Eccomi col consueto appuntamento del giovedì su scrivere creativo col il mio tassello alla storia di Sofia. L’intera storia la trovate su https://scriverecollettiva.wordpress.com/2015/02/26/fino-al-32-giorno-oggi-gianpaolo/
Buona lettura
25° giorno di scrittura collettiva
La madre non capiva né l’eccitazione di Sofia, né quel ghigno quasi di soddisfazione, mentre infilava le scarpe e prendeva al volo la borsa. “Cosa è successo, diamine, me lo puoi spiegare?” chiese Jessica allarmata e innervosita dal comportamento della figlia. Lei non rispose, alzando le spalle: ci sarebbe stato tempo per le spiegazioni nel taxi, che stava chiamando indispettita, perché non rispondeva nessuno.
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La storia completa in evoluzione la trovate su ScrivereCollettiva.wordpress.com
Ecco il quarto pezzo, scritto da me, per la storia di Sofia, un racconto composto da 14 mani e sette teste.
Incubo
18° giorno di scrivere collettiva
Il perizoma nero – seconda parte
Il perizoma nero
Sette sei quattro
“Devi trovare l’equilibrio tra i doveri e la tua libertà. Devi dedicare un po’ del tuo tempo a quello che ti appaga, che e solo tu. Devi staccare la spina per un po’ … Sempre sotto tensione ti mette a rischio di un corto circuito. Finirai bruciata come si legge sui giornali”.
Camminavo a testa bassa, gli occhi fissi a terra, solo qualche sguardo buttato in avanti e subito ritratto, mentre ascoltavo queste parole. Rimasi in silenzio senza rispondere. Sapevo che aveva ragione
“Non puoi continuare a vivere la tua vita in funzione degli altri! Vuoi deciderti una buona volta a mettere in primo piano la tua persona. Per una volta assegnati il ruolo principale di questa commedia che chiamiamo vita. Guarda mi verrebbe proprio coglia di dire ‘unico protagonista’ e gli altri … ‘tutti affanculo‘”.
Ascoltavo Anna, senza interromperla, a tratti sorridevo, perfino, dentro di me. Diceva parole sante ma non facevano parte dei miei pensieri.
“Sei strano, sai, Andrea. Sei proprio un tipo singolare. Severo ed egoista con te stesso, disponibile e sempre possibilista con gli altri. Sei quasi maniacale e ossessivo in quanto a rispetto verso gli altri, nel significato più ampio che può essere attribuito al termine. Sei riflessivo ma anche istintivo, con impennate di imprevedibilità fuori dal comune.”
Eravamo quasi arrivati alla fine del viale alberato, a una decina di passi da un incrocio, dove, girando a sinistra dopo poche centinaia di metri, saremmo giunti in piazza Saturno, la piccola tonda, come la chiamo. E’ un cerchio perfetto, delimitato da colorate facciate di palazzi con balconi e finestre che sputano fiori, una serie di negozietti, perlopiù di artigiani, un paio di gallerie d’arte e un bar.
“Io sono preoccupata per te Andrea. Vorrei, per una volta, che tu mi garantissi che penserai seriamente al tuo stato fisico, alla tua ‘salute di vita’, perché…”
Presi la mano di Anna e la interruppi. Dovevo mettere fine a quella paternale.
“Vieni, vieni … ti faccio assaggiare una delizia, per la quale le tue papille gustative mi eleggeranno a loro guida spirituale, poi… vorrei farti vedere un quadro”.
Rise e scosse il capo. Aveva compreso tutto.
“Sei un eterno Peter Pan!” aggiunse, dandogli un buffetto sulla guancia.
“Perché?” le risposi sorridendo senza lasciarle la mano.
Anna cercò invano di divincolarsi dalla stretta di Andrea.
“Mi fai male” disse con tono piagnucoloso, senza che in effetti lo volesse fare.
“Ma no! Tu mi vuoi scappare!”
“Magari! Ti conosco da una vita e, anche volendo, non potrei! Ma dimmi cosa vuoi farmi gustare e vedere?” domandò curiosa. Sapeva che ero imprevedibilmente originale in certe occasione e questa sera lo ero.
“Vieni con me e potrai giudicare”.
Anna conosceva Andrea da quando i ricordi erano diventati nitidi. Avevano percorso insieme tutte le tappe scolastiche dall’asilo nido al Liceo. Sempre insieme come fratello e sorella. La ragazza ricordava come all’asilo lui la difendeva dalle prepotenze degli altri bambini, perché piangeva sempre e voleva la mamma. Avevano stretto un sodalizio fatto di complicità senza parole. Era sufficiente uno sguardo per stabilire il contatto, trasmettersi il messaggio o di aiuto o di approvazione. La madre di Anna non aveva visto di buon occhio l’amicizia di questo bambino più robusto rispetto i coetanei, un po’ manesco e pronto alla baruffa. Poi vedendolo come coccolava la figlia e con quanta delicatezza la trattava, cambiò idea anche se le rimaneva qualche dubbio sul fatto che i due bambini vivessero in simbiosi. Con gli anni si rassegnò vedendo che era una vera amicizia.
