Si guardarono in silenzio incapaci di parlare. Poi Annie Valentine si alzò dall’amaca e gli prese la mano.
“Vieni”. E lo trascinò verso la veranda.
L’uomo si lasciò condurre docilmente verso il patio laterale della casa, come se fosse guidato da un’entità superiore. Si sistemarono su due poltrone di vimini sempre muti e senza parole.
“Ti aspettavo” disse la donna, tenendogli sempre stretta la mano tra le sue. “Sapevo che saresti arrivato. Oggi è un bel giorno”.
Jack la guardò incredulo, perché non era vero che sarebbe capitato volutamente da lei. Era giunto per caso su quella spiaggia poco frequentata e leggermente nascosta ed era rimasto incerto se fermarsi a salutarla oppure no. Non aveva mai saputo dove abitava dopo essersene andato cinque anni prima in una notte stellata di agosto e lo ignorava tuttora, finché non si era imbattuto nel cottage durante la passeggiata solitaria.
Era stata l’ennesima serata burrascosa tra accuse e pianti, tra difese timide e sguardi infuocati. Così aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella donna affascinante ma decisamente insopportabile. La loro relazione durava da tempo, anche se non ricordava lo spazio temporale preciso. Rifletté «Un anno? Oppure due?» e si chiese se avesse importanza richiamare alla memoria la durata esatta. Concluse che erano solo i ricordi gli aspetti primari da rammentare, il resto erano dettagli insignificanti. Il flusso della memoria prese a fluire come un tranquillo corso d’acqua che placido scende verso il mare.
Era iniziata sotto i migliori auspici, pareva un rapporto solido basato su un feeling preciso: amore e sesso, equamente suddivisi. Lei era passionale e donava tutta se stessa senza calcoli o fini nascosti. Lui aveva colto quella passione ricambiandola con uguale fervore. L’amore era sbocciato come una rosa in maggio: da prima timido e acerbo come un bocciolo, poi in tutto il suo fulgore durante la fioritura ma alla fine era sfiorito, appassendo con la perdita dei petali che malinconicamente cadono a terra fino a rimanere nulla.
Una coppia perfetta che agli occhi degli osservatori esterni pareva perfetta. Lui alto, abbronzato coi capelli biondi, lei esile come un giunco nonostante i suoi trentacinque anni, dalla pelle ambrata come il miele scuro delle api di montagna.
Però dopo poco iniziarono i contrasti, le incomprensioni, le rotture improvvise e le riconciliazioni inaspettate in un caleidoscopio di gesti e di parole. Jack mal sopportava il fare civettuolo di Annie Valentine, sempre pronta a raccogliere i sorrisi e gli ammiccamenti dei corteggiatori. Per lei non c’era nulla di male perché era un gioco a nascondino innocente e casto. Per lui era come se gli lanciasse una sfida che doveva raccogliere per allontanare quei calabroni insistenti. In questa alternanza di chiaro e di scuro, di esserci o nascondersi esternava di essere gelosa, perché lo voleva tutto per sé egoisticamente. Non sopportava che lui osservasse le altre donne, doveva essere sufficiente tutto quello che gli donava.
“Non dici nulla. Hai forse perso la parola?” gli chiese con tono dolce.
“Stavo meditando che la vita è strana e il fato ci conduce la dove meno ce lo aspettiamo” disse osservandola fissa negli occhi.
“Perché?”
“Oggi non dovevo fare questa passeggiata. Avevo un impegno importante, un incontro di lavoro ma all’ultimo istante è saltato tutto. Mi sono ritrovato libero e senza una meta precisa dove andare. Così ho cominciato a camminare per Main Street e soprappensiero mi sono trovato su questa spiaggia solitaria e nascosta. Sono stato incerto se proseguire oppure ritornare verso le vie centrali popolate di persone chiassose e colorate ..”. Fece una pausa per riordinare le idee.
“Continua” lo sollecitò. “Continua il racconto, ti ascolto. La tua voce è musica per le mie orecchie”.
“Percepivo la necessità di riflettere in silenzio su di me e sulla mia vita passata, presente e futura. Quindi ho deciso di proseguire la camminata. Il sole al tramonto, il mare infuocato dai raggi solari che si immergevano nelle acque dell’oceano hanno fatto il resto”.
Jack osservava quel viso che non pareva invecchiare ma rimanere sempre uguale a se stesso: giovanile e senza rughe come se il tempo si fosse fermato cinque anni prima. La fissò prima di porre quell’interrogativo che lo stava tormentando fin da quando era capitato lì. Una domanda stimolata dalla curiosità di conoscerne la risposta.
“Perché sapevi che sarei venuto?” le chiese senza abbassare lo sguardo.
“Il cuore” rispose Annie Valentine. “Il cuore” ripeté con calore.
L’uomo scosse il capo. Non era la risposta giusta. Il cuore può pensarlo ma il destino decide senza tenerne conto. «No. Il cuore comanda la mente ma non il destino» rifletté nell’ascoltare quella parola.
“Come facevi a essere così sicura che sarei arrivato?” le ripose la domanda, perché fosse ben certo che l’avesse compresa.
“Sono qui da giorni, da mesi, da anni in attesa del tuo arrivo senza perdere la speranza di rivedere il tuo viso, di riascoltare la tua voce, di toccare le tue mani. Come puoi osservare la pazienza è stata premiata” replicò pacata.
Trasse un profondo respiro prima di riprendere il discorso interrotto.
“Da quando mi hai lasciato senza concedermi nemmeno il saluto conclusivo dopo l’ultima notte di passione, ho venduto la vecchia casa e mi sono trasferita qui in attesa del tuo ritorno. Sono stati anni bui e silenziosi senza una luce che li rischiarasse. Ho avuto pazienza senza mai perdere la fiducia in me stessa e la speranza che un giorno saresti passato di qui”. Tacque fissandolo senza incertezze negli occhi.
Jack non comprendeva il senso di quelle parole. Si erano lasciati burrascosamente circa cinque anni prima senza mai incrociarsi neppure casualmente. Per lui quel capitolo era chiuso per sempre e aveva cancellato dalla sua mente quel viso morbido e vellutato, quegli occhi luminosi e quello splendido corpo. «Mai e poi mai avrei ricominciato. Ho sofferto troppo per riprendere quel rapporto eccitante e stimolante ma altrettanto snervante e ricco di imprevisti» rifletteva nell’ascoltarla con attenzione. «Ma oggi sono qui e la magia dell’esserci ha preso il sopravvento sulla razionalità del ignorare».
Annie Valentine allora viveva in bella casa di legno sulla Main Street circondata da un giardino ben curato. Adesso era in cottage al limite della battigia, isolato e lontano dal caos chiassoso e dai rumori della città. «Come potevo immaginare di trovarla qui?» si pose nuovamente la domanda che lo stava assillando come un mantra indiano. Scosse il capo perché non poteva crederci che l’avrebbe rivista. Avrebbe giurato che sarebbe uscita dalla sua vita per sempre e non sarebbe mai più rientrata. «Per sempre? Che vacua parola è questa, priva di significato perché per sempre è solo un effimero spazio temporale che dura meno della nostra vita». Invece si ritrovava sulla veranda di un cottage, seduto a osservare quegli occhi, che l’avevano stregato tanti anni prima, con lei che le teneva la mano.
Percepì che il vecchio fuoco non era morto ma covava silenzioso sotto uno spesso strato di ceneri. Era stata sufficiente una piccola scintilla per riattizzarlo, mentre adesso prendeva vigore. Si domandò se era saggio riallacciare i fili del passato, che erano pieni di nodi che non potevano essere sciolti. «Non è pericoloso credere che cinque anni siano passati invano, che ieri è oggi e che oggi sia domani?”. Scosse il capo, perché una forza irrazionale lo stava prendendo per mano per condurlo verso un domani del quale non conosceva i contorni. Non si riconosceva in quest’uomo tanto diverso da quello pragmatico e freddo che era conosciuto da tutti.
Anche Annie Valentine avvertiva l’urgenza di trattenerlo. Era stato l’unico uomo della sua vita al quale aveva donato e dal quale aveva ricevuto qualcosa in cambio, anche se come tutti gli altri l’aveva lasciata. «Poco» si disse «ma sufficiente a scaldare il cuore. Jack non crede che il cuore abbia avuto una grossa parte nel suo arrivo qui. Il cuore comanda anche il destino che si piega ai suoi desideri».
Percepiva che era giunto il momento di piantare le radici, di costruire un futuro non più incerto e nebbioso ma chiaro e limpido. Era forte stavolta la sua volontà di costruire un percorso comune abbandonando i vecchi sentieri fino a quel momento battuti senza apprezzabili risultati. Dovevano tracciarne uno totalmente nuovo ma insieme e con la forza di un sentimento che non era mai morto.
Questa volta non avrebbe offerto il suo corpo per trattenerlo ma sarebbe stato lui a decidere se per il sì o per il no.
Non temeva una risposta negativa. L’avrebbe accettata come aveva accolto tutto quello che la sua vita le aveva offerto fino a quel istante. Nondimeno aveva una certezza perché il cuore non l’aveva mai ingannata come facevano gli altri sensi. Erano mesi che preparava la tavola per due ed erano mesi che la sparecchiava come se fossero in due a cenare.
“Fermati qui con me stasera” gli chiese con un tono dolce e vellutato. “La tavola è pronta. Le candele basta accenderle”.
“E cosa serve per una cena serale al lume di candela?” le domandò ironicamente.
“Solo amicizia ..” e fece una pausa prima di riprendere il discorso. “Se però è amore, ti ritrovi qui a colazione”.
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Una sera a teatro – parte 2 di 2
Iréne si sedette immobile sulla sedia, mentre in lontananza udiva quel suono melodioso che accompagnava i suoi pensieri. Quei lontani giorni adesso sembravano vicini come se fosse ieri. Quel ragazzo gentile, più vecchio di lei di qualche anno, era diventato un uomo, affascinante e gentile. «Se mi vedessero tutte quelle odiose filistee, pronte solo a pettegolare, e quello sciocco di mio marito, smorto come un cencio slavato, capirebbero quanto ero felice a Parigi in quella casa sempre allegra e piena di gente sincera e rumorosa». Era venuto finalmente il tempo di parlare a cuore aperto con qualcuno che stimava e amava. Voleva sentire la sua opinione, cosa avrebbe potuto dirle sulla sua condizione. La musica, che debolmente arrivava alle sue orecchie, accompagnava in sottofondo i suoi pensieri mentre rigida sedeva in quella stanzetta scarsamente illuminata e disadorna.
