Capitolo 5

Ferrara, mattina del !6 Gennaio 1517
A metà della strada in leggera salita, che da Piazza di Porta Paola portava verso il Baluardo di Santa Maria, c’era una bottega bassa dove un berrettaio di nome Francesco fabbricava copricapo per nobili e popolani con l’aiuto della figlia Laura.
La stanza dava direttamente sulla strada, riparata solo da una pesante tenda. Spifferi e odori maleodoranti entravano a gelare lui e la figlia intenti a preparare un cappello per le feste del prossimo carnevale.
Laura era una giovane donna di circa sedici anni, allegra e vivace, che per alleviare gelo e fatica canticchiava uno scioglilingua

I luin a tel dag mi
par ca se ta ti to ti
ti ta ti to tutti ti ta ti to.[1]

Era una bella ragazza dai lunghi capelli corvini, che erano raccolti sulla testa secondo le tradizioni delle donne di basso rango, e dalle guance perennemente rosse per il freddo. Stava accanto a un braciere per meglio riscaldarsi, facendo attenzione di non bruciacchiare la stoffa con qualche favilla sprigionata dalla legna.
Vestita rozzamente come una popolana con una pesante zimarra bianca di lino grezzo senza maniche sopra una tunica di panno di ruvida lana colorato, metteva in risalto la delicatezza del viso, il corpo minuto e il seno appena pronunciato.
Era riuscita a non diventare una sposa bambina, come molte altre coetanee che adesso erano sfiorite da gravose gravidanze e da una faticosa conduzione della casa.
La fama della sua bellezza circolava per il ducato, tanto che qualche nobile con la scusa di assumerla tra i domestici ci aveva provato con qualche avance, ottenendo il fermo diniego suo e del padre.
“Piuttosto che finire come Anna entro in convento come mia sorella!” diceva sempre alle amiche, che ridevano delle sue affermazioni. Erano convinte che alla fine avrebbe ceduto finendo in qualche casa patrizia come l’amante di un ricco nobile.
“Sei troppo bella per rimanere libera in attesa dell’uomo dei tuoi sogni” replicavano ironicamente.
Lei era determinata nel suo obiettivo: sposare una persona che l’avrebbe trattata come un essere umano.
Suo padre preferirebbe che rimanesse nella bottega, perché era veramente abile nel cucire insieme i vari pezzi che formavano il copricapo. Per questa sua abilità il lavoro non mancava, anche se i guadagni erano scarsi. C’erano sempre in cassa qualche diamante o delle mezze lira di Ferrara per le necessità correnti ma niente di più. Se arriva uno scudo o un fiorino d’oro, era festa grande ma erano una rarità. Vivevano modestamente coi pochi soldi che ricavavano dalla confezione di berrette secondo la moda francese o di feltri di velluto spagnoleggianti.
Laura continuava a modulare la filastrocca come se fosse una dolce ninna nanna, quando emerse dalla tenda che divideva la stanza dalla strada un uomo vestito elegantemente con un vestito di raso rosso e blu e una cappa di ermellino bianco per proteggersi dal freddo.
Il padre si alzò immediatamente in segno di deferente ossequio. Aveva riconosciuto immediatamente che la persona, entrata nella sua bottega, era il Duca di Ferrara.
“Mi hanno detto che qui preparate i migliori berretti del ducato” disse senza troppi preamboli osservando la figura minuta di Laura che continuava il suo lavoro senza degnarlo di uno sguardo.
“Se vi hanno detto così, me ne compiaccio. Come posso servirvi, mio amato Duca?” domandò Francesco non dissimulando imbarazzo e deferenza.
“Dunque è questa giovane dama, quella dalle mani d’oro?” proseguì ignorando la risposta del berrettaio, mentre concentrava la vista sulla ragazza.