“Dove mi stai portando?” gli chiese la ragazza un po’ spazientita dalle arie di cospiratore di Andrea.
“Ancora qualche passo e poi tutto sarà chiaro” risposi sicuro.
Eravamo usciti dalla piazza tonda, infilando un vicolo stretto e perennemente in penombra, anche quando il sole era alto a mezzogiorno. Lo chiamavano via ma per noi era il Vicoletto. Il vero nome lo ignoravamo come tanti altri della nostra piccola città. Ogni via, ogni angolo aveva il proprio nick. Così come c’era la piazza tonda, esistevano il vicoletto, l’angolo dei quattro gatti, la via degli spiriti, il viale del tramonto e il vicolo degli innamorati. Li avevamo battezzati così, quando ancora bambini giravamo curiosi per la città e non ci importava conoscere i loro veri nomi.
“Dove stiamo andando” gli chiese curiosa e stanca di questa misteriosa destinazione.
Si fermò decisa a non muoversi dal Vicoletto, finché non avesse rivelato l’obiettivo di quella camminata. Andrea strattonò invano la sua mano ma resistette anche se aveva provato un dolore lancinante al polso. Lo avevo compreso dalla smorfia dolorosa del suo viso. Mi ero spaventato, perché non era da me essere violento, soprattutto con lei.
“Anna, non fare la bambina” l’ammonì bonario. “Fidati e seguimi. Vedrai la sorpresa”.
“Lo sai, Andrea che le sorprese non mi piacciono molto” rispose piccata.
“Sei unica e per questo mi affascini!” replicai divertito, mentre tentai di farla spostare da dove si era fermata.
“Non riesci a commuovermi”.
“C’è solo una donna al mondo che non ama le sorprese” dissi col tono più serio che serbavo per le occasioni speciali.
Una breve risata interruppe quel divertente dialogo.
“E va bene, ti seguo” concluse scuotendo la chioma riccioluta.
“Dobbiamo arrivare alla piazza quadra. Contenta ora?” le risposi.
Anna gli scoccò un bacio di ringraziamento. Riprese a camminare al mio fianco. Non dovevo più trascinarla con la forza.
“Perché cosa c’è di interessante nella piazza quadra?” domandò Anna.
“C’è il sette”.
“Il sette? Ma lì c’è il nulla. Nemmeno un albero. Solo asfalto” replicò dubbiosa.
“Fidati. C’è il sette!”
La ragazza scosse la testa, mentre giravano per via del ragno.
“Ma non è la direzione giusta” protestò energicamente, fermandosi nuovamente.
“Dobbiamo vedere il sette!” risposi infastidito.
“Ma lo hai detto tu. Nella piazza quadra non c’è” disse, riprendendo il cammino.
“Abbi fede. Lo vedrai il sette”.
Arrivati nella piazzetta dei pantaloni, le mostrai uno strano oggetto che assomigliava vagamente a un sette rovesciato.
“Ecco!” le dissi.
“Mi prendi per il culo?” replicò, guardandomi fisso negli occhi.
“No. Non me lo permetterei mai” risposi con calma, ridendo perché aveva compreso che non era il sette che cercavamo.
Le presi la mano e cominciai a correre. Avevo poco tempo. Appena due ore.
“Perché corriamo come due ragazzini?” mi domandò con fiato grosso.
“Risparmia le parole. Ti spiegherò tutto, quando siamo arrivati”.
Sbucati finalmente in piazza quadra, stanchi, accaldati e sudati per la folle corsa, la condussi al civico 6. Una bella targa in ottone ‘Osteria delle sette chiese‘.
“Vedi ancora il sette. E’ un numero magico come le pleiadi e tanto altro” le dissi soddisfatto.
“Tutto qui?” replicò delusa.
“No. Ora diamo la caccia al sei”.
“Ma è qui, davanti a noi” rispose basita.
“No. Quello è un semplice numero”.
La ragazza non mi capiva.
«Cosa stiamo cercando?» mi domandò, mentre rifiatava.
Infilato il vicolo delle miserie, sbucarono nuovamente nella piazza tonda.
“Ma siamo al punto partenza!” esclamò sorpresa.
“Abbiamo in pugno il sei!” replicai.
“Non sono scema!” replicò infastidita.
“Nessuno lo può affermare. Anzi hai un’intelligenza superiore alla media” aggiunsi, baciandola.
“Lasciami, traditore!”
“E no! Non ti baratterei nemmeno per il sei!”
“E perché?” mi domandò con gli occhi che brillavano.
“Per la smorfia il sei è l’organo genitale femminile …”.
“Sei uno screanzato!” mi disse interrompendomi.
“Non ci credi? Consulta la Smorfia e vedrai”.
