Il Borgo – Capitolo 2

Tutto era cominciato per caso, come capita sovente per le grandi imprese.

Laura era una grandissima viaggiatrice: non c’era parte del mondo che non conoscesse, almeno virtualmente. La sua smania di scoprire nuovi mondi inesplorati o quasi l’aveva colpita quando aveva quindici anni e da allora non l’aveva abbandonata. Però per lo più viaggiava con la fantasia, visitando col PC agenzie e tour operator, programmando favolosi viaggi nell’oriente misterioso. Studiava sulle mappe il prossimo viaggio che vorrebbe compiere. Si metteva le cuffie, apriva Google Map e comincia a cercare località che non aveva ancora visitato. Cercava ogni notizia utile sulla località prescelta, studiando il percorso con l’ausilio di mappe dettagliatissime o esplorando il posto con Google Earth.

Poi chiudeva gli occhi, si abbandonava sulla poltrona della scrivania ad ascoltare Mozart, mentre la fantasia galoppava felice verso mondi esotici o caserecci. Prendeva treni, aerei, cavalli o muli, cammelli o slitte trainate da cani, andava a piedi e si guardava intorno per cogliere tutto quello che c’era da osservare e da gustare. E tutto gli appariva come reale, come la sete di conoscere era inestinguibile.

Laura abitava a Bologna dove viveva ancora nella casa dei genitori. Frequentava l’università con notevole profitto con la speranza di ottenere un buon lavoro e trasformare la sua voglia di viaggiare in qualcosa di più concreto. Per il momento si doveva accontentare di viaggi di poco conto e non troppo distanti dalla sua città.

Aveva ventuno anni, quando un giorno ricevette in maniera fortunosa da una conoscenza casuale un link, che le permise di scoprire che c’era un castello in Toscana meritevole di una visita. Un castello abbandonato come tanti borghi sparsi per l’Italia. Ricordava perfettamente un viaggio di Paolo Rumiz, che aveva esplorato tante case fantasma nel reportage pubblicato su La Repubblica di agosto.

Immediatamente decise di visitarlo, incuriosita dalla storia intorno a questo antico maniero. Non era un tragitto molto lungo e lo poteva compiere in giornata. Era stata spinta da una grande curiosità, un po’ fanciullesca, a intraprendere questo viaggio, quando Laura partì con la sua Panda 4×4 per un paesino, che era appena segnato sulle mappe stradali più dettagliate. Arrivata nel paese di Moneta o meglio nell’antica frazione extraurbana di Carrara con quel nome. Era un sito antichissimo, già presente ai tempi dei romani, perché alcune notizie non confermate parlavano di Moneta come un “fundum” con “villa rustica” della gens romana dei Monetii o Munatii della colonia romana di Luni, ancora registrato nel secolo II d.C. nelle “Tabulae de Veleia”.

Quando giunse al Castello di Moneta, o meglio a quello che ne rimaneva, erano le prime ore di un pomeriggio di luglio caldo e afoso. Si era mossa armata con la solita macchina fotografica e con molta voglia di conoscere e di osservare con i propri occhi questo angolo della Toscana sconosciuto alla maggioranza.

In effetti il desiderio di scoprire novità superava le difficoltà per arrivarci, perché ci voleva il patentino per il Camel Trophy. La strada cessava di essere asfaltata dopo 150 metri e poi una carrareccia praticamente impraticabile.

Dunque giunta a Carrara, seguì le indicazioni del sito per raggiungere la frazione di Fossola, dove, dietro la pregevole Parrocchiale dell’Arcipretura di San Giovanni Battista, edificata nel XVIII secolo con tutti gli arredi e i marmi della vecchia chiesa castrense, trovò un cartello giallo che lo segnalava a 1400m. Imboccata via Moneta, che era pretenzioso definirla come tale, perché si trattava in realtà di una mulattiera acciottolata, oltrepassò “Il Ciocco”, il primo quartiere fortificato d’epoca medievale esterno alle fortificazioni. Dopo circa 1 km. di ripidi tornanti tra uliveti e vigneti dell’ottimo “vino di Moneta” arrivò direttamente al Castello. In pratica in rigoroso silenzio si faceva spazio tra rovi ed escrementi umani, salendo verso il rudere.