Avvertì l’aprirsi della porta e lo vide entrare pallido e sudato, ancora fremente per l’impegno nel suonare il fortepiano.
“Jacques” disse accogliendolo. Ma lui la scostò con gentilezza. “Lasciami asciugare il sudore e poi sono da te”.
Dopo qualche attimo le prese le mani e gliele baciò. “Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ti ho vista?” le chiese fissandola negli occhi.
“Troppi” fu la sola risposta che seppe dare.
“Sei veramente una donna adorabile e meravigliosa. Ma raccontami di te” le chiese tenendole sempre la mani con forza.
“Oh, no. Ci vorrebbe troppo tempo e non ne abbiamo a sufficienza” rispose dispiaciuta.
“Allora mi racconterai mentre di accompagno a casa oppure c’è qualcuno che ti aspetta?”
“No, sono sola. Parleremo di noi durante il tragitto” disse.
“Bene. Il tempo di raccogliere le mie cose, salutare qualcuno e poi sono pronto” disse mentre metteva in una borsa qualche oggetto, appoggiato su un tavolino d’angolo.
Uscirono e le disse di attenderlo un attimo. Sparì inghiottito da una porta che nella semioscurità del corridoio si materializzò per dissolversi di nuovo.
Iréne rimase nell’ombra, osservando gli ultimi spettatori che rumorosamente si avviavano verso il portone di uscita. Aveva le guance che avvampavano di calore e per la grande agitazione interiore, mentre la testa le girava per la forte emozione della vista di Jacques.
“Eccomi” disse ricomparendo vicino a lei. “Possiamo andare”.
La prese sotto il braccio mentre scendevano lo scalone appena illuminato da poche lampade, mentre le ombre dei quadri continuavano a scrutarli, disapprovandola..
“Devo chiamare un taxi?” le chiese premuroso, stringendola con calore.
“No. Possiamo fare quattro passi a piedi. La mia casa non dista molto da qui. E poi avrei l’auto poco distante parcheggiata in quella grande piazza laggiù” e indicò col capo un lontano chiarore sullo sfondo di una via diritta innanzi a loro.
L’uomo gettò uno sguardo distratto verso quel punto che non gli diceva nulla e riprese a parlare.
“Dunque raccontami tutto. Come stai? Cosa fai?”.
“Oh, Jacques! Non sai quanto ho sofferto. Mi hanno torturata, imponendomi il loro stile di vita. Non potevo sfuggire alla loro persecuzione. Non potevo scappare, perché ero senza un soldo, nemmeno per affrancare una lettera e chiedere aiuto. Mi hanno costretta a riprendere gli studi, a prendere lezioni di bon ton, a stare in società. Un mondo frivolo e senz’anima, pronto solo a bruciare sul rogo della vanità chi osava starsene ai margini o chi era dissenziente. Avrei voluto fuggire .. Ma dove?”
Iréne fece una pausa per consentire all’uomo di dire qualcosa.
“E’ terribile quello che mi dici. Una condizione orribile”. Tacque per invogliarla a proseguire.
“Ero senza amici, senza nessun col quale confidarmi. Mi sentivo sola. Avrei voluto morire. Bon Dieu, tu poi non immagini cosa dicevano di Alberto, che era il diavolo, anzi il capo di tutti i diavoli dell’universo. Non potevo difendere mio padre, perché secondo loro ero stata la vittima sacrificale di un uomo senza testa e senza ritegno. Riesci a concepire mio padre come se fosse un arcidiavolo? Tu l’hai conosciuto ..”.
“Sì, lo ricordo bene. Un gran uomo pieno di amore disinteressato verso gli altri” e fece un sorriso, mentre la stringeva con maggior vigore.
Erano ancora sotto i portici del Collegio, quando le pose una domanda.
“Ci fermiamo da qualche parte, così possiamo continuare la nostra chiacchierata al caldo?”
“No. Se non hai fretta possiamo fermarci nella dependance della mia villa. E’ l’unica cosa che possiedo. E’ tutta mia e là mi rifugio per ritrovare me stessa”.
Camminarono spediti lungo il viale, mentre lei le raccontava altri particolari della sua vita.
“Dopo qualche anno al termine degli studi il conte Cittadini chiese la mano a mio zio Matteo, che fu ben felice di rispondere sì. Così finii sposa di quest’uomo grigio e monotono. Ero diventata la sua prigioniera senza possibilità di fuga. Sono sposata da cinque anni ma mi sembrano cinque secoli”.
“Mon Dieu!” esclamò Jacques. “Hai avuto un’esistenza travagliata, a quanto pare”.
“Sì” rispose scostandosi da lui. “Siamo arrivati” e prese una chiave per aprire il cancello.
Si avviarono per un viottolo oscuro verso una costruzione bassa e buia, contornata da piante e cespugli che apparivano come neri custodi della costruzione.
Sentiva scorrere il sangue nelle vene come mai gli era capitato negli ultimi anni dopo tanto grigiore della vita matrimoniale. Era felice e spaventata allo stesso istante. Era rapita dall’uomo che stava al suo fianco ma ne percepiva anche la pericolosità. «Cosa ci vado a fare nella dependance?» si chiedeva tra trepidazione e ansia. Eppure era un ritorno al passato, a quel passato che non aveva mai smesso di sognare neanche quando faceva all’amore con Antonio, suo marito. Le serviva per sopportare quell’atto che compiva senza amore e senza stimolo solo per adempiere a un dovere, perché così le avevano insegnato.
«Ma è veramente un dovere oppure una costrizione?» rifletteva mentre in silenzio si avvicinava alla porta d’ingresso. Sapeva che stava varcando le colonne di Ercole e avventurarsi in un mare ignoto come gli antichi navigatori. Però avvertiva la necessità di condividere con qualcuno che aveva amato il contenuto di quello che stava dentro. Fremeva sia per l’impazienza di passare quell’uscio sia per il terrore di quello che sarebbe successo.
«Sei ancora in tempo, Iréne. Puoi fermarti lì e ringraziarlo per la compagnia. Ma lo vuoi proprio mandare via?” e si coricò per prendere la chiave dalla fioriera accanto alla porta.
Entrarono e accese le luci, che illuminò una camera nemmeno troppo grande.
“Ecco questo è il mio regno che nessuno prima di te ha mai violato” disse mostrando con un ampio gesto della mano la stanza dinnanzi a loro. “Ecco qui i miei tesori, i miei ricordi”.
Le pareti erano ricoperte coi quadri del padre, su un mobile basso campeggiava una sanguigna dove era ritratto Jacques al piano. Ovunque c’erano ricordi di Parigi, del padre, degli amici del padre e i suoi personali.
“Ti piace” chiese trepidante, perché sentiva pulsare dentro di sé l’emozione e la gioia dell’amore, come una quindicenne in preda a una crisi ormonale.
Lui si guardò in giro, poi osservò la donna. Si tolse il cappotto e la sciarpa che gettò in un angolo, mentre lei tremava per un amore selvaggio come se fosse il primo della sua vita. Percepiva che doveva donarsi, che la doveva possedere ma non osava fare il primo passo. Rimase ferma e muta in mezzo alla stanza con il mantello ancora in dosso.
“Vieni” le disse avvicinandosi. “Ti aiuto a togliere ..”.
“No!” gridò in un sussulto di vergogna ma non si mosse e lo lasciò fare.
“No! Non toccarmi! Non toccarmi!” ripeté più di una volta ma senza opporre resistenza si abbandonò voluttuosa fra le sue braccia.
Era quasi mezzanotte quando rossa in viso, accaldata e coi vestiti in disordine fece l’ingresso nella villa.
Si avviò verso la scala per raggiungere la sua stanza.
“Sei tornata?” chiese Antonio, uscendo dal salotto del pianoterra. La scrutò, la guardò con attenzione e tenendo un libro in mano le domandò della serata.
“Com’è andata?”
“Ottima musica” rispose preparandosi a salire per sfuggire all’occhio del marito.
“Sei spettinata” incalzò seguendola.
“C’era vento mentre rincasavo”.
“Ma la macchina ..”.
“L’ho lasciata al parcheggio. Desideravo fare due passi. La serata è fredda ma il cielo è limpido. Buona notte, caro” aggiunse, mentre con passo deciso salì i gradini che portavano alla zona notte.
Arrivata nella sua stanza si tolse i vestiti con calma, annusandoli per sentire ancora l’odore di Jacques.
“Ti ho ritrovato, Jacques! Non mi sfuggirai di nuovo! Domani ti rivedrò e fuggirò con te!” disse mentre si spazzolava i capelli prima di coricarsi.
Jacques ritornò all’hotel dove alloggiava, ritirandosi nella sua stanza.
Prima di coricarsi, annotò sul diario, come sua abitudine per leggerlo poi insieme a Yvette.
«Cara Yvette, non immaginerai mai chi ho incontrato al concerto? Iréne. Sì, proprio lei! Ti ricordi? La figlia di Albert. E’ diventata una donna affascinante, moglie di un rispettabile cittadino dell’alta borghesia e per di più un nobile. Dicono che sia molto ricco il marito. Ormai non è più una di noi con suo modo di fare civettuolo e aristocratico. Non la riconosceresti più, tanto è cambiata nel modo di porgersi. Pensa che crede di riaccendere quei fuochi ormai spenti da tempo con la credenza tutta femminile di farlo ricordando il passato. Ce qui est passé est bien passé. Che noia! Non riuscirebbe a eccitare più nessuno di noi. E’ veramente banale e deprimente. Spero che non capiti pure a te una così totale metamorfosi. Sarebbe deludente. Ha parlato male del marito dicendo che è tedioso. Sì, proprio così. Noioso e monotono, tanto che ho pensato al quel modo di dire che usiamo noi. “E’ talmente grigio che non lo sopporterebbe nemmeno la sua ombra”. Domani mattina dovrò evitarla mentre faccio l’ultima passeggiata per la piazza principale e poi volo da te tra le tue braccia, mon Chérie. Non vedo il momento di stringerti a me.