“E va bene ma mi hai detto che non mi baratteresti col sei …”
“Appunto. Ti ritengo superiore” ribattei sorridente. “Per la cabala, per un gioco di numeri, bereshit corrisponde alla parola Dio. E’ una specie di scioglilingua che ti risparmio”.
Anna mi guardava come se fossi improvvisamente impazzito. Prima una corsa perdifiato, poi questa affermazione su una parola misteriosa aveva avuto il potere di destabilizzarla.
Si sedettero su una panchina sotto un olmo secolare.
“Per la numerologia il sei è il cammino della vita”.
“Interessante è tutto questo. Ma continuo a rimanere ottusa” disse con un sorriso poco convinto..
“Il tuo nome è palindromo …”.
“Calma, calma. Cosa significa questo?” chiese curiosa e interessata.
“Può essere letto in entrambi i sensi” risposi con un bel sorriso, mentre le tenevo la mano con delicatezza.
“Non ci avevo mai fatto caso” replicò mortificata. “Ma non ci arrivo lo stesso”.
“Usando l’alfabeto numerico Anna corrisponde a 1+5=6 due volte”.
“Ma quante cose sai” mi disse ammirata.
“Però. Ora viene il difficile” affermai con una punta di apprensione.
“Perché?” mi domandò.
“Dobbiamo andare in cerca del quattro”.
“Non ho capito questa ricerca, che mi sta facendo girare in tondo come questa piazza” replicò indispettita.
“L’osteria delle sette chiese ti hanno permesso di gustare qualcosa fuori del comune. La piazza tonda ci ha fatto stare bene, in pace con noi stessi. Ma è il quadro, il famoso quattro che manca all’appello” aggiunsi con tono mortificato.
“Quale quadro?”
“Quello che ti ho promesso all’inizio di questa avventura sconclusionata. Non ricordi?”
“Ma sì, che me l’hai detto ma sono passate quattro ore da quando giriamo in tondo per le vie e le piazze di questa città”.
“Quattro ore?” le chiese recuperando la speranza di concludere il tour.
“Non vedi cosa segna l’orologio tondo? Sono le 18 e siamo partiti alle 14. Quindi quattro ore tonde tonde”.
“Sei un tesoro, Anna” le disse stampandole un bacio sulle labbra.
“Però non mi sposi, Andrea”.
“Che importa! Ci vogliamo bene come fratello e sorella”.
“Beh! Io preferirei che fosse di altro tipo … L’incesto non mi va” concluse amaramente.
“Ci sono!” gridai alzandomi. “Torniamo alla piazza quadra. 4 lati uguali”.
Phantom, il pesciolino rosso
Mi chiamo Phantom e sono un pesciolino rosso. Direte ‘non mi sembra una notizia originale. I pesciolini rossi si vincono al Luna Park e stanno buoni buoni in una boccia sulla mensola del salotto‘.
In effetti avete ragione ma i pesciolini rossi stanno anche nelle vasche del parco pubblico e si nutrono di larve di zanzare. Di solito l’acqua non è mai troppo pulita e noi scoloriamo in fretta. Qualche bambino ci getta pallottoline di pane che cerchiamo di mangiare. Però non è il caso mio. Sono stato vinto al Luna Park da un signore uomo che per sbaglio ha centrato il mio vasetto con una pallina colorata e così sono finito qua, in questa palla di vetro. Già stavo stretto in quella del baraccone, qui non va meglio.
Perché? Direte ancora voi. Uffa come siete saccenti. Odio stare rinchiuso in una bolla piena d’acqua. Sono un pesciolino che gli piace nuotare libero e spensierato nel mare con i suoi simili. Non mi pare di chiedere la luna. I pesci stanno a mollo nel mare e non dentro vasi panciuti e trasparenti. Capito? Chiuso lo sfogo, proseguiamo nel racconto.
I miei padroni non mi sono molto simpatici. Assomigliano perlopiù a degli ippopotami pelosi e obesi. L’unica cosa positiva è il cibo, perché me ne danno sempre più del dovuto.
Mi annoio a girare sempre in tondo e vedere il mondo deformato ma … ecco vi racconto cosa è successo un giorno di primavera dell’anno scorso, mentre i raggi del sole filtravano nell’acqua. Non saprei da dove cominciare, perché è una cosa singolare da narrare.
Il mio padrone uomo è arrivato con una donna che non avevo mai visto. Appariva molto strana ai miei occhi: lunghi capelli biondi tutti riccioluti e due protuberanze che erano molto più grandi dell’ampolla in cui sto dentro. Almeno questa era l’impressione che ne ho ricevuto. Indossava una gonna rossa molto piccola, diciamo uno straccetto che non copriva nulla, e calzava degli stivali con tacchi sottili come spilli, alti più di una spanna. Mi pare di udire una voce che commenta in negativo questa descrizione. Che provi lui a venire dentro a questa boccia e poi vedrà come il mondo è diverso da quello fuori. Chiudiamo questa parentesi e proseguiamo.
