Si guardarono in silenzio incapaci di parlare. Poi Annie Valentine si alzò dall’amaca e gli prese la mano.
“Vieni”. E lo trascinò verso la veranda.
L’uomo si lasciò condurre docilmente verso il patio laterale della casa, come se fosse guidato da un’entità superiore. Si sistemarono su due poltrone di vimini sempre muti e senza parole.
“Ti aspettavo” disse la donna, tenendogli sempre stretta la mano tra le sue. “Sapevo che saresti arrivato. Oggi è un bel giorno”.
Jack la guardò incredulo, perché non era vero che sarebbe capitato volutamente da lei. Era giunto per caso su quella spiaggia poco frequentata e leggermente nascosta ed era rimasto incerto se fermarsi a salutarla oppure no. Non aveva mai saputo dove abitava dopo essersene andato cinque anni prima in una notte stellata di agosto e lo ignorava tuttora, finché non si era imbattuto nel cottage durante la passeggiata solitaria.
Era stata l’ennesima serata burrascosa tra accuse e pianti, tra difese timide e sguardi infuocati. Così aveva deciso di troncare ogni rapporto con quella donna affascinante ma decisamente insopportabile. La loro relazione durava da tempo, anche se non ricordava lo spazio temporale preciso. Rifletté «Un anno? Oppure due?» e si chiese se avesse importanza richiamare alla memoria la durata esatta. Concluse che erano solo i ricordi gli aspetti primari da rammentare, il resto erano dettagli insignificanti. Il flusso della memoria prese a fluire come un tranquillo corso d’acqua che placido scende verso il mare.
Era iniziata sotto i migliori auspici, pareva un rapporto solido basato su un feeling preciso: amore e sesso, equamente suddivisi. Lei era passionale e donava tutta se stessa senza calcoli o fini nascosti. Lui aveva colto quella passione ricambiandola con uguale fervore. L’amore era sbocciato come una rosa in maggio: da prima timido e acerbo come un bocciolo, poi in tutto il suo fulgore durante la fioritura ma alla fine era sfiorito, appassendo con la perdita dei petali che malinconicamente cadono a terra fino a rimanere nulla.
Una coppia perfetta che agli occhi degli osservatori esterni pareva perfetta. Lui alto, abbronzato coi capelli biondi, lei esile come un giunco nonostante i suoi trentacinque anni, dalla pelle ambrata come il miele scuro delle api di montagna.
Però dopo poco iniziarono i contrasti, le incomprensioni, le rotture improvvise e le riconciliazioni inaspettate in un caleidoscopio di gesti e di parole. Jack mal sopportava il fare civettuolo di Annie Valentine, sempre pronta a raccogliere i sorrisi e gli ammiccamenti dei corteggiatori. Per lei non c’era nulla di male perché era un gioco a nascondino innocente e casto. Per lui era come se gli lanciasse una sfida che doveva raccogliere per allontanare quei calabroni insistenti. In questa alternanza di chiaro e di scuro, di esserci o nascondersi esternava di essere gelosa, perché lo voleva tutto per sé egoisticamente. Non sopportava che lui osservasse le altre donne, doveva essere sufficiente tutto quello che gli donava.
“Non dici nulla. Hai forse perso la parola?” gli chiese con tono dolce.
“Stavo meditando che la vita è strana e il fato ci conduce la dove meno ce lo aspettiamo” disse osservandola fissa negli occhi.
“Perché?”
“Oggi non dovevo fare questa passeggiata. Avevo un impegno importante, un incontro di lavoro ma all’ultimo istante è saltato tutto. Mi sono ritrovato libero e senza una meta precisa dove andare. Così ho cominciato a camminare per Main Street e soprappensiero mi sono trovato su questa spiaggia solitaria e nascosta. Sono stato incerto se proseguire oppure ritornare verso le vie centrali popolate di persone chiassose e colorate ..”. Fece una pausa per riordinare le idee.
“Continua” lo sollecitò. “Continua il racconto, ti ascolto. La tua voce è musica per le mie orecchie”.
“Percepivo la necessità di riflettere in silenzio su di me e sulla mia vita passata, presente e futura. Quindi ho deciso di proseguire la camminata. Il sole al tramonto, il mare infuocato dai raggi solari che si immergevano nelle acque dell’oceano hanno fatto il resto”.
Jack osservava quel viso che non pareva invecchiare ma rimanere sempre uguale a se stesso: giovanile e senza rughe come se il tempo si fosse fermato cinque anni prima. La fissò prima di porre quell’interrogativo che lo stava tormentando fin da quando era capitato lì. Una domanda stimolata dalla curiosità di conoscerne la risposta.
“Perché sapevi che sarei venuto?” le chiese senza abbassare lo sguardo.
“Il cuore” rispose Annie Valentine. “Il cuore” ripeté con calore.
L’uomo scosse il capo. Non era la risposta giusta. Il cuore può pensarlo ma il destino decide senza tenerne conto. «No. Il cuore comanda la mente ma non il destino» rifletté nell’ascoltare quella parola.
“Come facevi a essere così sicura che sarei arrivato?” le ripose la domanda, perché fosse ben certo che l’avesse compresa.
“Sono qui da giorni, da mesi, da anni in attesa del tuo arrivo senza perdere la speranza di rivedere il tuo viso, di riascoltare la tua voce, di toccare le tue mani. Come puoi osservare la pazienza è stata premiata” replicò pacata.
Trasse un profondo respiro prima di riprendere il discorso interrotto.
“Da quando mi hai lasciato senza concedermi nemmeno il saluto conclusivo dopo l’ultima notte di passione, ho venduto la vecchia casa e mi sono trasferita qui in attesa del tuo ritorno. Sono stati anni bui e silenziosi senza una luce che li rischiarasse. Ho avuto pazienza senza mai perdere la fiducia in me stessa e la speranza che un giorno saresti passato di qui”. Tacque fissandolo senza incertezze negli occhi.
Jack non comprendeva il senso di quelle parole. Si erano lasciati burrascosamente circa cinque anni prima senza mai incrociarsi neppure casualmente. Per lui quel capitolo era chiuso per sempre e aveva cancellato dalla sua mente quel viso morbido e vellutato, quegli occhi luminosi e quello splendido corpo. «Mai e poi mai avrei ricominciato. Ho sofferto troppo per riprendere quel rapporto eccitante e stimolante ma altrettanto snervante e ricco di imprevisti» rifletteva nell’ascoltarla con attenzione. «Ma oggi sono qui e la magia dell’esserci ha preso il sopravvento sulla razionalità del ignorare».
Annie Valentine allora viveva in bella casa di legno sulla Main Street circondata da un giardino ben curato. Adesso era in cottage al limite della battigia, isolato e lontano dal caos chiassoso e dai rumori della città. «Come potevo immaginare di trovarla qui?» si pose nuovamente la domanda che lo stava assillando come un mantra indiano. Scosse il capo perché non poteva crederci che l’avrebbe rivista. Avrebbe giurato che sarebbe uscita dalla sua vita per sempre e non sarebbe mai più rientrata. «Per sempre? Che vacua parola è questa, priva di significato perché per sempre è solo un effimero spazio temporale che dura meno della nostra vita». Invece si ritrovava sulla veranda di un cottage, seduto a osservare quegli occhi, che l’avevano stregato tanti anni prima, con lei che le teneva la mano.
Percepì che il vecchio fuoco non era morto ma covava silenzioso sotto uno spesso strato di ceneri. Era stata sufficiente una piccola scintilla per riattizzarlo, mentre adesso prendeva vigore. Si domandò se era saggio riallacciare i fili del passato, che erano pieni di nodi che non potevano essere sciolti. «Non è pericoloso credere che cinque anni siano passati invano, che ieri è oggi e che oggi sia domani?”. Scosse il capo, perché una forza irrazionale lo stava prendendo per mano per condurlo verso un domani del quale non conosceva i contorni. Non si riconosceva in quest’uomo tanto diverso da quello pragmatico e freddo che era conosciuto da tutti.
Anche Annie Valentine avvertiva l’urgenza di trattenerlo. Era stato l’unico uomo della sua vita al quale aveva donato e dal quale aveva ricevuto qualcosa in cambio, anche se come tutti gli altri l’aveva lasciata. «Poco» si disse «ma sufficiente a scaldare il cuore. Jack non crede che il cuore abbia avuto una grossa parte nel suo arrivo qui. Il cuore comanda anche il destino che si piega ai suoi desideri».
Percepiva che era giunto il momento di piantare le radici, di costruire un futuro non più incerto e nebbioso ma chiaro e limpido. Era forte stavolta la sua volontà di costruire un percorso comune abbandonando i vecchi sentieri fino a quel momento battuti senza apprezzabili risultati. Dovevano tracciarne uno totalmente nuovo ma insieme e con la forza di un sentimento che non era mai morto.
Questa volta non avrebbe offerto il suo corpo per trattenerlo ma sarebbe stato lui a decidere se per il sì o per il no.
Non temeva una risposta negativa. L’avrebbe accettata come aveva accolto tutto quello che la sua vita le aveva offerto fino a quel istante. Nondimeno aveva una certezza perché il cuore non l’aveva mai ingannata come facevano gli altri sensi. Erano mesi che preparava la tavola per due ed erano mesi che la sparecchiava come se fossero in due a cenare.
“Fermati qui con me stasera” gli chiese con un tono dolce e vellutato. “La tavola è pronta. Le candele basta accenderle”.
“E cosa serve per una cena serale al lume di candela?” le domandò ironicamente.
“Solo amicizia ..” e fece una pausa prima di riprendere il discorso. “Se però è amore, ti ritrovi qui a colazione”.