Adieu, à demain!
Bisou, mon Chérie»
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Una sera a teatro -parte 1 di 2
Iréne, avvolta nella cappa bordata di pelliccia, saliva lentamente lo scalone di ardesia del Collegio San Carlo nella zona centrale della città. Alzò la vista verso i quadri disposti lungo le pareti, che arcigni parevano seguirla con gli occhi. Si strinse ancor di più nel mantello come per proteggersi da un nemico invisibile. Continuò a salire cercando di distogliere lo sguardo e non pensare a loro.
Aveva deciso di partecipare a questa serata di musica classica per un motivo molto particolare ma l’aveva relegato in fondo all’anima per non pensarci troppo. Non era sua abitudine a partecipare a questi eventi, ma stasera faceva un’eccezione.
Con un sottile senso di inquietudine percorse il corridoio silenzioso che portava nel vestibolo del piccolo teatro collocato all’interno di questo Collegio secolare. Si udivano solo il ticchettio dei suoi tacchi e nulla più. Avvertiva un senso di pace passare tra questi muri che avevano visto numerose generazioni di studenti impegnati ad apprendere il sapere ma nel contempo percepiva che aveva sbagliato a venire. Erano sensazioni contrastanti che non riusciva a conciliare ma le provocavano un senso di angoscia ed euforia allo stesso tempo.
Si avvicinò al tavolo per pagare il biglietto d’ingresso e prendere il programma della serata, che scorse velocemente senza molto interesse. Non amava molto la musica classica in particolare quella strumentale ma aveva deciso di ascoltare questo concerto particolare.
Si guardò intorno alla ricerca di visi amici ma erano tutte facce sconosciute. Comprese di essere nel posto sbagliato: lei vestita in maniera ricercata, loro in jeans e maglione senza nemmeno abbinare troppo i colori. Li udiva parlare ad alta voce come se profanassero il luogo, che invitava al raccoglimento e al silenzio. Stava già meditando di andarsene, quando vide l’amica, la signora Massone, che più che amica era una conoscente un po’ pettegola e invadente. Nonostante questi pensieri tirò un sospiro di sollievo per non sentirsi sola.
Le due donne si mossero all’unisono una verso l’altra per salutarsi.
“Buona sera, contessa Cittadini” disse allegra porgendole la mano.
“Buona sera, signora Massone. Anche lei qui ad ascoltare questa serata di buona musica?”
“Sì. Ma la vedo sola. Il signor conte non è venuto? Non apprezza i virtuosi del pianoforte?” domandò un po’ maligna la donna.
Iréne stette in silenzio per qualche attimo per soppesare le parole della risposta.
“Sì. Mio marito ha preferito rimanersene al calduccio accanto al camino, piuttosto che affrontare il freddo della sera”.
Un lieve sorriso increspò il viso della signora Massone. “Saggia decisione. E’ più prudente di noi donne, che abbiamo privilegiato la voglia di evasione al caldo della casa”.
“Ops ..” aggiunse voltandosi verso chi le stava alle spalle. “Che poco elegante sono stata con lei. Non le ho presentata la mia amica. La contessa Iréne Cittadini” e poi facendosi di lato continuò. “Questa è la mia carissima compagna di uscite serale. La signora Boschetti”.
Uno scambio incrociato di mani e un qualche borbottio che assomigliava a un «piacere» concluse le presentazioni, prima che calasse un silenzio imbarazzato.
“Se non vi dispiace prendo posto in sala” disse Iréne allontanandosi dalle due donne per sedersi nelle ultime file, vicino all’ingresso e porre fine all’imbarazzo di una conversazione mai sbocciata.
La signora Massone osservò l’amica che prendeva posto e, prendendo sotto braccio la signora Boschetti, la guidò verso le prime file.
“Vede” cominciò sottovoce. “La contessa ha una bella e interessante storia dietro di sé. Lei è la figlia di Alberto Pierotti, il fratello minore di Matteo Pierotti, quel ricco uomo d’affari, che sicuramente conosce”.
Un lieve cenno del capo avvalorò le ultime parole, mentre la donna riprese il racconto.
“Alberto era uno scapestrato. Amava girare tra le osterie a bere e ubriacarsi come tanti poveracci e appena poteva scappava a Bologna al Caffè San Pietro, dove si radunavano pittori e scrittori. Lui ambiva a diventare pittore e non ne voleva sapere di studi o mettere la testa a posto. Nel 1939 aveva solo vent’anni con la guerra imminente e dietro l’angolo, quando scappò a Parigi, nascondendosi tra i pittori della rive guache a Montparnasse. Lì scollinò la guerra e l’occupazione tedesca”.
“Ma non era imprudente starsene all’estero in un paese non proprio amico?” chiese la signora Boschetti.
“Ha ragione, Ivana. Ma al ragazzo mancava il senso pratico e la prudenza del fratello. Era un autentico buono a nulla, che amava vivere di espedienti piuttosto che fare una vita normale”.
Un sorriso comparve sui loro volti, che giudicavano questi atteggiamenti come disdicevoli. La signora Massone riprese la narrazione dopo una breve pausa.
“Poi negli anni tumultuosi del dopoguerra conobbe una donna senza censo e anonima, che sposò in gran segreto. La famiglia di origine non seppe nulla finché non nacque Iréne, la signora che le ho presentato stasera”.
Fece una piccola sosta nel parlare, osservando se la signora Boschetti la seguiva nei suoi discorsi.
“Prosegua, Paola. Non conoscevo questi dettagli sui signori Pierotti e sulla contessa”.
“Come le ho detto Alberto era uno scapestrato senza testa e senza talento. Viveva di espedienti e piccoli lavori, facendo debiti a profusione. Sembra che la madre di Iréne sia morta qualche mese dopo la nascita della ragazza. Ma qualcuno vocifera che sia fuggita con un uomo ricco e importante. Tralasciando questi miseri pettegolezzi, la ragazza fu cresciuta in qualche modo dal padre e dai suoi amici in un ambiente malsano e privo di scrupoli o moralità, finché a vent’anni anche Alberto morì lasciandola sola. Lo zio Matteo, di animo generoso, l’accolse nella sua villa, appena fuori la città, e le consentì di completare gli studi. Le diede un futuro meno ambiguo e grigio del padre trasformando una ragazza senza cultura ed educazione in una una splendida fanciulla ammirata da tutti. Dicono che abbia acquisito la bellezza dalla madre, che nessuno ha mai potuto ammirare”.
Fece una piccola pausa voltandosi leggermente verso le ultime file della sala per osservare Iréne, che compunta teneva in grembo la mantella.
“Lo è ancora adesso una stupenda donna nel fiore della maturità, a dire il vero. Ma andiamo avanti col racconto. Molti corteggiatori si fecero avanti ma alla fine la spuntò il conte Cittadini, che la sposò. Non hanno ancora figli ma pare che sia una coppia affiatata” concluse la signora Massone.
“Senza dubbio una storia interessante che non conoscevo, Paola. Ma ora ..” e non riuscì a concludere il pensiero perché il pianista aveva fatto il suo ingresso, accompagnato da un caloroso applauso del pubblico presente. L’artista fece un inchino verso di loro e in un italiano approssimativo si presentò.
Iréne lo vide e cercò di nascondersi, mentre occultava il nervosismo serrando le mani sulla mantella. Alle prime note dello strumento una forte ondata di emozioni l’assalì salendo verso il volto per poi scendere verso il basso. Osservò con attenzione Jacques Saint Just, i capelli ancora lucidi e scuri, la mani diafane e affusolate, che scivolavano leggere a sfiorare i tasti del fortepiano.
La musica settecentesca di Haydn e di Muzio Clementi riempì la sala che ascoltò in silenzio i virtuosismi del pianista fino all’intervallo. Un lungo ed entusiastico applauso accolse la fine della prima parte del programma.
Iréne si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.
“Dov’è il camerino dell’artista” chiese la donna all’addetto del ingresso.
“Nel corridoio la seconda porta” rispose indicando con la mano il percorso. Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata a quella visione, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.
“Desidera?” chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.
“Devo vede Monsieur Saint Just” disse con un filo di voce.
“Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto” replicò accennando a richiuderla.
“Ho un appuntamento con lui” rispose in maniera convincente.
“Aspetti” e sparì.
Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.
La contessa sentiva crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita della decisione. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.
“Jacques!” disse allargando le braccia per abbracciarlo.
“Iréne! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui”.
L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte a sé.
“Lasciati ammirare!” soggiunse, osservandola. “Sei ancor più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita”.
Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano visibilmente commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni.
Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Lei lasciò cadere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi col padre e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.
“Oh!” furono le sole parole che le uscirono. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. “Oh, Jacques!”
“Sst!” e le mise un dito sulla bocca. “Tenez” le disse allungandole una sedia. “Aspettami qui fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti”. E uscì per riprendere a suonare.
Nel mentre la signora Massone la cercava con lo sguardo senza vederla.
“Iréne se ne è andata” confidò all’amica. “Evidentemente quel pianista francese non era di suoi gradimento”.
“Io l’ho trovato fantastico nel suonare quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso” rispose aggrottandole sopracciglia. Non comprendeva le motivazioni per le quali era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.
“Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende”.
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Andando in treno – parte 2
Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.
“Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morieri” dissi riacquistando l’uso della parola.
“Infatti” replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. “Ho ottantatre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina ..” e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.
“Guardi” e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.
Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.
“Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli”.
“Già” ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.
“Mi dica” proseguii con tono dubbioso, “chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?”
Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.
“Michi, vuoi la rivincita?” udì dalla voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.
“Sss! Non disturbarmi” replicò con un sussurro appena accennato.
“Chi è?” domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. “Chi è? Lo sapessi!” Urlò come un tuono in piena notte.
“E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?” gli chiesi con un tono più moderato.
“Lo sapessi!” ribadì questa volta meno irritato.
Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente l’avrebbe conosciuto.
Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.
“Guardi” cominciò sospirando. “Guardi, la mia vita è come un reality” e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.
“Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero ancora all’università ma entrai lo stesso a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale, così che evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra”.
Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.
“Era il dicembre del 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Dunque quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto del 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla”.
Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.
“Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?” mi domandò a bruciapelo.
“No” risposi. “Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia ..”.
Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.
“Vede” disse indicando una pagina. “Mi dice che oggi è «martedì», il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?”
Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori, che non percepivo per nulla.
“E qui” aggiunse indicando una fotografia. “Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma io non so ballare e quella giovane donna non la conosco!”
“Si calmi” gli dissi cercando di tranquillizzarlo.
“Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?”
“Certamente” replicai poco convinto.
“Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro ..”
“Però quella pagina è davvero seducente..” provai a contraddirlo.
“Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?”
Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.
Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.
«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».
Mi distrassi un attimo.
“Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?” ma allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.
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Annie Valentine Cook – sono nata il giorno di San Valentino (parte finale)
Era una splendida bambina coi capelli scuri e la carnagione leggermente ambrata come se si fosse dorata al sole. Quel colore metteva in risalto il viso delicato e due grandi occhi azzurri, alquanto singolari nel complesso di quella figura acerba. Quando il primo giorno della Primary School si presentò al cancello del college, la suora guardò male prima lei poi la madre e storse il naso.
“Non si accettano bambine di colore. Avete sbagliato ingresso. Più avanti c’è la scuola pubblica” disse con tono acido sbarrando il passo.
Patricia la fulminò e senza aprire bocca avanzò trascinando Annie Valentine per guadagnare il grande portone.
“Dove credete di andare?” proseguì aspra e dura.
“Nel St. Therese’s College. Ora fattevi da parte, perché devo entrare” rispose fiammeggiante la donna. “Se non vi sbrigate, domani andrete a spazzare i corridoi”.
L’alterco, che stava radunando una piccola folla di curiosi, non sfuggì alle attenzioni di Madre Marie, la superiora, che accorse immediatamente.
Annie Valentine era frastornata, perché non comprendeva tutto quel trambusto. Avrebbe fatto volentieri a meno di andare a scuola ma la madre le aveva spiegato che era un posto dove avrebbe conosciuto altre bambine e imparato a leggere e a scrivere. Però il primo impatto non era quello che le avevano descritto i genitori. Suore altezzose, bambine che arricciavano il naso vedendola.
“Che sta succedendo?” chiese Madre Marie, osservando prima la consorella poi la donna di colore.
“Nulla” rispose calma Patricia. “Questa suora” e la indicò col capo “mi ha sbarrato l’accesso senza motivo, impedendomi di accompagnare Annie Valentine Cook, mia figlia, di entrare regolarmente a scuola, alla quale è iscritta”.
Il nome le suscitò un ricordo e un lampo nella mente. Era la figlia di un commodoro della Royal Navy, che a Plymouth era conosciuto e stimato, soprattutto adesso che infuriava la guerra e con l’Inghilterra sotto attacco, un personaggio importante da trattare con tutti i riguardi.
“La prego di scusare sorella Agnes, che non l’ha riconosciuta. E’ un onore avere nel nostro college la figlia del commodoro Cook” disse mettendosi da parte e fulminando con un occhiataccia la suora guardiana, per nulla convinta del proprio errore.
Non fu l’unico episodio sgradevole che Annie Valentine conservava nella mente di quei lunghi sette anni trascorsi in questa scuola esclusiva e altezzosa tra angherie e piccoli soprusi che dovette subire da suore e campagne.
Con immenso sollievo salutò tutti nell’agosto del 1947 quando per l’ultima volta varcò quel cancello che le erano apparse come le sbarre di una prigione dorata. Adesso era una splendida ragazzina di tredici anni dal seno acerbo e dalle movenze feline e suscitava l’ammirazione dei coetanei e le invidie delle altre ragazze magre e dal viso deturpato dall’acne giovanile.
La rigida educazione religiosa del college lasciarono un’impronta indelebile nel suo carattere ingenuo e aperto. Mostrava una fiducia nel suo prossimo spontanea e sincera, senza ravvisare malizie o fraintendimenti. Questa semplicità nel carattere la rendeva vittima di sottili tranelli, nei quali cadeva quasi senza accorgersene.
Quando nel dicembre dello stesso anno salpò coi genitori per fare ritorno nell’isola di Antigua, la sua spensierata innocenza fu oggetto di molte attenzioni da parte di uomini che avrebbero desiderato possederla. Sembrava più matura della sua età, come se fosse una ragazza di qualche anno più vecchia. Sarebbe caduta nella rete di queste persone se i genitori non l’avessero tenuta continuamente sotto controllo.
A diciotto anni era diventata una splendida fanciulla corteggiata da moltissimi uomini. Era un fiore da cogliere ma non era ancora arrivato il momento di recidere il gambo. Lei era ancora indecisa a chi donarsi per prima, non vedeva inganni nelle loro attenzioni ma un sottile gioco di corteggiamento.
“Le suore mi hanno insegnato di mantenermi pura fino al giorno del matrimonio” si diceva mentre sdraiata sulla sabbia bianca della spiaggia di Deep Bay si dorava al sole di giugno. “Mi domando per quale motivo dovrei conservarmi casta. Sento un forte richiamo verso gli uomini. Loro mi ronzano attorno fastidiosi come calabroni. Ma tutto questo mi eccita e mi stimola eroticamente”.
Era luglio 1955, quando seduta sul molo del porto di St. John’s vide sbarcare da una nave da crociera un ragazzone biondo, alto come una guglia della cattedrale. Rimase affascinata, lo seguì con lo sguardo finché non sparì tra la calca della folla. Stanca e annoiata riprese la strada di casa, mentre il sole picchiava duro. Non pensava più a quel ragazzo, quando all’improvviso lo incrociò su High St. Ebbe un tuffo al cuore, si fermò per osservarlo con cura mentre camminava spedito con una piccola valigia verde.
“Dove sarà diretto?” si chiese, sperando che le chiedesse qualche informazione.
Come se un sottile filo avesse guidato i pensieri dell’uomo, lui si fermò alla ricerca di qualcuno. La vide ferma sul marciapiede e si avvicinò.
“Mi scusi” cominciò posando la valigia per terra. “Saprebbe indicarmi dove si trova Green Bay Hotel? Mi hanno dato le indicazioni ma credo di essermi smarrito”.
Annie Valentine non rispose immediatamente come se fosse stata colpita da un’improvvisa afasia, poi si riscosse sfoderando un sorriso luminoso, mostrando una dentatura perfetta e candida.
“Se vuole, l’accompagno. Le spiegazioni sarebbero complicate”.
“Grazie volentieri” rispose, riprendendo la valigia in mano.
Così iniziò quell’avventura con John, un gallese galante ma rude e infingardo, che le fece conoscere i segreti del sesso. Annie Valentine si sentì attratta da lui a prima vista e perse ogni senso delle proporzioni. Non riuscì a distinguere le bugie, anche evidenti, che raccontava dalle verità che non volle mai accettare. Il loro rapporto fu tumultuoso nonostante l’opposizione netta di Patricia, che aveva intuito la vera natura del gallese.
“Lascialo” le disse un giorno di settembre sua madre. “Ti sta nascondendo la verità su di lui e la sua famiglia. E’ un bugiardo nato. Ci evita come la peste, perché sa che smaschereremo le sue presunte verità in un batter d’occhio”.
“Pat” disse la ragazza, che chiamava sempre sua madre col nick. “Lo amo e lui ama me. Mi ha chiesto di sposarlo. Se fosse per lui anche domani”.
“Bene” rispose sorridente come se la gatta che era in lei avesse avvistato il topolino col quale giocare prima di ucciderlo. “Invitalo domani sera a pranzo. Io e tuo padre saremo lieti di accoglierlo come futuro genero”.
Annie Valentine riferì a John quello che aveva detto sua madre.
“Alle otto di domani sera. Sarai puntuale?” gli domandò premurosa.
“Puntualissimo. Sarà un vero piacere incontrare i tuoi genitori” replicò sorridente e gentile.
Il giorno dopo era sparito. Si era volatilizzato. Nessuno sapeva dov’era, nemmeno gli amici più fidati. Qualcuno affermò d’averlo visto sul traghetto notturno verso la Giamaica, altri imbarcarsi su una nave diretta verso il continente. John non si fece più vivo, lasciando Annie Valentine nel dolore più atroce con il cuore spezzato. Pianse per lunghi giorni, nonostante Patricia tentasse di consolarla e farle intuire che tutto sommato le era andata bene, perché quel gallese era un farabutto.
Lei era troppo sincera, troppo passionale per non cadere nei tranelli dei corteggiatori. A volte era persino ingenua nel non credere alle evidenze dei fatti.
Un giorno, aveva circa trent’anni, incontrò un uomo che definì «incredibilmente bello» e se ne innamorò perdutamente tanto che non si accorse nemmeno che era sposato con una donna gelosa e possessiva.
Stava salendo al primo piano per raggiungere il monolocale dove viveva da single, quando Susie, la moglie, l’affrontò decisamente.
“Siete una puttana!” le urlò in faccia sulla prima rampa, afferrandola per i capelli. “Lasciate stare il mio Paul!”
“E perché mai dovrei?” chiese ingenuamente Annie Valentine.
“E’ mio marito ..”
“Tuo marito? Forse avete sbagliato Paul.. Quello che frequento è libero come un uccello ..” affermò cercando di liberarsi dalla presa della donna, che la teneva inchiodata al corrimano.
“Sì, come un uccello in gabbia. E la gabbia dorata sono io” replicò ironicamente.
“Lasciatemi!” urlò avendo il viso contratto da smorfie di dolore.
“Certo!” e la scaraventò giù dalle scale. “E questo è nulla se vi vedo ronzare ancora attorno a Paul”.
L’atterraggio non fu morbido ma nemmeno disastroso, perché era finita su rotoli di corda che le lasciarono solo dei lividi per qualche giorno.
L’uomo, conteso dall’amante e dalla moglie, le telefonò una settimana più tardi.