Laura sobbalzò e rimase muta, sbiancando in viso prima di imporporarsi per il turbamento che le parole avevano provocato. Il freddo era sparito sostituito dal caldo dell’emozione per la presenza del Duca e perché si rivolgeva a lei senza mezzi termini. Lo guardò con attenzione perché era la prima volta che poteva osservarlo da vicino. Un uomo, senza dubbio affascinante, con una folta barba ben curata e un viso abbronzato e duro che emanava una forte virilità. Il suo cuore prese a battere furiosamente, perché aveva compreso che la visita era per lei e non per l’attività che svolgevano.
Si alzò, avvicinandosi per inginocchiarsi come deferente omaggio alla persona.
Il Duca rise, alzandole il viso con la mano guantata. La fissò negli occhi scuri, invitandola a mettersi ritta.
“Dunque siete voi, la fanciulla della quale mi hanno decantato le doti. Come vi chiamate?”
“Laura. Laura Dianti detta Eustochia, mio signore”.
Alfonso aggrottò un sopraciglio per la risposta senza approfondire il motivo di quel sopranome. La trovava fresca e bella, risvegliando in lui delle sensazioni che parevano affievolite dopo quindici anni di matrimonio con Lucrezia.
“Mastro Francesco vi ordino di preparare un cappello a falda larga per le cerimonie del carnevale che cominciano tra venti giorni. Verrò tra due giorni per la prima prova” disse continuando a fissare la ragazza senza lasciarle la mano.
“Che tipo di cappello, mio signore?” replicò timidamente l’uomo.
“Quelli dell’ultima moda, alla francese. Per il colore mi fido della sensibilità di questa fanciulla” e si girò dirigendosi verso l’apertura.
Dalla tenda svolazzante Laura vide Alfonso circondato da un drappello di soldati che si stavano allontanando verso una carrozza che stava aspettando.
La mente era in subbuglio, il cuore continuava a battere impetuosamente, al freddo era subentrato un calore in tutto il corpo tanto che, se avesse potuto, si sarebbe tolte le vesti.
“Il Duca ha messo il suo occhio su di me” si disse mentre il padre in agitazione parlava e si muoveva con frenesia.
“E’ un uomo affascinante che strega chiunque lo avvicini”.
Il berrettaio chiamò ad alta voce la moglie.
“Paola. C’era il Duca nella mia bottega!”
Laura nel mentre percepiva sensazioni contrastanti senza riuscire a collegarle logicamente tra loro.
“Oggi è accaduto qualcosa di straordinario. Un incontro che lascerà un’impronta nella mia vita”.
Rifletteva ignorando le voci concitate dei genitori.


[1] Traduzione
I lupini te li do io,
perché se te li prendi tu
tu te li prendi tutti,
tu te li prendi.

Capitolo 4

“E’ un grande onore per noi avere come ospite a questo tavolo l’illustre ingegnere del nostro amato Duca” disse la contessina Giulia.
Giacomo rimase in silenzio, metabolizzando questa nuova informazione, che apriva uno spiraglio sulla sua posizione sociale.
“Dunque io sono l’ingegnere del Duca? Di quale Duca?” ripeteva mentalmente prima di riacquistare la parola.
“Contessina Giulia, il piacere è tutto mio, sono onorato dalla vostra presenza e lusingato dal vostro invito”.
“Vi prego, messer Giacomo. Non chiamatemi contessina. Semplicemente Giulia” replicò arrossendo leggermente la ragazza.
“Come volete voi, dama Giulia”.
Poi allungò una mano verso l’altra donna nella speranza che si tradisse, dichiarando la sua identità.
Lui cercava di mascherare come ignorasse in quale anno si trovava catapultato a sua insaputa. Questo gli dava una sensazione di incertezza che lo rendeva insicuro nelle parole e nelle azioni. Il percorso della conoscenza era tortuoso e buio e non mostrava nessuna luce in fondo al tunnel. Solo qualche lampo a sprazzi.
Ragionando sull’informazione di prima, dedusse che doveva essere uno compreso tra il 1506 e 1598, quando la casata d’Este era stata costretta a traslocare a Modena.
“Quasi un secolo! Non è uno scherzo quanti avvenimenti si sono succeduti in quegli anni” rifletteva con un filo di apprensione.