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Il Borgo – Capitolo 7
Formavano un piccolo cerchio sotto l’ombra incerta di un arbusto del quale ignoravano il nome. Qualche farfalla colorata volava sui fiori spontanei della radura, muovendo le ali con timida frequenza.
Giacomo osservò questo spettacolo affascinato, perché gli pareva essere ritornato bambino quando viveva ai margini della città dove si estendevano ancora i campi di erba medica dai colori violetti intensi e dal profumo penetrante. Adesso al loro posto c’erano scatoloni di cemento e tante villette in pietra a vista pretenziose, mentre le farfalle erano sparite. Si era estraniato dalle discussioni che Laura e gli altri due facevano. Era come se avesse calato intorno a sé una sfera di cristallo per relegare all’esterno le voci umane e ascoltare solo il canto della natura.
Era perso nel suo zigzagare della mente, inseguendo il volo delle farfalle e il ronzio di insetti, dei quali non percepiva visivamente nulla, quando fu riscosso dalla voce di Eva.
“Non hai nulla da dire?” chiese la ragazza scuotendolo con un leggero tocco della mano. Aveva avuto l’impressione che pur con gli occhi aperti stesse dormendo e quindi lo sfiorò delicatamente per destarlo dolcemente.
“Ehm! Ma .. veramente ..” cominciò a farfugliare come se fosse stato risvegliato nel bel mezzo di un sogno molto stimolante.
Laura rise in silenzio e pensò che era veramente buffo quel ragazzo. Avrebbe voluto carpirgli qualche pensiero, perché era sicura che sarebbe stato interessante per lei. Le piaceva, il perché non lo sapeva con certezza ma qualcosa le suggeriva che sarebbe stato un bel compagno se le avesse fatto qualche mossa, che lei giudicava ardita, per avvicinarsi a lei. Non amava andare in avanscoperta ma preferiva che il primo passo lo facesse lui. «Sarà vero?».
“Mi sono distratto un attimo” farfugliò incerto, sapendo di mentire. “Osservavo quella farfalla e sono ..”.
“Abbiamo capito” disse rassegnata e sorridente Eva. “Non hai seguito i nostri discorsi”.
“Sì, ho perso qualche frase ma se ..” continuò arrossendo visibilmente nel tentativo mal riuscito di recuperare un po’ di credito. Era tutto inutile, perché più tentava di giustificarsi più si impappinava con le parole che sembravano arrotolarsi su se stesse.
Tutti risero, mentre Giacomo non comprendeva il motivo di quelle risate. «Mi stanno prendendo per i fondelli?” si chiese un po’ innervosito.
“Ti faccio un piccolo riassunto di quello che ci siamo detti” disse conciliante Laura per stemperare il nervosismo del ragazzo.
“Bene. Ti ascolto” rispose più calmo.
La ragazza cominciò con illustrargli la sua idea.
“Mi affascina l’idea di ricostruire la rocca, qualche casa e recuperare la chiesetta. Il campanile sembra l’unica costruzione ancora in piedi. Un progetto ambizioso il mio ma Eva mi ha fatto notare tutte le difficoltà dell’operazione. In primo luogo le necessarie autorizzazioni. Nessuno di noi conosce o ha un’idea di cosa serva e a chi chiederla. Poi per aprire il cantiere serve un progettista, un direttore dei lavori e non so quante altre figure”.
Laura fece una piccola pausa per bere da una bottiglietta posta tra le sue gambe, mentre Giacomo metabolizzava le informazioni.
Eva si accostò a Marco per sussurrargli qualcosa.
“Si è accorta che Giacomo è un bel ragazzo e gli sta ammannendo un bel zuccherino per addolcirlo un po’. Certo che non sarà facile per lui convivere con Laura, perché è un bel peperino, che non accetta sconfitte. O vince oppure vince. Il vocabolo «perdere» è stato cancellato dal suo dizionario”.
Marco sorrise annuendo la sua approvazione.
“Mi pare di stare in una gabbia di matti” rifletteva mentre ascoltava le parole che cercavano di riassumere tutte le loro chiacchiere. “E’ un progetto o, forse è più corretto dire, un sogno pazzesco che potrebbe trasformarsi in un incubo senza fine. Chi ci mette i soldi per comprare i materiali? Chi paga gli operai, progettisti e tutti gli altri? E poi chi di noi ha mai preso in mano una cazzuola? Tirato a piombo un muro? No, no. E’ matta da legare”.
Giacomo cominciava a immagazzinare le informazioni e subito il pensiero corse al fiume di denaro che sarebbe servito.
“Cosa ne pensi?” chiese con tono gentile Laura.
Il ragazzo attese un momento prima di rispondere. Non era sua intenzione affossare il progetto perché Laura, a parte il caratterino, gli piaceva. Però nello stesso tempo lo giudicava irrealizzabile. Un bello scontro tra assecondare la ragazza e tagliare l’erba sotto i piedi al piano di recupero.
“Un progetto ambizioso ma ..”.
“Solo ambizioso?” lo incalzò la ragazza.
“Veramente è come scalare il Monte Bianco a mani nude” replicò deciso. “E come pensi di realizzarlo?”
“Speravo nel vostro aiuto e di qualche altro volenteroso ..”.
Giacomo deglutì vistosamente al pensiero di imbarcarsi in questa spedizione in partenza verso l’ignoto, affrontando il mare in tempesta su una fragile zattera. Questi pensieri gli mettevano angoscia.
“Beh! Io ho un po’ di tempo libero ora mentre cerco qualcosa ma poi ..”
“Non ho mica chiesto un impegno a tempo pieno. Tutti noi abbiamo qualcosa da fare. Io preparare gli ultimi esami e la tesi. Eva pure. Marco non lo so ma suppongo che abbia un lavoro ..”.
“Si, in effetti lavoro ..” intervenne per confermare quanto detto da Laura.
“Poi ho intenzione di creare una fanpage dell’impresa e trovare altri sodali ..”.
Un silenzio rotto solo dal ronzare degli insetti calò sulla radura come se tutti avessero perso la voce.
“Ma ho ascoltato solo difficoltà e nessun accenno se è fattibile” riprese la ragazza osservando a uno a uno gli altri compagni di avventura.
“Veramente ..” cominciò Giacomo un po’ titubante. “L’impresa mi sembra complicata da molti fattori. Poi che sia fattibile nessuno lo mette in dubbio ma dipende da quante energie fisiche ed economiche ci mettiamo, in quanto tempo lo vogliamo realizzare e come pensiamo di arrivare in fondo”.
Il pensiero quadrato e razionale dell’ingegnere affiorava come un fiume riemerge dal sottosuolo.
“Ho capito” disse innervosita Laura. “Non avete intenzione di darmi una mano”.
“Non è questo il punto” intervenne Eva che era rimasta in silenzio ascoltando le voci degli altri, “Il guaio è che, viste le condizioni dei ruderi, rischiamo un bel flop in tutti i sensi ..”.
“Beh! Almeno ci abbiamo provato” replicò piccata.
“Ma accetteresti la sconfitta?” domandò Marco, che fino a quel momento era stato in religioso silenzio per non innescare polemiche tumultuose.
“No di certo!”
“Dunque se il progetto non riesce a decollare e a raggiungere l’obiettivo, tu non l’abbandoneresti!”
“Assolutamente sì! Lotterei finché il borgo non torni a vivere”.
“Quindi hai dichiarato il falso dicendo che almeno ci abbiamo provato, perché in realtà lotteresti a oltranza”.
Laura lo guardò con aria feroce, perché per lei ogni impresa iniziata doveva essere portata a termine senza se senza ma.
“Ma nessuno di noi ha esperienze in questo campo né ha possibilità economiche per portarlo a termine” incalzò Marco.
“Nessuno nasce maestro. Si impara tutto e siamo tutti allievi. In conclusione basta volere, che si raggiungono tutti i traguardi” replicò decisa.
“Okay, okay. Abbiamo capito tutto” continuò il ragazzo. “Chi ci sta a lavorare al progetto «Recupero del Borgo»?” chiese guardandosi in giro con un sorriso beffardo.
Nessuno rispose all’appello, tutti a occhi chini fingendo di guardarsi intorno.
“E io che ci avevo creduto sulla vostra lealtà ma mi devo ricredere” concluse una Laura delusa e irata. Si alzò decisa e cominciò a passeggiare nervosamente.
Marco scrutò gli altri compagni prima di levarsi in piedi e affermare con decisione. “Laura, io ci sto. Non so che aiuto posso darti, perché il lavoro manuale non fa per me. Qualsiasi oggetto, che non sia una macchina fotografica, è un’arma impropria nelle mie mani . Riesco solo a combinare guai”.
La ragazza si fermò e lo osservò con attenzione. Non si aspettava un’uscita del genere. L’aveva sorpreso con la sua adesione, mentre conveniva che l’aveva giudicato male.
“Anch’io”. “Anch’io”. Furono le altre due voci che si unirono a Marco.
A Laura tornò il sorriso, come se le nubi temporalesche fossero state spazzate via dal vento.
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Come vorreste che finisse la storia?
Al contrario delle favole, non c’è il lieto fine. Perché? Non lo so. Ho deciso in questa maniera.
Giovanni e Aurora sono due persone che sono sposate ma non si amano. Ma perché stanno insieme? Forse tutte le persone che stanno insieme si amano? Spesso litigano, a volte si sopportano, molto spesso la loro unione fa naufragio. E quando il naufragio è drammatico, volano gli stracci, che non fanno male ma talvolta è anche peggio.
Dunque cominciamo il nostro viaggio nell’immaginario più o meno remoto, cominciando un percorso che non ha fine, dove ognuno può immaginare un finale diverso.
A – come andrà a finire?
