Grazie, Laura!

Intanto comincio con i ringraziamenti che sono di dovere. Grazie Laura! Mi hai nominato tra i quindici, come prescrive la regola, ma come in passato mi limito ad assolvere alcune opzioni e pubblico questo post come per altre nomination. Forse lo sono già stato ma fa sempre piacere pensare che un altro blogger si ricorda di te.
The Very Inspiring Blogger Award”, nomination che si attribuisce ai blogger e ai blog che si considerano fonte di ispirazione nell’ambito di riferimento, in questo caso specifico l’ambito Beauty: Nel mio caso, bellezza interiore che si converte e sostiene la bellezza esteriore…
— tratto da NaturaNatura – Blog di Sara

Non possiedo un Beauty Case, almeno in questa vita. Nella prossima non lo so. Non ho ancora deciso cosa sarò. C’è tempo. Beauty intesa come Bellezza fisica… forse Laura ha preso un abbaglio. Bellezza interiore? Mah! Abbandoniamo questo terreno scivoloso e procediamo con ordine in modo sparso.
Scrivo post. Questo sì, lo faccio e anche con piacere.
La motivazione della mio nomina è che ‘sono sempre presente. Un orso fedele’.
Un orso fedele? No, curioso e amante dello scrivere in maniera piacevole. E i tuoi blog lo fanno. Se fossero noiosi, passerei qualche volta, lasciando un commento ma forse nemmeno quello. Se ti leggo, Laura, un motivo c’è.
Diamine oltre a essere un orso fedele (lo sono, lo sono anche nella vita reale. Monogamo incallito), sono anche ciarliero e logorroico.
Ora passiamo alle regole da rispettare:
1- Ringraziare la persona che ti ha nominato
2- Elencare le regole della nomination
3- Condividere sette fatti su di te
4- Nominare altri 15 blog e lasciar loro un commento per la nomination
I primi due punti sono espletati. Non mi resta che condividere sette fatti su di me.

  1. Mi chiamo Gian Paolo e questo non era ignoto, visto che spesso mi firmo così. Non è un nome di fantasia ma reale e concreto.
  2. Mi piace scrivere. Anche questa non è una novità. Al liceo sognavo di diventare un poeta famoso, come Leopardi che amo. Però i risultati sono stati scarsi. Famoso per nulla, poeta del piffero ma scrivere quello è rimasto. Magra consolazione e grande disperazione di chi mi legge.
  3. Mi piace leggere. Non è detto che i lettori incalliti siano anche scrittori. Nel mio caso sono incallito e onnivoro nelle letture, mediocre e logorroico nelle scritture. Passiamo oltre.
  4. Amo viaggiare (non solo con la mente) e sono fondamentalmente curioso di conoscere. Mi dico sempre che la conoscenza non ha limiti né età.
  5. Fondamentalmente sono sincero sia con me stesso, sia con gli altri. A volte la sincerità rasenta la stupidità, perché ammetto pubblicamente che altri meritano più di meno. Conseguenza io resto al palo e gli altri avanzano.
  6. Non mi piace essere ripetitivo. Amo ricercare le novità e i cambiamenti.
  7. Uffa…finalmente sono arrivato a sette. E voi, quelli che hanno resistito fino a questo punto tirano un bel sospiro di sollievo. Finalmente smette di scrivere delle sciocchezze.

Le 15 nuove nomination? Non ci saranno. Idealmente tutti i blogger che mi leggono con pazienza e fedeltà sono nominati.

