Angelo – Storie di vita

tratto da Wikipedia
tratto da Wikipedia

“…Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere! Ora ho deciso, ti lascio ai tuoi ricordi, continua pure a nutrirtene, fantastica, vivi del passato”.

Queste frasi ronzavano nella mente di Angelo, accompagnate dal sottofondo prodotto dallo strofinio del piede sulla stoffa della poltrona. Un tic nervoso che lo pervadeva, quando non era in grado di gestire la situazione. E questa era proprio una di quelle.

L’amore di quella donna dichiarato così all’improvviso senza alcun preavviso, senza che lui se ne fosse accorto, lo sgomentava. Irruento, spavaldo, quasi rancoroso, come se lui fosse causa del turbamento di Zoe. Tutto questo lo aveva destabilizzato e terribilmente scosso. Non poteva crederci. Tutto gli appariva irreale.

Lo sguardo perso nel vuoto, la testa vuota dai pensieri, mentre con la mano destra sorreggeva il mento. La testa sembrava pesare più di un ‘Mille e una notte’ in versione integrale e copertina di cuoio rosso. Poi a dondolare il capo e a fissare lo schermo, che stava diventando buio. Fissava il monitor con le palpebre spalancate, come se ne avesse orrore. Eppure non doveva essere così. Tutt’altro.

Guarda avanti, Angelo” tentò di dirsi ma l’unico pensiero era rivolto al passato. Verso lei. Di nuovo Zoe.

Se guardava indietro, vedeva solo una donna con cui aveva litigato ferocemente. “È vero. È la madre di nostra figlia, ma…”. Angelo scosse il capo. “È stato vero amore oppure solo un disgraziato incontro che ha generato Beatrice?”

Quella donna, cosa rappresentava per lui: la sua condanna o la sua gioia?

Però era rimasto stupito da quelle parole, tanto belle quanto feroci. Non era la prima volta che una donna pronunciava frasi simili. Di sicuro non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Gli aveva rinfacciato di guardare al passato senza una prospettiva futura. “Ma come posso fare a non pensare a quel fugace incontro” sospirò Angelo, cambiando posizione. Adesso era la mano sinistra sotto il mento. “Come posso ignorare che è nata Beatrice?”

Angelo tolse il piede sinistro da sotto le chiappe, poggiandolo a terra. Ricordava come Zoe gli avesse rinfacciato di essere incinta ma era stata irremovibile. Niente nozze riparatrici, niente convivenza forzata. Niente di niente. Neppure il riconoscimento della figlia. Questo sarebbe rimasto un segreto tra loro.

“Ma che ne sanno gli altri di cosa provano due persone” si era detto Angelo. Forse per rincuorarsi o crearsi un alibi. “Eppure un buon motivo c’è per pensare a lei. Beatrice” ripeteva ogni volta che il suo pensiero andava a Zoe.

Quello che bruciava in lui era stato il suo abbandono, il suo negarsi con ostinazione. Ricordava Angelo quel giorno. Zoe gelidamente gli aveva detto “Me ne vado per la mia strada. Non cercarmi. Non farti vedere mai più”.

Perché?” aveva implorato Angelo, mentre lei senza rispondere gli aveva voltato le spalle.

Quel momento gli era rimasto impresso e a ogni istante aveva rivisto quella scena. Un supplizio, una sofferenza che lo accompagnava nel sonno. e lo riabbracciava nel tepore del risveglio.

Come posso non ricordare?” sospirò rumorosamente Angelo. “Perché ti sei fatta viva dopo anni di ostinato silenzio? Perché mi hai negato di vedere nostra figlia? Sì, sarà stato un incidente sfortunato, come hai sostenuto. Ma quell’unico amplesso era stato pieno di passione”.

Si alzò dalla poltrona. Aveva bisogno urgente di caffeina in dose industriale. Doveva tornare rapidamente in sé per difendersi da quel ricordo.

In cucina mise sul fuoco la caffettiera, riflettendo su quel messaggio. Qualcosa non tornava. Una dichiarazione d’amore, una stilettata feroce di odio, una richiesta di essere lasciata libera.

Che senso ha tutto questo?” rifletté Angelo, sorseggiando il caffè nero e amaro nell’unica tazza grande che possedeva. “Ho rispettato il suo volere, anche se mi costava fatica e dolore. Non ti ho cercata, né ho cercato di sbirciare di nascosto che volto avesse nostra figlia. Eppure tu mi scrivi ‘Perché Angelo? Perché non lo fai? Lasciami andare! Fammi volare! Fammi vivere!’”.

Angelo osservò fuori dalla finestra della cucina. Una brezza leggera e tenue sospingeva le foglie degli alberi cadute in terra. “Siamo in autunno e le piante mostrano la nuova livrea. Colori sgargianti, come se fossero usciti dal pennello pazzo di Van Gogh”. Era il pensiero di Angelo, che continuava a bere il suo caffè.

Se Zoe non era mai stata cancellata dalla sua mente, adesso diventava un chiodo fisso. Doveva capire per agire. “Cosa ha voluto trasmettermi?” si domandava dondolandosi sulle gambe. “Chiede aiuto? Vuole ricominciare una storia che non è mai partita?”

Angelo tornò nello studio, posizionandosi ancora sulla poltrona. Però era inquieto. Quel messaggio continuava a ronzargli nelle tempie.

Rispondo?” fece Angelo, socchiudendo gli occhi.

Li riaprì di colpo con lo sguardo fisso. Le labbra serrate, la mente chiusa a qualsiasi pensiero. Si alzò di scatto dalla poltrona e tornò in cucina. Aprì il pensile e prese un piatto. Lo guardò con lo sguardo smarrito, mentre la mascella faceva digrignare i denti. Era l’unico ricordo di quella sera, che aveva conservato. L’istinto gli suggeriva di scagliarlo lontano, fuori dalla finestra ma lo ripose con cura dove era stato in tutti questi anni. Rappresentava l’unico legame con Zoe e Beatrice. “Ma sarà davvero nata Beatrice?” si domandò con l’occhio perso nell’osservare le foglie che cadevano. Scosse la testa. Non poteva dubitare. Uscì dalla cucina, mentre si aggrovigliava i capelli sale e pepe.

Tornò davanti alla postazione del computer e mise la mani dietro la nuca. Poi le incrociò davanti alla bocca. Lo schermo era buio ma sapeva bene cosa stava sotto. Quel messaggio che l’aveva inquietato.

Quel mercoledì sera Angelo continuava a riflettere. Colto da un guizzo di vivacità, tirò giù le gambe dal bracciolo della poltrona. Aveva proprio bisogno di una bevuta e una fumata. Forse gli avrebbe schiarito la mente o solamente sedato i suoi dubbi. Attraversò la stanza e si avvicinò alla piccola libreria affianco alla porta. Era una libreria di tipo svedese, quelli in voga negli anni sessanta. Non ricordava il tempo che la puliva. Due dita di polvere erano depositate su libri e oggetti. Rovistò in quel ammasso di materiali di variabile natura che stavano sugli scaffali, addossato alla parete. Non sapeva dove cercare ma cosa, quello sì.

Estrasse una vecchia scatola di latta rettangolare. Non era voluminosa, perché poteva stare sul palmo di una mano. Sul coperchio c’era stampata una yankee vestita in bianco, che teneva un ombrellino da sole aperto sulla testa, e sopra di esso una scritta sbiadita e quasi illeggibile. Lasciava intuire essere stata un tempo la pubblicità di un prodotto di grande diffusione dell’epoca.

Con fatica aprì il coperchio e vide con delusione che il tabacco biondo era diventato polvere. La gettò sul tavolo innervosito.

Il messaggio di Zoe tornò netto nella sua testa e con esso tutti i dubbi che aveva cercato di cancellare.

Allora si mosse verso il mobile bar, un pezzo non meno vecchio della libreria e ugualmente impolverato. Conteneva dozzine di bottiglie, piccole, grandi, quadrate, rettangolari, cilindriche, a collo largo oppure stretto, con qualche chicca da esposizione. Nessuna era stata acquistata in modo regolare. Tutte arraffate con arte a Murano, durante un convegno del partito sullo sviluppo della piccola e media impresa e sull’artigianato in via d’estinzione. Si trovava in uno degli alberghi più esclusivi della zona. Così per gioco oppure per voglia di trasgredire le aveva prese. “Esproprio proletario!” aveva affermato Angelo, quando le aveva riposte nel mobile bar.

Scelse una vecchia bottiglia di vodka ma non ebbe il coraggio di aprirla per una semplice bevuta per schiarirsi le idee. Era una bottiglia molto rara. Giudicava che per Zoe era troppo. Quindi optò per un Havana Club del 1950, che faceva capolino dalla terza fila. Presa la bottiglia e il bicchiere tornò verso la scrivania. Posò tutto quanto sulla tavola accanto alla scatola di latta. Prima doveva farsi una doccia bollente. L’acqua scrosciava sulla sua testa mentre lui, immobile sotto la cipolla, continuava a pensare a quel messaggio tanto enigmatico quanto confuso. Uscito dal box, con l’accappatoio ancora addosso, tornò davanti al computer. Mise un vinile di Pat Metheny ormai consumato sulla piastra. Riempì il bicchiere col rum. La bottiglia la posò di fianco al PC per non dover alzarsi, quando il bicchiere fosse stata vuoto. Osservò la scatolina con la donna in bianco con nostalgia. Gli ricordava quando studente di lettere stava sui gradini della facoltà a prepararsi uno spinello.

