Epilogo

Al termine di quella giornata di amore Goethe e Angelica promisero di scriversi, come fecero per circa un anno e mezzo, perché un giorno lui sarebbe tornato a Roma a prenderla.
 

Roma, il 5 Agosto 1788, martedì
Lei dirà ancora una volta dei sogni, ma io so che Lei mi perdonerà. La notte scorsa mi sono sognata che Lei era tornato. La vedevo arrivare da lontano e Le sono corsa incontro sino alla porta di casa, ho afferrato entrambe le sue mani e le ho premute sul mio cuore così forte che mi sono svegliata, me la sono presa con me stessa per avere sentito la mia felicità sognata con troppa violenza tanto da abbreviarmi così il piacere. Ma sono contenta di questa giornata perché oggi ho ricevuto la Sua cara lettera del 19 luglio. Il fatto che Lei nonostante le tante distrazioni, gli affari e gli amici ritorni con lo spirito a Roma, non mi meraviglia, che Lei si ricordi di me è un segno della Sua bontà per la quale Le sono infinitamente grata. Mi rallegra il fatto che Lei stia bene e Le auguro una ininterrotta serie di giorni piacevoli. Io vivo la vita con la speranza di una migliore. Caro amico, quando ci vedremo di nuovo? Vivo sempre tra timore e speranza è purtroppo è più timore che speranza, ma debbo tacere, a che serve lamentarmi. Lei vuole sapere a cosa sto lavorando. Ho finito le seguenti opere: il ritratto di Lady Harvey, il ritratto del cardinale Rezzonico per il senatore e oggi ho terminato il Virgilio. Sono molto contenta della preparazione in chiaroscuro, il pezzo ha molta forza e i colori sono riusciti molto diafani. Ho lavorato abbastanza e cerco di fare del mio meglio – per fare questo devo immaginare che è domenica e che Lei viene nel mio studio – ah, i bei tempi! La lettera del suo giovane amico mi ha molto rallegrato, mi fa piacere anche sapere che il signor Keiser tornerà e che conoscerò anche il signor Herder. Ma Lei non verrà,questo è l’eterno dolore e la mia angoscia. Stia bene e non si dimentichi di me.
La onoro e La adoro con tutto il cuore.
Angelica.

 
Così Angelica scriveva a Goethe, che era tornato a Weimar nel giugno 1788, una lettera traboccante di pathos e di amore represso nel ricordo del periodo in cui si erano frequentati con assiduità durante il lungo soggiorno romano del poeta.
Lei soffriva la lontananza