Phantom, il pesciolino rosso

tratto dal web
tratto dal web

Mi chiamo Phantom e sono un pesciolino rosso. Direte ‘non mi sembra una notizia originale. I pesciolini rossi si vincono al Luna Park e stanno buoni buoni in una boccia sulla mensola del salotto‘.
In effetti avete ragione ma i pesciolini rossi stanno anche nelle vasche del parco pubblico e si nutrono di larve di zanzare. Di solito l’acqua non è mai troppo pulita e noi scoloriamo in fretta. Qualche bambino ci getta pallottoline di pane che cerchiamo di mangiare. Però non è il caso mio. Sono stato vinto al Luna Park da un signore uomo che per sbaglio ha centrato il mio vasetto con una pallina colorata e così sono finito qua, in questa palla di vetro. Già stavo stretto in quella del baraccone, qui non va meglio.
Perché? Direte ancora voi. Uffa come siete saccenti. Odio stare rinchiuso in una bolla piena d’acqua. Sono un pesciolino che gli piace nuotare libero e spensierato nel mare con i suoi simili. Non mi pare di chiedere la luna. I pesci stanno a mollo nel mare e non dentro vasi panciuti e trasparenti. Capito? Chiuso lo sfogo, proseguiamo nel racconto.
I miei padroni non mi sono molto simpatici. Assomigliano perlopiù a degli ippopotami pelosi e obesi. L’unica cosa positiva è il cibo, perché me ne danno sempre più del dovuto.
Mi annoio a girare sempre in tondo e vedere il mondo deformato ma … ecco vi racconto cosa è successo un giorno di primavera dell’anno scorso, mentre i raggi del sole filtravano nell’acqua. Non saprei da dove cominciare, perché è una cosa singolare da narrare.
Il mio padrone uomo è arrivato con una donna che non avevo mai visto. Appariva molto strana ai miei occhi: lunghi capelli biondi tutti riccioluti e due protuberanze che erano molto più grandi dell’ampolla in cui sto dentro. Almeno questa era l’impressione che ne ho ricevuto. Indossava una gonna rossa molto piccola, diciamo uno straccetto che non copriva nulla, e calzava degli stivali con tacchi sottili come spilli, alti più di una spanna. Mi pare di udire una voce che commenta in negativo questa descrizione. Che provi lui a venire dentro a questa boccia e poi vedrà come il mondo è diverso da quello fuori. Chiudiamo questa parentesi e proseguiamo.
Non sapevo chi fosse e neanche che lavoro facesse ma mi è venuto qualche sospetto. Il mio padrone e la tizia si sono messi sul divano e hanno iniziato a fare manovre che all’inizio non sono riuscito a comprendere. Lui stava sopra e lei sotto. Lo straccetto in pratica non esisteva più. Sentendo i gridolini di lei e gli sbuffi di lui, ho capito tutto: stavano facendo sesso senza pudore dinnanzi ai miei occhi. Mi sono fermato e non ho più girato in tondo. Sono restato in apnea per due minuti buoni, prima di salire in alto a prendere fiato. Stavo scoppiando e un secondo in più mi avrebbe portato sul fondo senza vita. Ero sbalordito.
Non riuscivo proprio a crederci, il mio padrone stava tradendo la padrona! Avrei voluto telefonarle ma non esistono telefoni per pesci. Quindi ho scartato l’idea. Mi stavo arrovellando il cervello sul come avvertirla, quando il padrone e la tizia dopo aver massacrato il divano, se ne sono andati tutti soddisfatti. Mi sembra, ma non ci giurerei, di avere visto uno scambio furtivo di banconote. Ero agitato come se fossi stato morso dalla tarantola ed ero arrabbiatissimo.
Quello che non sapevo, era che la parte più divertente doveva ancora arrivare. Ero già arrivato al centesimo giro della boccia. Il solito spocchioso riderà perché crede che i pesci non sappiano contare. Invece io sono un pesciolino rosso istruito. Ho letto Lolita insieme al mio padrone e ho imparato a contare fino a cento e distinguere le banconote da cinquanta da quelle di dieci dalla mia padrona. Lei si mette sempre sul divano e, umettandosi le dita, conta ad alta voce, sfogliando dei mazzetti colorati. Chiaro? Ma proseguiamo, perché le sorprese quel giorno non sono finite.
Sul più bello la porta di casa si è aperta di nuovo. Ho aguzzato la vista e ops! Cosa vedo? La padrona era entrata con un tizio che non avevo mai visto. Si sono spogliati in fretta e sono rimasti nudi, prima di gettarsi sul divano, ancora caldo da prima. Non potevo credere ai miei occhi: facevano lo stesso lavoro della donna e del mio padrone. Si stavano tradendo a vicenda! E io che avrei voluto chiamarla, informarla! Che anima ingenua ho!
Ero tutto intento a riflettere su quanto era accaduto e ascoltavo la padrona urlare, non ho capito se per la gioia o per il dolore, quando la porta si è riaperta. Sono rimasto strabiliato: il mio padrone era accompagnato da una tizia vistosa dai capelli rossi, diversa da quella precedente. I miei padroni si sono guardati in modo strano. Poi si sono messi a ridire e tutti e quattro sono finiti sul divano. Facevano un orgia!
Non ci potevo crederci. Senza nessun pudore facevano sesso a quattro!
Ero ancora incredulo a quella visione, quando ho visto tremare tutto quanto. Mi sono domandato se fosse colpa di quei quattro scalmanati sul divano, che avevano provocato un piccolo terremoto. Mi sono sbagliato. Era Mustafà, il pesce palla che mi scuoteva con violenza.
Mi sono svegliato e mi sono reso conto che è stato solo un sogno. Non ho mai vissuto con padroni strani, non ho mai visto un tradimento in contemporanea e vivo felice in un luogo bellissimo, chiamato mare.
L’unico posto dove sono nato e cresciuto e dove nuoto libero. Vi state domandando se anche i pesciolini rossi sognano. Senza dubbio! Solo che i bipedi umani lo ignorano. Sono veramente buffi quando nuotano accanto a me: goffi, impacciati, sempre pronti a emettere bollicine e poi portano strani oggetti e non hanno pinne né squame. Dunque dico che anche noi sogniamo ma più che un sogno è stato un incubo. Quattro bipedi ansanti e rantolanti, che si avvinghiavano tra loro, stavano uno sopra l’altro come una massa informe. Uno spettacolo poco edificante.
Mi sono sempre chiesto se vivere in una bolla sia terribile come mi è apparso nel sogno. Credo proprio di sì! Non mi piacerebbe provare l’emozione.
Uffa! Ancora un bipede che si aggira nei dintorni. Salem, un pesce pappagallo, mi ha detto di aver passato uno spavento non da poco quando aveva visto un bipede armato di un arnese trasparente e con dei buchi, dove per poco non ci finiva dentro. Un colpo di coda ed era sgusciato via, nascondendosi dentro un anemone rosa. Però una volta ho visto un bipede armato con uno strano strumento che sparava saette d’argento. Ha beccato Zalim, una vecchia cernia grossa dieci volte me e forse anche di più. Si era dibattuta inutilmente e poi era sparita, trascinata via dal bipede.
Questi umani sono veramente infidi e sporcaccioni. Dovrò fare attenzione. Adesso vado a fare una riverenza a Madame Noir, la bella seppiolina.
“Ellò, Madame. Come va?” le chiedo.
“Non le dico come! Oggi non è giornata” risponde con uno sbuffo di nero.
“Mi racconti tutto. Ho qualche minuto per ascoltarla”.
“Sono io che sono di corsa! Mi aspetta Lord Goffy. Non posso fare tardi. Sai mi corteggia da tempo” dice muovendosi sinuosa. “E’ così affascinante con quella protuberanza sottile sul naso”.
Dovete sapere che il titolato è uno splendido pesce spada ed è ambito da tutte le pescioline del nostro universo.
“La lascio andare dal suo bello” replico con tono dimesso.
Questa notizia mi ha turbato. La vedo andare via, mentre una lacrima si confonde con le gocce del mare.