Andò in camera per mettersi qualcosa di comodo e pulito in dosso, prima di tornare alla postazione del computer. Scosse la testa per scacciare quei lontani ricordi e si sistemò davanti allo schermo decisamente buio.

Attese le prime note dal giradischi per far partire il movimento della gamba. Il ritmo, che produceva la fusione tra le chitarre e il piede che mangiava la stoffa, favoriva la concentrazione necessaria a preparare la risposta oppure a decidere di non fare nulla. Sorseggiò il rum, tenendolo per qualche attimo nella bocca. Lo gustava con calma. Aveva un sapore forte e dolce nello stesso tempo. L’annata era favolosa. Toccò la tastiera per far comparire la schermata di blocco. Aveva deciso. Avrebbe risposto. Tutto era diventato chiaro nella sua testa.

Alzò le mani per colpire la tastiera con decisione. Non riuscì a completare la manovra perché il campanello squillò a lungo come se fosse arrabbiato per il lungo silenzio.

Angelo si alzò furioso per vedere chi fosse l’intruso. Lo schermo del videocitofono a colori mostrò un’immagine che lo lasciò di stucco. Era a bocca aperta a inghiottire dell’aria, quando sentì una voce da ragazzina.

Mi apri, papà?” e dopo una breve pausa “Sono Beatrice”.

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La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina – Le fiabe mai raccontate

il mio frutteto - Foto personale
il mio frutteto – Foto personale

Una sera di fine ottobre si ritrovarono sul social Fiabe&co2.0 La Bella, la Sirenetta e Prezzemolina.

Era il social emergente, che aveva schiantato e spazzato via la concorrenza. Twitter era fallito un anno prima. Un crack così non l’aveva mai visto nessuno. Milioni di azionisti avevano minacciato di picchiare a sangue Dorsey, il CEO, perché era riuscito ad azzerare tutti i loro soldi.

Tumbir navigava a vista tra le acque infide di scogli sommersi. Di certo non sarebbe arrivato a fine anno.

Istangram aveva chiuso due anni prima. Di questo si erano persi i ricordi. Nessuno lo rimpiangeva.

WordPress vivacchiava tra i sussulti di Lady Nadia e gli anatemi di Lady Alessandra. Però era gratis e qualche fan incallito, come Newwhitebear, lo frequentava ancora. Li chiamavano i ‘nostalgici’.

Facebook aveva conservato qualche milione di iscritti. Gli irriducibili, come si definivano loro ma Zuckenberg pensava di chiudere bottega. Pieno di grana poteva permettersi di vivere di rendita, facendo il finto filantropo.

Insomma una disfatta su tutta la linea.

Un giorno di qualche anno fa i fratelli Grimm con la collaborazione di Andersen, Perrault e Afanasjev decisero che era tempo di cambiamenti. “Basta la foresta pietrificata dei social spammatori!” argomentarono, dondosi da fare nel creare da nulla la loro creatura. Nacque Fiabe&co2.0. Fu un successone. Tutti in fila per iscriversi. A darsi di gomito per affermare ‘io mi sono iscritto ancor prima che emettesse un vagito”.

Ma adesso torniamo alle nostre amiche che videochattano, videoparlano, videoano solo. Insomma fanno quello che meglio riesce a loro.

La Bella non ricordava il proprio nome, anzi era l’unico che conoscesse. Da quando era in fasce la chiamavano così. E quello era rimasto appiccicato come un nastro adesivo. Lei era La Bella e basta. Non che le dispiacesse sentirsi chiamare così. Tutt’altro! Sapeva di essere il meglio del reame ma fingeva umiltà, mentre dentro di sé gongolava per la soddisfazione, pensando come erano scorfano le sorelle. Ma l’aspetto peggiore era come erano finite. La maggiore aveva sposato una persona, che passava il suo tempo a specchiarsi. Non faceva altra attività che quella. La sorella maggiore, se voleva un po’ di sesso, doveva arrangiarsi come poteva. Il marito era fisso davanti allo specchio. “Manco fosse Narciso” pensò La Bella, sghignazzando. La seconda aveva incrociato uno bello spirito. Tanto bello, quanto vanesio. “Beh!” si diceva sempre, “almeno ho sposato la Bestia. Bruttina ma tanto di buon cuore. E poi mi lascia campo libero. Faccio quello che voglio” e giù una sghignazzata da far spavento anche alla Bestia.

La Sirenetta stava sul proprio scoglio a Copenhagen, sempre indaffarata mandare via gli scocciatori, che pretendevano di prendersi un pezzo della sua coda. Aveva faticato un sacco a recuperarla. Mica adesso poteva regalarla impunemente ai turisti armati di forbici e macchine fotografiche. I più terribili erano i giapponesi. Sembravano cavallette. Un sospiro le sfuggì dalla bocca. Il principe consorte se ne stava sempre dentro il suo palazzo di rilucente pietra gialla. La Sirenetta non era convinta che fosse vera pietra ma mattoni auriferi. Rilucevano troppo. E quando non era dentro, stava sul terrazzo a rimirare il chiaro di luna. “Uffa, che barba” si disse la Sirenetta, vagamente annoiata. “Se non fossi su questo scoglio a prendere sole e difendermi dagli scocciatori. Sai che noia, sai che barba!” La Sirenetta segnava al sorgere del sole un’asta, che barrava al tramonto. Teneva il conto di quanti giorni le rimanessero da vivere, prima di diventare spuma nell’acqua. “E va bene che campo trecento anni. E di giorni ne mancono ancora un bel po’” rifletté, mentre si metteva in posa davanti alla webcam. “Però prima di diventare spuma, mi voglio godere la vita”.

Prezzemolina, con le stimate del prezzemolo come marchio di fabbrica sul palmo della mano sinistra, curava le sue preziose trecce lunghe venti braccia. “Uffa” si disse un giorno. “Questi capelli saranno la mi rovina”. Perdeva delle ore a lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Poi quando aveva finito ricominciava a scioglierli, lisciarli, spazzolarli e intrecciarli. Insomma un ciclo perpetuo a movimento continuo. Il solito principe, che aveva sfidato l’orchessa per impalmarla, soffiava come un mantice in azione dal fabbro ferraio “Da quando è scesa dalla torre” pensò arrabbiato, “non fa altro che quello. Giorno e notte. Se mi avvicino per fare all’amore, mi risponde ‘Aspetto, quando ho finito’”

Dunque le tre amiche, che si erano incontrate per la prima volta su Fiabe&co2,0, tutte le sere alle venti avevano l’appuntamento. Cascasse il mondo, tremasse la terra, avessero un febbrone da cavallo, si trovavano sempre davanti al monitor. Cuffie nelle orecchie, webcam attiva, microfono aperto e pronte a digitare sulla tastiera.

“Che stai facendo, Sirenetta?” le chiese La Bella, che non capiva i movimenti dell’amica.

La Bella udì un forte brontolio simile al mare in burrasca. “E va bene che suo padre è il dio del mare. Ma ricordarlo sempre è troppo” si disse, storcendo il naso.

“Lasciami perdere” borbottò la Sirenetta, mentre teneva stretto lo smartphone tra orecchio e spalla. Quello era sempre attivo. La chiamavano la telefonista seriale. Sempre con lei, ovunque fosse. Anche in bagno.

“Ma dimmi cosa è successo?” si inserì Prezzemolina, che aveva appena finito di raccogliere la treccia ma si apprestava a scioglierla.

“Amiche care” sbuffò la Sirenetta. “Qualche coglione di writer si è divertito a scrivere sul mio scoglio preferito”.

La Bella sorrise. Prezzemolina aggrottò la fronte.

“Ma cosa ha scritto?” chiese curiosa Prezzemolina, mentre era alle prese con la sua treccia.

“Ha scritto che i danesi non vogliono migranti provenienti dal mare” esclamò con il viso rosso per la rabbia la Sirenetta. “’Torna da dove sei venuta. I danesi non ti vogliono sui loro scogli’ Ma vi sembra il modo di ringraziare chi attira milioni di visitatori l’anno?”

La Bella si allontanò un attimo fuori dalla visuale della webcam, chiudendo il microfono. Non riusciva a trattenere una risata fragorosa. Poi ricomposta si mise di nuovo in postazione.

“Ma non hai la pelle scura, Sirenetta!” chiosò La Bella con lo sguardo serio, mentre rideva di lei.

La Sirenetta arrossì un pochino, prima di rispondere.

“Beh! In realtà” sospirò rumorosamente la Sirenetta. “Un pochino lo sono. Sai a forza di stare sullo scoglio al sole, mi sono dorata. È bella ma pare l’abbronzatura del muratore”.

Una breve risata uscì dalla bocca della Sirenetta, che continuava a dare olio di gomito per togliere le scritte dallo scoglio.

Prezzemolina, rimasta in silenzio fino a quel momento, decise di intervenire.

“Sono dei razzisti, quei danesi!” fece alzando la voce. “Dovrebbero essere più riconoscenti, quegli zoticoni!”