Senza fare della polemica spiccia perché sarebbe stato come sparare sulla Croce Rossa, si chiese se non sarebbe stato possibile renderlo accessibile e visitabile, illuminandolo e pulendolo, facendolo conoscere attraverso guide e pubblicazioni non microscopiche, senza restauri selvaggi a base di cemento, come si poteva osservare in alcuni punti della struttura e nelle mura di contenimento a scapito di mura di sassi, antichi di un buon millennio. Si domandò chi era stato quel genio che poteva aver autorizzato uno scempio del genere. Tutto sommato era stato un borgo importante e conteso nei secoli con una bella storia da raccontare. Si pose una domanda ancora una volta, perché, dopo il naturale abbandono a favore del paese di Fossola, costruito con le pietre del castrum, si era permesso che andasse in malora invece che renderlo un’attrazione turistica e farlo tornare allo splendore di un tempo. Ritornando a Bologna si chiese se c’erano altri borghi abbandonati che avrebbero potuto essere recuperati e resi nuovamente vivi.

Così cominciò a cercare sulla rete questi posti preda di erbacce e dell’incuria dell’uomo. Con notevole sorpresa ne scoprì non uno ma molte migliaia. Come don Chisciotte trasformò i mulini a vento nei suoi nemici, così Laura decise di adottare un borgo e, sperando con l’aiuto di altri appassionati come lei, di ridargli la dignità che gli spettava.

Per fare questo servivano soldi e tempo, persone e materiali, che non possedeva, ma come era solita fare non si perse d’animo.

La rete l’avrebbe aiutata, pensò.

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Hena di Grazia Giordani

Biografia, storia romanzata, romanzo? Hena di Grazia Giordani (Il cerchio, 14€), uscito a dicembre 2012, è un felice connubio di questi tre generi, una simbiosi ben riuscita a una scrittrice, che sa trasformare le parole in pensieri ed emozioni, che fuoriescono prepotenti dal testo.
La sua scrittura leggera, facile e gradevole, che ho imparato a conoscere prima su Splinder e ora su wordpress (https://giornalistacuriosa.wordpress.com/), anima questo libro che con una cavalcata lunga una vita ripercorre la storia della madre Ena, che per un vezzo si aggiunse una H, per diventare Hena.
Se la prima parte, quella che si conclude con la morte del marito e padre di Grazia, Giorgio, è a tratti corrosiva, aspra e ironica senza mai andare oltre le righe, la seconda sfuma nella tenerezza, i toni si addolciscono, mentre esce prepotente la figura di Ennio, il secondo marito di Ena e patrigno della scrittrice, che non ha avuto la fortuna di conoscere il padre naturale. La prima parte è filtrata dai ricordi altrui e dalle carte di Ena, la seconda invece è lei stessa a filtrare ricordi ed eventi. C’è sempre una continuità tra i due mondi come se Grazia fosse sempre presente.
Parte degli avvenimenti sono i ricordi appuntati su un mitico diario delle madre, andato semi distrutto durante un incendio che ha mandato in cenere la casa. Il fuoco finale è una specie di catarsi naturale che purifica tutto.
E’ un romanzo che iniziato a leggere si prosegue fino alla fine senza interruzioni per l’indubbia qualità dell’autrice che riesce a tenere desta la curiosità del lettore.
Il volumetto agile e gradevole è corredato da numerosi documenti e da diverse fotografie che accompagnano il lettore.
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Annie Valentine Cook – Sono nata il giorno di San Valentino

Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono un bel mistero per me stessa. Non indovinerete mai perché il mio secondo nome è Valentine. Lo sapete già? E’ vero. Avete centrato il bersaglio. Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un brillante ufficiale della Royal Navy e una ballerina di flamenco si sono sposati giovanissimi. Lui aveva ventidue anni, lei diciotto. Mia madre, Patricia, è originaria delle Indie Occidentali nella meravigliosa isola di Antigua. E’ bella, bellissima, una creola dalla pelle ambrata come il miele scuro delle montagne. Il giorno di San Valentino del 1933 lei ha visto un ufficiale della Royal Navy alto e impeccabile nella sua uniforma bianca scendere dall’incrociatore Queen Victory, attraccato nel porto di Sant John’s. «Quell’uomo sarà mio» disse convinta. Era John Mark, mio padre. E’ stato un colpo di fulmine e si sono sposati due giorni dopo, perché J.M., come lo chiamava Patricia, doveva ripartire con la sua nave da guerra. Tre mesi dopo è tornato a prenderla per portarla in Inghilterra, dove sono nata il 14 febbraio del 1934. Avevano previsto una vita sentimentale per la loro primogenita di tutto rispetto. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione e all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece no, l’unico risultato tangibile è stato di essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: che importa dove? Dovunque ho diretto i mie passi, qualcuno ha pensato bene di calpestarmi. Se Left1 fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina”.
Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre John Mark, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini, che si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da poppare se ne andavano senza alcun rimorso, svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.
Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.
Patricia e John Mark si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse negli anni seguenti in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale di Antigua, Sant John’s, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale della Royal Navy nell’isola caraibica della Giamaica. Quella sera si recò con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Quando lo vide entrare, decise di superarsi per attirare i sguardi di quell’ufficiale alto e imponente dai lineamenti regolari. A lei sembrava un dio della mitologia greca e avrebbe fatto carte false pur di conoscerlo.
Devo farlo mio adesso oppure mi sfuggirà per sempre” si disse mentre sensuale ballava sull’onda della musica.
Lui rimase folgorato da quel corpo flessuoso ed erotico che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco. Non riusciva a staccarle gli occhi da dosso. Ne aveva sentito parlare dagli altri ufficiali che c’erano stati nelle serate precedenti. Rifletté che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione.
«Ci devo parlare. Come? Non lo so ma ci devo riuscire prima di lasciare il locale» disse silenziosamente mentre l’osservava senza battere ciglio. Era alto, biondo con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, il particolare senza trovarlo almeno fino a quella serata. Credeva in una leggenda orientale, che aveva ascoltato tante volte durante i viaggi nell’estremo oriente nel mar della Cina. Parlava di un filo rosso invisibile che lega le vite di due persone. Non aveva importanza il sesso ma contava che queste due un giorno si sarebbero incontrate senza lasciarsi mai più. Non sapeva quando ma era certo che sarebbe accaduto. Così il fato o meglio Eros decise che Patricia e John Mark si incontrassero. Tutto capitò per caso o almeno così apparve in apparenza. Lui era seduto al tavolo con Paul, David e Eddie, quando lei passò nelle vicinanze volutamente per farsi notare e ammirare dall’uomo che aveva stabilito che sarebbe stato suo. Un bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio e stringerla a sé, ma lei non gradiva quelle attenzioni grossolane, mentre cercava di divincolarsi inutilmente. John Mark si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. L’uomo cominciò a imprecare con mio padre e, prima di poter reagire, fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti messo alla porta.
Grazie” sussurrò Patricia, mentre lo guardava languida. “Siediti qui con noi” rispose l’ufficiale. “Non posso sedermi coi clienti del locale” disse, prima di aggiungere. “Però al termine dello spettacolo, sì”.
A che ora?” domandò senza scomporsi. “A mezzanotte”. “Bene. A quell’ora sarò qui in attesa”.
Patricia si allontanò sotto lo sguardo attento e interessato di John Mark.
Amici” disse. “Voi potete rientrare a bordo. Io resto a terra. Oggi è il mio giorno di permesso”.
Hai colpito e affondato quel naviglio leggero” replicò ironico Paul.
Un largo sorriso comparve sul volto dell’uomo. “Però avresti voluto tu affondare quella splendida giunca” rispose per nulla imbarazzato.
E chi avrebbe rifiutato un simile boccone” continuò David.
A mezzanotte in punto riapparve Patricia, ancora più luminosa negli abiti sgargianti delle isole caraibiche.
Dove?” le chiese, porgendole la mano. “A casa mia” gli rispose stringendola con sensuale movimento.
Nessuno dei due si era presentato, come se conoscessero i loro nomi da una vita. La notte fu splendida come il cielo stellato di quel 14 febbraio.
Fu un autentico colpo di fulmine e due giorni dopo erano sposi. John Mark doveva ripartire con l’incrociatore per le esercitazioni navali.
Patricia rimase a Sant John’s per tre mesi, poi mio padre, richiamato in patria, la portò con sé a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima di Antigua” ricordava la donna sospirando. “Il 14 Febbraio del 1934 nacqui io, Annie Valentine, la loro primogenita in quella città che era diventata la nostra residenza, anche quando John Mark rimaneva lontano per mesi”.
Annie crebbe e frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa, che era una specie di collegio chic ed esclusivo di quella cittadina nel sud ovest dell’Inghilterra nella contea di Devon. Suo padre si congedò a trentacinque anni dalla Royal Navy e d’accordo con Patricia decise di tornare in Antigua, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda nella capitale dell’isola. E così fece, mentre sua madre l’avrebbe aiutato nella gestione, sfruttando la bellezza per nulla sfiorita nella grigia e nebbiosa Plymouth.
Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.
Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni a divenire, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.
Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione e amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione e un amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.
Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso la grande vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava ad essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.
Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti, sentiva un brivido di piacere nella schiena il pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però presto il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.
La sua mente continuava a fantasticare questa avventura, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che invece lei pregustava nei minimi dettagli.
Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe aspettato tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.
Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.
Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro ed argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.
Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.
Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.
Il sole calava rosso ed infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che l’aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sulla sedia di vimini.
E pianse la sua solitudine.