“E voi, dama ..” e fece una pausa sperando nel soccorso di una parola amica.
“.. Perché portate i segni del lutto?” proseguì Giacomo, prendendole una mano per baciarla come si soleva fare nel porgere un omaggio deferente.
“Madonna Ginevra è rimasta vedova da pochi mesi. Io la ospito per riprendersi dal dolore”. Gli venne in soccorso la contessina.
“Sono profondamente addolorato per la grave perdita del vostro consorte. Dunque vi trattenete per qualche tempo a Ferrara. Spero che vi troviate a vostro agio”.
La donna annuì in segno affermativo e lo ringraziò per le buone parole che stava spendendo. Si limitava a parlare solo se sollecitata, ascoltando in silenzio il dialogo tra Giacomo e Giulia.
Giacomo, presa confidenza e sicurezza, propose di avvicinarsi al camino, dove bruciava un gran ciocco che scoppiettava allegro.
“Qui la vista è piacevole ma il calore stenta ad arrivare. Oggi è una rigida giornata invernale e si sta meglio accanto al focolare”.
Usava parole ambigue per non incappare in qualche svarione che lo avrebbe messo in difficoltà. Però non erano le parole o la conversazione che lo atterrivano ma piuttosto dove avrebbe mangiato a mezzogiorno e dormito stanotte. Ignorava completamente dove avesse l’abitazione o meglio lui conosceva dove abitava nella sua epoca  e non in questa, dove era finito.
Nel suo mondo c’erano diverse trattorie nei dintorni ma non era scontato che ce ne fossero altrettante anche in questo. Si guardò il polso sinistro come se portasse l’orologio ma non vide altro che lo sbuffo di pelliccia che fuoriusciva dalla manica.
“Chissà che ore sono? Qui le cadenze sono scandite secondo altri ritmi. Il levare del sole e il passaggio dalla luce al buio. Tra questi due estremi variabili giorno per giorno si dipana la vita quotidiana”.
Erano questi i pensieri di Giacomo mentre Giulia continuava a parlare. Si era perso altrove, non ascoltando quello che la donna diceva.
“Sta attento alle parole e non divagare su altri argomenti, perché ..”
“Cosa ne pensate, messer Giacomo?” furono le ultime parole che arrivarono come un fulmine a ciel sereno.
Lui deglutì a fatica e doveva ammettere che si era distratto.
“Vi prego, messer Giacomo, di essere nostro ospite alla cena di messer Cristofaro, il cuoco del nostro Duca” gli venne in soccorso Ginevra.
“Proprio il famoso cuoco Cristofaro Messi che organizzerà un banchetto nella mia dimora in Strada per San Francesco. Ci terrei molto alla vostra presenza” rimarcò Giulia vedendo l’occhio smarrito e dubbioso di Giacomo.
“Il vostro invito mi coglie di sorpresa e mi lusinga molto, dama Giulia. Ebbene, visto che avete perorato con molto calore che io presenzi con la mia persona nella vostra augusta dimora, sarò lieto di sedermi alla vostra tavola. A che ora?”.
“Due tocchi dopo il vespro inizia il banchetto. Ma voi potete anche essere nostro ospite prima”.
Un tocco forte risuonò nella stanza a indicare un botto dopo mezzodì.
Giacomo preso il coraggio a due mani, dopo avere fatto tintinnare le monete nel tascapane, chiese loro di fargli compagnia nel pranzo del mezzogiorno, qualora fossero libere da impegni. Per la trattoria sarebbe andato a caso.
“Bella idea, messer Giacomo! Mi hanno detto che nella via della Gatamarcia c’è una trattoria gestita da un’ebrea, Balebusta, dove si possono gustare i loro tipici piatti. Non ho mai avuto il coraggio di avventurarmi per quelle vie del ghetto, che dicono poco raccomandabili. Però con voi la percorro con animo sereno”.
“Ebbene, sento un certo languore e l’ora mi sembra propizia” disse alzandosi.
Con galanteria aiutò le due donne a sistemarsi. Salutato con la mano il paggio si diressero verso la trattoria continuando i discorsi interrotti.