La Bella di rincalzo. “Non ti meritano, Sirenetta. Posso darti ospitalità nel pazzo della Bestia. È tanto vasto che a volte mi perdo. Per fortuna il lupo, che si è pappato l’orchessa mi ritrova e mi riporta nelle mie stanze”.

La Sirenetta strabuzzò gli occhi. “E come ci arrivo?” disse, interrompendo per un attimo di strofinare lo scoglio.

Prezzemolina sospirò, pensando che sarebbe bello trovarsi tutte e tre sotto lo stesso tetto. “Sai quante chiacchiere?”

Prezzemolina stava per dire qualcosa, quando udì una possente voce.

“Bella, che fai? Ho fame!”

“Uffa” disse La Bella, corrugando la fronte. “Ma lo sai che sto parlando con le amiche. Ancora un attimino”.

Poi volgendo lo sguardo alla webcam, aggiunse. “Lui pensa solo a mangiare. È grasso come un porcello all’ingrasso. Ci sentiamo domani alla stessa ora”.

“Ciao” rispose la Sirenetta. “A domani”. E spense la webcam.

“A domani” disse Prezzemolina, che stava rifacendo la treccia.

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Una vita – parte dodicesima

Foto personale
Foto personale

Il sole era alto e scottava, quando Luca scese nell’atrio del casale, dove trovò Maria appisolata su una vecchia poltrona di vimini.

La osservò in silenzio, ascoltò il rapido sibilo del naso e il rauco gridare della bocca semi aperta e decise che non era il caso di svegliarla.

Si guardò intorno, diede una rapida sbirciata al giardino sperando di incrociare il viso di Simona ma tutto sembrava calmo e tranquillo come una delle tante giornate di luglio.

Trasse un profondo respiro, si girò per ritornare nella camera e si avviò lentamente verso le scale, quando un gemito potente richiamò la sua attenzione.

“Signor Luca!” udì una voce impastata da sonno e stanchezza che sembrava provenire dal mondo degli inferi.

“Signor Luca!” ripeté la voce. “Simona è andata al mare. La troverà al bagno Garden”.

“Grazie” rispose l’uomo voltandosi lentamente come se avesse il timore di svegliare completamente quella voce, mentre vedeva il viso di Maria contratto in una smorfia di stizza e di fastidio.

Non era sua intenzione di andare al mare ma doveva fingere di essere contento, come gli imponeva la parte razionale, perché così doveva apparire agli occhi della gente. La fantasia insorse, affermando che doveva dirlo apertamente che non ci sarebbe andato. Il nuovo bisticcio confuse le idee di Luca che stava incerto se dire a Maria, che sarebbe andato altrove. Risalì in camera come per istinto senza un preciso motivo.

Di lì a qualche minuto ridiscese le scale e chiese come avrebbe fatto a raggiungere il famoso bagno Giardino.

Maria provò a spiegargli che il bagno si chiamava Garden e non Giardino, che non sarebbe stato difficile raggiungerlo e che li avrebbe aspettati per cena.

Luca annuì uscendo, ma intuiva che non sarebbe stata una passeggiata. Il caldo mozzava il respiro e ronzava pericolosamente nella testa.

Girò a lungo per il paese cercando con affanno la strada del mare senza riuscire a trovarla, distratto dal pensiero di Ersilia.

Dopo la fugace avventura con la francesina dal sorriso dolce era ritornato in città in attesa di cominciare la sognata università, che avrebbe cambiato tutte le sue abitudini scandite dagli orari del liceo.

Una sera, mentre sedeva solitario nei giardini pubblici, incrociò lo sguardo di Ersilia e subito divenne audace.

“Ciao!” le disse andandole incontro mentre la testa entrava in tumulto come al solito.

Ersilia allargò le braccia e lo strinse con vigore a sé, mentre lui la baciava sulle labbra senza timori e senza arrossire. Questa volta il colpo secco, che aveva dato ai suoi pensieri, non l’avevano mandato in tilt e la partita poteva continuare.

L’abbraccio gli sembrò lunghissimo con le bocche che continuavano a restare unite. Si guardarono e scoppiarono a ridere, forse pensando all’ultimo incontro che era stato un fallimento.

Luca cominciò a parlare in maniera sciolta e senza timore, le prese la mano e camminarono a lungo nel buio rotto dalle lampade pubbliche. Lei sembrava felice di ritrovare quel ragazzo impacciato e timido dopo diverse storie una più fallimentare dell’altra. Quell’incontro casuale le aveva aperto gli occhi. Luca era imbranato ma sincero nelle sue manifestazioni d’affetto.

“Ci vediamo domani alle undici in piazza” le disse senza nemmeno porsi il problema se lei era disponibile o desiderava rivederlo.

“Alle undici” rispose Ersilia, mentre un nuovo focoso bacio suggellava quel fortuito incontro.

Giorno dopo giorno la loro storia si cementava nelle aspettative e nelle convinzioni fino a diventare solida come il granito. Gli anni dell’università volarono come coriandoli al vento perché volevano convalidare il loro amore con il matrimonio.

Le immagini scorrevano veloci dinnanzi agli occhi senza posa e senza interruzioni, quando all’improvviso tutto diventò buio e i ricordi sparirono.

Luca aprì gli occhi, ma vide solo buio.

Sentiva freddo senza percepire da dove venisse. Eppure doveva essere estate ma non ricordava quando.

Si mosse, ma si sentiva impacciato, legato come se fosse costretto in qualcosa d’angusto. Non capiva il motivo di queste sensazioni sgradevoli.

Provò a parlare ma non udiva il suono della sua voce. Solo un sibilo, che attribuì ai suoi polmoni.

Richiuse gli occhi per verificare che non fosse un sogno. Percepiva che era una realtà diversa che non riusciva a focalizzare. Provò a concentrarsi su un pensiero, su Ersilia ma mille altri immagini si affollavano caotiche nella mente.

“Quale è stata l’ultima sensazione?” si chiese incerto senza trovare una risposta degna di questo nome.

“Dove sono?” provò a chiedersi inutilmente.

E chiuse gli occhi per calmare il peso che aveva dentro.

E fu per sempre.

FINE

parte undecima

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Una vita – parte undecima

copertina
copertina

Simona si sentiva leggera, stanca ma appagata dalla lunga chiacchierata notturna. La mente era lucida, mentre dubbi e incertezze erano volati via col sorgere del sole.

Maria l’ascoltava attenta mentre sorseggiava un caffè ormai freddo e annuiva convinta. Percepiva un cambiamento benefico nella ragazza, come se l’involucro protettivo nel quale era avvolta mostrasse le prime fattezze di quello che sarebbe diventata tra non molto. Lei conosceva tutta la storia di Simona, anche se non ne aveva mai parlato direttamente, perché Lina le aveva narrato tutti i particolari. Il padre aveva strepitato a lungo tentando di intercettare la cognata per conoscere il nascondiglio della bambina. Però era stato dissuaso dalla minaccia di uno scandalo, che avrebbe travolto tutti e lui per primo. Il destino era stato benevole con loro e aveva dato una mano alla zia, perché il padre una notte, tornando a casa ubriaco, era stato travolto da un auto. La sorella, sempre più debole psichicamente, non aveva retto alla perdita del marito, dapprima richiudendosi in un mutismo esasperato, poi suicidandosi per il rimorso di non averlo contrastato.

Così i genitori di Simona se ne erano andati tragicamente travolti dalle loro stesse debolezze senza che lei sapesse che era rimasta orfana.

Simona conosceva qualcosa ma non tutto, perché zia Lina e Maria non avevano voluto aggiungere un trauma alla drammatica scoperta di come avesse vissuto pericolosamente coi genitori. Questo peso era stato un macigno sulla vita affettiva della ragazza, perché avvertiva l’incompletezza delle informazioni ricevute. Aveva percepito il caldo affetto delle due donne che l’avevano accudita e protetta durante quegli anni ma si sentiva incompiuta e dimezzata. Le sensazioni, che un padre premuroso poteva offrire a una figlia, non erano sostituibili minimamente da una figura femminile. Non era mai riuscita a essere del tutto sincera con loro, perché a torto non percepiva nelle due donne la sensibilità di una madre. Quindi determinati aspetti delle emozioni che i primi amori avevano suscitato in lei erano stati taciuti oppure minimizzati, perché provava una certa vergogna a confidarsi con loro. Però adesso comprendeva quanto fosse stata ingiusta e ingrata nei loro confronti, perché se era cresciuta solare e serena il merito era tutto loro.

Sia Simona che Maria sapevano di essere state in debito una con l’altra ma adesso era venuto il momento di chiarire tutto senza che queste rivelazioni potessero costituire un trauma.

Mentre Luca dormiva di un sonno profondo e senza sogni, Maria cominciò a parlare. “Credo che sia giunto il momento di raccontare quello che in tutti questi anni io e Lina abbiamo taciuto” e cominciò a narrare senza tralasciare nulla. La ragazza aveva gli occhi lucidi per l’emozione perché il mosaico incompleto dentro la mente prendeva forma e consistenza, lasciando intravedere il disegno finale.