“Mi spiace” cominciò senza troppi tentennamenti come se non dovesse confessare nulla. “Susie, l’avrai conosciuta, è troppo gelosa ed è capace di tagliarti la gola e di evirarmi, se ti frequento ancora”.
Così per l’ennesima volta fu lasciata.
Annie Valentine sull’amaca, mentre osservava nel crepuscolo della sera il mare appena increspato da spume bianche, si domandava perché arrivata a quarant’anni non era ancora riuscita a trovare un compagno stabile ma solo tanti effimeri fantasmi che comparivano e sparivano senza lasciare tracce.
“Io dono tutta me stessa ma loro mi portano via ogni volta brandelli della mia anima senza chiedermi il permesso. Ormai ne è rimasta solo qualche piccola briciola. Non riesco nemmeno più a piangere, perché le ho esaurite tutte. Vorrei un uomo che mi rispettasse e donasse un pizzico d’amore sincero ma non lo trovo. L’unico era ..”.
Vide una figura che lentamente camminava sulla battigia, illuminata dal sole morente. Questa si fermò e facendosi schermo la mano, la osservava dalla spiaggia come se fosse incerto se proseguire nella camminata o dirigersi verso il cottage di Annie Valentine.
Lei smise di dondolarsi e aspettò ansiosa.
Prese una decisione e si avviò deciso.
“Ciao, Annie” disse.
“Ciao, Jack” rispose.
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Annie Valentine Cook – Sono nata il giorno di San Valentino
“Mi chiamo Annie Valentine Cook e sono un bel mistero per me stessa. Non indovinerete mai perché il mio secondo nome è Valentine. Lo sapete già? E’ vero. Avete centrato il bersaglio. Sono nata il giorno di San Valentino. I miei genitori, un brillante ufficiale della Royal Navy e una ballerina di flamenco si sono sposati giovanissimi. Lui aveva ventidue anni, lei diciotto. Mia madre, Patricia, è originaria delle Indie Occidentali nella meravigliosa isola di Antigua. E’ bella, bellissima, una creola dalla pelle ambrata come il miele scuro delle montagne. Il giorno di San Valentino del 1933 lei ha visto un ufficiale della Royal Navy alto e impeccabile nella sua uniforma bianca scendere dall’incrociatore Queen Victory, attraccato nel porto di Sant John’s. «Quell’uomo sarà mio» disse convinta. Era John Mark, mio padre. E’ stato un colpo di fulmine e si sono sposati due giorni dopo, perché J.M., come lo chiamava Patricia, doveva ripartire con la sua nave da guerra. Tre mesi dopo è tornato a prenderla per portarla in Inghilterra, dove sono nata il 14 febbraio del 1934. Avevano previsto una vita sentimentale per la loro primogenita di tutto rispetto. Il mio visino a cuore, il mio secondo nome, Valentine, e la mia data di nascita non potevano che condurmi alla passione e all’amore, dovunque dirigessi i miei passi. Invece no, l’unico risultato tangibile è stato di essere mollata. Mollata al ristorante, mollata nella tromba delle scale, mollata al cimitero: che importa dove? Dovunque ho diretto i mie passi, qualcuno ha pensato bene di calpestarmi. Se Left1 fosse una località, il sindaco avrebbe già dovuto consegnarmi la chiave della città. E se Left fosse un reame ne sarei la regina”.
Annie Valentine Cook ormai era oltre la soglia dei quarantanni e non li dimostrava. Splendida pelle dorata in modo naturale, eredità della madre Patricia, e portamento austero, assunto dal padre John Mark, la rendevano gradevole agli occhi degli uomini, che si accalcavano attorno a lei come api in un campo di lavanda. Però analogamente al comportamento degli imenotteri dopo avere succhiato tutto quello che c’era da poppare se ne andavano senza alcun rimorso, svolazzanti in cerca di altro cibo. A differenza delle api operaie, tutte femmine, loro erano maschi solo desiderosi di impollinare Annie Valentine.
Così cominciavano le storie e così finivano in fretta le stesse. Lei era passionale e calda come la madre, ma a differenza della genitrice non riusciva a conquistare nessuno.
Patricia e John Mark si conobbero in un locale notturno delle Indie Occidentali, prima che la federazione di smembrasse negli anni seguenti in un nugolo di micro stati. Lei era originaria di Montego Bay, ma aveva vissuto dall’età di sei anni nella capitale di Antigua, Sant John’s, dove lavorava come danzatrice di flamenco al Kitty’s Hall. Lui era di stanza da un anno a Port Royal come ufficiale della Royal Navy nell’isola caraibica della Giamaica. Quella sera si recò con altri ufficiali da Kitty’s ad assistere allo spettacolo, dove la stella era Patricia. Quando lo vide entrare, decise di superarsi per attirare i sguardi di quell’ufficiale alto e imponente dai lineamenti regolari. A lei sembrava un dio della mitologia greca e avrebbe fatto carte false pur di conoscerlo.
“Devo farlo mio adesso oppure mi sfuggirà per sempre” si disse mentre sensuale ballava sull’onda della musica.
Lui rimase folgorato da quel corpo flessuoso ed erotico che si muoveva con grazia al ritmo del flamenco. Non riusciva a staccarle gli occhi da dosso. Ne aveva sentito parlare dagli altri ufficiali che c’erano stati nelle serate precedenti. Rifletté che la realtà superava di gran lunga l’immaginazione.
«Ci devo parlare. Come? Non lo so ma ci devo riuscire prima di lasciare il locale» disse silenziosamente mentre l’osservava senza battere ciglio. Era alto, biondo con gli occhi blu porcellana, che avevano incantato più di una ragazza, ma lui cercava l’esotico, il particolare senza trovarlo almeno fino a quella serata. Credeva in una leggenda orientale, che aveva ascoltato tante volte durante i viaggi nell’estremo oriente nel mar della Cina. Parlava di un filo rosso invisibile che lega le vite di due persone. Non aveva importanza il sesso ma contava che queste due un giorno si sarebbero incontrate senza lasciarsi mai più. Non sapeva quando ma era certo che sarebbe accaduto. Così il fato o meglio Eros decise che Patricia e John Mark si incontrassero. Tutto capitò per caso o almeno così apparve in apparenza. Lui era seduto al tavolo con Paul, David e Eddie, quando lei passò nelle vicinanze volutamente per farsi notare e ammirare dall’uomo che aveva stabilito che sarebbe stato suo. Un bianco alticcio l’afferrò per un braccio per darle un bacio e stringerla a sé, ma lei non gradiva quelle attenzioni grossolane, mentre cercava di divincolarsi inutilmente. John Mark si alzò e dall’alto del suo metro e novanta scaraventò a terra il malcapitato ubriaco, liberandole il braccio. L’uomo cominciò a imprecare con mio padre e, prima di poter reagire, fu preso da due buttafuori e senza troppi complimenti messo alla porta.
“Grazie” sussurrò Patricia, mentre lo guardava languida. “Siediti qui con noi” rispose l’ufficiale. “Non posso sedermi coi clienti del locale” disse, prima di aggiungere. “Però al termine dello spettacolo, sì”.
“A che ora?” domandò senza scomporsi. “A mezzanotte”. “Bene. A quell’ora sarò qui in attesa”.
Patricia si allontanò sotto lo sguardo attento e interessato di John Mark.
“Amici” disse. “Voi potete rientrare a bordo. Io resto a terra. Oggi è il mio giorno di permesso”.
“Hai colpito e affondato quel naviglio leggero” replicò ironico Paul.
Un largo sorriso comparve sul volto dell’uomo. “Però avresti voluto tu affondare quella splendida giunca” rispose per nulla imbarazzato.
“E chi avrebbe rifiutato un simile boccone” continuò David.
A mezzanotte in punto riapparve Patricia, ancora più luminosa negli abiti sgargianti delle isole caraibiche.
“Dove?” le chiese, porgendole la mano. “A casa mia” gli rispose stringendola con sensuale movimento.
Nessuno dei due si era presentato, come se conoscessero i loro nomi da una vita. La notte fu splendida come il cielo stellato di quel 14 febbraio.
Fu un autentico colpo di fulmine e due giorni dopo erano sposi. John Mark doveva ripartire con l’incrociatore per le esercitazioni navali.
“Patricia rimase a Sant John’s per tre mesi, poi mio padre, richiamato in patria, la portò con sé a Plymouth, un posto uggioso rispetto al clima di Antigua” ricordava la donna sospirando. “Il 14 Febbraio del 1934 nacqui io, Annie Valentine, la loro primogenita in quella città che era diventata la nostra residenza, anche quando John Mark rimaneva lontano per mesi”.
Annie crebbe e frequentò la Primary School presso le suore di Santa Teresa, che era una specie di collegio chic ed esclusivo di quella cittadina nel sud ovest dell’Inghilterra nella contea di Devon. Suo padre si congedò a trentacinque anni dalla Royal Navy e d’accordo con Patricia decise di tornare in Antigua, dove aveva intenzione di aprire un locale alla moda nella capitale dell’isola. E così fece, mentre sua madre l’avrebbe aiutato nella gestione, sfruttando la bellezza per nulla sfiorita nella grigia e nebbiosa Plymouth.
Annie crebbe, completò gli studi presso una scuola privata gestita da inglesi e diventò una splendida ragazza.
Adesso, ormai quarantenne, desiderava un uomo con cui avere un figlio e condividere gli anni a divenire, ma trovava solo persone desiderose di soli rapporti carnali e basta.
Si era lasciata sprecare troppo concedendosi per passione e amore mai corrisposti. Era un fiore da cogliere e non da impollinare, da succhiare e da abbandonare dopo essere stata sfruttata. Sapeva donare all’uomo del momento un’intensità di passione e un amore che non aveva paragoni, ma il suo modo di proporsi ingenuo e sincero invece di avvicinare gli uomini, li allontanava inesorabilmente.
Si sentiva sola nella grande casa prospiciente il mare, che intravedeva attraverso la grande vetrata del salone. Un mare blu trasparente appena increspato da onde basse invitava ad essere solcato dalla fantasia imbarcata su una minuscola nave a vela.