Lo ore 21

“Ti consegno questa busta con dentro una lettera, non aprirla ora o tra un po’, fallo il giorno della data e dell’ora precisa, che ho scritto sul retro. Due giorni possono sembrare lunghi , un’eternità per la curiosità, che ne scaturisce, ma ti assicuro che passeranno in fretta. Non te ne accorgerai nemmeno. Il tempo vola e non rallenta mai. Un’unica raccomandazione: segui alla lettera le mie indicazioni, perché questo lasso di tempo mi serve per portare a termine un paio di cose, che ho in mente”.
Era un sabato quel giorno, quando gli ho detto queste parole. L’ho guardato con decisione negli occhi prima di salutarlo. Alex mi ha guardato sorpreso e avrebbe voluto pormi delle domande ma non gliene ho lasciato la possibilità.
Molte volte ci avevo pensato ma poi mi è mancato il coraggio. Adesso ero risoluta, ero sicura di riuscire nel mio intento e ne ero più convinta che mai. Non volevo più aspettare e rimandare a un’altra occasione quello che avevo in mente. Così gli ho dato un piccolo bacio sulla bocca e me ne sono andata, sculettando. Era talmente basito che non ha avuto nemmeno la forza di fermarmi.
Perché una lettera? Abbiate pazienza e seguitemi nel corso degli eventi. La risposta arriverà alla fine.
Il giorno dopo, domenica, in casa non è rimasto nulla. Mi sono girata intorno e ho guardato tutto con attenzione: avevo tolto e svuotato ogni cosa. Niente era restato: solo muri bianchi e spogli pronti per accogliere il vuoto che ci sarebbe stato da lì in avanti nel tempo.
Non sento più emozioni di nessun tipo, le lacrime le ho consumate tutte, il desiderio è ormai estinto. Sono inespressiva, insensibile, consumata e rassegnata. Sono un’ameba.
Adesso sono le otto e trenta del lunedì sera. Tra mezzora leggerà la mia lettera. E’ chiaro quel che ho scritto. Non ne ho il minimo dubbio. Lui sa che non conoscerò mai il suo commento, né risponderò alle sue domande, che di sicuro vorrà pormi. Senza giri di parole e in maniera esplicita ho avanzato la richiesta, che non sarà necessario che io sia a conoscenza di quello che pensa.
Io attendo solo le ore 21.
«Cosa c’è scritto nella lettera che dovrei aprire lunedì alle 21? Ho letto nei suoi occhi il contenuto. Conosco perfettamente ogni parola. Linda è un libro aperto per me. A volte non la comprendo ma a modo mio l’amo e la rispetto, ma lei?” rifletto mentre mi avvio con lentezza verso casa.
Scuoto la testa, respiro a fondo, ricaccio nell’anima quello che provo per lei. Chiudo alle spalle l’uscio e mi siedo sul divano. Cosa aspetto? Non lo so nemmeno io. Sto qui in silenzio, mentre fuori cala rapidamente la sera e la stanza rimane al buio. Non ho fame, né sete, né sonno. Rimango immobile, avvolto nei miei pensieri. “Perché?” mi chiedo ancora una volta.
La notte scorre lenta, mentre io con gli occhi aperti nell’oscurità notturna cerco di vedere quello non c’è. L’alba del sabato mi coglie ancora sul divano. Non mi sono mosso mai da lì. Il chiarore è grigio e indica che il cielo è coperto di nuvole, esattamente come la mia mente è oscurata da mille pensieri.
Esco di casa. Cammino spedito nel pomeriggio di sabato, che si preannuncia carico di pioggia. Cumulonembi neri corrono veloci nel cielo. Li osservo. Sembra il temporale che lei mi ha predetto per lunedì alle 21. Ancora non ci credo ma dentro di me lo so da tempo che ha deciso e non tornerà indietro. Una folata di vento muove i miei capelli che ricadano sul viso. Li allontano con una mano come se fosse un invisibile pettine. Ormai mancano solo due giorni. Potrebbero sembrare due anni ma so che non è così. Passeranno in un baleno come mi ha detto.
Le prime gocce di pioggia mi bagnano il viso. Sono uscito senza un ombrello consapevole che tra non molto avrebbe piovuto. Ritorno sui miei passi, mentre la pioggia aumenta di intensità. Mi rifugio tra le mura amiche, mentre gli occhi si inumidiscono per il pianto.
Mi siedo sulla poltrona accanto al divano che tante volte ci ha accolto. Mi rifaccio la domanda ‘Perché?‘ e ancora una volta rispondo ‘Non lo so‘. Eppure agli occhi della gente eravamo belli.
“Cosa vuol dire essere belli?” mi domando.
Rifletto un momento prima di rispondermi.
“Francamente non l’ho mai capito ma lo dicono”.
Mi alzo e vado nell’ingresso a specchiarmi.
“Ormai sono vecchio. Qualche filo grigio affiora qua e là tra il castano dei capelli. La fronte è segnata da linee profonde che incidono la pelle. Le rughe ci sono e il sorriso è stanco”.
Mi allontano dallo specchio che mette a nudo tutti i miei difetti. Torno a sedermi e penso.
“Mancano pochi minuti alle 21. Mi alzo. Raccolgo le mie ultime cose senza guardarmi intorno. Non vorrei avere un ripensamento. Voglio essere ferma nelle mie decisioni. Lo so che lui con le mani tremanti starà aprendo la lettera. Adesso sta cominciando a leggerla”.
Linda si alza per avviarsi lentamente verso un punto lontano. Tra un minuto scoccheranno le 21 e Alex saprà.
“Non ne sono certa ma lui di sicuro ha capito tutto” si dice la ragazza, mentre affretta il passo. “Dove vado?”
Una domanda pleonastica. Lei conosce la destinazione e si perde nel buio della sera.
Caro Alex, così comincia la lettera.
Lei lo sa, perché l’ha scritta di suo pugno.
Ride, pensando a lui con le mani nei capelli. Apre la porta, quando ode uno squillo.
“Non posso rispondere. E’ sicuramente lui. Lo immagino. Lascio questa casa vuota come il mio cuore e scendo per la strada anonima e sicura. Cammino con il borsone a tracolla e il telefono spento. Non voglio parlare con nessuno”.
Chiude il portone dell’edificio alle sue spalle, liquidando un passato che non vuole ricordare. Muove i primi passi nella pubblica via.
“Mi scusi” si sente dire da una voce femminile. “Mi perdoni l’ardire ma lei non è Elisabetta Canalis?”.
Si ferma e si gira. C’è una donna di basso livello e di modesta estrazione che la osserva. La guarda come si potrebbe scrutare una persona fastidiosa.
“No, si sbaglia” risponde seccata. «Per chi mi ha preso?» riflette mentre si gira sui tacchi.
“Eppure …” insiste noiosa. “Eppure mi sembra lei. Sa quella soubrettina che ha flirtato con George … Come si chiama? Mi aiuti”.
“George Clooney” le suggerisce acida, mentre mi viene appresso.
“Sì, proprio lui!” esclama portandosi al suo fianco. “E’ un uomo affascinante, vero?”
La guarda come per incenerirla. Se lo potessi, lo farebbe. Non risponde. Riprende a camminare. E’ visibilmente infastidita. Tutta la decisione che aveva nel corpo sta scemando velocemente. Pensa che non ci voleva questa donna petulante.
“Mi dica. E’ un amatore come dicono?” continua come se non ascoltasse le sue parole.
“No!” le urla in faccia. “Non riesce a scopare per nulla!”
“Che peccato! Eppure sembra uno …” e finalmente la lascia delusa.
Sono le ore 21 e con le mani tremanti prendo la busta. Non oso aprirla. Sono incerto se farlo.
“Perché lo dovrei aprire? Ne conosco il contenuto e Linda starà andando incontro al suo destino”.
Mi faccio schifo. Non sono riuscito a trattenerla, né a convincerla. L’ho persa e per sempre. Dovrei fare quello che qualunque uomo dovrebbe fare. Correre da lei e chiederle perdono. Ma sono un pavido e non oso guardare in faccia alla realtà.
Sono le 21 e 5 minuti.
Lascio cadere la busta per terra, chiusa e bagnata.