Dopo la notte ho riflettuto su quanto ci siamo detti ieri sera e mi permetto di tratteggiare un quadro di insieme della situazione, anche se sarà sicuramente lacunoso, inesatto e incorretto, perché molti tasselli mancano.
Per supplire a questo farò ricorso al mio intuito, all’esperienza accumulata nel tempo, all’osservazione della vita quotidiana. Trattando una materia così complessa e difficile cercherò di essere il più attento possibile nel misurare le parole e chiederò la tua comprensione se sarò indelicato o indiscreto.
Quindi cominciamo col parlare di te e di tuo marito, di cui conosco poco o niente.
Hai detto che hai convissuto quattro anni e sei sposata da 15, quindi hai iniziato la tua condizione di moglie-convivente quando avevi ventidue anni. Ipotizzando che la relazione stabile sia iniziata un anno prima, significa che fino a 21 anni hai avuto relazioni sentimentali e sessuali sporadiche e poco importanti. Posso sbagliarmi, ma avresti confidato che il tuo futuro marito sarebbe stato la prima e l’unica relazione della tua vita, quindi devo dedurre che avrai avuto altre storie in precedenza. Quante siano state importanti non lo so ma qualcuna ha lasciato il segno come sarà precisato più avanti.
Poiché dopo quattro anni di convivenza avete deciso di sposarvi, devo desumere che avevate giudicato l’esperienza positivamente. Però secondo me anche dopo esservi sposati avete continuato a ragionare come se foste conviventi. Infatti hai detto che inizialmente non desideravi avere figli per motivi di lavoro e perché non ti sentivi pronta alla maternità. Aggiungo io che ognuno di voi conduceva la propria vita in modo indipendente a eccezione delle occasioni in cui avete avuto frequentazioni pubbliche. Forse avete fatto vacanze disgiunte, visto che le vostre professioni non coincidono in termini temporali nelle ferie.
Quando tu sei entrata nell’ottica della maternità, lui ha fatto quattro calcoli vedendo amici e conoscenti che avevano avuto dei figli. Per lui sarebbe stato un cambiamento di abitudini radicali che lo ha spaventato, avrebbe dovuto cambiare lo stile di vita, sarebbe stato condizionato dalle responsabilità paterne. Da qui, secondo me, nasce il suo rifiuto. Ha prevalso l’egoismo sul rapporto di coppia. Nulla da stupirsi, perché si sente talvolta che alcuni mesi dopo la nascita del figlio la coppia si è separata perché il padre era incapace di sopportare le responsabilità, le limitazioni che doveva subire, i cambiamenti al suo modo di pensare.
Questi fattori hanno inaridito il matrimonio, l’hanno svuotato di contenuti, hanno diradato i rapporti sessuali, forse avete anche cominciato a non dormire nello stesso letto. Sono quasi certo che anche lui ha cercato fuori dal matrimonio, quello che non trovava più all’interno.
Tu hai cominciato a sognare innamoramenti virtuali, finché non hai incontrato un tuo ex, trasformando il virtuale in reale e sei stata presa nel vortice dell’amore, che forse non avevi ancora conosciuto o provato. O forse hai fantasticato su questa opportunità. Hai creduto nell’innamoramento, trasformando semplici fantasie in grandi sogni.
Però procediamo con ordine e metodo, se esiste.
In questo momento non provi nulla verso tuo marito e probabilmente anche lui non prova nulla verso di te, anche se apparentemente sembrate agli occhi degli amici e conoscenti essere una coppia felice.
Provo a valutare questo mitico ex, che conosco unicamente attraverso i tuoi occhi. Quindi avevo intuito giusto che prima di cominciare la relazione con tuo marito ne hai avuta una importante o che ha lasciato un segno tangibile dentro di te. Forse è stato il primo con cui ha avuto un rapporto sessuale. Sono nel campo delle ipotesi. Mi piace fantasticare. Lasciarmi trasportare dall’intuito, dalla vena irrazionale che alberga in me.
Mi hai passato tre informazioni importanti e significative, secondo il mio punto di vista:
- lui era curioso di vedere come eri cambiata dopo vent’anni;
- ti ha accusata di usare violenza psicologica su di lui,
- ti manda messaggi pieni di doppi sensi, un po’ sdolcinati per uno sposato.
Vediamo di analizzarli uno alla volta, tenendo presente che è sposato e forse ha figli e dall’età indefinita ma non troppo. Il perché è nella ricostruzione che segue. Forse ha qualche anno più di te o qualcuno meno. Perché? E’ stato un tuo ex e non vi vedete da vent’anni. Dunque è stato l’ultimo uomo prima di conoscere quello che poi hai sposato. E’ nel pieno del vigore fisico. Un fattore non indifferente per un uomo. Bello? Brutto? Alto? Basso? Simpatica carogna o inguaribile romantico? Forse tutto questo oppure nulla di quanto ho detto. Ha importanza? No, nell’economia del ragionamento non conta nulla. Quello che importa per te è che lo trovi interessante, piacevole da frequentare e con qualcosa che complementi la tua esistenza attuale tanto che ti senti attratta da lui.
Lui dice di essere curioso, di vedere come sei cambiata dall’ultima volta che vi siete frequentati.
Una persona sposata non fa queste affermazioni se non nascondono uno scopo. Provo a intuire come uomo perché. Ha percepito che tu sei fragile, sei vulnerabile, perché il tuo matrimonio non funziona, perché cerchi fuori da questo delle sensazioni che non trovi al suo interno. Intuisce anche che tu difficilmente chiuderai il rapporto con tuo marito (le motivazioni te le spiegherò più avanti). Dunque una facile avventura extra con rapporti sessuali (scusa la franchezza, ma non ne posso fare a meno) tranquilli, sicuri. Forse qualche week end lontani da tutti insieme. Insomma niente di pericoloso per lui e il suo mondo.
Poi scopre che tu hai trasformato in amore questa avventura, che hai 41 anni e non 13 e non cerchi solo sesso e compagnia, ma pretendi qualcosa di più.
Allora prende paura e dice che tu eserciti su di lui violenza psicologica per riportare nei binari da lui stabiliti la vostra relazione.
Giustamente tu ti offendi e litigate, interrompendola. Dico giustamente perché non sei una ragazzina, ma una donna matura. Lui capisce di trovarsi in un vicolo cieco: non vuole rompere il suo matrimonio e non vuole allo stesso tempo perderti. Ipotizzo che lui si trovi bene con te in tutti i sensi.
Quindi ti manda messaggi sdolcinati, pieni di lusinghe sperando di riportare indietro il vostro rapporto come all’inizio: chiacchiere e un po’ di sesso tranquillo e sicuro. Lui ha capito che tu lo ami e gioca sui tuoi sentimenti per raggiungere il suo scopo. Quindi vorresti dimenticarlo, ma non riesci e stai male, molto male. Sei in un tunnel buio e senza luci in fondo. Questo ti crea dei problemi, che vorresti risolvere ma non sai come.
Veniamo alle conclusioni.
Proseguiamo come deve reagire la nostra dolce Aurora e perché lo deve fare.
E mi aspetto, miei pazienti lettori che proviate a proseguire la storia.
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Il Borgo – Capitolo 6
La giornata soleggiata e calda rendeva ardua la salita alquanto ripida e disagevole, perché la ricca vegetazione spontanea tratteneva il calore senza lasciar spirare un refolo di fresco.
“Ci manca molto?” disse Giacomo, sbuffando e sudando copiosamente.
“Chi lo sa!” rispose in un sussurro Eva, che si era fermata a riprendere fiato.
“Dammi il tuo zaino” le disse premuroso Marco, mentre le baciava una guancia.
Laura proseguiva in silenzio verso il borgo. Voleva vederlo apparire dopo l’ennesima giravolta, sbucare come un fantasma in attesa di essere scoperto. Percepiva un non so che di emozione mista a curiosità. Si chiedeva cosa le sarebbe comparso e come avrebbe reagito di fronte al silenzio di quelle pietre che fino al 1960 erano ancora vive.
“Cosa mi racconteranno quei ruderi? Quali storie mi sussurreranno i sibili del vento che entrano dalle porte divelte dall’indifferenza degli uomini? Percepirò vita o morte camminando tra cumuli di pietre malinconiche e erbacce rigogliose?”
Laura continuava di buona lena senza avvertire il peso dello zaino e della strada tutta buche e pietre, anelando solo di arrivare e assaporare il profumo del borgo abbandonato.
I tre compagni avventura ripresero il cammino, dopo averla persa di vista tra la folta erba e i grandi cespugli che avevano ridotto il viottolo a uno stretto sentiero.
“Sembra presa dal sacro fuoco di Indiana Jones la nostra guida. E’ partita innestando la quarta e ci ha seminato lungo questo tratturo ripido e tortuoso” disse con voce affannata Eva, che pareva a ogni istante di bloccarsi e dire «Basta!».
“E sì, Eva. Hai azzeccato il paragone. Indiana Jones e le sue avventure pazzesche! Ma non dobbiamo ricercare l’arca perduta o mitici tesori ma solo vedere un borgo abbandonato” disse Giacomo sbuffando e detergendosi il sudore che colava impietoso lungo la schiena.
“Mi sembra di intravvedere dei ruderi sulla nostra destra. Forse siamo arrivati. Finalmente! Non aspetto altro che mettermi all’ombra di qualcosa e bere con frenesia. Più che una gita questa è una marcia forzata!” esclamò con impeto Eva, sorretta per un braccio da Marco, che ascoltava in silenzio le chiacchiere dei due compagni di strada.
Laura, svoltata l’ultima curva, vide un arco di pietra e una strada vagamente lastricata. Si fermò a osservare la vista.
