Mi scusi” cominciò posando la valigia per terra. “Saprebbe indicarmi dove si trova Green Bay Hotel? Mi hanno dato le indicazioni ma credo di essermi smarrito”.
Annie Valentine non rispose immediatamente come se fosse stata colpita da un’improvvisa afasia, poi si riscosse sfoderando un sorriso luminoso, mostrando una dentatura perfetta e candida.
Se vuole, l’accompagno. Le spiegazioni sarebbero complicate”.
Grazie volentieri” rispose, riprendendo la valigia in mano.
Così iniziò quell’avventura con John, un gallese galante ma rude e infingardo, che le fece conoscere i segreti del sesso. Annie Valentine si sentì attratta da lui a prima vista e perse ogni senso delle proporzioni. Non riuscì a distinguere le bugie, anche evidenti, che raccontava dalle verità che non volle mai accettare. Il loro rapporto fu tumultuoso nonostante l’opposizione netta di Patricia, che aveva intuito la vera natura del gallese.
Lascialo” le disse un giorno di settembre sua madre. “Ti sta nascondendo la verità su di lui e la sua famiglia. E’ un bugiardo nato. Ci evita come la peste, perché sa che smaschereremo le sue presunte verità in un batter d’occhio”.
Pat” disse la ragazza, che chiamava sempre sua madre col nick. “Lo amo e lui ama me. Mi ha chiesto di sposarlo. Se fosse per lui anche domani”.
Bene” rispose sorridente come se la gatta che era in lei avesse avvistato il topolino col quale giocare prima di ucciderlo. “Invitalo domani sera a pranzo. Io e tuo padre saremo lieti di accoglierlo come futuro genero”.
Annie Valentine riferì a John quello che aveva detto sua madre.
Alle otto di domani sera. Sarai puntuale?” gli domandò premurosa.
Puntualissimo. Sarà un vero piacere incontrare i tuoi genitori” replicò sorridente e gentile.
Il giorno dopo era sparito. Si era volatilizzato. Nessuno sapeva dov’era, nemmeno gli amici più fidati. Qualcuno affermò d’averlo visto sul traghetto notturno verso la Giamaica, altri imbarcarsi su una nave diretta verso il continente. John non si fece più vivo, lasciando Annie Valentine nel dolore più atroce con il cuore spezzato. Pianse per lunghi giorni, nonostante Patricia tentasse di consolarla e farle intuire che tutto sommato le era andata bene, perché quel gallese era un farabutto.
Lei era troppo sincera, troppo passionale per non cadere nei tranelli dei corteggiatori. A volte era persino ingenua nel non credere alle evidenze dei fatti.
Un giorno, aveva circa trent’anni, incontrò un uomo che definì «incredibilmente bello» e se ne innamorò perdutamente tanto che non si accorse nemmeno che era sposato con una donna gelosa e possessiva.
Stava salendo al primo piano per raggiungere il monolocale dove viveva da single, quando Susie, la moglie, l’affrontò decisamente.
Siete una puttana!” le urlò in faccia sulla prima rampa, afferrandola per i capelli. “Lasciate stare il mio Paul!”
E perché mai dovrei?” chiese ingenuamente Annie Valentine.
E’ mio marito ..”
Tuo marito? Forse avete sbagliato Paul.. Quello che frequento è libero come un uccello ..” affermò cercando di liberarsi dalla presa della donna, che la teneva inchiodata al corrimano.
Sì, come un uccello in gabbia. E la gabbia dorata sono io” replicò ironicamente.
Lasciatemi!” urlò avendo il viso contratto da smorfie di dolore.
Certo!” e la scaraventò giù dalle scale. “E questo è nulla se vi vedo ronzare ancora attorno a Paul”.
L’atterraggio non fu morbido ma nemmeno disastroso, perché era finita su rotoli di corda che le lasciarono solo dei lividi per qualche giorno.
L’uomo, conteso dall’amante e dalla moglie, le telefonò una settimana più tardi.
Mi spiace” cominciò senza troppi tentennamenti come se non dovesse confessare nulla. “Susie, l’avrai conosciuta, è troppo gelosa ed è capace di tagliarti la gola e di evirarmi, se ti frequento ancora”.
Così per l’ennesima volta fu lasciata.
Annie Valentine sull’amaca, mentre osservava nel crepuscolo della sera il mare appena increspato da spume bianche, si domandava perché arrivata a quarant’anni non era ancora riuscita a trovare un compagno stabile ma solo tanti effimeri fantasmi che comparivano e sparivano senza lasciare tracce.
Io dono tutta me stessa ma loro mi portano via ogni volta brandelli della mia anima senza chiedermi il permesso. Ormai ne è rimasta solo qualche piccola briciola. Non riesco nemmeno più a piangere, perché le ho esaurite tutte. Vorrei un uomo che mi rispettasse e donasse un pizzico d’amore sincero ma non lo trovo. L’unico era ..”.
Vide una figura che lentamente camminava sulla battigia, illuminata dal sole morente. Questa si fermò e facendosi schermo la mano, la osservava dalla spiaggia come se fosse incerto se proseguire nella camminata o dirigersi verso il cottage di Annie Valentine.
Lei smise di dondolarsi e aspettò ansiosa.
Prese una decisione e si avviò deciso.
Ciao, Annie” disse.
Ciao, Jack” rispose.
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Potete scaricare l'ebook di Goethe e la felicità nascosta