Adesso comprendeva perché quel buffo ometto calvo e anziano aveva suscitato in lei delle sensazioni mai provate prima. Non le ricordava un padre, del quale aveva perso la fisionomia ma nemmeno le trasmetteva quell’amore paterno che non aveva mai assaporato. “No, non sono questi gli aspetti di quella empatia sorta tra me e Luca” si disse, ascoltando il lungo monologo di Maria. Era dunque quell’aria sognante, quasi eterea che aleggiava intorno a lui il vero segreto dell’attrazione. Il racconto di Maria era crudo, disincantato tale da non suscitare rimpianti, molto diverso da quello che avrebbe voluto ascoltare nel suo immaginario. Non provava odio verso i genitori, ma semplicemente disgusto per quello che avevano fatto e per quello che non erano riusciti a donare.

“È vero” si disse e ribatté silenziosamente: “È vero. Ho sempre sognato una madre che mi avrebbe guidato nel difficile cammino di diventare donna, mentre il padre mi avrebbe fornito sicurezza e protezione verso i guasti del mondo. Però non ho avuto né l’uno né l’altro”.

Questo non le aveva impedito di crescere pacata e piena di voglia di vivere per l’affetto sincero e premuroso di zia Lina e Maria. Però avvertiva che in realtà gli erano mancati i sogni, il cullarsi nelle notti tra desideri e visioni, perché due genitori ingrati e per nulla affettuosi glieli avevano rubati.

Luca sembrava vivere in una dimensione che non apparteneva al mondo del reale ma in una atmosfera soffice e ovattata, come le nubi che amava vedere scorrere nel cielo azzurro.

“Ecco il motivo per il quale mi sono sentita risucchiare verso di lui” ripeteva felice Simona. Lei amava distendersi su quel prato ad osservare il cielo e le nuvole bianche che componevano e scomponevano immagini fantastiche, mentre la fantasia la spingeva a salire e cavalcare quei batuffoli di bambagia bianca come mitici destrieri. Non aveva mai compreso la vera natura di quelle fantasticherie, che attribuiva alla sua natura appassionata e desiderosa di affetto.

“No!” ripeté con forza silenziosamente. “No! Non riuscivo a esprimere i miei sogni, perché non sono stata in grado di materializzarli”.

La vicinanza di Luca, che inseguiva il sogno di essere se stesso, le aveva aperto gli occhi su questo spicchio nascosto della sua personalità. Era proprio un viaggio apparentemente assurdo, seguendo il solo istinto, la molla che lo teneva in vita dopo un’esistenza dedicata all’apparire piuttosto che all’essere. Aveva intuito che lui era alla ricerca del cambiamento interiore, perché non era importante la meta ma il percorso, il movimento che conduce alla rivelazione di una parte di sé che per tanti anni era rimasta mascherata.

Anche lei doveva operare una trasformazione interiore per incidere sulla prospettiva di quello che voleva veramente dalla vita, per cambiare il suo modo di essere donna, di amare e di essere riamata. Doveva iniziare un nuovo percorso per capire se stessa e gli altri senza la mediazione, di chi le stava intorno, così poteva riappropriarsi di qualcosa che già le apparteneva ma che non sapeva di possedere.

“I miei sogni sono diversi da quelli di Luca. Ma sono questi che devo inseguire se voglio nascere una seconda volta” concluse mentre Maria snocciolava eventi e considerazioni, che non le interessavano più.

Simona abbracciò Maria e disse: “Grazie!”

parte decima parte dodicesima

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una vita – parte decima

Alba - foto personale
Alba – foto personale

Maria aprì la finestra e scorse sotto il fico Simona e Luca.

«Simona, mi porti un cliente e poi lo tieni sotto le stelle?» disse ironicamente la donna, che si era stupita di vederli seduti a chiacchierare sul dondolo.

Lei avvampò per il rimprovero senza rispondere. Pareva una bambina, colta con le mani nel vasetto della marmellata.

«Signora» rispose Luca, vedendo la ragazza con le guance rosse e la bocca chiusa. «Simona mi ha fatto strada stanotte. Poi ci siamo fermati a fare quattro chiacchiere. C’era un invitante cielo stellato sopra di noi».

Maria sorrise, scuotendo il capo per la precisazione di Luca, che riteneva superflua.

«Scendo ad aprirvi il portone» disse, chiudendo la finestra.

Simona era in preda all’agitazione, perché aveva colto nella voce di Maria un rimprovero. Avrebbe voluto scappare, fuggire lontano ma la mano di Luca la trattenne e le trasmise fiducia. Il trambusto interno si placò, mentre dentro di lei avvertiva calma dopo la tempesta per le parole di Maria, comprendendo che le aveva fraintese. La aveva sovraccaricate di significati che non corrispondevano al messaggio che lei voleva trasmettere.

Simona dopo le riflessioni notturne acquisì la consapevolezza che non era più una ragazza. Aveva trent’anni. Era una donna adulta. Era giunto il momento di crescere e uscire dal proprio guscio. Non poteva rimanere chiusa nel suo mondo limitato, nel quale aveva vissuto fino allora. Doveva intraprendere un nuovo cammino per ricominciare a vivere in maniera differente.

Il sole stava sorgendo illuminando il giardino, mentre i primi raggi inondavano il fico già carico di frutti che tra un mese sarebbero diventati dolci e saporiti, mentre le gocce di rugiada diventavano vapore.

Maria sul portone richiamò la loro attenzione. «Restate lì» intimò a Luca e Simona. «Fra cinque minuti vi servo la colazione. Bombolone caldo e caffè bollente!»

Queste parole scatenarono in Luca un’altra ondata di ricordi. Rammentava le veglie estive notturne che si concludevano nel bar della spiaggia tra l’odore dolciastro del bombolone appena sfornato e del caffè amaro che gorgogliava nella napoletana. Allora aveva il gusto della voglia pulita di divertirsi nelle balere, dove si ballava stretti e accaldati al suono delle melodie lente e sognanti. Adesso era il simbolo della trasgressione e dello sballo, assordati da musica techno a tutto volume, a bere e prendere pasticche fino allo stordimento.

C’era un turbinio di idee dentro la mente di Luca, che rendevano sempre più opaca la sua visione dopo la lunga notte insonne e chiacchierata. Avvertiva la necessità di sdraiarsi su un letto e di chiudere gli occhi, di staccare la mente dal corpo ma doveva restare lì ad aspettare la colazione.

Maria portò un tavolo rotondo vicino al dondolo con alcune sedie e si fermò un attimo con loro per soddisfare la curiosità di conoscere gli argomenti interessanti che li avevano tenuti svegli.

«Nessuno» replicò con prontezza Luca, impedendo a Simona di rispondere. «O meglio tanti piccoli racconti di vita vissuta. Nulla in particolare».

Maria si allontanò insoddisfatta senza insistere ulteriormente.

Il leggero moto del dondolo e i caldi raggi del sole li fecero assopire in un dormiveglia rilassante, interrotto dal profumo zuccheroso del bombolone e da quello intenso del caffè.

L’atmosfera si riscaldò come la temperatura della mattina che faceva presagire una giornata caldissima. Erano anni che non gustava una colazione così genuina, perché fino a pochi giorni prima consisteva in un caffè amaro condito da qualche biscotto insapore.

Nonostante il caffè l’avesse svegliato completamente, percepiva la necessità di raccogliere le idee e staccare la spina da tutti quegli avvenimenti che con frenesia aveva vissuto nelle ultime ventiquattro ore. Salutate le due donne, che continuarono a parlare, si ritirò nella stanza a meditare in solitudine e al buio.

Si tolse i vestiti umidi di rugiada e di sudore per indossare pantaloncini e polo, mentre si sistemava su una poltrona di vimini. Aveva letto un libro, del quale non rammentava il titolo. Aveva presente visivamente solo la copertina e ne ricordava il contenuto. Trattava della casa da tè giapponese. Era rimasto incuriosito da quella pratica orientale per consumare una bevanda, che per loro racchiudeva la visione della vita. Si era ripromesso che, se un giorno si fosse recato in Giappone, ne avrebbe frequentato una. Era uno dei tanti sogni desiderati ma difficili da realizzare.

Adesso percepiva la necessità di riflettere, o meglio di svuotare la mente, per concentrarsi. Ripeteva, come un mantra, le tre parole, che ricordava di quella lontana lettura: vuoto, silenzio e meditazione. Però non riusciva a concentrarsi, perché era distratto da mille pensieri.

“Cosa faccio in questa stanza?” si domandò inquieto, perché il silenzio appena disturbato dal canto di un cardellino tardava ad arrivare.

“Perché mi sono lasciato coinvolgere emotivamente da una ragazza che mi ha scambiato per il padre che le manca?” si chiese, mentre tentava di sprofondare nel vuoto che era una dimensione sconosciuta per lui.

“Cosa vado cercando con questo viaggio senza meta?” si interrogò, mentre meditava sui motivi del suo vagabondare tra i ricordi del passato.

Luca si sforzava ma silenzio, vuoto e meditazione erano un miraggio difficile da ottenere.

Poi lentamente la stanchezza prese il sopravento mentre scivolava nel vuoto di un sonno senza sogni.

parte nona parte undecima

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Una vita – parte nona

Luca era interdetto per la determinazione della ragazza nel volerlo accompagnare al casale senza trovarne le motivazioni.