1Left è il participio passato di to leave ovvero lasciato, abbandonato. Piccolo gioco di parole.

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Il borgo – Capitolo 1

10 Agosto 2012

Un fuoco vermiglio illuminava i volti di un gruppo di persone che erano riunite nella corte del Castello. La notte era scura per la mancanza della luna ma il cielo nero era punteggiata di innumerevoli stelle, che risaltavano come tanti lumini per l’assenza del riverbero della città. L’aria frizzante dei quattrocento metri dell’Appenino tosco-emiliano accarezzava il viso di quei giovani attorno al falò, che lanciava come una sfida verso l’alto faville che si perdevano nell’oscurità lasciandosi dietro una scia rossastra.

Il frinire delle cicale ricordava che si era nell’estate, mentre piccole falene danzavano intorno alla luce rossa del fuoco pronte a immolarsi per raggiungere la fonte luminosa.

Mattia prese la chitarra sfiorando le corde tese mentre un suono indefinito si spandeva per l’aria.

“Dai suona qualcosa” disse Laura incitandolo ad accordare lo strumento.

“Non conosco nulla. Solo vecchie canzoni e per giunta nemmeno bene” mentì arrossendo senza essere notato dagli altri.

“Che importa” gli replicò Teresa. “Siamo in allegria. Oggi è un giorno speciale. Suona che noi cantiamo in coro”.

“Cosa?” chiese cercando di leggere sui volti dei compagni un titolo, un brano.

Una breve risata risuonò nell’aria come per pungolarlo e nello stesso tempo chiedersi quale importanza poteva avere una sigla.

Giacomo intonò una vecchia canzone del 1966.

«ho in mente te
ogni mattina uoh uoh
ed ogni sera uoh uoh
ed ogni notte te»

“E cosa sarebbe questa lagna?” domandò Betta. “Non la conosco e poi non potremo trovare qualcosa di recente che conosco anch’io? Almeno la posso cantare pure io”.

Mattia sorrise. Era una canzone molto orecchiabile, vecchia più di loro, che non erano ancora nati quando spopolava nei jukebox e sui vinili a 45 giri. Un flash lo riportò indietro nel tempo, quando aveva scoperto quella vecchia musica che l’aveva stregato e appassionato negli anni seguenti. Aveva trovato per caso nascosti in una vecchia scatola di scarpe una pila di dischi graffiati e polverosi e un involucro di plastica arancione che funzionava con due pile enormi, corrose e scoppiate nel loro alloggiamento.

“Cosa sono questi?” chiese a suo padre.

“Sono 45 giri della nostra gioventù. E quello è il mangiadischi ..”

“Mangiadischi? Ingoia i dischi triturandoli?” replicò sorpreso e ridente.

Suo padre gli spiegò con pazienza come funzionava.

“Metti un disco in questa feritoia e ascolterai la musica. Negli anni sessanta non c’erano mp3 o ipod, né altre diavoleria moderne. Si usava il mangiadischi e si ballava sulla spiaggia attorno al falò”.

Mattia scovò in cantina un vecchio e polveroso impianto hi-fi Pioneer con la piastra per ascoltare i vinili e travasò sull’uscita Cd-Rom tutti i dischi contenuti nella scatola. La qualità di riproduzione del suono era ovviamente scadente: fruscii, distorsioni e rumori di fondo quasi sovrastavano musica e voce. Con pazienza certosina ripulì i vari Cd con un programma software e li caricò sul suo mp3, che portava sempre con sé. Rimase stupito dalla qualità delle musiche italiane e straniere con band e cantanti del tutto sconosciuti ma famosissimi in quegli anni ruggenti, come ebbe modo di scoprire attraverso Google e su YouTube.