Avrei voluto lasciare i quadri della Kauffmann ma sembra che diano noia nella pubblicazione su smashwords del racconto Goethe e la felicità nascosta, così li ho tolti. Ma pare che ci siano altri dettagli da sistemare, come le note e alcuni paragrafi, che diano fastidi. In effetti l’epub è abbastanza impaginato bene, il mobi molto meno.
Con un po’ di pazienza sistemerò anche questi.
Chi volesse leggerlo senza impazzire sul mio blog lo può scaricare da https://www.smashwords.com/books/view/272974 in download gratuito, perché era così anche l’originale su Lulu.
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Il Borgo – Capitolo 2

Tutto era cominciato per caso, come capita sovente per le grandi imprese.

Laura era una grandissima viaggiatrice: non c’era parte del mondo che non conoscesse, almeno virtualmente. La sua smania di scoprire nuovi mondi inesplorati o quasi l’aveva colpita quando aveva quindici anni e da allora non l’aveva abbandonata. Però per lo più viaggiava con la fantasia, visitando col PC agenzie e tour operator, programmando favolosi viaggi nell’oriente misterioso. Studiava sulle mappe il prossimo viaggio che vorrebbe compiere. Si metteva le cuffie, apriva Google Map e comincia a cercare località che non aveva ancora visitato. Cercava ogni notizia utile sulla località prescelta, studiando il percorso con l’ausilio di mappe dettagliatissime o esplorando il posto con Google Earth.

Poi chiudeva gli occhi, si abbandonava sulla poltrona della scrivania ad ascoltare Mozart, mentre la fantasia galoppava felice verso mondi esotici o caserecci. Prendeva treni, aerei, cavalli o muli, cammelli o slitte trainate da cani, andava a piedi e si guardava intorno per cogliere tutto quello che c’era da osservare e da gustare. E tutto gli appariva come reale, come la sete di conoscere era inestinguibile.

Laura abitava a Bologna dove viveva ancora nella casa dei genitori. Frequentava l’università con notevole profitto con la speranza di ottenere un buon lavoro e trasformare la sua voglia di viaggiare in qualcosa di più concreto. Per il momento si doveva accontentare di viaggi di poco conto e non troppo distanti dalla sua città.

Aveva ventuno anni, quando un giorno ricevette in maniera fortunosa da una conoscenza casuale un link, che le permise di scoprire che c’era un castello in Toscana meritevole di una visita. Un castello abbandonato come tanti borghi sparsi per l’Italia. Ricordava perfettamente un viaggio di Paolo Rumiz, che aveva esplorato tante case fantasma nel reportage pubblicato su La Repubblica di agosto.