“Ecco, Castiglioncello” esclamò come un novello poeta che innalza un inno al mito. Prima di addentrarsi, respirò profondamente e fece vagare lo sguardo. Un muro a secco con grossi blocchi di pietra ricoperti dalla patina del tempo e dell’incuria umana con erba e arbusti che si ergevano padroni.
Una sensazione di forte emozione la pervase, mentre continuava a scrutare in silenzio questi ruderi fatiscenti. L’arco lasciava intravvedere solo uno spicchio del resto, mentre cumuli di pietre crollate ingombravano il sentiero. Lo sguardo percorse il muro, in più punti sbrecciato e parzialmente crollato, sul quale avevano attecchito delle piante spontanee.
La testa era un tumulto di pensieri, il cuore pulsava come un metronomo impazzito. Non si accorse che gli altri componenti di questa pazzesca avventura l’avevano raggiunta e contemplavano taciturni lo sfacelo di quei ruderi.
“Cosa facciamo?” disse Marco rompendo la calma silenziosa. “Entriamo o facciamo il periplo intorno al muraglione?”
Laura si riscosse dal torpore meditativo nel quale era caduta e gli sorrise.
“Entriamo” replicò senza aggiungere altro muovendosi con cautela oltre l’arco, seguita dai compagni.
“State attenti. Qui si rischia di ricevere in testa qualche pietra o scheggia di legno. Non consigliano di avventurarsi negli interni degli edifici” aggiunse come monito agli altri.
“Non ti preoccupare. Facciamo attenzione. Ci tengo a tornare a casa tutto integro” disse tutto allegro Giacomo.
Camminarono con circospezione lungo quella strada che passava tra edifici diroccati e cumuli di macerie. Stavano in silenzio per ascoltare la voce del borgo, che rimaneva ancora muto.
“Laura” cominciò a parlare Giacomo che pareva il più ciarliero della comitiva. “Quest’ispezione che fine ha?”
“Non lo so. Francamente non ho le idee chiare” rispose la ragazza muovendosi con cautela e osservando con cura gli edifici.
Marco era leggermente indietro perché aveva estratto dal suo zaino l’immancabile Canon Eos 500 e stava fotografando ruderi e scorci di paesaggio.
Eva pareva essersi ripresa dalla fatica della salita ma restava in religioso silenzio. Si domandava in quale pazzesca avventura si stava cacciando. Pensava che il borgo fantasma che l’aveva attirata sulla pagina di Facebook fosse in condizioni migliori. Qui non c’era un tetto integro: erano tutti sfondati e crollati a terra. Le porte erano moncherini marci che penzolavano tristemente sui supporti. Le finestre non esistevano. Cumuli di pietre e legni marci erano all’interno dei pochi muri rimasti in piedi. Scosse la testa. «Non capisco cosa ci sia da recuperare e come fare» rifletteva amaramente osservandosi intorno.
“Credo che abbiamo visto a sufficienza” disse Giacomo, interrompendo un silenzio che stava durando da diversi minuti. Si udiva solo il frinire delle cicale e il volo di qualche insetto. Anche il vento aveva smesso di parlare come se volesse origliare le parole dei ragazzi.
“Ho notato che da quell’arco si intravvede una piccola spianata. Possiamo metterci li a riposarci e fare il punto della situazione.
Come per un tacito accordo si trovarono fuori dal borgo seduti sull’erba all’ombra di un piccolo arbusto.
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Qualcuno mi nomina e la ringrazio ..
Ricevo questa nomination da Pandora e la ringrazio di cuore.
Non risponderò alle sette domande né penso di nominare altre sette persone.
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Una sera a teatro – parte 2 di 2
Iréne si sedette immobile sulla sedia, mentre in lontananza udiva quel suono melodioso che accompagnava i suoi pensieri. Quei lontani giorni adesso sembravano vicini come se fosse ieri. Quel ragazzo gentile, più vecchio di lei di qualche anno, era diventato un uomo, affascinante e gentile. «Se mi vedessero tutte quelle odiose filistee, pronte solo a pettegolare, e quello sciocco di mio marito, smorto come un cencio slavato, capirebbero quanto ero felice a Parigi in quella casa sempre allegra e piena di gente sincera e rumorosa». Era venuto finalmente il tempo di parlare a cuore aperto con qualcuno che stimava e amava. Voleva sentire la sua opinione, cosa avrebbe potuto dirle sulla sua condizione. La musica, che debolmente arrivava alle sue orecchie, accompagnava in sottofondo i suoi pensieri mentre rigida sedeva in quella stanzetta scarsamente illuminata e disadorna.
Avvertì l’aprirsi della porta e lo vide entrare pallido e sudato, ancora fremente per l’impegno nel suonare il fortepiano.
“Jacques” disse accogliendolo. Ma lui la scostò con gentilezza. “Lasciami asciugare il sudore e poi sono da te”.
Dopo qualche attimo le prese le mani e gliele baciò. “Quanti anni sono passati dall’ultima volta che ti ho vista?” le chiese fissandola negli occhi.
“Troppi” fu la sola risposta che seppe dare.
“Sei veramente una donna adorabile e meravigliosa. Ma raccontami di te” le chiese tenendole sempre la mani con forza.
“Oh, no. Ci vorrebbe troppo tempo e non ne abbiamo a sufficienza” rispose dispiaciuta.
“Allora mi racconterai mentre di accompagno a casa oppure c’è qualcuno che ti aspetta?”
“No, sono sola. Parleremo di noi durante il tragitto” disse.
“Bene. Il tempo di raccogliere le mie cose, salutare qualcuno e poi sono pronto” disse mentre metteva in una borsa qualche oggetto, appoggiato su un tavolino d’angolo.
Uscirono e le disse di attenderlo un attimo. Sparì inghiottito da una porta che nella semioscurità del corridoio si materializzò per dissolversi di nuovo.
Iréne rimase nell’ombra, osservando gli ultimi spettatori che rumorosamente si avviavano verso il portone di uscita. Aveva le guance che avvampavano di calore e per la grande agitazione interiore, mentre la testa le girava per la forte emozione della vista di Jacques.
“Eccomi” disse ricomparendo vicino a lei. “Possiamo andare”.
La prese sotto il braccio mentre scendevano lo scalone appena illuminato da poche lampade, mentre le ombre dei quadri continuavano a scrutarli, disapprovandola..
“Devo chiamare un taxi?” le chiese premuroso, stringendola con calore.
“No. Possiamo fare quattro passi a piedi. La mia casa non dista molto da qui. E poi avrei l’auto poco distante parcheggiata in quella grande piazza laggiù” e indicò col capo un lontano chiarore sullo sfondo di una via diritta innanzi a loro.
L’uomo gettò uno sguardo distratto verso quel punto che non gli diceva nulla e riprese a parlare.
“Dunque raccontami tutto. Come stai? Cosa fai?”.
“Oh, Jacques! Non sai quanto ho sofferto. Mi hanno torturata, imponendomi il loro stile di vita. Non potevo sfuggire alla loro persecuzione. Non potevo scappare, perché ero senza un soldo, nemmeno per affrancare una lettera e chiedere aiuto. Mi hanno costretta a riprendere gli studi, a prendere lezioni di bon ton, a stare in società. Un mondo frivolo e senz’anima, pronto solo a bruciare sul rogo della vanità chi osava starsene ai margini o chi era dissenziente. Avrei voluto fuggire .. Ma dove?”
Iréne fece una pausa per consentire all’uomo di dire qualcosa.
“E’ terribile quello che mi dici. Una condizione orribile”. Tacque per invogliarla a proseguire.
“Ero senza amici, senza nessun col quale confidarmi. Mi sentivo sola. Avrei voluto morire. Bon Dieu, tu poi non immagini cosa dicevano di Alberto, che era il diavolo, anzi il capo di tutti i diavoli dell’universo. Non potevo difendere mio padre, perché secondo loro ero stata la vittima sacrificale di un uomo senza testa e senza ritegno. Riesci a concepire mio padre come se fosse un arcidiavolo? Tu l’hai conosciuto ..”.
“Sì, lo ricordo bene. Un gran uomo pieno di amore disinteressato verso gli altri” e fece un sorriso, mentre la stringeva con maggior vigore.
Erano ancora sotto i portici del Collegio, quando le pose una domanda.
“Ci fermiamo da qualche parte, così possiamo continuare la nostra chiacchierata al caldo?”
“No. Se non hai fretta possiamo fermarci nella dependance della mia villa. E’ l’unica cosa che possiedo. E’ tutta mia e là mi rifugio per ritrovare me stessa”.
Camminarono spediti lungo il viale, mentre lei le raccontava altri particolari della sua vita.
“Dopo qualche anno al termine degli studi il conte Cittadini chiese la mano a mio zio Matteo, che fu ben felice di rispondere sì. Così finii sposa di quest’uomo grigio e monotono. Ero diventata la sua prigioniera senza possibilità di fuga. Sono sposata da cinque anni ma mi sembrano cinque secoli”.
“Mon Dieu!” esclamò Jacques. “Hai avuto un’esistenza travagliata, a quanto pare”.
“Sì” rispose scostandosi da lui. “Siamo arrivati” e prese una chiave per aprire il cancello.
Si avviarono per un viottolo oscuro verso una costruzione bassa e buia, contornata da piante e cespugli che apparivano come neri custodi della costruzione.
Sentiva scorrere il sangue nelle vene come mai gli era capitato negli ultimi anni dopo tanto grigiore della vita matrimoniale. Era felice e spaventata allo stesso istante. Era rapita dall’uomo che stava al suo fianco ma ne percepiva anche la pericolosità. «Cosa ci vado a fare nella dependance?» si chiedeva tra trepidazione e ansia. Eppure era un ritorno al passato, a quel passato che non aveva mai smesso di sognare neanche quando faceva all’amore con Antonio, suo marito. Le serviva per sopportare quell’atto che compiva senza amore e senza stimolo solo per adempiere a un dovere, perché così le avevano insegnato.