Lucrezia e il racconto erotico

Lucrezia nel suo blog mise un’immagine e avanzò la seguente proposta: ”… Che mi dite, facciamo partendo da questa immagine un racconto erotico? Liberate la vostra. fantasia, e chi arriva dopo prosegua il racconto, Vediamo cosa ne esce …”.

Il racconto si sviluppò attraverso i commenti di alcuni blogger, che avevano accettato la sfida lanciata da LU. La fotografia da cui si doveva dare origine alla narrazione era una splendida immagine in bianco e nero, come tante altre che comparivano sul suo blog e rappresentava una bella ragazza vista da tergo con una catenella che scende lungo il suo corpo nudo.

Un racconto di pura fantasia… dato che non si vede l’immagine… ” disse il primo blogger in tono di sfida.

Basta avere pazienza e l’immagine si vede…se permettete inizio io”, proseguì il secondo ed avviò il racconto.

Cosa significava quella immagine per il blogger che iniziava la narrazione? Una ragazza incatenata, da possedere e così fece, ma il racconto si era sviluppato in maniera inattesa. Proviamo a leggerlo tutto di un fiato, forse farà sorridere, forse farà incazzare qualcuna, forse diranno “Uffa! Che barba!”.
Demetra e la mattina in ufficio


Paolo aveva appena finito la doccia e stava indossando l’accappatoio, quando sentì i Bee Gees, guardò il display: era il numero di Demetra. Rimase sorpreso e indugiò un attimo a riflettere.

Era single per scelta e di sera spesso amava frequentare alcuni club molto privati e particolari, dove faceva conquiste occasionali, che con regolarità dimenticava il giorno dopo. Non si sentiva pronto per una relazione stabile o forse non aveva ancora incontrato una donna che sapesse donare qualcosa di più di un banale rapporto sessuale. Quella mattina tornò a guardare stupito il visore, mentre il telefono continuava la litania musicale che annunciava una chiamata entrante, aspettò ancora qualche secondo prima di rispondere.

“Buon giorno”.

“Ciao Demetra, tutto a posto per stasera vero?”.

“Certo, sono già pronta”.

“Bene aspettami davanti alla porta, e sai che non scherzo vero?”.

“Certamente”.
L’aveva conosciuta la sera precedente assieme al marito durante una festa in un esclusivo club privè di Milano. Loro erano una coppia complessa, perché lui non amava fare sesso con lei ma con le sue amiche, mentre lei assecondava il suo desiderio con incontri occasionali e poco stimolanti. Sentendosi trascurata, era

sempre alla ricerca di un maschio che doveva renderla felice, appropriarsi del suo corpo, della sua testa e della sua anima in modo deciso e coinvolgente. Era giovane, determinata e trasgressiva, sapeva di avere un corpo splendido da usare come arma di seduzione.