Da quel giorno si dedicò a cercare nei mercatini e sul web vecchie incisioni che erano sempre nuove per lui. Si sentiva come un esploratore alla ricerca di nuove specie d’animali. Nel suo caso era vecchie musiche quasi dimenticate sotto il peso degli anni.

Stimolato dall’uscita di Giacomo cominciò a pizzicare le corde della chitarra per riprodurre la musica e accompagnare lo stonatissimo compagno nella performance canora. Il gruppo ascoltò in silenzio i due ragazzi, mentre tentavano di dare un briciolo di plausibilità alla canzone.

“Come si chiama?” chiese Eva che canticchiava il motivetto, che era anche l’unico che i due conoscevano.

“Io ho in mente te. Equipe 84. Anno 1966” disse Mattia.

“Mai sentiti!” esclamò Marco stupito. “Ci credo. Chi sa dov’ero! I miei genitori forse non si conoscevano nemmeno. Anzi muovevano i primi incerti passi”.

Il ragazzo, deposta la chitarra, cominciò ad armeggiare con suo inseparabile mp3. “Ecco. Questa è la canzone vera. Non quella che abbiamo storpiato” disse alzando al massimo il volume, mentre nel silenzio della montagna si diffondeva la musica.

“Tutt’altra cosa rispetto alle vostre lagne” disse ridendo Sandra. “Non male, non male”.

“Se coi vostri smartphone, andate su Youtube e ricercate anni 60, troverete una quantità industriale di video con canzoni di quell’epoca ..”.

“Vedo che sei spiritoso. Il massimo che otteniamo dallo smartphone è una telefonata alquanto disturbata. Per il resto nebbia fittissima in val Padana” replicò allegramente Matteo.

“Mentre ascoltiamo la musica seria, prendiamo quelle bottiglie che abbiamo conservato per la fine del lavori e brindiamo” aggiunse Alba, alzandosi.

“Sì, sì! Ottima idea” dissero in coro alcuni di loro.

Un flop squarciò il silenzio della notte, mentre un fiotto di spuma uscì dalla bottiglia.

L’allegria era padrona del campo, mentre i dieci ragazzi si abbracciavano e bevevano lo spumante appena fuori dal caldo.

Una lunga notte li stava aspettando.

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Andando in treno

Andare a vivere in un romanzo inedito aveva i suoi vantaggi. Tutte le noiose banalità quotidiane che sbrighiamo nella vita reale intralciano lo scorrere della narrazione e quindi sono in genere evitate. L’automobile non aveva bisogno di fare il pieno, al telefono non si sbagliava mai numero, c’era sempre acqua calda a sufficienza e c’erano solo due tipi di aspirapolvere quello verticale e quello che ci si trascina dietro. C’erano altre differenze più sottili. Per esempio, non ti dovevano mai ripetere una frase perché non l’avevi capita bene, non c’erano due persone con lo stesso nome, non si parlava mai contemporaneamente né si aveva il fastidio di avere una parola sulla punta della lingua. Soprattutto, sapevi sempre chi era il cattivo. Ma c’erano anche alcuni svantaggi. Una carenza di colazioni…”1
 