«Ma è veramente un dovere oppure una costrizione?» rifletteva mentre in silenzio si avvicinava alla porta d’ingresso. Sapeva che stava varcando le colonne di Ercole e avventurarsi in un mare ignoto come gli antichi navigatori. Però avvertiva la necessità di condividere con qualcuno che aveva amato il contenuto di quello che stava dentro. Fremeva sia per l’impazienza di passare quell’uscio sia per il terrore di quello che sarebbe successo.
«Sei ancora in tempo, Iréne. Puoi fermarti lì e ringraziarlo per la compagnia. Ma lo vuoi proprio mandare via?” e si coricò per prendere la chiave dalla fioriera accanto alla porta.
Entrarono e accese le luci, che illuminò una camera nemmeno troppo grande.
“Ecco questo è il mio regno che nessuno prima di te ha mai violato” disse mostrando con un ampio gesto della mano la stanza dinnanzi a loro. “Ecco qui i miei tesori, i miei ricordi”.
Le pareti erano ricoperte coi quadri del padre, su un mobile basso campeggiava una sanguigna dove era ritratto Jacques al piano. Ovunque c’erano ricordi di Parigi, del padre, degli amici del padre e i suoi personali.
“Ti piace” chiese trepidante, perché sentiva pulsare dentro di sé l’emozione e la gioia dell’amore, come una quindicenne in preda a una crisi ormonale.
Lui si guardò in giro, poi osservò la donna. Si tolse il cappotto e la sciarpa che gettò in un angolo, mentre lei tremava per un amore selvaggio come se fosse il primo della sua vita. Percepiva che doveva donarsi, che la doveva possedere ma non osava fare il primo passo. Rimase ferma e muta in mezzo alla stanza con il mantello ancora in dosso.
“Vieni” le disse avvicinandosi. “Ti aiuto a togliere ..”.
“No!” gridò in un sussulto di vergogna ma non si mosse e lo lasciò fare.
“No! Non toccarmi! Non toccarmi!” ripeté più di una volta ma senza opporre resistenza si abbandonò voluttuosa fra le sue braccia.
Era quasi mezzanotte quando rossa in viso, accaldata e coi vestiti in disordine fece l’ingresso nella villa.
Si avviò verso la scala per raggiungere la sua stanza.
“Sei tornata?” chiese Antonio, uscendo dal salotto del pianoterra. La scrutò, la guardò con attenzione e tenendo un libro in mano le domandò della serata.
“Com’è andata?”
“Ottima musica” rispose preparandosi a salire per sfuggire all’occhio del marito.
“Sei spettinata” incalzò seguendola.
“C’era vento mentre rincasavo”.
“Ma la macchina ..”.
“L’ho lasciata al parcheggio. Desideravo fare due passi. La serata è fredda ma il cielo è limpido. Buona notte, caro” aggiunse, mentre con passo deciso salì i gradini che portavano alla zona notte.
Arrivata nella sua stanza si tolse i vestiti con calma, annusandoli per sentire ancora l’odore di Jacques.
“Ti ho ritrovato, Jacques! Non mi sfuggirai di nuovo! Domani ti rivedrò e fuggirò con te!” disse mentre si spazzolava i capelli prima di coricarsi.
Jacques ritornò all’hotel dove alloggiava, ritirandosi nella sua stanza.
Prima di coricarsi, annotò sul diario, come sua abitudine per leggerlo poi insieme a Yvette.
«Cara Yvette, non immaginerai mai chi ho incontrato al concerto? Iréne. Sì, proprio lei! Ti ricordi? La figlia di Albert. E’ diventata una donna affascinante, moglie di un rispettabile cittadino dell’alta borghesia e per di più un nobile. Dicono che sia molto ricco il marito. Ormai non è più una di noi con suo modo di fare civettuolo e aristocratico. Non la riconosceresti più, tanto è cambiata nel modo di porgersi. Pensa che crede di riaccendere quei fuochi ormai spenti da tempo con la credenza tutta femminile di farlo ricordando il passato. Ce qui est passé est bien passé. Che noia! Non riuscirebbe a eccitare più nessuno di noi. E’ veramente banale e deprimente. Spero che non capiti pure a te una così totale metamorfosi. Sarebbe deludente. Ha parlato male del marito dicendo che è tedioso. Sì, proprio così. Noioso e monotono, tanto che ho pensato al quel modo di dire che usiamo noi. “E’ talmente grigio che non lo sopporterebbe nemmeno la sua ombra”. Domani mattina dovrò evitarla mentre faccio l’ultima passeggiata per la piazza principale e poi volo da te tra le tue braccia, mon Chérie. Non vedo il momento di stringerti a me.
Adieu, à demain!
Bisou, mon Chérie»
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Il Borgo – Capitolo 5
Finite le fotografie e dopo aver camminato per Castel del Rio come gitanti della domenica col naso all’insù, ripresero il loro viaggio verso la meta che non doveva distare ormai troppi chilometri.
Arrivati nel paese di Moraduccio, persero il cartello con l’indicazione Castiglioncello, superando le quattro case della frazione.
“Eppure le spiegazioni del tragitto parlavano chiare” sbottò Laura, innervosita dal contrattempo. Non amava sbagliare strada né chiedere le informazioni a qualcuno. Si fidava troppo della sua memoria, del suo senso di orientamento e di osservazione anche durante la guida ma stavolta aveva le polveri bagnate.
“Non fa nulla” disse Eva, mettendole una mano sulla spalla per tranquillizzarla. “Torniamo indietro e chiediamo. Nessuno ci mangerà”.
La ragazza borbottò qualcosa di poco intellegibile e al primo spazio utile fece una bella manovra a U, tornando in paese che pareva disabitato.
“Che sia questo il borgo fantasma?” chiosò Marco, cercando una battuta che rompesse il clima teso. “Non si vede anima viva!”
“Non sono in vena di spiritosaggini sarcastiche” rispose acida una Laura piuttosto infastidita.
Una cappa di gelo divenne ancora più tangibile nell’abitacolo come se l’inverno fosse piombato lì con grande anticipo.
Giacomo fece un sorriso e rompendo il silenzio disse di fermarsi in quello spazio tra le due case. “Proprio quello di fianco a quell’abitazione bassa e dalle persiane rosse”, indicandola con il dito della mano.
“Scendo e busso a una porta per avere qualche informazione, Non mi pare che non ci sia nessuno”. Aveva appena pronunciato quelle parole che un vecchio con la pipa spenta in bocca uscì da una porticina con una sedia di legno impagliata, mettendosi a osservare le manovre dei ragazzi.
“Buongiorno!” disse Giacomo avvicinandosi sorridente. “Abbiamo perso l’indicazione per Castiglioncello. Non saprebbe dirmi dove la trovo?”
Il vecchio accennò col capo verso destra senza proferire parola. Il ragazzo guardò in quella direzione e come per magia comparve il segnale turistico per il borgo fantasma. Stava per ringraziarlo, quando un voce flebile gli domandò perché volevano andare là.
“Abbiamo letto che è un borgo fantasma, abitato solo dal vento e dagli spiriti” rispose garbatamente Giacomo. “Grazie per l’indicazione”.
“Fate attenzione. Ogni tanto crolla qualcosa” replicò asciutto, masticando il beccuccio della pipa.
“Grazie per l’avvertenza. Faremo molta attenzione a che non ci piova qualcosa in testa” rispose educatamente salutandolo con un cenno della mano.
Si avviò sereno e fischiettante verso l’auto facendo ampi gesti per segnalare il cartello affisso sulla parete della casa.
“Visto. Tutto risolto” affermò il ragazzo risalendo in macchina. “Ci potevamo passare davanti mille volte ma sarebbe stato un fantasma anche quel segnale. Ci voleva la presenza e la saggezza di quel vecchio per farlo materializzare”.
A questa battuta tutti risero allegri mentre i musi lunghi lasciarono il posto a visi sorridenti.
«Simpatico, Giacomo!» pensò Eva, osservandolo con curiosità. «Se non fosse stato per lui, questa gita spensierata si sarebbe trasformata in una lagna di tutti contro tutti. Però Laura è un bel peperino. Non ammette sconfitte. Sempre sicura di sé anche quando ha torto. Non si può dire che sia una perdente».
Marco strinse le labbra e storse il naso. «Se questo è il leitmotiv dell’avventura, non promette bene» ragionò lucido.
“Pace, Marco?” disse inaspettatamente Laura con fare umile. “Ho sbagliato a reagire così bruscamente prima. Mi ero innervosita e ce l’avevo con me stessa. Però ho risposto con parole inappropriate alla tua battuta che aveva l’intenzione di sdrammatizzare l’atmosfera. Spero che accetti le mie scuse”
“Okay. Episodio già dimenticato” replicò con tono neutro il ragazzo, non del tutto convinto del ramoscello di ulivo offerto dalla ragazza.
Infilato il viottolo stretto ma asfaltato, scesero fino a uno spiazzo sul greto del Santerno, dove era possibile lasciare la Panda. Un minuscolo ponticello permetteva l’accesso alla carrareccia, che portava al borgo, che si intravedeva malinconico su un poggetto tra le chiome degli alberi.
“Dobbiamo lasciare l’auto qui e proseguire a piedi” disse Laura, spegnendo il motore. I quattro ragazzi si guardarono intorno inspirando l’aria frizzante del posto, che stimolava pace e serenità.
