Capitolo 19

Giacomo, dopo il ritorno a casa, aveva ripreso le consuete attività, o meglio l’attenta esplorazione della sua nuova vita per scoprire quali altri aspetti si nascondessero alle sue conoscenze.

Era il 23 di aprile, il giorno di festa della città per celebrare il Santo Patrono, quando all’ingresso si presentò un messo ducale con un messaggio per lui.

Stava leggendo un libro preso dalla biblioteca di casa. Era la storia della sua casata, o forse di quella nel quale si era calato in maniera involontaria.

“I miei antenati sono savoiardi. Più precisamente di Castel di Liborno. Chissà dove si trova questa località. A parte il riferimento alla Savoia, non appare altro. Ma leggiamo ancora. Pare che i miei avi siano stati tutti letterati o iuris consulto. Dunque sono la pecora nera? L’unico ingegnere della famiglia. Chissà mio fratello, Ercole, ..”.

Stava riflettendo quando udì un discreto bussare. Ghitta, che stava in un angolo vicino alla finestra, alzò gli occhi come per interrogare Giacomo se doveva aprire la porta.

“Avanti” disse con voce ferma Giacomo, fermando l’accenno di movimento della serva.

Apparve sull’uscio il maestro di casa che annunciò il messo ducale.

L’uomo rimase stupito, perché in questi mesi il Duca non l’aveva mai cercato ma si domandò anche per quale valido motivo doveva aver necessità della sua persona. E poi l’inverno era stato terribile tra la neve che aveva bloccato tutto e il freddo che aveva ghiacciato anche il Po comprese le parole delle persone. Si riscosse da questi pensieri del tutto insignificanti e prestò attenzione al messo che era giunto in questa giornata di festa.

Il paggio fece un profondo inchino prima di presentarsi, mentre osservava con la coda dell’occhio Ghitta, la cui presenza gli risultava inopportuna. Il Duca si era raccomandato discrezione nel parlare e nel consegnare il messaggio

“Messere, vi prego sedetevi” disse appoggiando il volume aperto sul tavolo. “Posso offrirvi qualcosa? La giornata è afosa e voi avete fatto un bel tratto di strada per raggiungere la mia dimora”.

“Un po’ di acqua fresca per togliere la polvere della cavalcata” rispose cortese, accomodandosi sulla sedia che l’uomo indicava con la mano.

“Ghitta” disse Giacomo volgendosi verso la serva. “Potete portarci una brocca di acqua fresca, due calici e qualche frutto maturo?”

La ragazza sparì rapidamente alla loro vista per portare quanto richiesto con grande sollievo dell’uomo, che trovava singolare che una serva rimanesse ad ascoltare la loro conversazione.

“Ditemi, mentre aspettiamo che la mia camariera personale torni con acqua e frutti. Avete detto che ..”.

Il paggio si schiarì la voce, prima di consegnare un messaggio chiuso col sigillo del Duca.

“Aspetto una vostra risposta che comunicherò al mio Signore, quando rientro a Ferrara”.

Giacomo controllò la ceralacca che fosse integra, anche se non era in grado di distinguere se fosse autentica oppure no, poi la ruppe con un gesto deciso, prima di cominciare la lettura del contenuto, aggrottando leggermente la fronte. Il testo era molto laconico e generico ma non lasciava addito a dubbi: doveva presentarsi al Castello nella giornata seguente senza troppi tentennamenti. Si chiese se avesse risposto negativamente cosa sarebbe successo. Di sicuro niente di buono.

“Ho letto. Potete comunicare al nostro Duca che sarò puntuale un’ora prima del tocco. Sarò lieto di presentarmi al suo cospetto”.

Nel frattempo silenziosamente e con discrezione Ghitta era tornata con la brocca e un cesto di fragole, depositando il tutto sul tavolo, prima di ritirarsi nel suo angolo.

“Crescono nella mia proprietà e spero che li gradiate” disse versando l’acqua fresca appena attinta dalla fonte.

Mangiati alcuni frutti e dissetatosi, il paggio prese commiato da Giacomo e fu accompagnato fino al cortile da Ghitta. Ancora una volta il messo si chiese che ruolo ricopriva questa donna, che appariva molto giovane ma anche esperta nel trattare con le persone. Scosse la testa e si allontanò verso la città mettendo al trotto il cavallo.