Non sapevo chi fosse e neanche che lavoro facesse ma mi è venuto qualche sospetto. Il mio padrone e la tizia si sono messi sul divano e hanno iniziato a fare manovre che all’inizio non sono riuscito a comprendere. Lui stava sopra e lei sotto. Lo straccetto in pratica non esisteva più. Sentendo i gridolini di lei e gli sbuffi di lui, ho capito tutto: stavano facendo sesso senza pudore dinnanzi ai miei occhi. Mi sono fermato e non ho più girato in tondo. Sono restato in apnea per due minuti buoni, prima di salire in alto a prendere fiato. Stavo scoppiando e un secondo in più mi avrebbe portato sul fondo senza vita. Ero sbalordito.
Non riuscivo proprio a crederci, il mio padrone stava tradendo la padrona! Avrei voluto telefonarle ma non esistono telefoni per pesci. Quindi ho scartato l’idea. Mi stavo arrovellando il cervello sul come avvertirla, quando il padrone e la tizia dopo aver massacrato il divano, se ne sono andati tutti soddisfatti. Mi sembra, ma non ci giurerei, di avere visto uno scambio furtivo di banconote. Ero agitato come se fossi stato morso dalla tarantola ed ero arrabbiatissimo.
Quello che non sapevo, era che la parte più divertente doveva ancora arrivare. Ero già arrivato al centesimo giro della boccia. Il solito spocchioso riderà perché crede che i pesci non sappiano contare. Invece io sono un pesciolino rosso istruito. Ho letto Lolita insieme al mio padrone e ho imparato a contare fino a cento e distinguere le banconote da cinquanta da quelle di dieci dalla mia padrona. Lei si mette sempre sul divano e, umettandosi le dita, conta ad alta voce, sfogliando dei mazzetti colorati. Chiaro? Ma proseguiamo, perché le sorprese quel giorno non sono finite.
Sul più bello la porta di casa si è aperta di nuovo. Ho aguzzato la vista e ops! Cosa vedo? La padrona era entrata con un tizio che non avevo mai visto. Si sono spogliati in fretta e sono rimasti nudi, prima di gettarsi sul divano, ancora caldo da prima. Non potevo credere ai miei occhi: facevano lo stesso lavoro della donna e del mio padrone. Si stavano tradendo a vicenda! E io che avrei voluto chiamarla, informarla! Che anima ingenua ho!
Ero tutto intento a riflettere su quanto era accaduto e ascoltavo la padrona urlare, non ho capito se per la gioia o per il dolore, quando la porta si è riaperta. Sono rimasto strabiliato: il mio padrone era accompagnato da una tizia vistosa dai capelli rossi, diversa da quella precedente. I miei padroni si sono guardati in modo strano. Poi si sono messi a ridire e tutti e quattro sono finiti sul divano. Facevano un orgia!
Non ci potevo crederci. Senza nessun pudore facevano sesso a quattro!
Ero ancora incredulo a quella visione, quando ho visto tremare tutto quanto. Mi sono domandato se fosse colpa di quei quattro scalmanati sul divano, che avevano provocato un piccolo terremoto. Mi sono sbagliato. Era Mustafà, il pesce palla che mi scuoteva con violenza.
Mi sono svegliato e mi sono reso conto che è stato solo un sogno. Non ho mai vissuto con padroni strani, non ho mai visto un tradimento in contemporanea e vivo felice in un luogo bellissimo, chiamato mare.
L’unico posto dove sono nato e cresciuto e dove nuoto libero. Vi state domandando se anche i pesciolini rossi sognano. Senza dubbio! Solo che i bipedi umani lo ignorano. Sono veramente buffi quando nuotano accanto a me: goffi, impacciati, sempre pronti a emettere bollicine e poi portano strani oggetti e non hanno pinne né squame. Dunque dico che anche noi sogniamo ma più che un sogno è stato un incubo. Quattro bipedi ansanti e rantolanti, che si avvinghiavano tra loro, stavano uno sopra l’altro come una massa informe. Uno spettacolo poco edificante.
Mi sono sempre chiesto se vivere in una bolla sia terribile come mi è apparso nel sogno. Credo proprio di sì! Non mi piacerebbe provare l’emozione.
Uffa! Ancora un bipede che si aggira nei dintorni. Salem, un pesce pappagallo, mi ha detto di aver passato uno spavento non da poco quando aveva visto un bipede armato di un arnese trasparente e con dei buchi, dove per poco non ci finiva dentro. Un colpo di coda ed era sgusciato via, nascondendosi dentro un anemone rosa. Però una volta ho visto un bipede armato con uno strano strumento che sparava saette d’argento. Ha beccato Zalim, una vecchia cernia grossa dieci volte me e forse anche di più. Si era dibattuta inutilmente e poi era sparita, trascinata via dal bipede.
Questi umani sono veramente infidi e sporcaccioni. Dovrò fare attenzione. Adesso vado a fare una riverenza a Madame Noir, la bella seppiolina.