Demetra gli era piaciuta fin dal primo momento e lei l’aveva ricambiato.
Al Club, lasciato il marito al tavolino, passarono una serata splendida. Seguendo la danza della seduzione fatta di sguardi, ammiccamenti e di mezze frasi, finirono nella sala col letto comune, e fecero sesso, mentre mani e lingue degli altri toccavano i loro corpi, amplificando il piacere degli amplessi. Si erano scambiati i numeri del telefono promettendo di risentirsi il giorno dopo. Al risveglio si era sentito stanco e allo stesso tempo appagato per aver trascorso con lei una serata coinvolgente ed eccitante, pensando che non l’avrebbe mai chiamato per proseguire la storia, come era già avvenuto con altre donne in passato. Quindi era rimasto sorpreso quando aveva sentito il telefono, ma allo stesso tempo era stuzzicato dal quel contatto a casa sua per la sera. Era necessario adesso che si sbrigasse e pensasse meno a Demetra, perché il treno non l’avrebbe aspettato di certo. Saltò il rito della colazione e velocemente indossò i vestiti pronti per l’ufficio.

Il treno, come al solito, era in ritardo e affollato. Dopo due fermate scese ed esclamò “Ma chi è quella laggiù? … Mi sembra… ma si è lei! Demetra!”

Immediatamente la fantasia aveva cominciato a galoppare. Le immagini dapprima erano confuse, poi sempre più chiare. Cosa vedeva? Lei, sempre lei! Era ipnotizzato dalla sua bellezza e dai ricordi della sera prima!

Qualcuno dietro di lui disse irosamente: “Scendi o scansati!”, spintonandolo di malagrazia.

Si riscosse e scese lentamente con lo sguardo fisso su di lei. Si avviò con passo deciso per raggiungerla. Ecco che qualcosa la fece, come per magia, svanire nel nulla. La serata trascorsa gli aveva lasciato un sacco di emozioni sulla pelle, ma adesso non era il momento giusto per pensarci, quindi le avrebbe detto stasera quello che provava per lei. Aspettava in ufficio un nuovo collaboratore che avrebbe avuto alle sue dipendenze da domani. Era stato scelto dalla direzione senza che avesse potuto partecipare alla selezione: questo non gli era piaciuto per niente. Con questi dubbi che frullavano vorticosi in testa, chiese alla segretaria se era arrivato la persona che aspettava.

“Certo! La signorina è appena arrivata!” gli rispose sorridente e maliziosa.

“Signorina? Falla pure accomodare, ma non si chiamava Vittorio?” disse un po’ sorpreso e seccato di dover gestire una donna.

Alzò le spalle, mentre scuoteva la testa per il disappunto. La giornata in ufficio sembrava cominciare col piede sbagliato. Posata la borsa sul tavolo, scorse velocemente i titoli dei giornali, che tutte le mattine Anna disponeva con cura sul ripiano vicino alla finestra. Seduto alla scrivania vide aprire la porta e affacciarsi una figura femminile che si diresse verso di lui senza che distogliesse lo sguardo. Gli porse la mano.

“Demetra Di Vittorio” disse con tono deciso ma cordiale.

“Demetra Di Vittorio, spero di non deluderla…” ripeté, come se lui non avesse udito.

“Dottoressa Di Vittorio?” rispose stupito.

La fissò per qualche secondo senza riuscire a dire una parola.

Demetra che piacere rivederti” continuò Paolo, riprendendosi dallo stupore.

Di giorno era ancora più provocante, non rinunciava alla sua sensualità, che esprimeva con raffinata intelligenza. In un attimo mille pensieri e immagini avevano riempito la sua mente, mentre osservava quella figura elegante e slanciata che si avvicinava lentamente alla scrivania. Riacquistò un atteggiamento professionale, quando fu di fronte a lui.

“Bene Dottoressa, come ti è stato detto, da domani sarai a mia completa disposizione, sai bene che non ci saranno orari. Pretendo molto dai miei collaboratori. Ovviamente non ti darà fastidio se ti do del tu vero?”

“Assolutamente no” rispose calma sedendosi di fronte a lui.
Paolo leggeva nei suoi occhi paura ed eccitazione, ma nella testa aveva chiaro cosa Demetra sarebbe divenuta nei prossimi giorni.

Demetra chiudi la porta” le ordinò secco e cordiale.

Mentre lei si alzava sinuosa e elegante per chiudere la porta rimasta aperta, lui la scrutava senza tradire l’intimo tumulto che la vista della ragazza suscitava in lui. Con misurata lentezza si girò verso di lui per tornare alla scrivania.

“Ora fermati”. Lei rispose “Si”, rimanendo immobile nel centro della stanza, Demetra si chiese con un misto di ansia e desiderio, che cresceva dentro, cosa le avrebbe richiesto.

La serata precedente era stata straordinaria, perché per la prima volta non si era sentita una donna oggetto da portare a letto, ma aveva percepito che era diverso: deciso, calmo, gentile e delicato e allo stesso tempo attento a donarle il massimo del piacere.

Si era domandata perché frequentasse posti, dove l’uomo era solo alla ricerca del soddisfacimento sessuale. Prima di presentarsi all’appuntamento per il nuovo lavoro, l’aveva chiamato per capire, se la sensazione era quella giusta. Sentendo la voce, aveva capito che lo era.

Grande era stato lo stupore, quando aveva scoperto che il caso gli aveva riservato una gradita sorpresa: il datore di lavoro era quell’uomo desiderato. Quando lo vide, si eccitò agitandosi ma adesso aspettava con ansia cosa volesse da lei.

La risposta per Demetra era di fondamentale importanza: percepì che il suo desiderio era possederla.