Immediatamente decise di visitarlo, incuriosita dalla storia intorno a questo antico maniero. Non era un tragitto molto lungo e lo poteva compiere in giornata. Era stata spinta da una grande curiosità, un po’ fanciullesca, a intraprendere questo viaggio, quando Laura partì con la sua Panda 4×4 per un paesino, che era appena segnato sulle mappe stradali più dettagliate. Arrivata nel paese di Moneta o meglio nell’antica frazione extraurbana di Carrara con quel nome. Era un sito antichissimo, già presente ai tempi dei romani, perché alcune notizie non confermate parlavano di Moneta come un “fundum” con “villa rustica” della gens romana dei Monetii o Munatii della colonia romana di Luni, ancora registrato nel secolo II d.C. nelle “Tabulae de Veleia”.

Quando giunse al Castello di Moneta, o meglio a quello che ne rimaneva, erano le prime ore di un pomeriggio di luglio caldo e afoso. Si era mossa armata con la solita macchina fotografica e con molta voglia di conoscere e di osservare con i propri occhi questo angolo della Toscana sconosciuto alla maggioranza.

In effetti il desiderio di scoprire novità superava le difficoltà per arrivarci, perché ci voleva il patentino per il Camel Trophy. La strada cessava di essere asfaltata dopo 150 metri e poi una carrareccia praticamente impraticabile.

Dunque giunta a Carrara, seguì le indicazioni del sito per raggiungere la frazione di Fossola, dove, dietro la pregevole Parrocchiale dell’Arcipretura di San Giovanni Battista, edificata nel XVIII secolo con tutti gli arredi e i marmi della vecchia chiesa castrense, trovò un cartello giallo che lo segnalava a 1400m. Imboccata via Moneta, che era pretenzioso definirla come tale, perché si trattava in realtà di una mulattiera acciottolata, oltrepassò “Il Ciocco”, il primo quartiere fortificato d’epoca medievale esterno alle fortificazioni. Dopo circa 1 km. di ripidi tornanti tra uliveti e vigneti dell’ottimo “vino di Moneta” arrivò direttamente al Castello. In pratica in rigoroso silenzio si faceva spazio tra rovi ed escrementi umani, salendo verso il rudere.

Senza fare della polemica spiccia perché sarebbe stato come sparare sulla Croce Rossa, si chiese se non sarebbe stato possibile renderlo accessibile e visitabile, illuminandolo e pulendolo, facendolo conoscere attraverso guide e pubblicazioni non microscopiche, senza restauri selvaggi a base di cemento, come si poteva osservare in alcuni punti della struttura e nelle mura di contenimento a scapito di mura di sassi, antichi di un buon millennio. Si domandò chi era stato quel genio che poteva aver autorizzato uno scempio del genere. Tutto sommato era stato un borgo importante e conteso nei secoli con una bella storia da raccontare. Si pose una domanda ancora una volta, perché, dopo il naturale abbandono a favore del paese di Fossola, costruito con le pietre del castrum, si era permesso che andasse in malora invece che renderlo un’attrazione turistica e farlo tornare allo splendore di un tempo. Ritornando a Bologna si chiese se c’erano altri borghi abbandonati che avrebbero potuto essere recuperati e resi nuovamente vivi.

Così cominciò a cercare sulla rete questi posti preda di erbacce e dell’incuria dell’uomo. Con notevole sorpresa ne scoprì non uno ma molte migliaia. Come don Chisciotte trasformò i mulini a vento nei suoi nemici, così Laura decise di adottare un borgo e, sperando con l’aiuto di altri appassionati come lei, di ridargli la dignità che gli spettava.

Per fare questo servivano soldi e tempo, persone e materiali, che non possedeva, ma come era solita fare non si perse d’animo.

La rete l’avrebbe aiutata, pensò.