“Ellò, Madame. Come va?” le chiedo.
“Non le dico come! Oggi non è giornata” risponde con uno sbuffo di nero.
“Mi racconti tutto. Ho qualche minuto per ascoltarla”.
“Sono io che sono di corsa! Mi aspetta Lord Goffy. Non posso fare tardi. Sai mi corteggia da tempo” dice muovendosi sinuosa. “E’ così affascinante con quella protuberanza sottile sul naso”.
Dovete sapere che il titolato è uno splendido pesce spada ed è ambito da tutte le pescioline del nostro universo.
“La lascio andare dal suo bello” replico con tono dimesso.
Questa notizia mi ha turbato. La vedo andare via, mentre una lacrima si confonde con le gocce del mare.
Lo ore 21
“Ti consegno questa busta con dentro una lettera, non aprirla ora o tra un po’, fallo il giorno della data e dell’ora precisa, che ho scritto sul retro. Due giorni possono sembrare lunghi , un’eternità per la curiosità, che ne scaturisce, ma ti assicuro che passeranno in fretta. Non te ne accorgerai nemmeno. Il tempo vola e non rallenta mai. Un’unica raccomandazione: segui alla lettera le mie indicazioni, perché questo lasso di tempo mi serve per portare a termine un paio di cose, che ho in mente”.
Era un sabato quel giorno, quando gli ho detto queste parole. L’ho guardato con decisione negli occhi prima di salutarlo. Alex mi ha guardato sorpreso e avrebbe voluto pormi delle domande ma non gliene ho lasciato la possibilità.
Molte volte ci avevo pensato ma poi mi è mancato il coraggio. Adesso ero risoluta, ero sicura di riuscire nel mio intento e ne ero più convinta che mai. Non volevo più aspettare e rimandare a un’altra occasione quello che avevo in mente. Così gli ho dato un piccolo bacio sulla bocca e me ne sono andata, sculettando. Era talmente basito che non ha avuto nemmeno la forza di fermarmi.
Perché una lettera? Abbiate pazienza e seguitemi nel corso degli eventi. La risposta arriverà alla fine.
Il giorno dopo, domenica, in casa non è rimasto nulla. Mi sono girata intorno e ho guardato tutto con attenzione: avevo tolto e svuotato ogni cosa. Niente era restato: solo muri bianchi e spogli pronti per accogliere il vuoto che ci sarebbe stato da lì in avanti nel tempo.
Non sento più emozioni di nessun tipo, le lacrime le ho consumate tutte, il desiderio è ormai estinto. Sono inespressiva, insensibile, consumata e rassegnata. Sono un’ameba.
Adesso sono le otto e trenta del lunedì sera. Tra mezzora leggerà la mia lettera. E’ chiaro quel che ho scritto. Non ne ho il minimo dubbio. Lui sa che non conoscerò mai il suo commento, né risponderò alle sue domande, che di sicuro vorrà pormi. Senza giri di parole e in maniera esplicita ho avanzato la richiesta, che non sarà necessario che io sia a conoscenza di quello che pensa.
Io attendo solo le ore 21.
«Cosa c’è scritto nella lettera che dovrei aprire lunedì alle 21? Ho letto nei suoi occhi il contenuto. Conosco perfettamente ogni parola. Linda è un libro aperto per me. A volte non la comprendo ma a modo mio l’amo e la rispetto, ma lei?” rifletto mentre mi avvio con lentezza verso casa.
Scuoto la testa, respiro a fondo, ricaccio nell’anima quello che provo per lei. Chiudo alle spalle l’uscio e mi siedo sul divano. Cosa aspetto? Non lo so nemmeno io. Sto qui in silenzio, mentre fuori cala rapidamente la sera e la stanza rimane al buio. Non ho fame, né sete, né sonno. Rimango immobile, avvolto nei miei pensieri. “Perché?” mi chiedo ancora una volta.
La notte scorre lenta, mentre io con gli occhi aperti nell’oscurità notturna cerco di vedere quello non c’è. L’alba del sabato mi coglie ancora sul divano. Non mi sono mosso mai da lì. Il chiarore è grigio e indica che il cielo è coperto di nuvole, esattamente come la mia mente è oscurata da mille pensieri.
Esco di casa. Cammino spedito nel pomeriggio di sabato, che si preannuncia carico di pioggia. Cumulonembi neri corrono veloci nel cielo. Li osservo. Sembra il temporale che lei mi ha predetto per lunedì alle 21. Ancora non ci credo ma dentro di me lo so da tempo che ha deciso e non tornerà indietro. Una folata di vento muove i miei capelli che ricadano sul viso. Li allontano con una mano come se fosse un invisibile pettine. Ormai mancano solo due giorni. Potrebbero sembrare due anni ma so che non è così. Passeranno in un baleno come mi ha detto.
Le prime gocce di pioggia mi bagnano il viso. Sono uscito senza un ombrello consapevole che tra non molto avrebbe piovuto. Ritorno sui miei passi, mentre la pioggia aumenta di intensità. Mi rifugio tra le mura amiche, mentre gli occhi si inumidiscono per il pianto.