Avviso ai naviganti 2.0

Ho qualche problema a pubblicare un post qualsiasi.  Nulla di grave personalmente ma mi manca il tempo e la concentrazione per scrivere qualcosa.
Passo alla sera a leggere i vostri post e lasciare qualche commento.
Spero che questa situazione migliori nei prossimi giorni e ritorni alla normalità.
Un abbraccio a tutti

Fantasmi – parte seconda

Scese un altro gradino, scivolando su quella poltiglia scura e viscida che li ricopriva. Stava per perdere l’equilibrio e precipitare verso il basso, anzi già si vedeva sette scalini più sotto, quando si sentì afferrare e rimettere diritto. Si fermò nuovamente col cuore che batteva a mille. La sensazione di ansia e angoscia era aumentata.
“Chi mi ha salvato?” si domandò, mentre cercava di regolarizzare il respiro e i battiti. “Senza quel provvidenziale intervento me la sarei vista brutta!”
Ruotò la torcia dall’alto verso il basso, da destra verso sinistra. Non c’era nessuno su quella scala sdrucciolevole. Era solo. Eppure aveva avvertito nettamente delle braccia che lo avevano sorretto, impedendogli di cadere. Cominciava a essere pentito della decisione di avere affrontato la discesa per vedere cosa c’era nel semiinterrato. Sapeva che non era curiosità la molla che lo spingeva a scendere ma la voglia di conoscere quella parte della casa che era rimasta sempre chiusa da quando si era stabilito lì. Le vecchie chiacchiere delle persone erano un ricordo indistinto. Lui era troppo piccolo per afferrarne le sfumature, i particolari che si erano arricchiti di altri dettagli fino a costruire una storia che era lontana dalla verità. Su quei tristi momenti del passato era calato l’oblio e nessuno aveva l’intenzione di riaprire le antiche ferite. Erano altri eventi che erano il fulcro dei ricordi di quei giorni tragici e sanguinosi.
Mentre i pensieri lo invitavano a valutare, se proseguire oppure no, un respiro caldo gli sfiorò la nuca. Fece un balzo che lo fece traballare pericolosamente.
“Chi c’è?” chiese a voce alta incrinata dalla paura.
Nessuna risposta. Una richiesta caduta nel vuoto.
“C’è qualcuno?” riprese a gridare per darsi quel coraggio che era volato via.
Udì solo l’eco delle sue parole che rimbalzava tra quei muri pieni di ragnatele. Non riusciva a trovare la serenità per una decisione.
“Risalgo o proseguo?” disse in un sussurro.
“Vai avanti” replicò una voce, che pareva provenire dall’oltretomba.
La paura si impossessò di Marco, incapace di ragionare lucidamente. Poi, come spinto da mille mani, ricominciò a scendere con maggiore cautela. Percorsi gli ultimi gradini si ritrovò a osservare attraverso una finestrella, opaca per la sporcizia, il terreno del giardino. Era in uno stretto corridoio, sul quale si affacciavano delle porte chiuse e rischiarato da quello stretto pertugio, dal quale filtrava la luce. Avvertì una mano che si insinuava sotto il suo braccio. Si fermò bruscamente, gettando il fascio della torcia di fianco. Nulla. Solo polvere e ragnatele.
Riprese cautamente a camminare ma udì dei lamenti provenire da dietro quelle porte chiuse.
“Suggestione o realtà?” si domandò, restando immobile e trattenendo il respiro.
Provò ad abbassare una maniglia ma non si muoveva, come se fosse inchiodata. Tentò con un’altra ma il risultato fu identico. Avanzò ancora e contò che c’erano tre stanze alla sua sinistra e quattro alla destra. Continuava a udire dei suoni che parevano dei lamenti di un moribondo. Un flash. Ricordò che aveva sentito parlare di voci provenienti dal sottosuolo, proprio da lì. Aveva riso, perché nella sua ingenuità di bambino non poteva credere che potessero arrivare dalle cantine di casa sua dei gemiti dolorosi. E non pensava che potessero esistere i fantasmi. “Sono tutte invenzioni! Servono solo a spaventare noi bambini” si era detto allora.
Eppure adesso li ascoltava e poteva toccarli con mano.
“Avevano ragione quegli anziani, quando dicevano che questa era una casa maledetta o degli spiriti” disse soffermandosi davanti a una porta. “Perché rimane chiusa con ostinazione?”
C’era poco da esplorare. Un corridoio stretto e sette stanze ermeticamente sigillate. Adesso percepiva altri odori. Urina ed escrementi mescolati a quello del sangue ormai rappreso. Un brivido percorse la schiena di Marco. L’aria era pesante. Quel tanfo di chiuso prendeva alla gola. Spense la torcia. “Tanto non serve” si disse osservando quelle porte che non volevano aprirsi. Continuava a percepire distintamente la presenza di qualcuno al suo fianco. Se muoveva un passo, anche questa lo muoveva. Se si fermava, anche lei si fermava. Sembrava la sua ombra.
Giunto sotto la finestrella vide dei piedi muoversi nel giardino. Ebbe un sussulto. Guardò l’orologio che aveva al polso. “E’ troppo presto perché rientrino i miei. Sono le appena le dieci. Non possono essere neppure mia sorella e suo marito. Chi è?” si disse dirigendosi verso la scala. Si fermò. Era interdetto. Quello, che aveva visto, non apparteneva al mondo attuale. Quegli stivali neri gli erano sconosciuti. Ritornò sui suoi passi ma non vide più nulla. Il giardino appariva immobile. Nessun stivale nero si scorgeva dalla finestrella.
“Mi sono sognato?” si disse, mentre alla sue spalle udì la porta di accesso alla cantina scricchiolare. Erano i cardini arrugginiti che cigolavano. Avevano necessità di una bella oliata.
Marco fu preso dal panico. Si sentiva come un topo in trappola in procinto di affogare. Le stanze non era agibili ma poi si sarebbe messo nella condizione di non potere fuggire. La finestrella era sufficientemente grande per lasciarlo passare. Non era un colosso, anzi era piuttosto mingherlino. Però c’era un impedimento difficile da rimuovere. Delle solide sbarre impedivano qualsiasi fuga da lì.
Decise coraggiosamente ma non troppo di affrontare quella persona che era riuscita a entrare in casa, nonostante la porta d’ingresso fosse chiusa. Si avviò verso le scale per affrontare l’intruso. Udì il battere secco dei tacchi sui gradini e si ritrovò di fronte a un soldato, che pareva uscito da un libro di storia contemporanea.
“Chi siete?” gli domandò, parandosi davanti.
“Lei prigioniero. Keine Fragen!” gli rispose con un tono che gli ricordava i fumetti di Bonvi, Sturmtruppen. Li leggeva da una vita e li trovava straordinari
Stava per scoppiare a ridire fragorosamente, quando si ritrovò dentro una stanza, legato come un salame a una sedia. La risata era diventata una bolla di sapone che fa ‘puf!’ e diventa il nulla.
“Wobei sono i Banditen?” riprese con quella cantilena ridicola, avvicinandosi con un ferro rovente al viso.
“Quali banditi?” domandò ingenuamente Marco, mentre avvertiva che se la stava facendo sotto e non solo metaforicamente.
“Keine Fragen!” gli urlò a pochi centimetri dal viso. “Dire a me dove sono i tuoi amici Banditen!”
“Non saprei” rispose titubante il ragazzo, che avvertiva l’odore di urina e feci che aveva rilasciato.
“Io perdere la pazienten. Dire dove si nascondono i Banditen!” gli disse avvicinando quel ferro rovente a sfiorare il petto nudo di Marco.
Il ragazzo tremava per la paura che quel pezzo incandescente lo marchiasse per tutta la vita come aveva visto fare con le mandrie tante volte nei western americani. Si domandò se stesse sognando oppure fosse tutto reale. Di certo la puzza, che emanava, era inequivocabile. C’era e non poteva negare che nelle sue mutande non ci fossero delle feci.
Stava per replicare ancora, quando udì quella caricatura di soldato chiamare un sottoposto.
“Untersturmfuehrer Otto Wolf. Der Gefangene ist sein!“