Vedeva i velieri corsari che si avvicinavano alla costa per rapire fanciulle per i loro piaceri e fare bottino di oro ed argenti, sentiva un brivido di piacere nella schiena il pensiero di essere ghermita, afferrata da uomini rudi e forti e trascinata sulla battigia prima di sparire nella stiva oscura e maleodorante. Però presto il pirata Barbanera l’avrebbe portata nella sua stanza per possederla nel grande letto posto a poppa.
La sua mente continuava a fantasticare questa avventura, che avrebbe gettato nel terrore più di una donna, un’avventura invece che invece lei pregustava nei minimi dettagli.
Sarebbe diventata la donna del pirata Barbanera, che avrebbe aspettato tremante di paura e piena di ansia ogni volta che lui avesse solcato il mare per le scorribande corsare.
Lei sarebbe corsa verso il suo uomo abbracciandolo e baciandolo, mentre lodava Dio che l’aveva preservato dalla morte.
Avrebbe ascoltato impaziente rannicchiata fra le braccia il racconto dell’ultima avventura, che narrava di morte e di orrori, di oro ed argenti, di vascelli spagnoli sventrati e bruciati.
Poi non sazia avrebbe chiesto di raccontare gli altri assalti, le battaglie con gli spagnoli, i saccheggi e le canzoni corsare.
Così tutta la notte prima di giacere con lui nel letto sottratto al Viceré delle Antille per godere della passione e dell’amore del pirata.
Il sole calava rosso ed infuocato sull’oceano, quando si svegliò dal sogno che l’aveva cullato fra le braccia, mentre si ritrovava sola sulla sedia di vimini.
E pianse la sua solitudine.
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Andando in treno
“Andare a vivere in un romanzo inedito aveva i suoi vantaggi. Tutte le noiose banalità quotidiane che sbrighiamo nella vita reale intralciano lo scorrere della narrazione e quindi sono in genere evitate. L’automobile non aveva bisogno di fare il pieno, al telefono non si sbagliava mai numero, c’era sempre acqua calda a sufficienza e c’erano solo due tipi di aspirapolvere quello verticale e quello che ci si trascina dietro. C’erano altre differenze più sottili. Per esempio, non ti dovevano mai ripetere una frase perché non l’avevi capita bene, non c’erano due persone con lo stesso nome, non si parlava mai contemporaneamente né si aveva il fastidio di avere una parola sulla punta della lingua. Soprattutto, sapevi sempre chi era il cattivo. Ma c’erano anche alcuni svantaggi. Una carenza di colazioni…”1
In realtà non le ho scritte io queste poche battute ma le leggevo seduto in treno mentre andavo a Milano per incontrare una persona importante, almeno per me.
Immerso nei miei pensieri, viaggiavo in incognito e non sapevo il perché o meglio non volevo rivelare la mia vera identità ai miei compagni di viaggio.
“Sono un vincente e non amo le sconfitte ma questi non sono gli argomenti dei miei pensieri in questo momento. Sembro un viaggiatore qualsiasi ma in realtà sono un editor di fama. Devo raggiungere l’autore di un romanzo che avrà sicuramente successo. Il mio editore mi dice che sono arrivate centomila prenotazioni. Ma credo che abbia esagerato. In Italia il successo comincia a diecimila copie e sono pochi i romanzi che superano questa quota”.
Dunque ero sprofondato in queste elucubrazioni mentali, che qualcuno ama chiamare con altro nome, quando ripercorrevo la storia di questo romanzo.
Il mio editore, del quale non rivelerò il nome, una mattina di novembre mi chiamò al telefono.
«Pietro» mi disse aprendo la comunicazione. «Ho un manoscritto inedito che mi è arrivato per vie traverse ..».
«Marco, non me la dai da bere. Se l’hai accettato, vuol dire che lo sponsor era forte. Tu cestini i romanzi inediti se non sono accompagnati da una nota veramente valida. O l’autore è qualcuno della casta o per qualche imprescindibile combinazione una persona con gli attributi ti ha imposto di leggerlo. Ti conosco da troppo tempo per non conoscere come operi».
«Pietro non complichiamo le cose senza far polemiche sterili. Il manoscritto è nelle mie mani e tu devi leggerlo. L’incipit mi pare favoloso. Potremmo avere per le mani il caso letterario dell’anno. Te lo spedisco per fax ..»
«Sarai impazzito? Vuoi intasarmi il fax? Se è solo cartaceo, scannerizzalo e mandami il file».
«E va bene. Come vuoi tu, Pietro. Però perderò un sacco di tempo ..»
«Per quando vuoi il mio parere?»
«Se fosse per me, immediatamente. Però restando serio, una settimana dopo la ricezione del manoscritto ..»
«Veramente io intendevo del flusso scansionato. Non del cartaceo. Comunque vuoi solo un parere positivo o ..»
«Oppure hai chiuso con me. Vedo che sei ancora sveglio. Domani sulla tua scrivania troverai il pacco col romanzo» e chiuse la conversazione senza nemmeno salutarmi.
In realtà il romanzo era veramente ben scritto e avrebbe incuriosito anche il lettore più scafato e difficile. Trattava di una vicenda ai limiti del normale o forse era più corretto ammettere che era una storia del paranormale per nulla ingenua ma ben costruita. Ambientata nei giorni nostri, era incentrata sulla figura di un giovane, Paolo Morieri, morto nel 1943, che si era presentato sull’uscio dello scrittore, pretendendo mille lire che gli aveva prestato qualche mese prima. Il personaggio al momento della morte aveva solo vent’anni ma era l’erede di un impero finanziario che avrebbe potuto comprare tutta l’Italia. Insomma avrete compreso che pareva una trama inverosimile come se un morto fosse resuscitato dopo sessant’anni e il tempo non avesse avanzato di un secondo. L’aspetto anomalo era che lo scrivente non era ancora nato nel 1943! Era un autentico grattacapo, del quale non vi svelerò la fine. Vi toglierei il gusto di leggerlo.
Lo scrittore, Alberto Arduini, era un famosissimo ricercatore del paranormale, una specie di medium, un’autentica autorità in quel campo. Avevo capito perfettamente perché il mio editore volesse un parere assolutamente positivo sul manoscritto. Era una vera bomba editoriale. Dovevo riconoscere che aveva avuto l’imbeccata giusta.
Sei mesi più tardi l’editore mise in moto tutta la batteria dei pubblicitari e dei critici letterari, il marketing al gran completo e dichiarò che aveva prenotazioni per oltre centomila copie. L’intera tiratura iniziale sarebbe andata esaurita nel giro di pochi minuti. Già vedevo le code prima delle aperture delle librerie, un po’ era capitato coi romanzi di Henry Potter.
“Io non ho mai creduto a quel numero ma si sa che sono diffidente. Però oggi è il gran giorno. Il libro è stato stampato e fa bella mostra nelle vetrine di tutte le librerie d’Italia”. Stavo andando a conoscere l’autore e avevo preso con me una decina copie, che distribuì ad alcuni viaggiatori, selezionati secondo il mio intuito come i più idonei a leggerlo, presenti sul ETR1000 che collegava Roma a Milano. Volevo vedere come reagivano alla lettura del romanzo.
Dopo qualche tempo osservai le persone che avevano ricevuto una copia e rimasi interdetto.
“Vedo che la prima copia, donata alla ragazza carina e sveglia qualche posto davanti a me, è usata come tavolino per una partita a battaglia navale con il compagno che le sta davanti. L’anziana signora, destinataria della seconda, lo sta sfogliando distrattamente come se fosse annoiata. L’unico che lo sta leggendo avidamente è un signore dai capelli bianchi e dal viso ancora giovanile, sistemato accanto a me”.
Continuavo a rimuginare i miei pensieri, pensando che forse le centomila copie fossero molto meno. A parte il viaggiatore accanto a me, gli altri non parevano eccessivamente interessati al libro. Anzi a dirlo in tutta schiettezza non gliene importava nulla. Avevano preso l’omaggio ma avevano preferito tornare alle loro occupazioni abituali. Chi leggeva la Gazzetta dello Sport, chi correggeva le bozze di qualcosa di più importante del romanzo.
Ero profondamente deluso e mi stavo incupendo alquanto pensando a quello che avrebbero scritto su Anobii. Era vero che molti guardavano con sospetto a quella comunità di lettori, che definivano saccenti e criticoni ma alla fine la loro opinione valeva molto di più di tanti prezzolati critici che scrivevano quello che detta loro l’editore.
Chiusi gli occhi mentre il paesaggio della Toscana scorreva rapidamente dal finestrino. Mi assopì ma forse fu solo un attimo perché rividi quello che era rimasto impresso prima di chiuderli. Solo il viaggiatore accanto a me continuava a leggere senza posa il romanzo, mentre la ragazza diceva «A2». Udì in risposta «Colpito». La battaglia navale era più interessante del Caso strano di un creditore fantasma, il titolo del libro.
Visto che non alzava gli occhi, né prestava attenzione alla hostess, che voleva offrire un quotidiano e qualcosa da bere e mangiare, decisi di parlare con lui.
“Vedo che la sta appassionando” dissi cordialmente.
L’uomo alzò la testa dal libro e mi fissò con attenzione come se lo avessi distolto dall’occupazione più importante della sua vita.
Ripetei la domanda. “Interessante?”
“Interessato!” replicò con voce chiara e decisa. “Interessato!” replicò come se non avessi udito la prima risposta.
“Veramente notevole è la storia! Pare quasi che il protagonista morto abbia passato il suo tempo a dettare le pagine a suo zio” aggiunse con tono secco.
Concordai con lui sul tipo di risposta, annuendo vistosamente.
“Forse dipende da dove si trova il protagonista ..” dissi convincente muovendo il capo.
“Secondo lei dove si trova ora il protagonista?”
“Forse in paradiso oppure in purgatorio ..”
“E non perché all’inferno?” domandò, osservandomi con quegli occhi acquosi da vecchio.
“Non mi sembra il posto adatto .. Non mi pare che in vita abbia combinato chi sa quali malanni o sfracelli da meritare ..”
“Sì, sì” disse come per convincermi che non fosse il posto giusto per Paolo Morieri, il protagonista della storia.