Il ritorno a casa

Venne l’autunno e poi l’inverno, mentre aveva completato il suo autoritratto, rimasto a lungo sotto un candido telo di lino. Il ritratto del poeta giaceva malinconico in un angolo, coperto da un velo trasparente.
I rapporti tra loro si stavano raffreddando, come la stagione incipiente, anche se continuavano a frequentarsi con regolarità.
Goethe sentiva che era giunto il momento dell’addio: la nostalgia della patria, di Weimar stava diventando troppo insopportabile.
Angelica aveva capito che la storia stava terminando e che non sarebbe riuscita a trattenerlo.
“Sento un vuoto dentro di me. L’amore mi consuma, ma Wolfgang non lo alimenta più col necessario vigore. Anche se non lo dice apertamente, ha deciso di partire di tornare in patria. Riuscirò a sopravvivere alla sua partenza?”
L’angoscia si impadroniva di Angelica, che aspettava con ansia la decisione del poeta, che tardava ad arrivare.
Si consumava lentamente, giorno dopo giorno, in uno stillicidio di vane speranze e tristi presentimenti, trascurando i suoi lavori.
All’inizio del 1788 Goethe cautamente cominciò a parlare di un suo possibile rientro a Weimar, adducendo come pretesto certe lettere del duca Karl August, che gli chiedeva di riprendere il governo del minuscolo ducato.
“Angelica, mia cara, “ diceva il poeta, “non vorrei lasciarti qui, ma prenderti con me! Non riesco a decidermi nella risposta al mio Duca, perché vorrei restare qui accanto a te. Anche la duchessa Anna Amalia mi scrive chiedendomi di tornare, perché vuole ascoltare dalla mia voce il racconto di questo viaggio alla scoperta dell’Italia e del bello, dove ho trovato una donna meravigliosa sia per bellezza sia per capacità artistiche”.
Angelica sapeva che erano solo lusinghe che laceravano la ferita che si stava aprendo dentro di lei.
“Wolfgang, non mentirmi”, rispose con la voce rotta dall’emozione, “non mentirmi. Stai preparando l’addio e non sai come dirmelo.”
Il poeta capiva che l’innamoramento stava svanendo, come già in passato era capitato.
Forse quel viaggio non era stato programmato per sfuggire alle insistenze di Charlotte?
“Non posso mentire a me stesso,” pensava con apprensione mista ad ansia, “non posso mentire nemmeno a lei, che ha capito. Però io ho necessità di riacquistare la mia libertà psicologica, di non avere legami stabili. Poi lei è sposata, ho conosciuto il marito, Antonio Zucchi, le chiacchiere sulla nostra relazione stanno serpeggiando tra gli amici comuni. Posso trattenermi ancora qui?”
Si avvicinò ad Angelica, stringendola a sé per fugare quei dubbi, sapendo che era un atto inutile.
Lei lasciò fare senza opporre resistenza: “Vuole convincermi che le mie paure sono infondate, ma tutto è inutile. Lo so. Lui vuole tornare libero, andarsene di soppiatto come oltre due anni fa ha fatto partendo da Karlsbad! Però godiamoci questi ultimi sprazzi d’amore. Dopo sarà il vuoto dentro di me, dentro la mia vita. Saprò dimenticarlo? Saprò cancellarlo dalla mia esistenza?”
Goethe la trascinò sul divano, ma lei disse: “Wolfgang, no! Non qui! Andiamo di sopra!”
Salirono in silenzio e giacquero sul letto sempre pronto ad accoglierli.
I giorni passavano, mentre la primavera si avvicinava. In silenzio il poeta cominciò a raccogliere le sue cose: i manoscritti delle opere, le bozze delle poesie, gli appunti del viaggio, i disegni e tutti i ricordi accumulati in questi due anni.
Continuò a frequentare Angelica, a girare per Roma con lei, che al suo passaggio suscitava sguardi di ammirazione e saluti dai passanti.
Angelica soffriva il distacco annunciato in silenzio, ma no dichiarato da Goethe.
“Mein Gott! Perché devo patire questi tormenti dell’anima? E’ forse la punizione divina del tradimento verso il marito? Vorrei che il giorno non arrivasse mai! Ma arriverà e deflagrerà con una forza immane dentro il mio cuore!”
Ormai il tempo volgeva al bello stabile ed era favorevole all’inizio del viaggio di ritorno.
Un pomeriggio di fine marzo 1788 Goethe arrivò allo studio di Angelica, che stava lavorando al quadro di Virgilio per non pensare al distacco.
“Angelica, mia adorata!” esordì, “Stamani ho ricevuto una pessima lettera dal mio Duca, che mi ordina di tornare sollecitamente a Weimar per riprendere le cure del governo del ducato. Mi è crollato il mondo addosso! Sono rimasto affranto tutta la mattina. Quindi in fretta e furia devo preparare i bagagli e partire”.
Angelica prese a piangere silenziosamente senza voltarsi verso di lui: “Wolfgang, non mentire, ne sei incapace! E’ arrivato il momento dell’addio tanto annunciato, tanto negato tenacemente da te. Concedimi l’ultimo afflato d’amore senza dire nulla. Vieni e saliamo per l’ultima volta quelle scale, che hanno conosciuto il nostro amore. Ti prego, resta in silenzio e in silenzio esci dalla mia vita”.
Deposti i pennelli, si avviò verso quelle stanze dove si era consumato un amore impossibile, aspettandolo di sopra.
Si era chiusa una parentesi della sua vita.