“Che bella cascatella!” esclamò Eva indicando il rivolo d’acqua che scendeva da una spaccatura della montagna poco più a valle rispetto loro.
“E’ la cascata del Rio dei Briganti” confermò Laura.
“E’ zona di briganti, questa?” chiese Giacomo con un misto di ironia e curiosità.
“Non lo so ma lo presumo. Questa è un’area di confine. A ogni passo cambiamo regione dalla Romagna alla Toscana e viceversa. Un tempo, dicono le cronache, era un posto conteso e strategicamente importante, perché da qui passavano le merci dall’Adriatico al Tirreno” proseguì la ragazza, mentre i compagni l’ascoltavano in silenzio.
Il rumore delle acque, che gorgogliavano tra la petraia del fiume, il ronzio degli insetti che avvertivano ancora il tepore dell’estate, il volare di farfalle bianche e colorate conferivano al posto un qualcosa di magica tranquillità.
“Scarichiamo la macchina. Ci aspetta un viottolo ripido prima di arrivare alla meta della nostra gita” sollecitò Laura, che non stava più nella pelle di vedere coi propri occhi le rovine del paese.
In silenzio ognuno prese con sé quanto era necessario per la giornata.
La grande avventura aveva inizio.
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Una sera a teatro -parte 1 di 2
Iréne, avvolta nella cappa bordata di pelliccia, saliva lentamente lo scalone di ardesia del Collegio San Carlo nella zona centrale della città. Alzò la vista verso i quadri disposti lungo le pareti, che arcigni parevano seguirla con gli occhi. Si strinse ancor di più nel mantello come per proteggersi da un nemico invisibile. Continuò a salire cercando di distogliere lo sguardo e non pensare a loro.
Aveva deciso di partecipare a questa serata di musica classica per un motivo molto particolare ma l’aveva relegato in fondo all’anima per non pensarci troppo. Non era sua abitudine a partecipare a questi eventi, ma stasera faceva un’eccezione.
Con un sottile senso di inquietudine percorse il corridoio silenzioso che portava nel vestibolo del piccolo teatro collocato all’interno di questo Collegio secolare. Si udivano solo il ticchettio dei suoi tacchi e nulla più. Avvertiva un senso di pace passare tra questi muri che avevano visto numerose generazioni di studenti impegnati ad apprendere il sapere ma nel contempo percepiva che aveva sbagliato a venire. Erano sensazioni contrastanti che non riusciva a conciliare ma le provocavano un senso di angoscia ed euforia allo stesso tempo.
Si avvicinò al tavolo per pagare il biglietto d’ingresso e prendere il programma della serata, che scorse velocemente senza molto interesse. Non amava molto la musica classica in particolare quella strumentale ma aveva deciso di ascoltare questo concerto particolare.
Si guardò intorno alla ricerca di visi amici ma erano tutte facce sconosciute. Comprese di essere nel posto sbagliato: lei vestita in maniera ricercata, loro in jeans e maglione senza nemmeno abbinare troppo i colori. Li udiva parlare ad alta voce come se profanassero il luogo, che invitava al raccoglimento e al silenzio. Stava già meditando di andarsene, quando vide l’amica, la signora Massone, che più che amica era una conoscente un po’ pettegola e invadente. Nonostante questi pensieri tirò un sospiro di sollievo per non sentirsi sola.
Le due donne si mossero all’unisono una verso l’altra per salutarsi.
“Buona sera, contessa Cittadini” disse allegra porgendole la mano.
“Buona sera, signora Massone. Anche lei qui ad ascoltare questa serata di buona musica?”
“Sì. Ma la vedo sola. Il signor conte non è venuto? Non apprezza i virtuosi del pianoforte?” domandò un po’ maligna la donna.
Iréne stette in silenzio per qualche attimo per soppesare le parole della risposta.
“Sì. Mio marito ha preferito rimanersene al calduccio accanto al camino, piuttosto che affrontare il freddo della sera”.
Un lieve sorriso increspò il viso della signora Massone. “Saggia decisione. E’ più prudente di noi donne, che abbiamo privilegiato la voglia di evasione al caldo della casa”.
“Ops ..” aggiunse voltandosi verso chi le stava alle spalle. “Che poco elegante sono stata con lei. Non le ho presentata la mia amica. La contessa Iréne Cittadini” e poi facendosi di lato continuò. “Questa è la mia carissima compagna di uscite serale. La signora Boschetti”.
Uno scambio incrociato di mani e un qualche borbottio che assomigliava a un «piacere» concluse le presentazioni, prima che calasse un silenzio imbarazzato.
“Se non vi dispiace prendo posto in sala” disse Iréne allontanandosi dalle due donne per sedersi nelle ultime file, vicino all’ingresso e porre fine all’imbarazzo di una conversazione mai sbocciata.
La signora Massone osservò l’amica che prendeva posto e, prendendo sotto braccio la signora Boschetti, la guidò verso le prime file.
“Vede” cominciò sottovoce. “La contessa ha una bella e interessante storia dietro di sé. Lei è la figlia di Alberto Pierotti, il fratello minore di Matteo Pierotti, quel ricco uomo d’affari, che sicuramente conosce”.
Un lieve cenno del capo avvalorò le ultime parole, mentre la donna riprese il racconto.
“Alberto era uno scapestrato. Amava girare tra le osterie a bere e ubriacarsi come tanti poveracci e appena poteva scappava a Bologna al Caffè San Pietro, dove si radunavano pittori e scrittori. Lui ambiva a diventare pittore e non ne voleva sapere di studi o mettere la testa a posto. Nel 1939 aveva solo vent’anni con la guerra imminente e dietro l’angolo, quando scappò a Parigi, nascondendosi tra i pittori della rive guache a Montparnasse. Lì scollinò la guerra e l’occupazione tedesca”.
“Ma non era imprudente starsene all’estero in un paese non proprio amico?” chiese la signora Boschetti.
“Ha ragione, Ivana. Ma al ragazzo mancava il senso pratico e la prudenza del fratello. Era un autentico buono a nulla, che amava vivere di espedienti piuttosto che fare una vita normale”.
Un sorriso comparve sui loro volti, che giudicavano questi atteggiamenti come disdicevoli. La signora Massone riprese la narrazione dopo una breve pausa.
“Poi negli anni tumultuosi del dopoguerra conobbe una donna senza censo e anonima, che sposò in gran segreto. La famiglia di origine non seppe nulla finché non nacque Iréne, la signora che le ho presentato stasera”.
Fece una piccola sosta nel parlare, osservando se la signora Boschetti la seguiva nei suoi discorsi.
“Prosegua, Paola. Non conoscevo questi dettagli sui signori Pierotti e sulla contessa”.
“Come le ho detto Alberto era uno scapestrato senza testa e senza talento. Viveva di espedienti e piccoli lavori, facendo debiti a profusione. Sembra che la madre di Iréne sia morta qualche mese dopo la nascita della ragazza. Ma qualcuno vocifera che sia fuggita con un uomo ricco e importante. Tralasciando questi miseri pettegolezzi, la ragazza fu cresciuta in qualche modo dal padre e dai suoi amici in un ambiente malsano e privo di scrupoli o moralità, finché a vent’anni anche Alberto morì lasciandola sola. Lo zio Matteo, di animo generoso, l’accolse nella sua villa, appena fuori la città, e le consentì di completare gli studi. Le diede un futuro meno ambiguo e grigio del padre trasformando una ragazza senza cultura ed educazione in una una splendida fanciulla ammirata da tutti. Dicono che abbia acquisito la bellezza dalla madre, che nessuno ha mai potuto ammirare”.
Fece una piccola pausa voltandosi leggermente verso le ultime file della sala per osservare Iréne, che compunta teneva in grembo la mantella.
“Lo è ancora adesso una stupenda donna nel fiore della maturità, a dire il vero. Ma andiamo avanti col racconto. Molti corteggiatori si fecero avanti ma alla fine la spuntò il conte Cittadini, che la sposò. Non hanno ancora figli ma pare che sia una coppia affiatata” concluse la signora Massone.
“Senza dubbio una storia interessante che non conoscevo, Paola. Ma ora ..” e non riuscì a concludere il pensiero perché il pianista aveva fatto il suo ingresso, accompagnato da un caloroso applauso del pubblico presente. L’artista fece un inchino verso di loro e in un italiano approssimativo si presentò.
Iréne lo vide e cercò di nascondersi, mentre occultava il nervosismo serrando le mani sulla mantella. Alle prime note dello strumento una forte ondata di emozioni l’assalì salendo verso il volto per poi scendere verso il basso. Osservò con attenzione Jacques Saint Just, i capelli ancora lucidi e scuri, la mani diafane e affusolate, che scivolavano leggere a sfiorare i tasti del fortepiano.
La musica settecentesca di Haydn e di Muzio Clementi riempì la sala che ascoltò in silenzio i virtuosismi del pianista fino all’intervallo. Un lungo ed entusiastico applauso accolse la fine della prima parte del programma.
Iréne si alzò e uscì prima che Jacques Saint Just salutasse il pubblico e si ritirasse nel camerino.
“Dov’è il camerino dell’artista” chiese la donna all’addetto del ingresso.
“Nel corridoio la seconda porta” rispose indicando con la mano il percorso. Si avviò con passo deciso verso il punto dove l’uscio si confondeva con la parete. Era in preda all’agitazione per l’emozione, che l’aveva turbata a quella visione, facendola piombare in anni lontani. Bussò con discrezione e attese che qualcuno si facesse vivo.
“Desidera?” chiese una donna facendo capolino dalla porta appena socchiusa.
“Devo vede Monsieur Saint Just” disse con un filo di voce.
“Non è possibile. Deve aspettare la fine del concerto” replicò accennando a richiuderla.