In realtà non le ho scritte io queste poche battute ma le leggevo seduto in treno mentre andavo a Milano per incontrare una persona importante, almeno per me.
Immerso nei miei pensieri, viaggiavo in incognito e non sapevo il perché o meglio non volevo rivelare la mia vera identità ai miei compagni di viaggio.
Sono un vincente e non amo le sconfitte ma questi non sono gli argomenti dei miei pensieri in questo momento. Sembro un viaggiatore qualsiasi ma in realtà sono un editor di fama. Devo raggiungere l’autore di un romanzo che avrà sicuramente successo. Il mio editore mi dice che sono arrivate centomila prenotazioni. Ma credo che abbia esagerato. In Italia il successo comincia a diecimila copie e sono pochi i romanzi che superano questa quota”.
Dunque ero sprofondato in queste elucubrazioni mentali, che qualcuno ama chiamare con altro nome, quando ripercorrevo la storia di questo romanzo.
Il mio editore, del quale non rivelerò il nome, una mattina di novembre mi chiamò al telefono.
«Pietro» mi disse aprendo la comunicazione. «Ho un manoscritto inedito che mi è arrivato per vie traverse ..».
«Marco, non me la dai da bere. Se l’hai accettato, vuol dire che lo sponsor era forte. Tu cestini i romanzi inediti se non sono accompagnati da una nota veramente valida. O l’autore è qualcuno della casta o per qualche imprescindibile combinazione una persona con gli attributi ti ha imposto di leggerlo. Ti conosco da troppo tempo per non conoscere come operi».
«Pietro non complichiamo le cose senza far polemiche sterili. Il manoscritto è nelle mie mani e tu devi leggerlo. L’incipit mi pare favoloso. Potremmo avere per le mani il caso letterario dell’anno. Te lo spedisco per fax ..»
«Sarai impazzito? Vuoi intasarmi il fax? Se è solo cartaceo, scannerizzalo e mandami il file».
«E va bene. Come vuoi tu, Pietro. Però perderò un sacco di tempo ..»
«Per quando vuoi il mio parere?»
«Se fosse per me, immediatamente. Però restando serio, una settimana dopo la ricezione del manoscritto ..»
«Veramente io intendevo del flusso scansionato. Non del cartaceo. Comunque vuoi solo un parere positivo o ..»
«Oppure hai chiuso con me. Vedo che sei ancora sveglio. Domani sulla tua scrivania troverai il pacco col romanzo» e chiuse la conversazione senza nemmeno salutarmi.
In realtà il romanzo era veramente ben scritto e avrebbe incuriosito anche il lettore più scafato e difficile. Trattava di una vicenda ai limiti del normale o forse era più corretto ammettere che era una storia del paranormale per nulla ingenua ma ben costruita. Ambientata nei giorni nostri, era incentrata sulla figura di un giovane, Paolo Morieri, morto nel 1943, che si era presentato sull’uscio dello scrittore, pretendendo mille lire che gli aveva prestato qualche mese prima. Il personaggio al momento della morte aveva solo vent’anni ma era l’erede di un impero finanziario che avrebbe potuto comprare tutta l’Italia. Insomma avrete compreso che pareva una trama inverosimile come se un morto fosse resuscitato dopo sessant’anni e il tempo non avesse avanzato di un secondo. L’aspetto anomalo era che lo scrivente non era ancora nato nel 1943! Era un autentico grattacapo, del quale non vi svelerò la fine. Vi toglierei il gusto di leggerlo.
Lo scrittore, Alberto Arduini, era un famosissimo ricercatore del paranormale, una specie di medium, un’autentica autorità in quel campo. Avevo capito perfettamente perché il mio editore volesse un parere assolutamente positivo sul manoscritto. Era una vera bomba editoriale. Dovevo riconoscere che aveva avuto l’imbeccata giusta.
Sei mesi più tardi l’editore mise in moto tutta la batteria dei pubblicitari e dei critici letterari, il marketing al gran completo e dichiarò che aveva prenotazioni per oltre centomila copie. L’intera tiratura iniziale sarebbe andata esaurita nel giro di pochi minuti. Già vedevo le code prima delle aperture delle librerie, un po’ era capitato coi romanzi di Henry Potter.
Io non ho mai creduto a quel numero ma si sa che sono diffidente. Però oggi è il gran giorno. Il libro è stato stampato e fa bella mostra nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia”. Stavo andando a conoscere l’autore e avevo preso con me una decina copie, che distribuì ad alcuni viaggiatori, selezionati secondo il mio intuito come i più idonei a leggerlo, presenti sul ETR1000 che collegava Roma a Milano. Volevo vedere come reagivano alla lettura del romanzo.
Dopo qualche tempo osservai le persone che avevano ricevuto una copia e rimasi interdetto.
Vedo che la prima copia, donata alla ragazza carina e sveglia qualche posto davanti a me, è usata come tavolino per una partita a battaglia navale con il compagno che le sta davanti. L’anziana signora, destinataria della seconda, lo sta sfogliando distrattamente come se fosse annoiata. L’unico che lo sta leggendo avidamente è un signore dai capelli bianchi e dal viso ancora giovanile, sistemato accanto a me”.