“Lei cosa pensa? Paradiso o purgatorio?” chiesi con delicatezza.
“In paradiso forse no ma in purgatorio lo vedo benissimo. Ma in realtà lo vedo meglio ..” replicò con pacatezza, mentre gli occhi brillavano come se avessero riacquistato lucentezza.
“Dove, se non sono indiscreto” lo sondai con cautela. Il suo pensiero mi incuriosiva e in un certo senso stimolava la mia vanità professionale.
“A Vigevano” rispose senza tradire una benché minima emozione.
Lo scrutai con attenzione mentre sobbalzavo per l’affermazione.
“A Vigevano? E perché?”
“Se si trovasse in purgatorio, sarebbe stato un piccolo errore ma se è Vigevano ..”.
“Ma cosa c’entra Vigevano con il Caso strano di un creditore fantasma?”
“Nulla. Infatti. Se però si trovasse a Vigevano..”.
“Ma non si trova a Vigevano” replicai alzando la voce.
La ragazza, che stava giocando a battaglia navale, si distrasse alla mia esternazione e invece di dire «A3» e mettere fine alla partita urlò «A9». «Hai perso!» replicò di rimando il compagno.
“In realtà non si trova a Vigevano ma sta passando da Bologna”.
Ebbi l’impressione che il nervosismo stesse travolgendo le mie difese ma che quello che stava affermando era in qualche modo collegato al Caso strano di un creditore fantasma. L’intuito non mi aveva mai tradito e anche stavolta mi stava mettendo in guardia. Lo osservai con maggiore attenzione e aspettai che dicesse qualcosa.
“Forse qualche influenza astrale ..” cominciai cautamente, visto che era ammutolito.
“Basta!” replicò mettendosi eretto. “Sembra che da un mese a questa parte io sia diventato il caso nazionale di signore, attratte dal paranormale e da signori caustici e diffidenti in tutta Italia sui giornali e in TV. Signore, si da il caso che io sia Paolo Morieri. Non sono morto. E non sono mai stato morto. E quando morirò nel giorno che mi sarà destinato, dopo aver letto questo libro, non percepirò di essere al sicuro in nessun luogo dove mi metteranno!”
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Alba muore sul far del giorno
Buio. Terrore dipinto sugli occhi. Alba spalanca gli occhi nel tentativo di vedere il nulla. L’aguzzino ha smesso di tormentarla, ma sente ancora la lama rovente inciderle la carne, i seni, il pube. Le ferite bruciano come aghi di spillo, mentre strisce di sangue rappreso raggrinza la pelle. Legata senza possibilità di muoversi ma libera di urlare tutta la disperazione che ha nel corpo, percepisce qualcosa che scivola sul piede nudo.
Un urlo e un veloce squittire vola nell’aria. L’ansia, la paura, il panico muore nella gola. Spera che il carceriere finisca la sua opera e scenda il silenzio. L’ orrore accelera i battiti, le tempie sembrano esplodere, mentre qualcosa di morbido striscia sulla gamba.
“Ecco perché non torna! Vuole assistere alla mia agonia, ridendo di me, mentre muoio di paura!”.
Il cuore batte impazzito, mentre l’urina scivola calda sulle ferite. Brucia come la carne sul fuoco ma senza l’odore del bruciato.
Si dimena, urla, invoca aiuto che si perde nel vuoto del buio. Però loro diventano sempre più intraprendenti. Annusano, leccano, mordicchiano, mentre lei impazzisce nel panico.
Nuove ferite ulcerano la pelle che sanguina e gocciola sul pavimento. E’ in piedi addossata alla parete, nuda e indifesa, mentre la mente non comanda più nulla.
La voce muore nell’oscurità. Il cuore accelera ancora e produce un rumore sordo. Bum! Bum! Il dolore sovrasta i pensieri, la testa sembra esplodere come un petardo, mentre mille denti aguzzi trafiggono la carne.
Un ronzio penetra nelle orecchie, la bocca si secca come un torrente d’estate, un fiotto di sangue esce dal naso.
Altra urina inonda il pavimento mescolandosi al sangue che copioso zampilla dalle mille lacerazioni che compaiono sul corpo. La mente vaga mentre le forze lentamente svaniscono. Il terrore scivola dentro di lei che si aggrappa alla speranza che l’aguzzino sia mosso a pietà.
E’ orribile spegnersi in quel modo ma paga la fiducia concessa con troppa leggerezza. “Solo ieri ero allegra e spensierata, ma ora sono avvizzita come un fiore reciso da tempo”.
Anche gli ultimi pensieri volano via tra sussulti e dolori. Il cuore decelera all’improvviso. Il respiro diventa affanno. La bocca annaspa nell’aria. La testa reclina di lato.
Alba muore sul far del giorno.
Dalla finestra scorgeva un ciliegio giapponese
Dalla finestra si scorgeva nel giardino vicino un ciliegio giapponese tutto rosa per i fiori sbocciati dopo il lungo inverno. Faceva contrasto con la quercia, piantata sulla pubblica via, ancora implume con piccole foglie di un bel verde smeraldo. Un piccolo uccello colorato si posò sui rami quasi nudi della quercia.
Marco si sforzò di indovinare quale fosse il suo nome, mentre c’era un via vai di gazze, che volavano intorno al ciliegio.
Era appoggiato alla testata del letto e ripensava alla sua infanzia, alle gioie ma anche ai dolori. Sogni e amori si mescolavano fra loro ma tutto rimaneva impastato come la farina nelle mani del fornaio prima di trasformarsi in un pezzo di pane.
Gli sarebbe piaciuto conoscere il mondo, viaggiare e sognare terre lontane ma viveva di lavori precari. Era un giorno senza chiamate che lo costringeva a rimanere a letto a rimuginare sulla sua vita.
Il contrasto tra l’intensa fioritura del ciliegio e il timido risveglio della quercia era uguale a quello che provava dentro di sé. Avrebbe voluto ma non poteva. Aveva amato ma adesso era solo. L’ultimo lavoro si perdeva nei ricordi mentre attendeva invano uno squillo.
«Sig. Marco Pinotti? Sono Marta del Objob. Le telefono perché ..». Era il dialogo immaginario che si aspettava ogni giorno da troppo tempo, ma quelli passavano e il telefono rimaneva muto.
Marta era una simpatica ragazza, che aveva conosciuto vagando tra gli uffici dei lavori interinali. Aveva più o meno la sua età, almeno questa era la sua valutazione. Di statura non definita, l’aveva vista sempre seduta, e una zazzera riccioluta del colore del grano maturo erano due particolari fisici che gli erano rimasti impressi. Si sorprese a pensare solo a quelli come se il resto del corpo non esistesse.
Avrebbe desiderato invitarla a mangiare una pizza ma le finanze personali gli impedivano di sgarrare dal budget giornaliero. Una pasta condita con un poco di sugo accompagnata da una verdura, quella a più buon mercato, era il pasto principale del mezzogiorno. Alla sera un frutto e qualche cracker per scacciare i morsi della fame. Il resto dei pochi risparmi era destinato al fitto del monolocale e alle bollette che puntuali, come un orologio svizzero, arrivano tutti i mesi.
Ormai stava raschiando il barile e se non arrivava una chiamata doveva dichiarare default. Questi grigi pensieri erano in contrasto con la tiepida giornata primaverile che si annunciava serena.
Non aveva nessuna voglia di alzarsi.
“Dove vado? A guardare le vetrine scintillanti di offerte e gadget che non posso permettermi? A desiderare qualcosa che rimarrà un sogno?” erano questi i pensieri dominanti.
Marco continuava a osservare quel piccolo volatile colorato che saltava di ramo in ramo beccando ogni tanto qualche piccolo insetto.
“E’ dura la vita, amico? Però almeno tu puoi volare libero e cercarti del cibo. Io dipendo invece dagli altri, dai loro umori, da altre mille limitazioni. Vorrei librarmi senza vincoli nell’aria e osservare il mondo da quel punto di osservazione ma non posso”.
Poi posò lo sguardo sulle gazze che parevano divertirsi e giocare tra loro in un balletto sfrenato e simpatico.
Un pizzico di scoramento lo avvolse tanto che l’idea di abbandonare quella città e rifugiarsi tra le vecchie mura di casa prese forma. Per lui sarebbe stata una sconfitta cocente.
Era partito con una minuscola valigia, piena di sogni, verso la grande città, convinto di spaccare il mondo. Però subito dovette combattere per mantenere il posto per pagare tutto lo stretto necessario per vivere. Lavorava molte ore, facendo economie su qualsiasi cosa.
Un giorno, arrivato davanti al cancello, lo trovò sbarrato con appeso un asettico volantino: «La società chiude per fallimento» con uno strano timbro inchiostrato.
“Come chiude?” si domandò ad alta voce osservando gli altri compagni di lavoro ugualmente sgomenti che si assiepavano attorno a lui.
“E’ fallita. Non lo sapevi?” disse uno alla sua destra.
“E adesso?”.
“Cercati un altro lavoro” replicò asciutto un operaio dalle mani grinzose.
“E i miei soldi?” continuò smarrito Marco.
“I nostri soldi? Forse qualche spicciolo tra qualche anno, se ne rimangono” disse amareggiato un omone con le mani in tasca.
Dal quel giorno cominciò il suo calvario. Un lavoro di due giorni come garzone di una panetteria, un mese come operaio a scaricare merci, quindici giorni come lavapiatti. L’elenco era lungo e non valeva la pena di rinvangarlo.
Passeggiando per una via stretta vicino al centro, lesse un cartello «Objob – Il tuo posto per trovare lavoro». Scrutò la vetrina dove erano appesi i soliti cartellini, ormai ingialliti dal tempo e dal sole che batteva spietato d’estate.
Spinse l’uscio ed entrò.
“Buongiorno” disse cortese, piazzandosi davanti alla postazione, dove una bionda riccioluta stazionava davanti a un monitor.
“Ciao, sono Marta. In che cosa posso esserti utile?” rispose alzando due splendidi occhi blu.
A Marco mancò la parola nel vederla. Deglutì in fretta, passò la lingua sulle labbra per umettarle e rispose un po’ incerto.