Capitolo 3

«Dove sono finito?». Era questo il pensiero fisso di Giacomo. Tutto gli appariva antico, come se fosse stato proiettato in un mondo gestito dalla macchina del tempo a ritroso.
Sfogliava un libro vecchio di cinquecento anni, stampato con curiosi caratteri e scritto in un latino diverso da quello studiato sui banchi di scuola molti anni prima.
Però un particolare continuava a ballare nella mente.
“Come fa a conoscere il mio nome quell’inserviente, curiosamente vestito da paggio, che monta la guardia alla stanza?”.
Era quel «messer Giacomo» che continuava a torturarlo. E poi chi erano quelle due dame dell’apparente età di venticinque anni, che continuavano a fissarlo e a parlare sottovoce. Lui percepiva solo un brusio formato da minuscole parole. Sentiva sulla pelle il loro sguardo.
Per allentare la tensione guardò fuori dalla finestra e vide un enorme albero che campeggiava nel cortile. Dalle foglie gli pareva una magnolia, mentre il cielo era di un azzurro intenso senza nessuna nuvola appesa in alto. Eppure ricordava una mattina fredda e nebbiosa, mentre ora risplendeva un pallido sole.
I rigori erano quelli di gennaio ma l’anno non era quello della sua epoca. Tutto era fuori fase come la sua mente confusa e incerta.
“In quale anno sono finito? Sicuramente dopo il “ e osservo il dorso di cuoio dove era stampigliata una data in caratteri romani: MDVI.
“.. 1506 è l’anno di stampa. Quindi sono negli anni successivi. Ma quale? Due, tre o dieci anni? Oppure cento? A chi potrei chiederlo? Ma forse è meglio ignorare e fingere di saperlo”.
Chiuse il grosso volume e osservò ancora una volta la sala.
Le due dame continuavano a parlare sottovoce coprendo la bocca con un elegante ventaglio d’avorio e piume di struzzo, che lasciava scoperti solo gli occhi.
Giacomo pensò che stessero parlando di lui ma ne ignorava il motivo. Per lui erano due belle donne e nulla più. Pensò che fosse riduttivo il solo pensiero che fossero due belle ragazze, perché in effetti da quello che aveva intravisto erano due bellezze diverse ma che avrebbero acceso la passione di molti uomini. Rifletté che avrebbero potuto essere le sue figlie, se specchiandosi nel vetro della finestra non avesse visto la sua immagine molto ringiovanita.
Rimase sbigottito e perplesso. Il vetro leggermente imperlato di ghiaccio rimandava un viso giovanile con uno strano copricapo di velluto rosso. Gli ricordava quelli visti a Palazzo Schifanoia diversi anni prima. Si toccò la testa che effettivamente portava qualcosa che lui non sapeva. Lo tolse per esaminarlo. La foggia era pertinente a quella dei suoi ricordi. Lo rimise prontamente sul capo, perché il freddo nella sala era pungente. Il fuoco del camino era insufficiente a riscaldare la grande stanza.
Si toccò il viso per sentire la morbida peluria della barba non troppo lunga nemmeno troppa corta, esattamente come la ricordava. Qualcosa tornava e combaciava con i suoi ricordi.
Però erano troppi i quesiti irrisolti per risollevargli il morale. Le mani erano fredde, perché aveva tolto i morbidi guanti di capretto, foderati di agnello. Portava un farsetto rosso di raso rifinito sui bordi di calda pelliccia bianca e una pesante calzamaglia nera. Nonostante fosse ben coperto sentiva insinuare sotto gli abiti un senso di gelo che gli faceva accapponare la pelle. Un brivido percorse la sua figura.
A rifletterci gli pareva di essere ridicolo vestito così. Però forse sarebbe passato inosservato oppure sarebbe stato ammirato per la sua eleganza, perché tutto era fuori tempo come le dame, agghindate con una foggia cinquecentesca, e il paggio posto a guardia dell’ingresso.