Continuavo a rimuginare i miei pensieri, pensando che forse le centomila copie fossero molto meno. A parte il viaggiatore accanto a me, gli altri non parevano eccessivamente interessati al libro. Anzi a dirlo in tutta schiettezza non gliene importava nulla. Avevano preso l’omaggio ma avevano preferito tornare alle loro occupazioni abituali. Chi leggeva la Gazzetta dello Sport, chi correggeva le bozze di qualcosa di più importante del romanzo.
Ero profondamente deluso e mi stavo incupendo alquanto pensando a quello che avrebbero scritto su Anobii. Era vero che molti guardavano con sospetto a quella comunità di lettori, che definivano saccenti e criticoni ma alla fine la loro opinione valeva molto di più di tanti prezzolati critici che scrivevano quello che detta loro l’editore.
Chiusi gli occhi mentre il paesaggio della Toscana scorreva rapidamente dal finestrino. Mi assopì ma forse fu solo un attimo perché rividi quello che era rimasto impresso prima di chiuderli. Solo il viaggiatore accanto a me continuava a leggere senza posa il romanzo, mentre la ragazza diceva «A2». Udì in risposta «Colpito». La battaglia navale era più interessante del Caso strano di un creditore fantasma, il titolo del libro.
Visto che non alzava gli occhi, né prestava attenzione alla hostess, che voleva offrire un quotidiano e qualcosa da bere e mangiare, decisi di parlare con lui.
Vedo che la sta appassionando” dissi cordialmente.
L’uomo alzò la testa dal libro e mi fissò con attenzione come se lo avessi distolto dall’occupazione più importante della sua vita.
Ripetei la domanda. “Interessante?”
Interessato!” replicò con voce chiara e decisa. “Interessato!” replicò come se non avessi udito la prima risposta.
Veramente notevole è la storia! Pare quasi che il protagonista morto abbia passato il suo tempo a dettare le pagine a suo zio” aggiunse con tono secco.
Concordai con lui sul tipo di risposta, annuendo vistosamente.
Forse dipende da dove si trova il protagonista ..” dissi convincente muovendo il capo.
Secondo lei dove si trova ora il protagonista?”
Forse in paradiso oppure in purgatorio ..”
E non perché all’inferno?” domandò, osservandomi con quegli occhi acquosi da vecchio.
Non mi sembra il posto adatto .. Non mi pare che in vita abbia combinato chi sa quali malanni o sfracelli da meritare ..”
Sì, sì” disse come per convincermi che non fosse il posto giusto per Paolo Morieri, il protagonista della storia.
Lei cosa pensa? Paradiso o purgatorio?” chiesi con delicatezza.
In paradiso forse no ma in purgatorio lo vedo benissimo. Ma in realtà lo vedo meglio ..” replicò con pacatezza, mentre gli occhi brillavano come se avessero riacquistato lucentezza.
Dove, se non sono indiscreto” lo sondai con cautela. Il suo pensiero mi incuriosiva e in un certo senso stimolava la mia vanità professionale.
A Vigevano” rispose senza tradire una benché minima emozione.
Lo scrutai con attenzione mentre sobbalzavo per l’affermazione.
A Vigevano? E perché?”
Se si trovasse in purgatorio, sarebbe stato un piccolo errore ma se è Vigevano ..”.
Ma cosa c’entra Vigevano con il Caso strano di un creditore fantasma?”
Nulla. Infatti. Se però si trovasse a Vigevano..”.
Ma non si trova a Vigevano” replicai alzando la voce.
La ragazza, che stava giocando a battaglia navale, si distrasse alla mia esternazione e invece di dire «A3» e mettere fine alla partita urlò «A9». «Hai perso!» replicò di rimando il compagno.
In realtà non si trova a Vigevano ma sta passando da Bologna”.
Ebbi l’impressione che il nervosismo stesse travolgendo le mie difese ma che quello che stava affermando era in qualche modo collegato al Caso strano di un creditore fantasma. L’intuito non mi aveva mai tradito e anche stavolta mi stava mettendo in guardia. Lo osservai con maggiore attenzione e aspettai che dicesse qualcosa.
Forse qualche influenza astrale ..” cominciai cautamente, visto che era ammutolito.
Basta!” replicò mettendosi eretto. “Sembra che da un mese a questa parte io sia diventato il caso nazionale di signore, attratte dal paranormale e da signori caustici e diffidenti in tutta Italia sui giornali e in TV. Signore, si da il caso che io sia Paolo Morieri. Non sono morto. E non sono mai stato morto. E quando morirò nel giorno che mi sarà destinato, dopo aver letto questo libro, non percepirò di essere al sicuro in nessun luogo dove mi metteranno!”
 

1Incipit tratto da “Il pozzo delle trame perdute” di Jasper Fforde- ed. Marcosy Marcos, trad. di Daniele A. Gewurz, pagg. 400 17€ – Jasper Fforde 2003 – Marcos y Marcos 2007

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