‘Che cacchio sta dicendo’ si disse, cercando di vedere il nuovo arrivato.

Osservando intorno la stanza, illuminata da una lampadina che andava a intermittenza, notò vistose chiazze di sangue ormai seccato sulle pareti e sul pavimento, brandelli di carne umana necrotizzata.

“Questa è una stanza di tortura! E Otto è il becchino. Ma che vogliono da me?“ si domandò stupito. “Eppure la seconda guerra mondiale è finita da sedici anni!“

A Marco pareva essere piombato in un incubo allucinante. Era sceso in cantina per vedere cosa c’era e si era ritrovato prigioniero, anche se all’epoca aveva solo tre anni, e rischiava di morire torturato da un sadico che amava scuoiare vive le sue vittime.

Era in preda al terrore, quando udì dei colpi di mitraglietta e degli spari di una pistola. Non comprendeva cosa stava avvenendo alle sue spalle, quando si ritrovò libero.

Scappa!” li disse una voce dal forte accento ferrarese.
Non se lo fece ripetere due volte. Di gran carriera salì le scale e si richiuse con fragore alle spalle la porta. Aveva il fiato grosso e il cuore batteva all’impazzata.
Stava riprendendosi dallo spavento e dalla folle corse, quando avvertì una grande puzza e vide le gambe imbrattate di merda. Senza perdere tempo si tolse calzoncini e mutande sporche e maleodoranti, prima di infilarsi nella doccia.
Si stava asciugando davanti allo specchio, quando vide la sua immagine riflessa.
Non poteva crederci.
Sono bianchi!”
 