Ancora una volta si pose il quesito in quale epoca era finito e il perché ci era finito. Però non trovava spiegazioni logiche a parte la fantasia che fossero stati quei fantasmi che aleggiavano intorno a lui prima di piombare in un secolo che non era il suo.
Si frizionò con vigore le mani che erano diventate dure come il ghiaccio prima di rimettere i guanti. Sistemò il giustacuore e il piccolo borsello legato in cintura, mentre si avvolgeva nel mantello di ermellino per meglio proteggersi dal freddo.
Tornò a osservare le due donne, che sembravano più a loro agio nel gelido ambiente. Uno sguardo complice scoccò tra lui e quella coi capelli scuri e il viso rotondo. Gli parve di riconoscere un implicito invito ad andare da loro.
“Fantasie, Giacomo. Fantasie” si ripeté continuando a fissarle.
“Perché mai dovrebbero aspirare alla tua compagnia? Loro ti guardano perché sei la sola persona presente in questa gelida sala”.
Distolse lo sguardo ma percepì il loro su di lui e tornò a osservarle, quando la più giovane avvolta in un mantello di volpe rossa si alzò muovendosi verso di lui.
La lingua gli pareva che si fosse seccata mentre deglutiva vistosamente.
“Messer Giacomo” disse con tono lieve la dama.
“Sì” fu l’unica risposta che gli uscì dalle labbra.
“Messer Giacomo, la contessina Giulia la invita al suo tavolo” e allungò una mano per pregarlo a seguirla.
Giacomo si alzò e con un inchino omaggiò la dama.
Adesso conosceva il nome della sconosciuta. Era ancora poco ma un passo alla volta e avrebbe scoperto dove si trovava e il perché.

Capitolo 2 – I fantasmi

Tolse dalla tasca il foglietto che aveva ripiegato con cura, leggendo le altre note che aveva scritto.
“Se le chiedo di portarmi anche questi volumi, credo che abbia un travaso di bile. Vediamo questo libriccino cosa dice. Poi si vedrà. Ha parlato di quattro pagine. Boh! cosa mai ci sarà scritto in così poche righe? Ma ..”.
Si abbandonò sullo schienale non troppo comodo, osservando con attenzione la sala. Sembrava restaurata di recente. I colori delle parti lignee erano risplendenti con grandi quadri appesi in alto. I tavoli, allineati lungo le pareti come in un grande refettorio, avevano alle spalle centinaia di libri, ordinati negli scaffali.
Il tempo comunque non passava mai così che cercò di ingannarlo prendendo appunti per riordinare le idee sulle prossime mosse e fissare una specie di percorso.
Estrasse dalla giacca un libretto rosso, chiuso con un elastico, tipo moleskine, che depose dinnanzi a sé, mentre da una tasca interna prelevò la fida Hastil dell’Aurora.
Cominciò a tradurre le idee in tanti flash sintetici, una sorta di brainstorming casereccio. Sperava che da questo nascesse un’idea vincente.
«Laura Dianti, Via Lollio 15, già via Spazzarusco ..».
Si fermò a pensare perché questa via in quei lontani anni si chiamava così. “Un nome singolare senza dubbio. Però pare che avesse anche un altro nome ..  Cagarusco. Beh! è meglio il primo ..” rifletté appoggiando la stilografica sul libretto rosso.
Alzò lo sguardo, perché aveva avuto la sensazione che qualcuno lo stesse osservando. Eppure erano solo in quattro nella sala: le due studentesse, che bisbigliavano tra di loro, la bibliotecaria, che pareva incurante della sua presenza, e lui, che riorganizzava le idee.
“Eppure quella sensazione era reale. Percepisco che qualcuno mi sta osservando. Ma chi?” disse scuotendo il capo e tornando all’occupazione precedente. Però quella percezione non lo abbandonava ma cresceva lentamente, mettendogli uno stato d’ansia.
Tornò a esplorare la sala: solo il brusio delle due ragazze e il discreto ronzio della postazione multimediale rompevano la quieta della stanza. Credette di sentire fantasmi del passato, perché gli stavano intorno per raccontare qualche storia. Era proprio quello che ignorava.