(parte diciottesima)

La storia continua

I giorni si snodavano leggeri e quieti, mentre i due amanti erano sempre più uniti.
Goethe trasformò Iphigenie in Tauris in un’opera teatrale, la lesse dinnanzi ad Angelica, che paziente ascoltò il testo. Poi si dedicò ad immaginare le scene, che dipinse con la consueta maestria, mentre il poeta era soddisfatto del lavoro riuscito.
Il viaggio in Sicilia era servito a lui per ritrovare la vena poetica e una splendida amante, a lei per rinsaldare il vincolo amoroso.
Angelica non riusciva a lavorare molto allo studio, perché spesso accompagnava Goethe in giro per la città che conosceva bene e perché il suo italiano perfetto le consentiva di tradurre i pensieri del poeta.
L’unica opera importante, iniziata durante l’assenza di Goethe, era il ritratto del principino di Gloucester e di sua sorella, che terminò con un po’ d’affanno alla fine dell’estate come quello della baronessa de Kruederer, perché era sempre impegnata con lui.
Il poeta non aveva trovato di suo gradimento il suo ritratto, perché era troppo semplice e non solenne come quello dell’amico Tischbein. Tuttavia l’accettò sia pure senza troppo entusiasmo, lasciandolo nello studio di Angelica.
“Angelica,” disse Goethe, guardando quel ritratto ormai terminato sul cavalletto, “ mi avete ritratto troppo modestamente. Sembro dimesso e senza importanza”.
“Wolfgang,” rispose la donna “io ti vedo così: bello, giovane e dai lineamenti nobili. Ti sembra troppo dimesso? Allora lascialo, lì sul cavalletto, affinché io lo possa ammirare, quando un giorno tu deciderai di tornare a Weimar. Si, lo so e lo sento, che tra un po’ affronterai il viaggio di ritorno. Non dire nulla! Così posso cullarmi nell’illusione che tu resterai sempre qui con me”.
Goethe stava per replicare, ma tacque, perché sapeva che tra non molto avrebbe cominciato i preparativi per tornare in Sassonia, a Weimar.
Si avvicinò ad Angelica, la prese tra le braccia baciandola con passione, mentre lei si lasciava trasportare dai sensi.
“Si, lo sento che Wolfgang sta meditando il ritorno a casa. Lo sento inquieto, stanco del girare per Roma. La vena poetica si sta affievolendo a poco a poco. Ora scrive pochissimo, qualche ritocco in qua e in là. Riuscirò a sopravvivere senza di lui, senza la sua presenza, senza il suo corpo nel mio letto? Io sento amore per lui dentro di me, che arde alimentato dalle mie mani, dalle sue mani. Adesso sono solo le mie che aggiungono della legna per tenere vivo il fuoco della passione. Mi sta baciando con passione. Ma è vera passione la sua? Mi ricordo quei versi che ho ascoltato tempo fa ‘
Ob ich dich liebe, weiss ich nicht’ Si, se mi ama non lo so!”
Dopo quel lungo bacio Angelica si staccò da lui e lo prese per mano per condurlo di sopra nel grande letto che aspettava impaziente il caldo dei loro corpi.
“Godiamoci ancora questi momenti finché lui è qui e mi desidera ancora! Verranno tempi che io starò sola in queste stanze coi miei pennelli, i ritratti di tanti committenti nobili senza potere assaporare la passione, l’esser donna innamorata e trepidante” questi erano i pensieri che si accavallavano nella sua mente con tristezza e nostalgia, mentre salivano le scale per consumare alcune ore di passione.
Era una fresca giornata di Settembre ancora soleggiata e calda, quando Angelica volle condurre Goethe a visitare il famoso palazzo Barberini, ospiti di Cornelia Costanza.
Il palazzo era famoso per le numerose tele che adornavano le grandi stanze poste al primo e secondo piano e l’ampia scala elicoidale del Borromini.
“Wolfgang, questo è uno dei più belli di Roma. E’ ricco di quadri ed affreschi, ma non voglio toglierti la soddisfazione di vederli filtrati dal mio gusto estetico. Cornelia è rimasta vedova da pochi mesi ed è tornata nel suo vecchio appartamento, dove ci riceverà. E’ una donna minuta, apparentemente fragile, ma dal carattere deciso ed orgoglioso. Ti stupirà!”
Il cancello era aperto per accogliere gli ospiti: un rigoglioso giardino all’italiana li accolse con  cespugli di rose di tutti i colori, mentre un’imponente magnolia ombreggiava una parte.
Sembrava un tipico palazzo cittadino, ma l’ampio giardino, che circondava la costruzione, e lo spazioso cortile faceva pensare ad una bella villa suburbana. All’interno dello spazio chiuso da alte mura c’era un teatro dove si svolgevano rappresentazioni teatrali o musicali. Nell’ingresso furono accolti da Cornelia, che fece gli onori di casa.
“Nobildonna Cornelia, “ disse Angelica, che già la conosceva, “questo signore è Johann Wolfgang Goethe, il famoso poeta tedesco, che è venuto in Italia per ammirare Roma, i suoi monumenti e le tutte le opere ivi ospitate”.
Goethe fece un perfetto inchino baciando la mano della donna, dicendo in un italiano approssimativo: “Entrando ho ammirato uno spettacolo inaspettato passando dall’esterno. Un giardino meraviglioso, un ingresso degno di un principe e Voi, mia signora, che saluto e ringrazio per il cortese invito”.
Cornelia fece strada per lo scalone elicoidale fino al suo appartamento, mentre gli ospiti a naso insù osservavano stupefatti gli affreschi che abbellivano gli alti soffitti.
La padrona di casa fece ammirare la collezione di quadri e di mobili, anche se si lamentava che per via dei lasciti testamentari molti quadri erano stati alienati, visitando anche l’enorme biblioteca che occupava il secondo piano di un’intera ala.
Trascorsero l’intera giornata in quella splendida dimora.
Mentre accompagnava Angelica verso la sua casa sul Pincio, Goethe disse: “Quella Nobildonna è veramente straordinaria. Ha un vigore del tutto insospettato. Poi ha una cultura del bello che mi ha ammaliato, ben degno di un principe!”
“Si, Wolfgang, “ continuò Angelica, “come ti avevo preannunciato, è colta e raffinata. L’ho conosciuta appena arrivata a Roma ed abbiamo stretto una cordiale amicizia”.
Giunti dinnanzi al portone si salutarono augurandosi una serena serata.