Un pensiero fisso gli tormentava la mente, come il martello del fabbro sull’incudine: “Perché?”. Gli sembrava una ragazza seria, affidabile ma dallo sguardo smarrito come se cercasse disperatamente di estrarre dal proprio petto dei segreti, senza trovare l’ardire di farlo. Eppure non si era dimostrata timida quando lo aveva invitato a fermarsi per la sera e neppure poco prima con l’invito di trascorrere insieme la giornata al mare. Vedeva in lei la figlia e null’altro.

“Vediamo cosa vuole dirmi” pensò Luca, mentre continuava a parlare di mille altri argomenti.

«Perché ha intrapreso questo viaggio?» domandò Simona all’improvviso, mentre imboccavano il viottolo che conduceva al casale. «Non mi sembra che abbia una meta precisa».

Luca si fermò di colpo e rise allegro. «Si nota?» chiese con lo sguardo serio. «Quel darmi del lei, mi invecchia oltre misura».

Ripresero a camminare, salendo lungo la ripida salita.

«Ci provo ma non contarci» fece Simona, accennando un mezzo sorriso.

Luca non rispose, perché aveva il fiatone per la fatica di percorrere quel tratto di sentiero che portava all’aia del casale. Si riscoprì vecchio, perché qualche anno prima avrebbe fatto di corsa la salita.

La parte razionale si rammaricò di questi pensieri negativi, perché le mettevano tristezza ma doveva portare pazienza senza lasciarsi prendere dallo scoramento.

Giunti dinnanzi al portone chiuso, Luca si guardò attorno smarrito e perplesso. ”E adesso come faccio?” pensò. Non aveva le chiavi, né poteva importunare la proprietaria, perché non l’aveva avvertita che avrebbe fatto tardi. Lo sguardo si posò sulla vecchia Punto, che avrebbe potuto ospitarlo per la notte. Stava per salutarla, quando Simona lanciò una proposta.

«Ci fermiamo sul dondolo sotto le stelle a parlare» fece la ragazza con un bel sorriso sulle labbra. «Poi apriamo il portone!»

Luca non capiva come avrebbe potuto entrare senza suonare la campanella. Però non comprendeva quel plurale “noi”, perché lui era regolarmente alloggiato lì ma lei no.

Rinunciò a cosa volesse intendere Simona con “poi apriamo il portone”, perché la serata piena di stelle e con un falcetto di luna sembrava invitare alle chiacchiere.

Un brusio appena discreto si levò dal dondolo, mentre ognuno narrava qualcosa di sé. Capì che Simona era di casa nella cascina, che Maria l’aveva accudita come una madre e tanto altro ancora. Tuttavia il vero motivo per il quale aveva voluto restare sotto le stelle non lo aveva ancora rivelato.

Quel dondolarsi nell’aria frizzante di una notte di luglio risvegliò il guardiano dormiente dei ricordi, che prese le chiavi per aprire la stanza della memoria.

E la mente tornò a quella ultima notte trascorsa con la francesina con la quale tra coccole e baci aveva atteso il sorgere del sole prima nella tenda poi sulla spiaggia illuminata da piccoli fuochi.

“Cosa ci siamo detti?” ripensò Luca, rapito da quel ricordo lontano. Non aveva importanza rammentarlo. Sorrise al pensiero di quel mix di inglese, tedesco e dialetto per capire la metà di quello che volevano dirsi. Certe sensazioni non avevano bisogno di parole, perché l’intesa era perfetta, come può esserlo, quando si ha diciotto e sedici anni. La mente vagava libera senza ascoltare il frinire delle cicale e il cupo richiamo del gufo nascosto nel folto del noce.

Simona si fermò a guardarlo incantata dallo sguardo sognante di Luca.

L’improvviso silenzio ruppe il brusio delle parole, mentre lui ritornava sul dondolo ad ascoltarla come se quell’interruzione non fosse mai avvenuta.

Adesso Simona aveva la certezza di essere pronta a raccontare il segreto della sua infanzia, celato con cura dentro di lei. Ebbe un momento di sbandamento, perché non sapeva da dove cominciare. “I ricordi sbiaditi dal tempo o le sensazioni dolorose che portavo dentro?” si domandò, prima di prendere il coraggio a due mani.

La voce era incrinata per l’incertezza. Balbettò qualcosa che lasciava intuire la sua volontà di narrare. Luca la soccorse.

«Racconta. Sono in attesa di conoscere il tuo segreto».

Questa spinta la sbloccò, mentre metteva in fila tutti i ricordi.

«Devo tornare indietro nel tempo» disse Simona rinfrancata per la sicurezza, che Luca, che avrebbe voluto come padre, le infondeva. E aprì la cassaforte di un passato molto remoto.

Di zia Lina e Maria aveva già raccontato, quindi estrasse dal cuore il dolore di non avere avuto un padre, a parte quello nominale.

«Non riesco detestare i miei genitori, perché non sono mai riuscita odiare nessuno. Però quando ho compreso i motivi per i quali mi volevano sempre nel letto con loro, ho chiuso tutto in una cassetta, che ho sepolto in questo giardino» disse tutto d’un fiato Simona.

Adesso riusciva anche a sorridere a quanto era avvenuto tanti anni prima. Si sentiva più leggera, come sgravata da un figlio indesiderato. Un fiume di parole uscì dalla sua bocca.

Raccontò di essere cresciuta senza una figura maschile di riferimento, perché zia Lina e Maria erano rimaste single, disdegnando la compagnia degli uomini. Su questo punto in paese correvano molte dicerie, perché affermavano che dormissero insieme e che facessero all’amore tra loro.

«No, non era vero» negò con forza Simona. «Ognuna dormiva nel proprio letto. Ma questi pettegolezzi mi hanno sempre ferita nell’anima, perché dicevano che anch’io amavo solo le donne».

«Ti credo, Simona» la consolò Luca, cingendole le spalle con atteggiamento protettivo.

Una piccola lacrima scese furtiva dai suoi occhi, mentre sperava che Luca non si fosse accorto per l’emozione e la stizza, legati a questi ricordi.

«È vero» ammise Simona, avvertendo il calore dell’abbraccio di Luca. «Ho avuto pochi amori, se si possono chiamare così i brevi flirt, che duravano il tempo di un battere di ciglia».

Lei, quando stava con un ragazzo, cercava in lui una figura maschile che non aveva mai avuto, mentre a loro interessava solo il sesso.

«Come potevamo trovare quella empatia che fa nascere un sentimento?» recriminò Simona con forza.

Luca annuì col capo. Erano due mondi incomunicabili tra loro.

«Tomaso, l’ultimo, sembrava diverso, mentre io mi sforzavo di vederlo sotto una luce differente» si accalorò Simona. «Però mi accorsi che dopo il periodo iniziale aveva smesso di amarmi e chiusi la relazione».

Avvertiva dentro di lei un vuoto sentimentale, perché a trent’anni non aveva avuto un amore degno di questo nome, senza conoscere nemmeno cosa fosse il sesso.

Il cielo stava colorandosi di colori pastello per annunciare la nascita del sole.

parte ottava parte decima

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Una vita – parte ottava

foto personale
foto personale

Mentre teneva sotto il braccio quello scricciolo effervescente come l’acqua frizzante, Luca si domandò stupito cosa avesse attirato la ragazza a legarsi a uno sconosciuto non certamente giovane, senza capelli e con la pancetta.

Forse Simona gliela aveva spiegato, mentre lo accompagnava nel bed and breakfast. Però lui non aveva ascoltato. immerso com’era nei ricordi e adesso non aveva il coraggio di chiederlo apertamente. S’era creato tra loro un’atmosfera di serena fiducia e non voleva incrinarla con domande inopportune. La strinse più vigorosamente per farle assaporare il calore che trasmetteva, ripromettendosi di prestare attenzione a quanto gli stava dicendo.

Simona si sentiva sicura e protetta da questo uomo dall’età indefinita ma dallo spirito giovanile. Appariva taciturno e leggermente svagato ma spandeva serenità a piene mani. Non conosceva nulla di lui, solo il nome “Luca”. Un po’ poco per affidarsi fiduciosa a uno sconosciuto ma percepiva che non le sarebbe capitato nulla di male, finché lui stava al suo fianco. Aveva compiuto ormai trenta anni e si sentiva vecchia nello spirito, perché non aveva combinato nulla di buono fino a quel momento.

La sua infanzia era stata tribolata e amara, segnata da un padre manesco e poco rispettoso del ruolo, da una madre troppo arrendevole, che aveva chiuso un occhio sulle attenzioni del marito verso la figlia. Aveva sei o sette anni, quando una zia la strappò dal quel mondo torbido, che rischiava di inquinare quella bambina, portandola lontana.

Simona aveva un carattere solare, estroverso e incline alla fiducia. Non aveva focalizzato bene le motivazioni che l’avevano costretta a dividere il letto coi genitori, a quei giochi strani ai quali partecipava assonnata e annoiata. Solo quando era diventata una ragazza aveva compreso come avesse ballato pericolosamente sul baratro del precipizio, nel quale sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di zia Lina.