“No, no. Sono solo fantasie. Eppure ..” replicò a queste impressioni per scacciare i dubbi che lo stavano travolgendo.
Riprese il libretto rosso e continuò ad annotare altri punti.
“Palazzo delle rose, berrettaio, passaggi segreti, castello estense e poi? Amante, figli, il duca Alfonso .. Primo o secondo? Testamento .. Ma c’è stato? Boh! mettiamolo e poi vediamo ..” e si interruppe di nuovo.
Quella sgradevole sensazione di essere osservato o spiato era appiccicata alla pelle. Non riusciva a togliersela di dosso.
“Eppure non c’è nessuno oltre le due ragazze e il cerbero, mascherato da donna, in cattedra. Però questo senso non riesco a eliminarlo. Chi è? Chi sono? Dove sono?”.
Tornò a spaziare con la vista per l’ampia sala. Tavoli vuoti, sedie pure. Sempre e solo le persone che aveva menzionato.
Sollevò lo sguardo verso l’alto. Figure ammantate e riccamente vestite lo fissavano severe.
“No, non sono loro. Loro scrutano e basta. La sensazione è quella di qualche figura che galleggia nella sala. Impalpabile ed eterea. Insomma uno o più fantasmi. Che ne abbia risvegliato più di uno?”
Una breve risata, smorzata immediatamente, comparve sul suo viso. La fantasia non mancava a Giacomo, ma poteva giocargli dei brutti scherzi. Tornò al suo libriccino rosso senza troppa voglia. Ormai la sua mente era pervasa da queste emozioni che lo stavano ammantando in una tela che sembrava quella creata da un ragno gigantesco durante il corteggiamento nuziale.
Provò a concentrarsi sul libretto rosso senza troppa fortuna.
“Speriamo che questo libro arrivi presto, se non voglio diventare matto, inseguendo improbabili fantasmi”.
Come per magia si sentì trasportato in un’altra dimensione. Era sempre in questa sala ma le ragazze erano vestite in modo strano: un corpetto bianco che stringeva sul seno fino quasi a debordare, una gonna ampia e ingombrante come se fosse impacchettata. I capelli erano raccolti in una treccia che formava un curioso nido. Ridevano e parlavano protette da un vistoso ventaglio di piume di pavone.
Il cerbero era sparito come la relativa postazione. Solo un uomo vestito con una foggia che non conosceva stava rigido dinnanzi all’ingresso. La postazione multimediale era diventata uno scrittoio antico. Ingombro di fogli bianchi e di un calamaio che gli ricordava quello che usava alle elementari.
Giacomo si domandò dove era capitato. Le pareti erano ricoperte di libri più antichi di quelli che la sua mente rammentava con rilegature in cuoio scuro e scritte dorate.
Alzò lo sguardo verso il soffitto e non vide più i quadri con quei visi severi.  Ce ne erano degli altri a lui sconosciuti. Un grosso candelabro con grosse candele di cera troneggiava nel centro del soffitto. Sui tavoli c’erano lumi a olio al posto delle lampade verdi. Nel camino ardeva della legna per riscaldare l’ambiente. Però il freddo era pungente appena mitigato dal fuoco.
Si guardò intorno smarrito e frastornato. Gli pareva di essere finito in un’altra epoca, molto distante dalla sua. Il cappotto era sparito. Sulla sedia stava un elegante mantello di ermellino. Lui sembrava un paggio dentro un vestito che non riconosceva come suo. Avvertì un brivido di freddo e si avvolse nella pelliccia.
Osservò le ragazze che gli parevano ora più vecchie di quello che ricordava. Erano sempre giovani ma più mature. Anche loro avevano sulle spalle un prezioso capo rossastro, che assomigliava tanto a una pelle di volpe, per proteggersi dai rigori invernali.
Si alzò deciso a scoprire dove si trovava e si avvicinò alle due dame, che continuavano nel loro chiacchiericcio.
“E poi cosa chiedo loro? Dove sono? E quando l’ho saputo, cosa faccio?”.