(parte diciassettesima)

La satira

La satira ha una componente di moralismo e una componente
di canzonatura. Entrambe le componenti
vorrei mi fossero estranee, anche perché non le amo
negli altri. Chi fa il moralista si crede migliore degli altri e chi
canzona si crede più furbo, o meglio crede le cose più semplici
di come appaiono agli altri. In ogni caso, la satira esclude
un atteggiamento d’interrogazione, di ricerca. Non
esclude invece una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza
d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico
verso l’oggetto della sua satira…
Però apprezzo e amo lo spirito satirico quando viene fuori
senza una particolare intenzione, in margine a una rappresentazione
più vasta e più disinteressata. E certamente ammiro
la satira e mi faccio piccolo piccolo al suo cospetto quando
la carica dell’accanimento derisorio è portata alle estreme
conseguenze e supera la soglia del particolare per mettere in
questione l’intero genere umano, confinando con una concezione
tragica del mondo

(di Italo Calvino – tratto da “Definizioni di territorio: il comico” e fa parte dei “Saggi 1945-1985”,
volume I (Meridiani Mondadori 2001))


Quale è il confine tra satira ed etica? E’ labile, per non dire invisibile, come quello che separa comportamenti leciti da quelli illeciti. Inoltre questo confine (la cosiddetta border line) si sposta nel tempo  e nello spazio.
La satira è un genere letterario che nasce con l’umanità ed ha sempre rappresentato un gesto di sfida verso il potere.
Nell’antica Grecia non era un genere molto comune e non sono rimaste molte opere.
Aristofane con la sua "commedia greca" fa della satira politica un suo ingrediente. In modo similare Ippocrate, che è certamente più noto per le sue opere mediche, negli Aforismi trattando del riso e della follia prende lo spunto per pungere sui costumi e sulle credenze dell’epoca.