Mi siedo sulla poltrona accanto al divano che tante volte ci ha accolto. Mi rifaccio la domanda ‘Perché?‘ e ancora una volta rispondo ‘Non lo so‘. Eppure agli occhi della gente eravamo belli.
“Cosa vuol dire essere belli?” mi domando.
Rifletto un momento prima di rispondermi.
“Francamente non l’ho mai capito ma lo dicono”.
Mi alzo e vado nell’ingresso a specchiarmi.
“Ormai sono vecchio. Qualche filo grigio affiora qua e là tra il castano dei capelli. La fronte è segnata da linee profonde che incidono la pelle. Le rughe ci sono e il sorriso è stanco”.
Mi allontano dallo specchio che mette a nudo tutti i miei difetti. Torno a sedermi e penso.
“Mancano pochi minuti alle 21. Mi alzo. Raccolgo le mie ultime cose senza guardarmi intorno. Non vorrei avere un ripensamento. Voglio essere ferma nelle mie decisioni. Lo so che lui con le mani tremanti starà aprendo la lettera. Adesso sta cominciando a leggerla”.
Linda si alza per avviarsi lentamente verso un punto lontano. Tra un minuto scoccheranno le 21 e Alex saprà.
“Non ne sono certa ma lui di sicuro ha capito tutto” si dice la ragazza, mentre affretta il passo. “Dove vado?”
Una domanda pleonastica. Lei conosce la destinazione e si perde nel buio della sera.
Caro Alex, così comincia la lettera.
Lei lo sa, perché l’ha scritta di suo pugno.
Ride, pensando a lui con le mani nei capelli. Apre la porta, quando ode uno squillo.
“Non posso rispondere. E’ sicuramente lui. Lo immagino. Lascio questa casa vuota come il mio cuore e scendo per la strada anonima e sicura. Cammino con il borsone a tracolla e il telefono spento. Non voglio parlare con nessuno”.
Chiude il portone dell’edificio alle sue spalle, liquidando un passato che non vuole ricordare. Muove i primi passi nella pubblica via.
“Mi scusi” si sente dire da una voce femminile. “Mi perdoni l’ardire ma lei non è Elisabetta Canalis?”.
Si ferma e si gira. C’è una donna di basso livello e di modesta estrazione che la osserva. La guarda come si potrebbe scrutare una persona fastidiosa.
“No, si sbaglia” risponde seccata. «Per chi mi ha preso?» riflette mentre si gira sui tacchi.
“Eppure …” insiste noiosa. “Eppure mi sembra lei. Sa quella soubrettina che ha flirtato con George … Come si chiama? Mi aiuti”.
“George Clooney” le suggerisce acida, mentre mi viene appresso.
“Sì, proprio lui!” esclama portandosi al suo fianco. “E’ un uomo affascinante, vero?”
La guarda come per incenerirla. Se lo potessi, lo farebbe. Non risponde. Riprende a camminare. E’ visibilmente infastidita. Tutta la decisione che aveva nel corpo sta scemando velocemente. Pensa che non ci voleva questa donna petulante.
“Mi dica. E’ un amatore come dicono?” continua come se non ascoltasse le sue parole.
“No!” le urla in faccia. “Non riesce a scopare per nulla!”
“Che peccato! Eppure sembra uno …” e finalmente la lascia delusa.
Sono le ore 21 e con le mani tremanti prendo la busta. Non oso aprirla. Sono incerto se farlo.
“Perché lo dovrei aprire? Ne conosco il contenuto e Linda starà andando incontro al suo destino”.
Mi faccio schifo. Non sono riuscito a trattenerla, né a convincerla. L’ho persa e per sempre. Dovrei fare quello che qualunque uomo dovrebbe fare. Correre da lei e chiederle perdono. Ma sono un pavido e non oso guardare in faccia alla realtà.
Sono le 21 e 5 minuti.
Lascio cadere la busta per terra, chiusa e bagnata.
Dal diario di uno scrittore
Mercoledì 28 febbraio 1973
Mi diede la mano dandomi una pacca sulla spalla.
“Hello, Mr. Longo!” e cominciò a parlare velocemente in inglese.
Lo guardai sbigottito. Non riuscivo a tenergli dietro tra lo slang americano e la velocità con la quale sparava frasi a raffica. La mia scarsa tenuta linguistica mi aveva mandato in tilt. «Game over» diceva la mia mente in overdose anglofona.
“Can you speak slow? I don’t understand that you say” dissi nel mio inglese elementare e scolastico, che faceva uno strano effetto anche a me stesso.
“Of course!” rispose ridendo.
«Ridi, Ridi! Ma non ci capisco un acca!» riflettei, mentre passavamo sotto gli occhi inorriditi del maître, che storceva il naso vedendo i nostri abbigliamenti.