Cambiò traiettoria e si avvicinò a una grande vetrina dove erano riposti grandi volumi di cuoio scuro.
L’uomo che stazionava vicino alla porta si approssimò chiedendogli cosa desiderasse.
“Quel volume, lì” disse Giacomo indicando un grosso tomo dove campeggiava una scritta in latino «Vita Beati Ioannis Tosignani Episcopi Ferrariensis» e MDVI come anno.
“Subito, messer Giacomo” replicò estraendo un robusto mazzo con molteplici chiavi.
Lo osservò stupito con quanta destrezza avesse scelto la chiave giusta.
“Dove glielo metto, messer Giacomo?”.
Indicò un tavolo vicino a una finestra che dava sul cortile interno. Si sedette e cominciò a sfogliarlo con lentezza senza curarsi di leggere le pagine, che si muovevano come mosse dal vento.
La mente era in subbuglio. Qualche conto non tornava ma doveva esplorare quella nuova dimensione. Quel numero romano gli dava molto da pensare.
“Dove sono finito?” si interrogò confuso.

Capitolo 1 – Un lunedì mattina ..

Lunedì 16 Gennaio, 2012
Quel lunedì era triste e uggioso, pareva più una giornata novembrina che un giorno di gennaio. Una nebbia umida e fredda si attaccava ferocemente al viso e alle mani, tendendo a cristallizzarsi sulla pelle, sul cappotto blu.
Un uomo non molto alto camminava svelto in via Mazzini diretto alla biblioteca. I capelli bianchi spiccavano nel grigiore della mattinata. Immerso nei suoi pensieri non si accorgeva di quello che stava attorno a lui. Pensava a un articolo letto il giorno prima ed era curioso di mettere le mani su quel libretto.
“Chissà se ci riuscirò?” bofonchiava mentre si asciugava il naso gocciolante. Il freddo e l’umido stavano giocando brutti scherzi alle sue narici.
Arrivato dinnanzi al portone, si soffermò ripensando a molti anni prima quando lo varcava da studente.
Scosse il capo, perché per i flashback c’era tempo. Adesso doveva entrare e leggere quel vecchio resoconto.
“Una pazzia, la mia. Una pazzia senile” si disse mentre spingeva la vetrata per entrare.
Tutto era cambiato, nulla era rimasto intatto.
Si avvicinò al punto dove si chiedono in prestito i libri con un pizzico di ansia.
“Vorrei consultare il libro di Girolamo Negrini ..” disse con un filo di voce appena accennato.
“Quale libro?” replicò una signora con tono freddo da piccola burocrate.
Giacomo deglutì vistosamente, perché il titolo non lo conosceva. Aveva informazioni scarne: una data e un contenuto approssimativo.
“Veramente ..” cominciò balbettando come uno scolaro scoperto impreparato. “Vede .. credo che sia del 1841 .. Insomma il titolo non lo conosco ma parla di certi cunicoli che partono dal Castello Estense. Chiedevo se era possibile consultarlo”.
La bibliotecaria lo guardò male.
“Di lunedì mattina e, per di più all’inizio del turno, doveva capitare questo scocciatore! Non poteva starsene a poltrire nel letto invece di venire qua con delle richieste assurde ..”
Erano questi i primi pensieri che sgorgarono nitidi e istintivi, mentre cominciava la ricerca col nome dell’autore. Sullo schermo apparvero tre titoli.
“E moh! Quale dei tre?” si domandò accentuando la voglia di mandarlo a quel paese.
Doveva trattenersi per non guastarsi il resto del turno e non creare un caso. Aveva già avuto dei richiami per essersi mostrata scortese, almeno questa era stata l’opinione di qualche utente, che aveva protestato vivacemente con i suoi superiori. Era prudente trattenere la lingua e non dire nulla.
Giacomo, nel frattempo si dondolava ora su una gamba ora sull’altra per cercare di moderare l’impazienza e il nervosismo. Osservò la donna che decisamente stonava nell’ambiente.