"la vita è breve, l’arte lunga
l’esperienza ingannevole, il giudizio difficile.
Ippocrate"


Non era un genere letterario a se stante, ma nelle varie opere si introducevano elementi di satira politica o sui costumi.
Però è in età romana che il genere satirico raggiunge livelli superiori, quando punge e pungola la res publica per la rilassatezza dei costumi e i vizi della società.
Numerosa fu la schiera di autori di opere satiriche a cominciare da Lucilio (II sec. a.C.), che rese la satira un genere letterario autonomo codificandone la struttura e gli obiettivi. Prima di lui Ennio scrisse degli epigrammi, del tutto simili alle satire, di cui si conosce ben poco, essendo andati perduti nella quasi totalità
Orazio con i due libri di satire trasforma la satira dai toni aggressivi e degli attacchi personali in liriche più pacate e sorridenti, raffinate e pungenti. Hanno
un intento morale, quello di colpire, con ironia quasi sempre benevola, i più comuni vizi umani quali l’ambizione, l’avidità di ricchezza, la brama di ascesa sociale.Sempre con intenti fare satira compone gli epodi e le odi, dove il bersaglio e il tono sono diversi dalla satire.
Con Giovenale si chiude la grande epoca della satira latina.
E’ con Ariosto che la satira riacquista il suo rango di genere letterario, dove sono sempre i potenti, i costumi e la politica ad alimentare il filone satirico.
Così si arriva ai giorni nostri dove la satira spesso trascende nell’offesa in nome della libertà di espressione contro l’attività censoria delle istituzioni.
Qual’è il confine divisorio? Quando la satira da libertà di pensiero si trasforma in offesa personale? Il confine è incerto, labile e soprattutto mobile. Cambiano i tempi, cambiano le istituzioni e l’asticella si sposta.
Chi fa satira accusa l’attività censoria di essere al servizio del potente di turno, della persona oggetto degli strali satirici, di non potere esprimere liberamente il proprio pensiero.
I personaggi colpiti ovviamente accusano il satirico di farsi scudo dell’ironia per offenderli.
Chi avrà mai ragione?
Domanda dai mille volti e dalle mille risposte, ma nessuna certezza di essere nel giusto.

La ricerca del bacio

Il bacio cosa è? Cosa rappresenta nella vita di tutti noi? E’ un mistero e nemmeno troppo, perché chi non ha baciato almeno una volta nella sua vita qualcuno? Nessuno e le statistiche dicono che tra quelli dati e quelli ricevuti siamo a quota ventimila (mi domando come hanno fatto a contarli? Sono andati a spanne oppure hanno fatto i guardoni? Boh! A saperlo!).

Chi non ricorda il primo bacio dato o ricevuto? Quando è stato, lo ricordate? Io ricordo l’emozione e il cuore che andava a mille (dicono che un bacio accresce il ritmo cardiaco fino a 150 battiti. Insomma non si può baciare in santa pace senza essere scrutati, misurati, esaminati?). Ricordo ancora il sapore dolce della saliva della ragazza, che eccitava i miei sensi, mentre nella penombra risuonavano le dolci note di “Diana” di Paul Anka.

Il bacio è un antico rito, che risalgono al 1500 a.C. tra le scritture vediche degli indù.

Il bacio è anche un segnale di amore tra i genitori e i figli oppure di appartenenza ad un clan.

Però soprattutto è il suggello di amore tra due persone.

Che tristezza sapere che il bacio è stato scrutato, esaminato, valutato, classificato e soppesato.

La ricerca della felicità

Sembra un paradosso, ma si può essere felicissimi, rinunciando a tutto.

La felicità si può misurare sulla base delle onde cerebrali che emettiamo, stilando delle graduatorie sul grado di soddisfazione raggiunto individualmente o a livello di nazione.

La felicità, secondo alcune teorie, sono la quantità di emozioni positive che riusciamo a percepire. Questo favorisce lo sviluppo del cervello, che è un organo in continua evoluzione, dove nella corteccia cerebrale di sinistra si concentrano le sensazioni positive, piacevoli e in quella di destra quelle negative, che generano depressione, ansia e paure.

Assumendo questo come base di partenza, si ritiene che i monaci buddisti, dediti per principio alla meditazione, siano in grado di sviluppare le sensazioni positive attraverso la contemplazione e le pratiche yoga.