L’affetto della zia e di Maria, la proprietaria del casale, sanò le ferite dello spirito. Dentro di lei rimase il guasto di un’infanzia rubata, che celò con molto impegno senza rivelarlo mai a nessuno. Qualche amore sfortunato, la morte della zia, la perdita delle radici l’accompagnarono nel difficile viaggio di emancipazione economica e fisica. Lasciò la casa accogliente di Maria, che per lei era la vera madre, per stabilirsi in un monolocale in centro paese vicino al bar dove lavorava da un paio di anni. Però quando si sentiva triste si rifugiava in quel casale nella stanza, dove adesso alloggiava Luca. Quella era stata per molti anni il suo regno ed era sempre vuota, a sua disposizione.

Quando Simona si era presentata alla porta con quell’ometto buffo, calvo e un po’ grassottello, Maria aveva intuito che poteva ospitarlo in quella stanza senza timore di urtare la sensibilità della ragazza.

Mentre passeggiavano fra una bancarella e un’altra, Luca percepì che Simona aveva un passato da far riemergere dalle tenebre. “Non è in questo clima festoso il momento più adatto per parlarne” si disse, mentre le acquistava dello zucchero filato. Non aveva pensato all’eventualità di fermarsi qualche giorno ma l’istinto gli suggerì che sarebbe stato opportuno restare lì per raccogliere le fantasie e le confidenze della ragazza. “Ci penserò domani” disse alla parte razionale che impertinente aveva fatto di nuovo capolino per dissuaderlo dal proposito, conscio che avrebbe dato ascolto alla parte sognatrice.

Qualche giovane lanciò occhiate non proprio cordiali a quella strana coppia che si aggirava tranquilla e sorridente tra banchi e le giostre. Forse pensavano al solito vecchio bavoso e danaroso, che si accoppia con una ragazza giovane e piacente. Luca non ci fece caso. Sereno come era accanto a Simona.

Osservarono del movimento verso uno spiazzo dove si ergeva un alto palo. Si diressero da quella parte. Simona sapeva cosa avrebbero trovato, mentre per Luca era semplice curiosità comprendere il motivo di tanto assembramento.

Era il momento dell’albero della cuccagna. Si fermarono per guardare le evoluzioni di gruppi di giovanotti, tesi a scalare quell’asta coperta di grasso con in cima una pentolaccia di coccio, che dovevano abbattere per conquistare il premio. Creavano una piramide umana ma alla fine mestamente il più leggero, che si issava agile sulle spalle degli altri, scivolava verso la base senza riuscire nell’intento di conquistare l’ambito premio. Risero e applaudirono quei tentativi infruttuosi e comici nell’epilogo. Poi si mossero in giro con gli occhi pieni di stupore, osservando quella folla festante, che si aggirava senza pensieri.

Luca le comprò dell’altro zucchero filato, le mandorle caramellate appena tolte dalla pentola di rame, il croccantino sottile. Ricordò che l’aveva fatto per Gloria, quando andavano alle giostre per la festa del patrono della sua città.

Simona percepiva che questa era una serata speciale, perché aveva trovato quel padre amorevole che le era mancato da sempre.

L’assenza di una figura paterna aveva segnato negativamente i suoi rapporti con i ragazzi, perché Simona avrebbe voluto trasfondere in loro quella mancanza, mentre loro cercavano una ragazza da amare e non da accudire.

Stanchi e appagati per il lungo girare, si sedettero su una panchina in attesa dei fuochi di mezzanotte.

«Luca» disse Simona, rompendo il silenzio. «Si fermi anche domani. È la mia giornata di libertà. Possiamo fare un salto al mare».

«Non lo so» rispose pacato mentre osservava quegli occhi vivaci e mobili. «Non le prometto nulla».

“Bugiardo” disse la parte razionale con tono di rimprovero. “Sai già che lo farai. Non puoi mentire a te stesso”.

“Ma no è vero” rimbeccò la parte creativa. “Lui deciderà al momento. Come sempre”.

Le due personalità di Luca presero a litigare, confondendolo, finché non le mise a tacere. Quello che lo rendeva incerto e terrorizzato era il pensiero del costume. Non ricordava da quanto tempo non fosse andato in spiaggia. Tuttavia questi pensieri sparirono in fretta.

Un botto squarciò il nero della notte, che si colorò di mille colori. Erano i tanti attesi fuochi che avrebbero suggellato la chiusura della lunga festa prima di darsi l’appuntamento al prossimo anno. Questo lo distolse dal dubbio di rispondere con un ‘sì’ o con un ‘no’. La meraviglia del cielo colorato gli fece dimenticare la richiesta di Simona.

Tutti a naso in su. «Oh! Oh!» esclamavano, osservando quella cascata di luci multicolore che striavano il cielo, mentre stormi di uccelli impauriti si levavano in volo per cercare nuovi ripari. L’abbaiare sguaiato dei cani era sovrastato dal rombo impetuoso degli scoppi, mentre i giardini ricolmi di persone commentavano lo spettacolo pirotecnico.

«È tempo di salutarci» disse Luca dopo che si era spento l’ultimo boato e tutto tornava buio e silenzioso.

«L’accompagno. Così non smarrisce la strada» ribatté Simona, decisa a trascorrere il resto della notte con lui, perché voleva parlare dei segreti che custodiva in fondo all’anima.

E si avviarono parlottando sottovoce verso il casale di Maria.

parte settima parte nona

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Una vita – parte settima

PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE” ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna 9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” - www.fotoamatoricotignola.it
PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE”
ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna
9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” – www.fotoamatoricotignola.it

Luca camminò a lungo, tornando spesso sui suoi passi alla ricerca del paese. Tutti gli incroci sembravano uguali, tutte le strade avevano una singolare comunanza familiare, come se avesse abitato sempre in quel posto ma alla fine stabilì che si era perso.

Rise di gusto, perché la mente razionale gli aveva giocato un bello scherzetto, cancellando ogni ricordo del pomeriggio.

“Segui l’istinto” gli raccomandò la fantasia. “Ritroverai facilmente la strada”.

Girò a sinistra al primo incrocio, poi a destra, infine a sinistra e vide la strada ingombra di macchine. «Sono arrivato» esclamò Luca con un sorriso franco.

La chiassosa vitalità di giovani e anziani gli infuse nuova linfa a gettarsi nella mischia della sagra tra mille odori sgradevoli di olio bruciato e suoni sgraziati di chi arringava la fiumana a comprare lozioni miracolose.

Un certo languore lo informò che lo stomaco reclamava la sua parte, perché l’aveva tenuto a digiuno. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che non fossero wurstel bruciacchiati con cipolla stracotta o patatine in stick unte e bisunte. Notò in lontananza un chiosco assediato da una moltitudine di giovani. “Ecco dove si mangia” pensò Luca mettendosi in coda. Era il baracchino della piadina.

Fu un nuovo tuffo nel passato, quando trascorreva la settimana in tenda con gli amici sulla riviera romagnola. Piadina a mezzogiorno, replica alla sera erano i suoi pasti, perché riempiva lo stomaco togliendo il senso della fame. Doveva risparmiare per allungare la permanenza nel campeggio. Quando voleva fare bisboccia, sostituiva la piadina con fagioli borlotti liquefatti e tonno scadente in scatola. Erano tempi dalla felicità irriflessiva e istintiva che lo riempiva di gioia e voglia di vivere sopra e sotto le righe. Si sarebbe rifatto nel mangiare, tornando a casa, mentre il divertimento l’avrebbe soddisfatto lì.

Nuovi ricordi lo assalirono, mentre aspettava il suo turno per ordinare. La mente tornava a quando aveva diciotto anni. Aveva terminato la maturità scientifica, superata brillantemente nonostante la cornacchia del prof di lettere, che aveva faticato a dargli la sufficienza in italiano. Il risultato fu una bella media del sette, non male per quell’epoca, quando il sette era l’eccellenza, e gli servì per la borsa di studio all’università. Partì il primo di agosto, dieci giorni dopo la fine degli esami, su un vecchio treno a vapore, che costringeva a tenere chiusi i finestrini per non finire affumicati dalle polveri di carbone. Era con altri tre compagni di scuola. Tutti pronti a trascorrere quei quindici giorni di libertà, dormendo poco e divertendosi molto.

L’arrivo al campeggio avvenne su una carrozzella, perché un taxi era troppo costoso. Era più dandy ed eccentrico scaricare tenda e borsone da questa piuttosto che da un’anonima vettura verde di piazza. In una delle tante balere scalcinate e chiassose della costa incontrarono un gruppo di ragazze francesi, con le quali fecero subito comunella e coppia fissa. A Luca venne da sorridere, perché ovviamente gli toccò la più scorfano o meglio gli era rimasta di scegliere solo quella. O prendere o lasciare e restare solo. Non c’erano altre alternative. Era il più imbranato del gruppo e quando vedeva una ragazza andava in tilt e la mente segnalava ‘Game over’. Dunque due anni dopo Ersilia gli effetti erano sempre gli stessi. “Come avrei potuto cambiare?” pensò, mentre addentava con voracità la piadina.