Io ero vestito come un montanaro con pantaloni di fustagno marrone, delle orribili pedule ai piedi e un montgomery verde pisello ma lui non era meno eccentrico.
A ripensarci bene adesso mi viene da ridere e da inorridire allo stesso tempo, pensando cosa indossavo per entrare in un tempio dell’eleganza e dei buongustai. Però ero da scusare, perché, quando ricevetti il telegramma dal mio agente letterario, mi trovavo in uno sperduto paesino del Vorarlberg austriaco tra il Bodensee e Bolgenach per una full immersion della lingua tedesca con altre dieci persone. A dire il vero eravamo in uno sperduto casolare sulle rive del lago artificiale, immerso nella foresta con cumuli di neve alti fino alla finestra del primo piano.
«Milano 20 febbraio 1973 – Presentati martedì 27 alle ore 12 a Vienna in Kärntner Straße 51 – Gerstner Beletage im Palais Todesco. Ho fissato un incontro con Robert Altman per discutere della sceneggiatura del tuo manoscritto Non passava giorno. Roberto» era il testo del telegramma che aveva rischiato di giungere in ritardo.
Il romanzo non era ancora uscito, ricordo bene, ma il mio agente lo aveva piazzato a Hollywood. Mi sono sempre domandato come fosse riuscito nell’impresa di passarlo sottobanco a Robert Altman, al quale era piaciuto e ne aveva acquistato i diritti cinematografici. In effetti era un quesito del tutto inutile, perché nessuno era in grado di darmi una risposta convincente.
L’aspetto buffo era che il dattiloscritto era in italiano, quando lo affidai al mio agente ma quel diavolo di Roberto l’aveva fatto tradurre a mia insaputa e l’aveva trasmesso in America. Un giorno mi dovrà spiegare quale artificio ha usato per farlo leggere a questo famoso regista e produttore.
Da una corrispondenza con Anna, la sua segretaria, sembra che l’assistente del regista, dalla quale passavano tutti i testi per eventuali film, fosse una vecchia fiamma giovanile dell’agente. Sarà vero, mi sono chiesto più volte. Mi dissero che era un’italiana trapiantata in America da molti anni, che lo lesse nella versione originale. Sembrerebbe che lei avesse insistito moltissimo per la sua traduzione. Ma tutto questo restava avvolto nel mistero a parte il fatto concreto che effettivamente era finito tra le mani di Altman.
Come i reali avvenimenti si fossero svolti e quando fosse avvenuto il passaggio del plico cartaceo, non lo seppi mai con precisione, perché nessuno ebbe la bontà di dirmelo. Ricordo solo che firmai un contratto, scritto fitto fitto in inglese, nelle crocette che lui aveva segnato, prima di partire per il Vorarlberg senza pormi troppe domande al riguardo. In realtà non ne avevo di tempo, perché dopo due ore avevo il treno per Innsbruck e questo non avrebbe aspettato che io gli chiedessi cosa stavo firmando.
Altman si vantò quel giorno a Vienna di avere acquistato i diritti per una manciata di lenticchie secche. E tuttora gli credo visto che non ho visto un centesimo di dollaro di royalties. Solo il mio nome, piccolo piccolo, nei titoli di coda alla voce screenplay sotto quello in grande di Robert Altman.
Mi sono sempre domandato perché si fosse scomodato facendo un lungo viaggio da Los Angeles per incontrarmi. Ma forse voleva vedermi di persona o chissà per qualche altro misterioso motivo. Comunque lo vidi e gli parlai per un’intera giornata.
Il telegramma non arrivò il 20 o il 21 come capita di norma nel mondo civilizzato ma solamente lunedì 26, perché le strade erano impraticabili per la neve. Finii nel panico. Dovevo organizzare un viaggio che sapeva dell’avventuroso visto che l’area era sepolta sotto una coltre nevosa, caduta incessantemente da diversi giorni. In questa zona austriaca o non nevicava per niente oppure ne veniva troppa. In quel anno si verificò proprio la seconda sfortunata evenienza. In qualche modo dovevo raggiungere Innsbruck e da lì arrivare fino a Vienna, se volevo incontrare il famoso regista.
L’aspetto più indisponente della questione fu che non avevo un abbigliamento adatto al ristorante più in e vecchio di Vienna, come scoprì a posteriori. Quando partì prima di Natale per questa località sperduta tra i monti e i boschi del lembo più occidentale dell’Austria, mi avevano consigliato di portare solo abbigliamento adatto a un montanaro, perché il mondo civilizzato non distava molto in termini chilometrici ma era lontanissimo come realtà. Era un posto isolato, immerso nel bosco, perché nessuno delle dieci persone potesse usare la lingua italiana. Contatti zero col mondo, a parte il telefono quando funzionava. La posta arrivava se le strade lo consentivano. I giornali solo alla domenica sempre che le condizioni climatiche lo permettessero. Una vita da reclusi, sopratutto nel periodo invernale. E noi eravamo lì proprio in inverno.