F I N E

Fantasmi – parte prima

Era il 22 luglio del 1961. Era una giornata torrida come i giorni che l’avevano preceduta. tanto che nemmeno le cicale avevano la forza di frinire, sfinite dal caldo e dall’aria rovente.
Marco aveva terminato il giorno prima la maturità scientifica e aspettava che anche gli amici fossero liberi da impegni per partire per il sospirato campeggio di Milano Marittima. Non era il suo vero nome, perché quello originale era davvero orribile: Olindo. Alla fine aveva optato per il troncamento del suo lungo cognome, Marconaldo e come tale era conosciuto da amici e parenti. Viveva coi genitori, la sorella e suo cognato in un grande palazzina stile liberty, posta lungo il vecchio ramo del Po di Primaro, circondata da un vasto giardino. Era stata fino al 1945 la casa del podestà di Ferrara ed era diventata la sede delle SS durante l’occupazione nazista di Ferrara. Lì erano arrivate molte persone ma ben poche ne erano uscite. La gente la chiamava la ‘casa degli spiriti‘ o ‘la casa maledetta‘, perché sostenevano che nel passarvi accanto si udivano ancora i gemiti delle persone torturate a morte e di notte vagassero i loro spettri in cerca di pace. Quando nell’aprile del 1945 Ferrara venne liberata, la casa rimase desolatamente vuota, perché gli occupanti avevano preferito fuggire nottetempo per non incappare nelle vendette dei partigiani. Nel vasto giardino, rimasto senza cura, crebbero rigogliose le erbacce con ospiti poco graditi: topi enormi e bisce d’acqua. Venne spogliata, ridotta in cattivo stato ma nessuno osò occuparla, perché alcune voci incontrollate dicevano che, chi aveva tentato di abitarla, era finito male. Quanto di vero ci fosse in queste dicerie, nessuno lo sapeva ma ognuno le alimentava con nuovi particolari agghiaccianti, finché nessuno dubitò della loro veridicità. In pratica rimase abbandonata a se stessa, senza che qualcuno osasse rivendicarne la proprietà. Tutto questo durò fino all’estate del 1949, quando Aldo Marconaldo con la moglie, Ersilia, e i due figli, Olindo e Genoveffa, la occupò, fregandosene di tutte quelle voci, che predicevano sventure.
Per non apparire degli abusivi cercarono senza troppo successo i legittimi proprietari o i loro eredi per regolarizzare l’affitto. Aldo, migrato dal vicino Veneto, aveva aperto sul Listone un esercizio di alimentari, che prosperava bene. La moglie lo aiutava dietro il bancone. Marco, che all’epoca aveva sei anni, con la sorella di dieci frequentavano le scuole elementari vicino alla Basilica di San Giorgio. Ben presto tutti dimenticarono quelle dicerie, salvo i più anziani che accuratamente evitavano di passare accanto. Scuotevano la testa e per nessuna ragione al mondo avrebbero posto un piede al suo interno.
Dopo essere entrati i Marconaldo cominciarono a sistemarla, riparando gli infissi rotti o asportati, ripulendola tutta con esclusione delle cantine poste nel semiinterrato. Un anno dopo rintracciò gli eredi del podestà, ucciso nella concitazione del dopoguerra, ai quali non parve vero disfarsi di quella palazzina macchiata di sangue innocente.
Nonostante tutte le chiacchiere, la famiglia Marconaldo si trovò bene in quella casa, fin troppo grande per loro. Al piano rialzato c’era l’ingresso su cui si aprivano le porte delle varie stanze e l’elegante scala che conduceva al primo piano, che adesso era parzialmente occupato dalla sorella col marito. Da una botola si accedeva al sottotetto, vasto quanto la casa e sufficientemente alto per restare ritti. Qui inizialmente vennero ammassati i mobili del precedente inquilino e poi tutto quello che nel corso degli anni venne dismesso da loro. Al semiinterrato, che al tempo dell’occupazione nazista era stato trasformato in luoghi di tortura, si accedeva tramite una scala in ardesia, chiusa da una porta in massello di noce pesante e robusta. Questa per ordine di Aldo doveva rimanere sempre chiusa e per nessun motivo ci si poteva accedere.
“Serve per tenere lontani gli spiriti dei morti, affinché nessuno li possa disturbare. Devono riposare in pace” disse il primo giorno di insediamento nella casa con tono autoritario e categorico. Tutti rispettarono il dettame di Aldo e mai fu violata quella disposizione.
Anche il grande giardino con gli anni ritornò ai vecchi splendori, anche se ultimamente si faceva sempre più fatica a tenerlo in ordine.
Quell’enorme villa di dieci stanze più due bagni, l’enorme cucina con camino e la lavanderia, che Aldo aveva pagato pochi soldi, adesso valeva una piccola fortuna, se avesse voluto venderla. Sapeva che era sproporzionata rispetto alle loro esigenze ma ormai faceva parte del suo DNA. Non l’avrebbe mai venduta, nemmeno se l’avessero ricoperto d’oro.
Quel 22 luglio Marco si aggirava annoiato e accaldato con solo un paio di calzoncini corti e sandali alla ricerca di qualcosa che lo tenesse occupato durante la mattinata. I genitori erano nella nuova bottega di Via Garibaldi, sempre piena di clienti, mentre la sorella e il cognato erano al lavoro in città. Lui era l’unico abitante della casa. Gli amici più intimi erano disponibili solo nel pomeriggio, quindi le ore della mattina era interminabili.
“Leggere un libro?” si disse, guardandosi intorno. “Troppo caldo! E poi per un mesetto non voglio sfogliare la pagina di nulla! Nemmeno del giornale! La maturità mi ha stressato!”
Poteva girare a occhi chiusi per le stanze della casa. In giardino si soffocava dall’afa. Decise di salire nel sottotetto a vedere se c’era qualcosa di interessante. Aperta la botola, lo ispezionò con cura tra ragnatele e polvere senza scoprire niente di nuovo che non conoscesse da una vita. Ridisceso al piano rialzato passò davanti alla porta delle cantine lucida e lustra ma cocciutamente chiusa. Marco sapeva bene dove si trovava la chiave per aprirla. Era infilata su un chiodo sopra l’architrave in legno. Era rimasta sempre lì, in bella vista senza mai suscitare curiosità o voglia di trasgredire gli ordini del padre.
Però quel giorno era particolare e il caldo fece la sua parte.
Il ragazzo si alzò in punta di piede prendendola e aprì quella misteriosa porta, che cigolò paurosamente sui cardini ormai arrugginiti. La scala era in penombra e a fatica si distinguevano i gradini. Non arrischiò di accendere l’interruttore, perché di sicuro i fili elettrici rischiavano un corto circuito. Riaccostatala, andò a prendere una torcia nella sua stanza. Riaperta con cautela una potente zaffata di umidità, mischiata all’aria viziata di muffa e di chiuso, lo investì con prepotenza, facendolo retrocedere per un attimo. Poi diresse la luce della torcia verso il basso sui gradini che conducevano di sotto. Scese con circospezione, perché erano scivolosi per l’umido deposto dai molti anni di chiusura. Fatti pochi scalini si chiese per quale motivo stava affrontando questa discesa.
“Eppure non sono mosso dalla curiosità di vedere” disse ad alta voce per darsi coraggio.
Marco aveva sempre rispettato il divieto del padre senza porsi eccessive domande, perché gli erano stati inculcati valori, per i quali era rispettoso di doveri, principi e regole. Questa era la prima volta che trasgrediva una proibizione. Rimase fermo senza scendere o risalire, incerto sul da farsi. L’aria gli prese la gola come se fosse animata da una mano reale, che gliela artigliava, stringendola. Gli mancò il respiro e la vista gli si annebbiò. La torcia stava quasi per scivolargli dalle dita, quando allargò il torace per inghiottire più ossigeno che poteva senza modificare quella strana sensazione di oppressione. Nonostante faticasse a respirare con regolarità, prese la decisione di procedere nella discesa. Voleva vedere cosa si annidava in quelle stanze chiuse da oltre quindici anni.