La parte razionale gongolava e maliziosamente gli chiese il nome di quella francesina dai dentoni da coniglio, che urtavano i suoi duranti i baci bavosi. Anche qui niente di nuovo rispetto al periodo di Gloria. Non era ancora riuscito a baciare senza sbavare, senza fare il ‘limone’, che avrebbe acceso la passione nell’altra. “Che importanza può avere un nome per un’effimera storia, che è morta con la sua partenza per Parigi?” rimbeccò Luca per quella domanda inutile, perché lo aveva regolarmente dimenticato. Piccoli brandelli di memorie riaffioravano qua e là dal pozzo dei ricordi. Un viso sorridente, un carattere dolce e tranquillo, chiacchierate con un mix di lingue improbabili e ridicole e l’ultima notte trascorsa nella sua tenda teneramente abbracciati. Forse lei si sarebbe aspettata qualcosa di più, mentre Luca proprio non ci pensava. Non aveva ascoltato il corpo della francesina, non aveva saputo usare le mani come si doveva. Insomma il solito disastro che combinava Luca con le ragazze.

Un velo di malinconia scese per un attimo sui suoi occhi, subito spazzato dal ricordo di Ersilia, che aveva incrociata dopo il ritorno dal campeggio con ben altri risultati. Era stato forse l’effetto vacanza? Non lo sapeva ma aveva poca importanza per lui.

Mentre questi ricordi emergevano e poi sfumavano nel buio della notte stellata di luglio. stava sgranocchiando una piadina con spinaci, niente male si disse, quando una voce familiare gridò «Luca, Luca!»

Si guardò intorno, senza vedere un volto familiare, e tornò alla piadina, convinto di essere stato suggestionato in quel bailamme di suoni cacofonici e sovrapposti. Un’ombra si materializzò dinnanzi a lui. Alzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine.

«Simona» fu l’unico suono che la sua bocca emise. Se ne era scordato. Distratto dai molteplici ricordi, che affioravano ovunque come i funghi nel bosco, non aveva tenuto a mente l’appuntamento con la ragazza. Mentre la fantasia si affannava a estrarre dal cilindro tanti scampoli di vita vissuta, la parte razionale malignetta e gelosa si divertiva a confondere le idee a Luca.

«Ti ho aspettato dinnanzi al bar dove lavoro» disse col fiatone, come se avesse corso la maratona.

«Sono mortificato» riuscì a dire Luca contrito, «ma mi sono perso». Per rimediare alla figuraccia ordinò una piadina per lei, che si accomodò felice davanti a lui.

Chiacchierarono come due vecchi amici, che si ritrovavano dopo molti anni. Sembrava che dovessero smaltire tutto quello che era avvenuto nel frattempo. Finirono le piadine, innaffiate dall’albana secco. Luca ascoltava e annuiva alla valanga di parole che Simona riversava su di lui come una grandinata fuori stagione. Però la sua mente ogni tanto spaziava altrove, perso nei ricordi di Ersilia e rammaricato che il viaggio si stesse consumando in assenza della moglie.

Si domandò se lei avrebbe accettato un viaggio senza mete e senza obiettivi, solo guidato dal suo istinto. Scosse il capo. Questo viaggio era per lui la traversata del lago della memoria alla ricerca del tempo passato.

“Ma un passato esiste ancora?” si domandò incuriosito, mentre la ragazza narrava di come avesse smarrito molti anni prima le proprie radici.

«Andiamo a fare un giro tra i banchi» propose Simona, allungando le braccia, mentre si alzava. Pareva che volesse tenerlo stretto a sé.

Lei gli prese la mano, facendola passare sulla spalla. Sembravano padre e figlia che passavano in rassegna bancarelle e stand di giochi in attesa dei fuochi di mezzanotte.

parte sesta parte ottova

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Una vita – parte sesta

un disegno di Maria matthews
un disegno di Maria matthews

«A destra», «A sinistra», «Prenda quella stradina stretta», «Siamo quasi arrivati» diceva Simona con lo sguardo allegro nel dare le indicazioni del percorso, come un provetto navigatore. Forse ancor meglio di quella voce gracchiante del gadget elettronico.

Quel fiume di parole esuberanti, che stavano sovrastando Luca, lo riportarono indietro nel tempo agli anni giovanili. Era il momento delle speranze, dei sogni, dei primi amori. Il pensiero corse a Ersilia ma poi virò su Gloria. “Chissà dov’è?” si disse, mentre seguiva le istruzioni di Simona. “Vive ancora? È sposata, single, divorziata?” Di lei aveva perduto le tracce senza molte nostalgie.

“Perché questa ragazza che mi fa da navigatore mi ricorda Gloria?” si domandò Luca, mentre un velo di nostalgia calò sul suo viso. Eppure Gloria era stata solo la compagna di giochi e di avventure, vissuti più con la fantasia che nella realtà, ma di certo non aveva provato amore. Non si era posto nemmeno il quesito se l’amava, perché per Luca era l’amica, cresciuta giorno dopo giorno insieme a lui. “Certo abbiamo fatto le prime prove di baciare” si disse, sorridendo per la goffaggine di entrambi. La lingua inumidiva il viso e non le labbra. Gli abbracci, a ripensarci adesso, erano una pessima imitazione di quello che avevano visto al cinema, mentre la spingeva col suo corpo contro il muro del corridoio. Che splendida emozione aveva provato, quando aveva sfiorato le minuscole protuberanze sul petto, dure come il marmo, che affioravano sotto la camicetta. Ricordò che era arrossito, mentre aveva ritratto la mano per aver osato tanto. Gloria lo lasciava fare senza dire nulla. “Certo mi assecondava” pensò Luca, serrando le labbra. “Nella mia ingenuità di bambino non mi sono posto la domanda se le mie effusioni le avessero trasmesso qualche emozione”. Forse, riandando con la mente a quei momenti, Gloria si sarebbe aspettata qualche ardimento più temerario da parte sua, che non arrivò.

«Attento» urlò nelle sue orecchie la voce un po’ stridula di Simona.

Luca scacciò quei ricordi lontani per concentrarsi sulla guida. Aveva guidato come un automa e di certo non avrebbe saputo ritrovare la strada per ritornare in paese o allontanarsi da questi luoghi. “Se sono arrivato fin qui, seguendo l’istinto” si disse per nulla preoccupato, “da qui ripartirò con lo stesso spirito”.

«Siamo arrivati» lo avvertì Simona, che aveva descritto ogni angolo, ogni casa, ogni via con entusiasmo e passione, senza che Luca avesse ascoltato una sola parola.

Frenò dolcemente, mentre lo sguardo spaziò verso l’alto e verso il basso, inspirando l’odore della ginestra fiorita. Osservò con occhio sognante lo spettacolo offerto dalla giornata che stava virando verso la sera. Davanti a lui si ergeva un vecchio casale consunto dal tempo, abbarbicato al termine di una ripida salita. Era circondato da cespugli di ginestra e lavanda con un maestoso noce che ombreggiava la facciata. Di lato un fico dava sollievo a un tratto di prato.

Simona prese per mano Luca e gli fece strada, annunciando l’arrivo di un nuovo ospite.

«Maria» disse forte, affacciandosi alla porta su cui stava scritto ‘PRIVATO’. «Hai una stanza per…» e si interruppe perché non sapeva come si chiamava l’uomo che era con lei. Nella concitazione del momento non glielo aveva chiesto e adesso era impacciata con le guance rosse.

«Luca. Luca D’Astolfi» le suggerì senza imbarazzo ridacchiando per la strana situazione che si era creata.

Una donna, avanti negli anni e un po’ sfiorita dal tempo, uscì dalla porta, abbracciando la ragazza. «Certamente. Una stanza libera c’è sempre per le persone che Simona accompagna. Per loro c’è sempre posto».

Rivolgendosi a Luca, chiese: «Partite domani?»

«Non so» rispose Luca, perché l’istinto non gli aveva suggerito nulla. «Potrei anche fermarmi qualche giorno».

La donna sorrise, mentre cominciava a registrare i suoi dati anagrafici.

La stanza era luminosa e guardava verso il mare, che in lontananza cominciava a tingersi di rosso. Arredata con semplicità con un piccolo bagno ricavato in un angolo, era calda e accogliente. A Luca apparve in linea con la padrona di casa. Osservò stupito quella minuscola ragazza che con tanta incoscienza e fiducia si era incaricata di accompagnarlo senza sapere nulla di lui, nemmeno il nome.

Era venuto il tempo di accendere il telefono per far sentire la sua voce a Ersilia, che lo rimproverò aspramente per il lungo silenzio.

«Dove sei?» gli chiese addolcendo il tono della voce.

«Sono a…». Tacque perché non lo sapeva proprio. Si era dimenticato di chiederlo a Simona, perché la parte sognante lo aveva riportato indietro negli anni. La mente sghignazzò, perché la fantasia batteva in ritirata. “E smettetela voi due” li rimproverò Luca. “Sapete solo beccarvi senza darmi un aiuto”.

L’istinto gli suggerì la risposta. «La vista è meravigliosa ma il nome non lo ricordo» ammise imbarazzato Luca. Si aspettò l’ennesima strigliata di capo dalla moglie, che stranamente arrivò.

Parlarono a lungo, come se quella separazione avesse sciolto loro la lingua. Erano anni che vivevano di monosillabi e frasi smozzicate dettate più dalla rabbia che dalla voglia di comunicare. Sentivano il bisogno di trasmettere le emozioni che salivano dal cuore, come se fossero tornati ai primi tempi del loro amore.