“Ho un appuntamento con lui” rispose in maniera convincente.
“Aspetti” e sparì.
Dopo qualche istante ricomparve e le fece cenno di seguirla.
La contessa sentiva crescere dentro di sé un mix esplosivo di gioia e angoscia che lottavano tra loro. La decisione di vedere il pianista era stata emotiva, irrazionale ma adesso pareva pentita della decisione. Non poteva più tornare indietro. Entrò in una stanzetta disadorna e lo vide.
“Jacques!” disse allargando le braccia per abbracciarlo.
“Iréne! Che bella sorpresa! Non sapevo che tu fossi qui”.
L’artista si alzò dalla sedia, stringendola forte a sé.
“Lasciati ammirare!” soggiunse, osservandola. “Sei ancor più bella di quella che ricordavo. Allora eravate una fanciulla acerba, ora siete una donna meravigliosa piena di charme e nel fiore della vita”.
Le labbra si unirono in un bacio caldo e passionale. Poi si staccarono per scrutarsi a vicenda. Erano visibilmente commossi per essersi ritrovati dopo tanti anni.
Le girò intorno, stentando di riconoscere quella fanciulla alla quale aveva insegnato i primi rudimenti di musica nella Parigi scapestrata e bohemien del dopoguerra. Lei lasciò cadere una lacrima, ricordando quegli anni felici trascorsi col padre e tutti quegli artisti che l’avevano allevata e coccolata come se fossero tanti padri e tante madri.
“Oh!” furono le sole parole che le uscirono. Avvertiva la necessità di ascoltare quella voce calda e di essere tenuta stretta da quelle mani affusolate da pianista. “Oh, Jacques!”
“Sst!” e le mise un dito sulla bocca. “Tenez” le disse allungandole una sedia. “Aspettami qui fino al termine del concerto. Nessuno verrà a disturbarti”. E uscì per riprendere a suonare.
Nel mentre la signora Massone la cercava con lo sguardo senza vederla.
“Iréne se ne è andata” confidò all’amica. “Evidentemente quel pianista francese non era di suoi gradimento”.
“Io l’ho trovato fantastico nel suonare quel antico pianoforte dal timbro forte e deciso” rispose aggrottandole sopracciglia. Non comprendeva le motivazioni per le quali era venuta, se poi non aveva apprezzato la musica.
“Rientriamo. Tra qualche istante il concerto riprende”.
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Il Borgo – Capitolo 4
Era il 5 settembre del 2009, quando Laura scese in strada per aspettare i compagni di questo viaggio visionario e fantastico. Era eccitata, come la prima volta che aveva affrontato da sola un tour in Germania, e nel contempo intimorita e impaurita per la complessità del progetto che desiderava avviare.
La giornata prometteva bene. Un bel sole caldo riscaldava l’aria, appeso in un cielo terso e limpido privo di nuvole. Aveva trepidato leggendo le previsioni meteorologiche di Arpa dell’Emilia Romagna nei giorni precedenti. «Oggi annunciano sole pieno e tempo sereno con temperature intorno ai 20°» diceva dentro di sé per esorcizzare il timore che avessero sbagliato le stime. «Non sarebbe la prima volta e neppure l’ultima» rifletteva mentre si lisciava i capelli per il nervosismo.
Era raccolta in queste riflessioni, quando osservò una vecchia Punto che accostava timidamente al marciapiede qualche metro dopo di lei. Non aveva mai visto i loro visi come loro non avevano avuto la possibilità di vedere una sua fotografia. Quindi era un incontro al buio e tutte le cautele erano d’obbligo per non incappare in malintesi antipatici.
“Forse è Giacomo” pensò rimanendo immobile dov’era.
Dall’auto scese un ragazzo non molto alto coi capelli scuri tagliati corti ma non troppo. Una leggera peluria biondo rossiccia incorniciava il viso ma era lo sguardo franco e accattivante che la colpì. Si mossero quasi all’unisono andandosi incontro.
“Laura?” chiese un po’ incerto.
“Giacomo?” rispose la ragazza, allungando la mano.
“Felice di conoscerti” replicò, stringendola con vigoria senza stritolarla.
Una risata ruppe l’incantesimo del momento, sciogliendo quel leggero velo di incertezza che li aveva colti.
“Manca solo Eva”. Tacque una frazione di secondo prima di riprendere a parlare. “Hai qualcosa da caricare sulla mia Panda 4X4?”
“Si” disse, aprendo il baule della Punto per estrarre uno zaino della Invicta gonfio e pesante.
Erano intenti nel trasbordo, quando videro una Polo grigia che avanzava verso di loro con lentezza come se stesse cercando qualcuno. Laura notò che era una coppia di ragazzi, un uomo e una donna, e non li associò a Eva. «Dovrebbe arrivare una ragazza e non una coppia. Forse stanno cercando qualcun altro che non sono io» rifletté, osservando l’auto con la coda dell’occhio, mentre manovrava per accostare al marciapiede. Parcheggiò dinnanzi alla macchina di Giacomo, perfettamente allineata al cordolo.
“Forse hanno necessità di informazioni” si disse controllando le mosse degli occupanti.
Un ragazzo e una ragazza si mossero verso di loro. La giovane non era molto alta e aveva un bel sorriso luminoso. A Laura piacque immediatamente. Il giovane era alto e biondo dal viso serio e leggermente annoiato. Però si faceva notare per il modo franco di camminare. Sicuro di sé e per nulla altezzoso.
“Ciao. Sono Eva” esordì la ragazza. “Laura?”
“Ciao” rispose. “Benvenuta in questa compagnia di visionari amanti della natura”.
Osservò il ragazzo con attenzione domandandosi se era un semplice accompagnatore oppure era un aggregato inatteso e dell’ultima ora.
“Questo è ..” disse Eva girandosi verso il compagno che stava alle sue spalle. “Questo è Marco, il mio ragazzo. Se non è d’impiccio, ci farà compagnia in questa escursione”.
“Ciao” rispose Laura, che quasi si stava dimenticando di Giacomo. “Certamente è il benvenuto tra noi”. Poi come colta da un’improvvisa folgorazione aggiunse ridendo per coprire l’imbarazzo. “Non vi ho presentato Giacomo, l’altro componente della spedizione”.
Una serie di «Ciao» e un intreccio di mani misero fine alle presentazioni.
“Ho strappato Marco dal suo antro, la camera oscura. Lui ama la fotografia ed è un valente fotografo. Credo che le sue magie ci possano essere utili oggi ma anche domani se il progetto prende forma” disse Eva per giustificare la presenza del compagno.
“Meraviglioso” esclamò Laura battendo le mani come una bambina felice di aver ricevuto un regalo inatteso.
“Calma, calma. Eva mi spaccia per un Frank Capa in miniatura ma sono molto meno abile. Un modesto dilettante al quale piace inquadrare degli oggetti e delle persone” replicò senza troppi trionfalismi.
“Non dategli ascolto. Marco è bravissimo. Vedrete e toccherete con mano la sua abilità con gli obiettivi”.
“Bene. Che ne dite di avviarci?” chiese Laura. “Avete qualcosa da scaricare, prima di metterci in viaggio?”
Marco si avviò col suo passo deciso e svelto verso il baule della Polo, da dove tolse uno zaino, una sacca e delle borse tipiche del fotografo.
Il viaggio stava iniziando sotto i migliori auspici. Lasciata Bologna avevano deciso di percorrere la via Emilia per godersi un viaggio meno monotono rispetto all’autostrada.
“Facciamo una sosta da Dino” disse Laura, dirigendosi verso Castelguelfo.
“Chi sarebbe?” chiese Eva.
“Un bar pasticceria dove possiamo fare un’ottima colazione e portare con noi un bel dolce della casa”.
“Ma lo conosci?” chiese curioso Giacomo.
“No. Cercando sul web qualche notizia ho trovato sul sito Itinerari di Bologna che andando verso Castiglioncello c’è questa ottima pasticceria”.
“Ma allora ci usi come cavie?” proseguì per nulla convinto Giacomo. A questa battuta tutti risero, perché era stata detta con un tono talmente serio e compunto che non era possibile resistere.
“Ma no! Ne ho sentito parlare. Un tempo era famosa. Cosa costa fermarci?” disse cercando di togliere i dubbi.
“Ma perché parli al passato?” continuò imperterrito l’ingegnere. Ormai il dialogo pareva surreale: da una parte Laura che tentava di fugare le perplessità senza riuscirci, dall’altro Giacomo che incalzava con nuove domande senza essere persuaso dalle spiegazioni.
“Ma sei sempre così diffidente?” chiese Eva.
“No, non sono diffidente” si difese il ragazzo. “Mi piace capire quello che si fa e ..”
“Spaccare il capello in quattro” sbottò Marco.
“No, no!” disse Laura. “Sei un ingegnere tosto e quadrato. Fai benissimo a chiedere”. Non voleva dare l’impressione che tutti remassero contro di lui.
“Beh! Insomma .. Manca molto per arrivare da Dino. Almeno il caffè lo fa?” replicò arrossendo un po’.
“Credo di sì. La pubblicità parlava di pasticceria bar. Non siamo molto distanti. Ancora qualche minuto di strada”.
“Sembri pratica delle strade ..” notò Giacomo.
“Eh! Beh! Sì” farfugliò Laura. “Non hai mai sentito parlare del outlet di Castelguelfo?”
“No. Mai” esclamò divertito il ragazzo. “E roba da donne ..” aggiunse calando di nuovo la maschera della persona seria.
“Ci passiamo di fianco. E’ ancora presto ma tra poco le strade saranno intasate di macchine”.
L’atmosfera nell’abitacolo s’era riscaldata con battute e frecciate ma si respirava un bel clima.