Se non nevicava, la casa era a una mezz’ora di strada in macchina o un paio d’ore a piedi dal paese più vicino. Ma se la neve fioccava, serviva una slitta trainata dai cavalli, se questa non era troppo alta, e qualche ora di viaggio al caldo di una comoda coperta di lana grezza. Una slitta a motore era un lusso ed ecologicamente inquinante.
Dunque avevo meno di ventiquattro ore per arrivare a Vienna in orario per l’incontro. Con cuore in gola riuscì nell’impresa e mi presentai vestito in quel modo all’appuntamento. Neppure Altman indossava qualcosa all’altezza del ristorante. Un capello bianco a larga tesa, un paio di pantaloni senza piega dal colore indefinito, un giubbotto di antilope chiaro e una camicia verde sbottonata. Era accompagnato dall’assistente Susie, un’italo-americana, che traduceva a mio uso e consumo in uno strano e buffo italiano annacquato da termini americani quello che Altman diceva. Era quella che secondo informazioni di seconda mano ricevute aveva letto per prima il mio romanzo e aveva caldeggiato la sua traduzione. Avrà avuto circa dieci anni più di me e non era certamente il tipo di donna dei miei sogni.
Il regista aveva quasi cinquant’anni ma li portava bene. Alto, brizzolato con una barbetta alla Buffalo Bill ingrigita. Senza gli occhiali l’avrei scambiato per il mitico Kit Carson, il pard dell’altrettanto famoso Tex Willer.
Aveva vent’anni più di me e francamente non sapevo nemmeno che esistesse, salvo un recondito ricordo di un film che aveva sbancato Cannes qualche anno prima. Si chiamava M*A*S*H, ma frequentavo poco le sale cinematografiche e quindi era solo un vaghissimo cenno sperso tra altri cumuli di informazioni. Non avevo avuto tempo di documentarmi su di lui, perché allora non esisteva Google e nemmeno il personal computer ma solo quegli enormi scatoloni immersi nel gelo che venivamo chiamati calcolatori del tutto inadatti per estrarre delle notizie. In realtà al termine di quei sei mesi da recluso avrei raggiunto Monaco di Baviera per programmare quegli enormi armadi pieni di schede e luci. Ma non è di questo che vorrei parlarvi ma di quel pranzo memorabile.
Dunque entrammo noi tre che assomigliavamo più a spaventapasseri che eleganti ospiti del ristorante. Ci avevano riservato un tavolo d’angolo da dove si poteva dominare l’imponente sala coi soffitti decorati a stucchi, il lampadario di Murano al centro del secondo salone e le imponenti finestre arabescate da candide tende. Consegnato il montgomery all’inserviente rimasi con un maglione grigio e rosso da dove spuntava un’orribile camicia di flanella pesante a quadri rossi e blu.
Mi guardai intorno e mi vergognai come un ladro, colto con le mani nel sacco. Signore eleganti con abiti firmati accompagnati da uomini in giacca e cravatta dal taglio sartoriale. Avrei voluto sotterrarmi ma non potevo.
Nel salone si udiva un sommesso brusio, solo noi tenevamo il tono della voce alto, tanto che qualcuno cominciò a guardarci male. Il pranzo cominciò con qualche prelibatezza e un calice di vino bianco, mentre i camerieri impeccabili nelle loro divise bianche si muovevano con discrezione e in silenzio.
Mangiammo e chiacchierammo a lungo con Susie che faceva da interprete tra noi. Dopo qualche approccio maldestro col mio inglese piuttosto rudimentale riposi le velleità linguistiche e ripiegai sulla donna.
Discutemmo a lungo su alcune parti del romanzo che io avrei voluto includere ma che lui fu categorico nell’escluderle. Avevamo punti di vista differenti ma era il normale gioco delle parti. Io, come autore, cercavo di spiegare il mio punto di vista espresso con le parole della protagonista, Laura, ma lui mi disse che quella parte sarebbe stata solo un preambolo fugace. Era più interessato alla storia di Marco con Agnese, che presentava aspetti più interessanti. Ero disarmato. Il sceneggiatore era lui, io solo l’umile autore.
Ci lasciammo con una vigorosa stretta di mano, dicendomi che questo incontro era stato proficui per le idee che erano sorte e i chiarimenti ricevuti.
“Goodbye, Mr. Longo”.
Non lo sentì più, forse si era pentito dell’acquisto dei diritti. Solo qualche anno dopo scoprì che il film era stato prodotto ma era stato un flop annunciato. Stravolto l’impianto del romanzo, ambientato in una cittadina del Midwest americano con personaggi del tutto dissimili da quelli che avevo ideato, non era decollato.
A dire il vero nemmeno il romanzo che rimase nel mio cassetto non pubblicato ebbe una gran vita. Roberto venne a batter cassa qualche mese dopo ma risposi picche. Lui aveva pescato un po’ di denaro nella vendita dei diritti, mentre io non avevo visto nulla.
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