«Ci sentiamo domani, Ersilia» concluse rilassato e felice Luca. «e sono pentito di non averti trascinata con me».

«Fai il bravo» replicò lei con la voce incrinata dalla malinconia.

Spento il telefono, Luca ragionò sul come organizzare la serata. “Andrò a braccio come il solito” fece, mentre toglieva dalla valigia un paio di pantaloni chiari e una maglietta fucsia, che dispose sul letto, e dei mocassini leggeri. Sentì la necessità di lavarsi. Sotto il getto di una doccia tiepida strofinò con vigore il corpo per togliere ogni residuo di stanchezza e di caldo, mentre canticchiava un vecchio motivetto ‘All fruit’. Forse lo storpiava nel suo inglese maccheronico ma nessuno prestava attenzione alla sua voce stonata.

Sorrise L’istinto l’aveva guidato con giudizio ancora una volta. Però doveva concentrarsi su quello che gli aveva detto Simona prima di sparire. «Se rifai la strada che abbiamo percorso per arrivare qui» gli aveva spiegato, «ti ritrovi in paese. Stasera grande festa per il patrono con i fuochi d’artificio».

Sospirò, mentre un vago senso di incertezza affiorò nella mente, sospinto dalla parte razionale. “Magari fosse così semplice rintracciare la via” pensò, mentre la fantasia gli suggeriva di fare come era abituato. Lasciarsi guidare dal suo istinto.

“Hai ragione si disse e nel vago chiarore della giornata morente, quando tutti i gatti sono grigi e bigi, si incamminò verso il paese alla ricerca di Simona, il suo angelo custode.

parte quinta parte settima

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Una vita – parte quinta

Luca si fermò un istante nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, mentre bevve un sorso di vino bianco ormai riscaldato dall’aria rovente.

Lo schiamazzo dei bambini rompeva il silenzio infuocato del pomeriggio. Ripensò alla mattina, quando aveva annunciato a Ersilia la sua intenzione di intraprendere un viaggio. Il viso colmo di stupore e rabbia insieme a una velata minaccia. Luca scosse la testa. “Dovevo farlo” si disse, abbandonandosi sullo schienale della sedia. “Era una vita che desideravo farlo”. Era un modo per sfuggire alla noia della giornata e per stare insieme ai suoi ricordi.

Ersilia qualche mese dopo quell’incontro, nel quale lui era rimasto senza voce e senza pensieri, sparì con gli esami di maturità. Era un mese di luglio ugualmente caldo come quello che di questi giorni. Il sole arroventava l’aria e nelle aule si boccheggiava per l’afa. Il sudore incollava alla pelle ogni cosa. Luca era ancora lontano da quel traguardo.

Lui aveva percepito di essere entrato in una spirale che lo avrebbe trascinato verso un abisso senza speranze. Aveva sprecato l’unica cartuccia per colpire Ersilia, la donna dei suoi sogni, che era scappata a gambe levate. “Di chi era la colpa?” si chiese, mentre si dissetava con l’acqua. “Devo incolpare la mia dabbenaggine e la mia timidezza”.

Vide la ragazza e le fece un cenno. «Un caffè corretto con la grappa» ordinò alzando la voce, prima di ritornare a quei lontani giorni di luglio.

Luca aveva finito l’anno scolastico con una materia da portare a settembre. “Allora esistevano gli esami di riparazione” mormorò in silenzio, sorridendo come un ebete. “Ora li chiamano recupero debiti formativi. Bah! Cosa cambia?” Scosse la testa, perché mutava il nome ma la sostanza era la stessa. Quella materia insufficiente era stato un tassello del disgraziato innamoramento verso Ersilia, che era sparita, senza che lui avesse la speranza di riacciuffarla in extremis. Agli occhi di Luca lei era una donna matura che avrebbe affrontato l’università, mentre lui era un ragazzetto immaturo e incostante, che avrebbe continuato il percorso scolastico al liceo. Due percorsi e due mondi distinti erano sotto gli occhi grigio-verde di Luca, che non aveva capito la sua infatuazione per una ragazza più vecchia di lui, più alta, più, più … più in tutto.

Adesso comprese che quell’incidente scolastico, del tutto fortuito, era stato un segno del destino. Senza di esso non sarebbe mai cresciuto. Sarebbe rimasto l’eterno bambinone sognante e sognatore. Questo albergava comodo e soddisfatto dentro di lui. “Come avrei potuto cogliere la mela matura, che qualche anno più tardi sarebbe stata appesa al mio albero, pronta per cadere ai miei piedi?” rifletté, massaggiandosi il mento.

Mentre continuava a rinvangare i suoi ricordi, era arrivato il caffè, senza che Luca vi avesse prestato attenzione, nonostante la mente si fosse sbracciata per farglielo notare. Il tavolo era ingombro di cibo e bevande. C’era un mezzo panino ormai sfatto, un liquido biondo nel calice, la bottiglietta dell’acqua appena sorseggiata e la tazzina del caffè fredda.

La ragazza girava inquieta tra i tavoli vuoti, sbirciando Luca. La incuriosiva quell’uomo calvo e dal fisico appesantito da qualche chilo di troppo. Però lei tra qualche minuto terminava il suo turno e doveva incassare il conto prima di andarsene. Non osava avvicinarsi, perché lo vedeva assorto nei pensieri incurante dell’afa asfissiante e dei rumori che lentamente animavano la strada. Era indecisa, perché le sembrava di rubargli il tempo alle meditazioni. Il servizio ai tavoli non le era mai piaciuto. “Oggi ancora di più” pensò incerta tra chiedere il pagamento e osservarlo in silenzio.

La parte razionale richiamò l’attenzione di Luca. “Mi sono perso nei meandri della mente” si disse indispettito per quell’intrusione non gradita. “E per di più non so dove sono”.

La ragazza si avvicinò rinfrancata, Le sembrò il momento giusto per farsi pagare il conto.

«Sono tredici euro e quaranta centesimi, signore» disse con tono dolce e un bel sorriso, mentre posava sul tavolo lo scontrino fiscale. Aggiunse arrossendo. «Tra qualche minuto è finito il mio turno e dovrei incassare il conto. Spero di non avere rotto l’incantesimo dei suoi pensieri».

Luca le sorrise. Quel viso gli era piaciuto, appena l’aveva intravvisto.

«Certo» fece Luca, prendendo dal porta monete una banconota da venti euro. «Non mi sono accorto di essere rimasto così a lungo qui».

Mise sul tavolo i venti euro.

«Tra un attimo le porto il resto, signore» rispose la ragazza, voltandosi verso la cassa.

«Aspetti» disse Luca, trattenendola per un gomito, mentre accennava a tenere il resto come mancia. «Mi può dire sono finito?»

«A pochi chilometri d qui c’è il mare» rispose la ragazza, facendo lampeggiare di orgoglio i suoi grandi occhi verdi. «Ma adesso si trova sulle colline tra Appennino e mare Adriatico. Un posto meraviglioso».

Luca la osservò con lo sguardo incantato.

«Come si chiama?» le chiese, osservando quegli occhi verdi da gatta. Si sorprese di tanto ardimento e ripensò che avrebbe dovuto averne altrettanto quella volta con Ersilia. Invece era rimasto muto come un pesce.

Luca si aspettava una risposta stizzita ma, quando udì «Simona», sobbalzò sulla sedia perché si era rotto il silenzio dentro di lui.

«Pensa di fermarsi in paese, stasera?» gli chiese Simona curiosa di conoscere questo sconosciuto che le sembrava che vivesse in un mondo incantato.

«Non so» fece Luca, mettendo a tacere la parte razionale che era insorta alla sua espressione dubitativa. «Non ho deciso». Però la mente non rimase in silenzio. “Siete un bugiardo! Non è vero che non lo sai” strepitò inviperita. “Taci!” le impose Luca.

«C’è festa stasera per il santo Patrono» insistette Simona, che lo incalzò per convincerlo a rimanere. «Fuochi d’artificio a mezzanotte e tante bancarelle nel sagrato della chiesa».

Luca sorrise. Aveva deciso d’istinto. Si sarebbe fermato per osservare la festa, perché erano suoni familiari, quando a maggio si festeggiava nella sua città. Il sorriso sparì in fretta, perché non avrebbe saputo dove fermarsi per la notte.

«Ma c’è un albergo in paese?» chiese Luca con lo sguardo spento, perché forse non c’era nulla.

«Le posso indicare un bed and breakfast appena fuori dal paese» continuò Simona sorridente. «Se aspetta qualche minuto, la posso accompagnare io». E sparì alla sua vista.

Luca incerto era preso tra due fuochi. La mente, che gli ordinava di riprendere il viaggio verso l’ignoto, e la fantasia, che lo incitava a raccogliere quell’invito insperato. “Non te ne pentirai” gli suggerì la parte sognatrice, per convincerlo a restare.

Le due parti erano intente a litigare, quando Simona comparve dinnanzi in jeans e camicetta pronta a condurlo in posto sconosciuto.

«Andiamo» disse Luca d’istinto, avviandosi verso la macchina, mentre lei lo seguiva spensierata, incurante dello sguardo del gestore del bar.

parte quarta parte sesta

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