Fatta la sosta da Dino, ripresero la via Emilia fino a Imola, dove presero la provinciale la Montanara che avrebbe condotto verso la meta del viaggio.
Era passato da poco più di un’ora dalla partenza, quando raggiunsero Castel del Rio, prima di affrontare l’ultimo tratto del viaggio verso il borgo fantasma. Si fermarono in paese per una rapida visita, perché avevano letto che meritava una piccola sosta, prima di proseguire per Moraduccio, quattro case immerse nel verde dei primi contrafforti dell’Appenino tosco-emiliano al confine con la Toscana.
Marco estrasse una reflex per scattare diverse istantanee degli angoli più caratteristici del paese. L’occasione permise a Laura di osservare meglio la coppia, che le pareva ben assortita e affiatata. Lui di sicuro non aveva il sorriso contagioso, perché era sempre serio ma mai col broncio. Dalla battuta pronta e incisiva non perdeva l’occasione per far sentire la sua voce. Alla ragazza fece un’ottima impressione e avvertì una certa invidia nei confronti di Eva, solare e sorridente. Se il ragazzo appariva introverso, lei era di certo estroversa. L’impressione era che fossero complementari e mai antagonisti. Mentre osservava il ragazzo, concentrato nello scegliere l’inquadratura più vicina ai suoi gusti di fotografo, la ragazza chiacchierava fittamente con Giacomo, come se fosse disinteressata a Marco.
Laura rifletté che era solo apparenza, perché con discrezione seguiva l’armeggiare del compagno, pronta a portargli la borsa, qualora se ne presentasse la necessità.
“Si” convenne dopo queste osservazioni. “Sicuramente è una coppia ben affiatata. Nessuno dei due sta col fiato sul collo dell’altro”.
Mentre faceva queste considerazioni, la sua attenzione cadde su Giacomo, che era rimasto defilato dopo il duetto per la sosta da Dino.
“L’ho trascurato” pensò la ragazza. “Dopo il primo contatto ho scambiato con lui solo quattro battute per lo più banali e scontate”.
Non era riuscita ancora a inquadrarlo perfettamente. Le sembrava tetragono agli entusiasmi suoi e di Eva ma forse era solo una sensazione passeggera.
Mentre Laura era impegnata a valutare e riflettere sui compagni di viaggio, Giacomo analizzava Laura, Eva e Marco.
Gli era sembrato che Laura prestasse troppo interesse a Marco, che per contro pareva poco interessato a lei. Però era simpatica e piena di idee. «Un piccolo vulcano in perenne eruzione» era il concetto che si era fatto. Senza dubbio aveva un certo fascino che colpiva la sua immaginazione. “Alta nella media. E’ leggermente più bassa di me. Se mettesse i tacchi mi sovrasterebbe” rifletteva, osservandola con rapidità mentre chiacchierava con Eva. “Però sono quegli occhi mobili e luminosi il punto di forza del suo aspetto. Quel grigio per nulla slavato, appena venato di un azzurro pallido mi hanno colpito fino dal primo istante”.
Un altro aspetto aveva accesso il suo interesse: la capacità di parlare con proprietà su argomenti diversi tra loro.
Fino quel momento non era pentito di aver accettato questa avventura quasi irrealizzabile. “Sono tutti veramente simpatici. Ascoltarli è un vero spasso”.
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Andando in treno – parte 2
Rimasi scioccato e senza parole. Quell’uomo dai capelli bianchi e dal viso affilato come una lama mi guardò prima torvo poi addolcì l’espressione.
“Ma lei dovrebbe avere almeno ottant’anni per essere Paolo Morieri” dissi riacquistando l’uso della parola.
“Infatti” replicò visibilmente scocciato dalla mia incredulità e diffidenza. “Ho ottantatre anni. E poi confronti la fotografia che sta a pagina ..” e cominciò a sfogliare il libro, finché non trovò quello che cercava.
“Guardi” e mi mise sotto il naso una fotografia di un ragazzo giovane dai capelli scuri e con un pizzetto alla Italo Balbo.
Convenni che il taglio degli occhi e la forma del naso sembravano le copie conformi di quelle che vedevo accanto a me.
“Ora sono smagrito, coi capelli candidi e senza pizzetto ma sono io nel resto dei dettagli”.
“Già” ammisi laconicamente ma ancora non potevo credergli che la persona accanto a me fosse il protagonista del romanzo che teneva in mano.
“Mi dica” proseguii con tono dubbioso, “chi è per lei l’autore? Come ha potuto scrivere una simile storia?”
Un raro sorriso illuminò quel viso leggermente rugoso, mentre la ragazza della battaglia navale si era girata verso di noi ascoltando con attenzione la nostra conversazione.
“Michi, vuoi la rivincita?” udì dalla voce del ragazzo che non si era accorto dell’interesse della compagna alle nostre parole.
“Sss! Non disturbarmi” replicò con un sussurro appena accennato.
“Chi è?” domandò ad alta voce, facendo girare quasi tutti i viaggiatori del vagone. “Chi è? Lo sapessi!” Urlò come un tuono in piena notte.
“E secondo lei come ha potuto scrivere questo romanzo?” gli chiesi con un tono più moderato.
“Lo sapessi!” ribadì questa volta meno irritato.
Non riuscivo a comprendere come Arduini, l’autore, fosse collegato con questa persona, che era molto più vecchia di lui e che difficilmente l’avrebbe conosciuto.
Dunque mentre stavamo conversando in maniera quasi sincopata, gli domandai di raccontarmi la sua storia.
“Guardi” cominciò sospirando. “Guardi, la mia vita è come un reality” e cominciò con un racconto al limite dell’incredibile.
“Mio padre era ricco, molto ricco. Possedeva una banca che portava il suo nome. Una banca piccola con un solo sportello e degli uffici discreti e ovattati ubicati nel centro di Milano. Da qui passava tutto il gotha dei gerarchi milanesi e tanti altri personaggi che amavano l’anonimato per trasferire le proprie ricchezze in Svizzera. Allora ero ancora all’università ma entrai lo stesso a lavorare presso mio padre. Specialmente ora che la guerra si avvicinava. Mio padre riuscì con abilità a convincere il federale di Milano, una persona influente, a certificare che la mia presenza in città era vitale, così che evitai l’arruolamento e quel tritacarne che era guerra”.
Prese un fazzoletto per asciugarsi le labbra prima di riprendere a parlare.
“Era il dicembre del 1942. Il giorno non lo ricordo ma l’immagine è viva nella mia memoria. Dunque quel giorno un certo Michele Scialopoti, che conoscevo vagamente, venne da me per chiedermi un prestito di mille lire. Era una cifra enorme a quei tempi ma io disponevo di un conto personale a sei cifre, frutto delle donazioni di mio padre e mio nonno. Mi implorò a tal punto che cedetti il denaro in cambio di un pagherò che sarebbe scaduto un anno dopo. Nella notte tra il 7 e 8 agosto del 1943 Milano subì un furioso bombardamento. Io nella fuga durante la notte, al buio perché la città era oscurata, caddi e persi i sensi. Quando mi risvegliai, mi trovai in uno stanzone con decine di altre persone del tutto sconosciute. Non capivo nulla e nonostante i miei tentativi di mettermi in contatto con mio padre finì su un treno con altri deportati. Colto da febbre altissima durante il viaggio persi conoscenza e poi non ricordo più nulla”.
Era il racconto più fantastico che avessi mai ascoltato. Cercai di dissimulare la mia incredulità e gli posi altre domande, alle quale rispose in maniera ancora più incredibile.
“Di solito i romanzi sono opere di fantasia e non riproducono la realtà. Oppure sono in difetto?” mi domandò a bruciapelo.
“No” risposi. “Di norma gli editori li chiamano non-fiction, perché si collocano a metà strada tra la fantasia e la realtà. Però questo è stato catalogato come fiction, ovvero opera di pura fantasia ..”.
Paolo Morieri alle mie parole aprì il testo a caso e lanciò un urlo, udito distintamente da tutti i compagni di viaggio.
“Vede” disse indicando una pagina. “Mi dice che oggi è «martedì», il martedì dell’aldilà, dove io annuso dei fiori. Non sente il profumo di lavanda?”
Mi avvicinai e provai ad annusare. Sentivo solo l’odore della stampa fresca e null’altro. Non dissi nulla. Non volevo innescare un altro contenzioso, anche se lui continuava a elencare fiori e odori, che non percepivo per nulla.
“E qui” aggiunse indicando una fotografia. “Sono nudo che ballo con una fanciulla discinta! Ma io non so ballare e quella giovane donna non la conosco!”
“Si calmi” gli dissi cercando di tranquillizzarlo.
“Sarebbe tranquillo lei, se mio padre o qualche conoscente lo leggesse?”
“Certamente” replicai poco convinto.
“Io no! Ballare nudo con una donna che non si conosce non mi pare un modo educato di comparire in un libro ..”
“Però quella pagina è davvero seducente..” provai a contraddirlo.
“Sarà ma c’è da vergognarsi. Come potrò tornare in ufficio nella banca di mio padre senza essere oggetto del dileggio dei colleghi?”
Indubbiamente aveva ragione ma non potevo ammetterlo. Quindi preferì glissare sull’argomento.
Stavo per replicare, quando una voce femminile un po’ gracchiante uscì dagli altoparlanti del vagone.
«Milano. Stiamo entrando nella stazione Centrale di Milano. Trenitalia ringrazia i signori passeggeri. ..».
Mi distrassi un attimo.
“Signor Morieri viene con me a Vigevano dall’autore del libro?” ma allibito non vidi nulla accanto a me. Solo il libro aperto sulla pagina con la sua fotografia.
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