“Stavo cercando un lavoro ..” disse, pensando che era una risposta insulsa. Se era lì, era alla ricerca di un’occupazione. Senza dubbio Marta meritava una visita anche senza quella necessità, che stava diventando impellente.
“Sì, ho capito. Che tipo di lavoro? Cosa sai fare?” replicò con dolcezza mostrando uno splendido sorriso.
“Beh! ho lavorato per tre anni in una fabbrica di minuterie metalliche come ..” e si interruppe incantato prima di completare il discorso.
“Ero assegnato alla selezione dei pezzi. Un lavoro delicato. Poi l’azienda è fallita e ho svolto molti lavoretti. Garzone, operaio, cameriere,..”.
“Ho compreso” lo interruppe la ragazza, aggrottando leggermente la fronte.
Marco la trovò deliziosa. Quasi stava dimenticando il motivo per il quale era entrato.
“Non hai trovato niente di meglio?” chiese curiosa e sorpresa.
“No, purtroppo. Tutti, per quel lavoro, chiedevano una laurea. Sai, ho solo il diploma di un istituto professionale per l’industria e artigianato. Ero bravo ma sembra che sia servito a poco” disse Marco amareggiato.
Marta abbassò lo sguardo e cominciò a cercare qualcosa.
“Mi spiace ma non c’è nulla che possa fare al tuo scopo. Se vuoi lasciarmi i tuoi dati, nel caso che ..”.
Lui la guardò smarrito e disse che avrebbe accettato un qualsiasi lavoro perché non poteva rimanere ancora senza un’occupazione.
La ragazza gli diede alcuni indirizzi. Una piccola scintilla sembrava scoppiata tra loro, almeno questa era l’impressione di Marco. Gli lasciò i suoi dati e il numero di telefono.
“Se capita qualcosa, ti chiamo. Ciao” e si salutarono.
Lui stava aspettando questa telefonata, perché quegli indirizzi erano stati solo fonte di delusioni cocenti. Lavori umilianti, sottopagati. Però era meglio di niente. Si esaurirono in breve e adesso era in attesa. I soldi stavano finendo senza nessuna prospettiva a breve termine. Aveva cercato anche in altre agenzie di lavoro interinale ma la risposta era stata sempre la medesima «non abbiamo nulla per lei». Aveva provato a inviare qualche curriculum ma tutto era rimasto muto. La crisi stava mordendo tutti e nessuna si sbilanciava ad assumere, anche temporaneamente, qualcuno.
Continuò a guardare gli uccelli che volavano liberi da un ramo all’altro, dal ciliegio alla quercia. Era deluso e amareggiato quando risuonò una musichetta familiare, quella dei Doors. Osservo il display «numero privato» e toccò il tasto verde per rispondere.
“Ciao! Sono Marta. Ti ricordi? Quella del Objob ..” e fece una pausa.
“Ciao! Certo che mi ricordo di te!” rispose entusiasta, risollevandosi dal triste mutismo che l’aveva travolto.
“C’è una buona opportunità! Cercano una figura professionale come la tua. Contratto a progetto. Mesi sei. 1200€ al mese circa con buone prospettive per il futuro ..”.
“Oh!” fu l’unica risposta di Marco.
“Ma di questo ne parliamo dopo. Volevo invitarti a mangiare la pizza ..” continuò la ragazza.
Lui fu colto dal panico. Fece un rapido calcolo: in cassa rimanevano disponibili solo 100€. Dunque era impensabile uscire con Marta.
Stava per dire qualcosa, quando riudì la voce della ragazza.
“Volevo dirti. La pizza la preparo io. La mangiamo a casa mia, se sei libero”.
Marco guardò fuori. Sulla quercia quel piccolo uccello colorato continuava il suo banchetto, mentre le gazze stridevano felici sul ciliegio.
“Sì! Vengo volentieri! Ho due coke in frigo. Per festeggiare”.
La ragazza riassunse il suo tono professionale.
“Se mi dai l’okay, puoi cominciare domani. E’ una bellissima opportunità! Devi portarti solo il libretto di lavoro. Stasera ti spiego tutto. Alle otto”.
“Dove? Non so dove abiti” replicò prima che lei chiudesse la conversazione.
“E’ vero! In via della Vittoria, 13. Sai dove si trova?”.
“Sì. Alle otto. Ma quale campanello suono?”.
“Che sbadata! Mi sembra di conoscerci da una vita e do per scontato che tu sappia tutto! Mercuri. Terzo piano interno 15. Ciao! Ti lascio. E’ entrato qualcuno”.
A Marco sembrò di udire uno schiocco di labbra prima del segnale di libero.
.. E lei fu lì..
..E lei fu lì. All’improvviso. Comparve dal nulla con il suo volto, il suo sorriso e quegli occhi che lui adorava. Non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima ma ogni volta gli pareva che uscisse dal bianco della carta o che affiorasse come se infrangesse una leggera crosta di ghiaccio. Doveva solo inclinare la bacinella affinché il liquido portasse a termine il miracolo: come per magia dove prima non c’era nulla, adesso c’era qualcosa. Poi lei compariva e lo fissava. Era l’istante impalpabile tra il vuoto e il pieno che gli rimaneva appiccicato a dosso come il miele sulle mani..
Marco spense la luce nell’anticamera prima di entrare nella camera oscura. Una tenue luce rossastra illuminava debolmente la stanza. Sembrava quei film di una volta, in bianco e nero, dove il protagonista sviluppava in un’atmosfera torbida negli aspetti. Si muoveva con sicurezza adattandosi alla scarsa luminosità con naturalezza. Una fila di cartoncini gocciolanti erano appesi a un filo che attraversava la stanza.
Li ignorò mentre riempiva la bacinella col liquido di sviluppo. Aveva un’altra serie di negativi da stampare con un unico soggetto: lei, la donna dei suoi sogni. Infilò il rullo nell’ingranditore senza tentennamenti. Si fermò un attimo a respirare prima di procedere con la stampa. Verificò che tutto fosse in ordine: bacinella, carta, filtri, rullo.
Marco odiava le moderne macchine digitali, perché diceva che perdonano tutti gli errori. Era rimasto fedele alla vecchia Fuijca Az1, un reperto archeologico nel mondo del digitale. Faceva sempre più fatica a trovare la pellicola giusta, specialmente quella in bianco e nero. Gli amici ridevano per le sue fissazioni. Però lui scuoteva la testa come per scacciare insetti fastidiosi. Per lui la fotografia era rimasta ai tempi di Frank Capa.
Ormai faceva tutto da solo dallo sviluppo del negativo alla stampa delle fotografie che riteneva ottimali. Non poteva sopportare la stampa meccanica, quasi industriale che ormai tutti praticavano. Aveva comprato per questo scopo un’attrezzatura di seconda mano, dismessa da uno studio fotografico, che si era convertito alle moderne teconlogie. L’aveva pagata pochissimo, qualche centinaio di euro, ma era come se fosse una Rolls Royce. Qualcosa di straordinario, di gran lusso dal valore inestimabile.
“Stampano anche l’aria” bofonchiò arrabbiato mentre lavava la pellicola dopo il procedimento di sviluppo, facendo attenzione che non rimanesse nemmeno una goccia di solvente.
“Non c’è il minimo pathos. Tutto meccanizzato con il prodotto finale inscatolato nella busta col solito CD delle miniature e delle foto in formato jpeg”.
Odiava quel mondo asettico e privo di anima, dove contava solo la velocità e la quantità di materiale trattato. Lui voleva trattare i singoli fotogrammi uno per uno, soppesandone le qualità. La fotografia doveva essere un’opera d’arte da lasciare in eredità a chi sarebbe venuto dopo di lui.
Appese la pellicola al filo e con phon la seccò con cura e delicatezza come se stesse asciugando i capelli dell’amata. Eva aveva una morbida cascata rossa, ondulata come il mare sotto la spinta di una leggera brezza. Marco si fermò un istante pensando a lei. Poi riprese a passare il getto caldo con attenzione, affinché non vi rimanesse una stilla di umidità.
Lei gli riempiva la mente con il suo sorriso, il suo corpo morbido e minuto, con quella chioma vaporosa e intrigante. Però erano soprattutto gli occhi, quelli che lo ammaliavano di più.
Con questi pensieri si avvicinò all’ingranditore, mettendo un nuovo fotogramma tra l’obiettivo e la luce. Si concentrò sulla messa a fuoco, anche se l’immagine della donna continuava a galleggiare eterea e impalpabile dinnanzi agli occhi.
Dopo aver armeggiato cautamente e pazientemente con l’obiettivo, coi filtri, si sentiva pronto a stampare la prima foto. Era ancora una volta il viso di Eva, colto mentre faceva una dei suoi sorrisi mozzafiato.
Un flashback apparve all’improvviso nell’osservare quel viso.
Era una domenica, qualche settimana prima per la precisione. Loro si trovavano nella pineta di ritorno dall’escursione domenicale al mare. Era una giornata ventosa che mitigava la calura di luglio. Un tipico giorno popolato dal quel turismo mordi e fuggi che ormai era diventato una costante in tempo di crisi. Mentre le ombre giocavano a rimpiattino con suo viso, Marco puntò l’inseparabile reflex verso di lei.
“Oh! No!” esclamò spalancando gli occhi in quel momento in ombra.
“Oh! Ancora una! Non ti stanchi mai?”
“No.” replicò dopo una serie di scatti in rapida sequenza.
L’abbronzatura dorata del corpo veniva valorizzata dal pareo azzurro che l’avvolgeva come un fascio di rose.
Eva si strinse a lui, facendogli sentire il profumo del suo corpo: un misto di crema solare e odore pungente che emanava sensualità. Marco inalò quell’effluvio di aromi che lo eccitarono. Si sarebbe fermato in quel tratto di pineta per fare all’amore con lei incurante delle persone che stavano intorno a loro ma proseguì.
Marco scacciò questi pensieri per concentrarsi sulla stampa della fotografia. Il timer suonò e spense la luce, mentre lui afferrò il cartoncino bianco e si avvicinò alla bacinella per lo sviluppo.
Ricominciava la magia del non c’era e del c’era.