A differenza di altre religioni che assicurano che l’assunzione in cielo dopo la morte è il premio promesso per quanto si è operato sulla terra, Buddha non promise ai suoi discepoli la salvezza in cielo, ma la fine delle sofferenze sulla terra, se fossero riusciti a controllare i loro desideri.

Poiché il buddismo più che una religione è una filosofia di vita, che insegna agli uomini come raggiungere la felicità attraverso la meditazione, la contemplazione e il controllo del proprio corpo, si ritiene che il monaco buddista sia in grado di raggiungerla più facilmente di altri, perché dedicano tutta la propria vita a cercare di controllare le emozioni.

Matthieu Ricard, un francese di buona famiglia ed un promettente ricercatore nel campo della genetica, nel 1972 conobbe il buddismo e la vocazione spirituale e abbandonò tutto per diventare monaco buddista. Da allora si dedicò intensamente agli studi monastici e passo molti mesi in ritiro, conoscendo nel 1989 il Dalai Lama, di cui divenne un influente consigliere e traduttore di francese.

Spinto dal Dalai Lama si è sottoposto a numerosi test per misurare il proprio grado di soddisfazione, che confrontato con altri volontari è risultato di gran lunga superiore, tanto che è stato definito “l’uomo più felice sulla terra”.

Secondo Ricard il problema della nostra infelicità sta nel fatto che i nostri sentimenti negativi verso gli altri sono spesso ingiustificati e li creiamo per nascondere le nostre frustrazioni. Pertanto se riusciamo a controllare questo impulso, possiamo raggiungere dapprima la serenità interiore, che secondo lui è un tesoro nascosto in ogni persona, e poi la felicità. E’ solo una questione di forza di volontà e di pratica, non servono beni materiali, né potere per raggiungere al termine del viaggio la serenità che porta la felicità.

A prima vista risulta incomprensibile che la popolazione filippina sia tra i popoli più soddisfatti nonostante la povertà in cui versa e i luoghi in cui abitano colpiti da molte catastrofi naturali. Sembra che il segreto stia nella visione positiva della vita, nella semplicità del vivere quotidiano lontano da stress e pressioni.

In conclusioni secondo Ricard chiunque, indipendentemente dalle disgrazie passate, può trovare la serenità e la felicità a patto che cambi la visione mentale, che spesso ci deprime con gli aspetti negativi dell’esistenza.

Con l’approssimarsi della morte, intellettuale o naturale, l’uomo tende a perdere di vitalità e a deprimersi, la morte va affrontata come un ciclo naturale della vita e non come un episodio triste della stessa.

Dunque possiamo curare le nostre depressioni allenando la mente a pensare in positivo, così come un atleta si prepara ad una gara attraverso i duri esercizi preparatori.

Seguono alcune frasi che descrivono il senso della felicità secondo diverse persone 

Citazioni celebri (o quasi) sulla felicità

Matthieu Ricard – monaco buddista

Vuoi forse vivere una vita nella quale la tua felicità dipende da altre persone?

Arthr Schopenhauer – filosofo

C’è un errore innato: credere che esistiamo per essere felici, la salute sta così al di sopra che è più felice un mendico sano che un re malato. 

Epicuro – filosofo greco

Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia. 

Oscar Wilde – scrittore

Felicità non è avere quel che si desidera, ma desiderare quello che si ha. Solo una cosa è peggio di non realizzare i propri sogni: realizzarli.

Romina e Albano – cantanti

Canzone “Felicità”

Felicità è un bicchiere di vino

con un panino.

E’ tenersi per mano

e andare lontano.

E’ abbassare la luce

per fare la pace…

Woody Allen – attore e regista

Se i soldi non fanno la felicità, figuriamoci la miseria. L’uomo più felice che conosco ha un accendino e una moglie ed entrambi funzionano. 

Will Smith – attore

Dal film “ La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino

Non permettere a nessuno di dirti: quello che desideri è irragiungibile. Se hai un sogno devi difenderlo, se vuoi qualcosa prendila..

 

Maurizio Ferraris – docente di filosofia teoretica

La felicità è l’equilibrio tra il raggiungere ciò che si desidera e il continuare a desiderare qualcos’altro.