“Perché?” si chiese per ingannare l’attesa.
“Almeno fosse stata una bella ragazza .. Due battute, un complimento e forse meno acidità. E vabbé accontentiamoci di questa grassona, che pare abbia ingoiato una scopa che le sia andata pure di traverso”.
La donna lo guardò sollevando gli occhi dal monitor.
“Cosa conosce di questo libro?”  lo interrogò freddamente e con acrimonia.
Lui si era perso a osservare un paio di studentesse che si erano accomodate alle postazioni multimediali. Si era distratto perdendosi la domanda rivolta. Gli parve di udire qualcosa in lontananza e girò gli occhi verso la bibliotecaria.
“Non c’è paragone” rifletté prima di prestarle attenzione.
“Ma guarda un po’ cosa mi doveva capitare di lunedì mattina alle nove! Un vecchio sporcaccione che guarda con occhio lascivo e libidinoso quelle ragazze che potrebbero essere sue figlie. Un pedofilo, immagino” ringhiò rabbiosa l’altra dentro se stessa.
“Mi scusi ma mi sono distratto un attimo ..”
La donna lo guardò ancora più sinistramente, perché con tanto candore ammetteva di essersi distratto guardando delle ragazzine, che parevano il ritratto del candore giovanile.
“Le ho chiesto cos’altro conosce di questo libro” replicò stizzita e arrabbiata, cercando di moderare i toni.
Giacomo estrasse da una tasca un pezzetto di carta ripiegato in più parti, dove aveva appuntato delle note.
Disse leggendo ad alta voce. “L’anno di pubblicazione”.
“E allora si sbrighi a dirmela. Qui si fa notte. Non ho molto tempo da perdere. E poi ..” e stava per aggiungere «Non vede che coda c’è dietro di lei?». Però si trattenne perché era l’unico richiedente. Oltre a lui e le studentesse non c’erano altre persone
Lui abbassò gli occhi sul post-it giallo e lesse l’anno.
“Ah! E’ questo .. «Descrizione analitica di un sotterraneo che costeggia li muri a tramontana della fossa dell’estense Castello di Ferrara”» .. Solo quattro pagine? Se lo vuole consultare, lo può fare solo qui”.
Giacomo stava per aggiungere qualcosa, quando la donna lo precedette.
“E’ un libro antico da maneggiare con cura. Niente fotocopie, né lo può portare nella sala di lettura. Si deve sistemare in un tavolo libero di questa sala”.
Lui si guardò intorno. Di tavoli c’erano pochi tutti liberi in quel momento.
“Almeno posso prendere appunti oppure è vietato?” replicò con voce vagamente ironica. Quella donna gli stava decisamente antipatica e forse anche di più. Sospirò in attesa della risposta.
La bibliotecaria contò fino a dieci prima di rispondere. Il primo pensiero era stato di mandarlo a quel paese senza troppi giri di parole ma si trattenne con grandi sforzi.
“Le ho detto solo che non può chiedere di fotocopiarlo e che lo deve maneggiare con cura” rispose astiosa.
Dentro di lei ribolliva il sangue. Doveva fare sforzi sovrumani per non sbottare e sperava che si cavasse dai piedi al più presto.
“Dunque lo vuole oppure ha cambiato idea?”
Giacomo annuì, mentre lei chiedeva se era un utente registrato. Al diniego la bibliotecaria sospirò.
“Pure devo registrarlo. Altra palla. Ma doveva proprio capitarmi un lunedì mattina alle nove un tipo come questo?” e cominciò a introdurre i dati.
“Che faccio? Aspetto qua oppure ..” chiese umilmente.
“Può cercarsi un tavolo libero e aspettare che le portino tra mezz’ora quello che lei ha richiesto”.
Giacomo scelse l’unico tavolo d’angolo da dove poteva tenere d’occhio ingresso e sala. Si tolse il cappotto che appoggiò sulla sedia e cercò con lo sguardo la postazione dei quotidiani. Nella fretta di recarsi in biblioteca non aveva comprato nulla e adesso doveva far passare il tempo.