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Hena di Grazia Giordani

Biografia, storia romanzata, romanzo? Hena di Grazia Giordani (Il cerchio, 14€), uscito a dicembre 2012, è un felice connubio di questi tre generi, una simbiosi ben riuscita a una scrittrice, che sa trasformare le parole in pensieri ed emozioni, che fuoriescono prepotenti dal testo.
La sua scrittura leggera, facile e gradevole, che ho imparato a conoscere prima su Splinder e ora su wordpress (https://giornalistacuriosa.wordpress.com/), anima questo libro che con una cavalcata lunga una vita ripercorre la storia della madre Ena, che per un vezzo si aggiunse una H, per diventare Hena.
Se la prima parte, quella che si conclude con la morte del marito e padre di Grazia, Giorgio, è a tratti corrosiva, aspra e ironica senza mai andare oltre le righe, la seconda sfuma nella tenerezza, i toni si addolciscono, mentre esce prepotente la figura di Ennio, il secondo marito di Ena e patrigno della scrittrice, che non ha avuto la fortuna di conoscere il padre naturale. La prima parte è filtrata dai ricordi altrui e dalle carte di Ena, la seconda invece è lei stessa a filtrare ricordi ed eventi. C’è sempre una continuità tra i due mondi come se Grazia fosse sempre presente.
Parte degli avvenimenti sono i ricordi appuntati su un mitico diario delle madre, andato semi distrutto durante un incendio che ha mandato in cenere la casa. Il fuoco finale è una specie di catarsi naturale che purifica tutto.
E’ un romanzo che iniziato a leggere si prosegue fino alla fine senza interruzioni per l’indubbia qualità dell’autrice che riesce a tenere desta la curiosità del lettore.
Il volumetto agile e gradevole è corredato da numerosi documenti e da diverse fotografie che accompagnano il lettore.
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Annie Valentine Cook – Sono nata il giorno di San Valentino

Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono un bel mistero per me stessa. Non indovinerete mai perché il mio secondo nome è Valentine. Lo sapete già? E’ vero. Avete centrato il bersaglio. Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un brillante ufficiale della Royal Navy e una ballerina di flamenco si sono sposati giovanissimi. Lui aveva ventidue anni, lei diciotto. Mia madre, Patricia, è originaria delle Indie Occidentali nella meravigliosa isola di Antigua. E’ bella, bellissima, una creola dalla pelle ambrata come il miele scuro delle montagne. Il giorno di San Valentino del 1933 lei ha visto un ufficiale della Royal Navy alto e impeccabile nella sua uniforma bianca scendere dall’incrociatore Queen Victory, attraccato nel porto di Sant John’s. «Quell’uomo sarà mio» disse convinta. Era John Mark, mio padre. E’ stato un colpo di fulmine e si sono sposati due giorni dopo, perché J.M., come lo chiamava Patricia, doveva ripartire con la sua nave da guerra. Tre mesi dopo è tornato a prenderla per portarla in Inghilterra, dove sono nata il 14 febbraio del 1934. Avevano previsto una vita sentimentale per la loro primogenita di tutto rispetto. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione e all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece no, l’unico risultato tangibile è stato di essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: che importa dove? Dovunque ho diretto i mie passi, qualcuno ha pensato bene di calpestarmi. Se Left1 fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina”.
Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre John Mark, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini, che si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da poppare se ne andavano senza alcun rimorso, svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.
Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.
Patricia e John Mark si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse negli anni seguenti in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale di Antigua, Sant John’s, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale della Royal Navy nell’isola caraibica della Giamaica. Quella sera si recò con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Quando lo vide entrare, decise di superarsi per attirare i sguardi di quell’ufficiale alto e imponente dai lineamenti regolari. A lei sembrava un dio della mitologia greca e avrebbe fatto carte false pur di conoscerlo.
Devo farlo mio adesso oppure mi sfuggirà per sempre” si disse mentre sensuale ballava sull’onda della musica.
Lui rimase folgorato da quel corpo flessuoso ed erotico che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco. Non riusciva a staccarle gli occhi da dosso. Ne aveva sentito parlare dagli altri ufficiali che c’erano stati nelle serate precedenti. Rifletté che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione.
«Ci devo parlare. Come? Non lo so ma ci devo riuscire prima di lasciare il locale» disse silenziosamente mentre l’osservava senza battere ciglio. Era alto, biondo con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, il particolare senza trovarlo almeno fino a quella serata. Credeva in una leggenda orientale, che aveva ascoltato tante volte durante i viaggi nell’estremo oriente nel mar della Cina. Parlava di un filo rosso invisibile che lega le vite di due persone. Non aveva importanza il sesso ma contava che queste due un giorno si sarebbero incontrate senza lasciarsi mai più. Non sapeva quando ma era certo che sarebbe accaduto. Così il fato o meglio Eros decise che Patricia e John Mark si incontrassero. Tutto capitò per caso o almeno così apparve in apparenza. Lui era seduto al tavolo con Paul, David e Eddie, quando lei passò nelle vicinanze volutamente per farsi notare e ammirare dall’uomo che aveva stabilito che sarebbe stato suo. Un bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio e stringerla a sé, ma lei non gradiva quelle attenzioni grossolane, mentre cercava di divincolarsi inutilmente. John Mark si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. L’uomo cominciò a imprecare con mio padre e, prima di poter reagire, fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti messo alla porta.
Grazie” sussurrò Patricia, mentre lo guardava languida. “Siediti qui con noi” rispose l’ufficiale. “Non posso sedermi coi clienti del locale” disse, prima di aggiungere. “Però al termine dello spettacolo, sì”.
A che ora?” domandò senza scomporsi. “A mezzanotte”. “Bene. A quell’ora sarò qui in attesa”.
Patricia si allontanò sotto lo sguardo attento e interessato di John Mark.
Amici” disse. “Voi potete rientrare a bordo. Io resto a terra. Oggi è il mio giorno di permesso”.
Hai colpito e affondato quel naviglio leggero” replicò ironico Paul.
Un largo sorriso comparve sul volto dell’uomo. “Però avresti voluto tu affondare quella splendida giunca” rispose per nulla imbarazzato.
E chi avrebbe rifiutato un simile boccone” continuò David.
A mezzanotte in punto riapparve Patricia, ancora più luminosa negli abiti sgargianti delle isole caraibiche.
Dove?” le chiese, porgendole la mano. “A casa mia” gli rispose stringendola con sensuale movimento.
Nessuno dei due si era presentato, come se conoscessero i loro nomi da una vita. La notte fu splendida come il cielo stellato di quel 14 febbraio.
Fu un autentico colpo di fulmine e due giorni dopo erano sposi. John Mark doveva ripartire con l’incrociatore per le esercitazioni navali.
Patricia rimase a Sant John’s per tre mesi, poi mio padre, richiamato in patria, la portò con sé a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima di Antigua” ricordava la donna sospirando. “Il 14 Febbraio del 1934 nacqui io, Annie Valentine, la loro primogenita in quella città che era diventata la nostra residenza, anche quando John Mark rimaneva lontano per mesi”.
Annie crebbe e frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa, che era una specie di collegio chic ed esclusivo di quella cittadina nel sud ovest dell’Inghilterra nella contea di Devon. Suo padre si congedò a trentacinque anni dalla Royal Navy e d’accordo con Patricia decise di tornare in Antigua, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda nella capitale dell’isola. E così fece, mentre sua madre l’avrebbe aiutato nella gestione, sfruttando la bellezza per nulla sfiorita nella grigia e nebbiosa Plymouth.
Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.
Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni a divenire, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.
Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione e amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione e un amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.
Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso la grande vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava ad essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.
Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti, sentiva un brivido di piacere nella schiena il pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però presto il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.
La sua mente continuava a fantasticare questa avventura, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che invece lei pregustava nei minimi dettagli.
Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe aspettato tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.
Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.
Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro ed argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.
Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.
Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.
Il sole calava rosso ed infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che l’aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sulla sedia di vimini.
E pianse la sua solitudine.

1Left è il participio passato di to leave ovvero lasciato, abbandonato. Piccolo gioco di parole.

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