Giacomo si domandò di quale argomento avrebbe trattato nell’incontro con Alfonso. Non era ancora riuscito a comprendere bene il suo ruolo a corte ma forse il giorno seguente l’avrebbe svelato. Era immerso nelle sue riflessioni mentre leggeva senza muovere gli occhi il messaggio ducale, quando la serva rientrò nella stanza.

“Mio Signore, vi osservo serio e preoccupato. Forse il Duca vi ha comunicato qualcosa di sgradevole?”

“No, no. Niente di tutto questo. Chiede solo i miei servigi. Di che tipo non li conosco ma sicuramente inerente alla mia professione. Non sono preoccupato ma semplicemente mi domando quale fretta c’è per ordinare la mia presenza per domani mattina senza indugi”.

“Dunque domani, messer Giacomo, non sarà a pranzo con noi?” chiese curiosa la ragazza.

“No. Avvertite madonna Isabella che domani sarò ospite del Duca” e riprese la lettura del volume rimasto aperto sul tavolo.

Ghitta lo interruppe, perché aveva una richiesta da fare.

“Messere, se Voi non avete bisogno di me, vi chiederei il permesso di raggiungere la basilica di San Giorgio con le mie amiche. Oggi è giorno di grande festa con banchetti e saltimbanchi. Voi non venite?”

Giacomo alzò il viso dal libro e sorrise.

“No. Io non vengo. Preferisco godermi la frescura della stanza. Però voi fate attenzione a non dare troppe confidenze agli uomini. Sapete bene cosa succede” disse sornione. “E non tornate troppo tardi. Potrei avere bisogno di voi”.

“Non preoccupatevi per me. So come comportarmi con gli uomini. Sarò di ritorno prima del vespro così che posso aiutarvi per la cena serale”.

Giacomo riprese la lettura e Ghitta andò allegra a piedi verso la grande Basilica.

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Capitolo 18

La vigorosa nevicata di gennaio, l’interminabile gelo di febbraio erano ormai un pallido ricordo e avrebbero costituito l’argomento dei racconti dei vecchi nelle lunghe veglie serali dei prossimi inverni attorno al camino, quando racconteranno come i canali fossero gelati e il Po ricoperto da una lucida lastra di ghiaccio immersi in uno spettrale sfondo innevato. Era stato un carnevale in tono minore, quello terminato il 24 febbraio, perché neve e freddo avevano paralizzato la città, impedendo le consuete manifestazioni di gioia chiassosa nelle vie cittadine. I predicatori in chiesa dicevano che era il castigo divino per i costumi lascivi e disordinati dei suoi abitanti. Una visione dell’aspetto meteorologico differente e divergente tra chi predicava e chi subiva le intemperie di febbraio.

Una bizzarra e capricciosa primavera era subentrata al rigido inverno con un’alternanza di splendide giornate di sole e di corrucciati giorni di pioggia. La natura sembrava apprezzare questa variabilità, trasformando il paesaggio in un tripudio di verde e di colori.

Arrivò un maggio, che fu particolarmente tiepido, tanto che la duchessa Lucrezia si preparò per il consueto trasferimento nella delizia del Belriguardo. Il Duca aveva dato il via libera e il clima era diventato più stabile verso il bello. Tutto congiurava favorevolmente per l’inizio delle vacanze estive, che sarebbero terminate a settembre inoltrato o in ottobre, se il tempo si manteneva temperato e sereno.

Lucrezia con la sua piccola corte di donne, Laura Rolla, Angela Valla, la contessa Strozzi e coi musici e le danzatrici, che avevano allietato le lunghe serate invernali, traslocò in campagna sul barcone fluviale trainato dai cavalli. Era un trasferimento lieto e scanzonato, che durava qualche giorno con soste programmate e altre improvvisate, attraverso la campagna ferrarese. Era un momento festoso e molto atteso dalla Duchessa, che poteva lasciare l’appartamento ducale freddo e noioso per un mondo agreste e rilassante. Era corroborante per la sua salute che peggiorava anno dopo anno.

Nelle stanze del Castello Alfonso riprendeva le abituali attività di governo e gli incontri galanti. Si sentiva libero mentalmente con la partenza di Lucrezia, anche se nessuno poteva imporgli qualsiasi impegno o restrizione. Lui spaziava tra la delizia di Belfiore e quella del Verginese, sfogava la voglia di menare le mani nel boscone della Mesola, andando a caccia di cervi e cinghiali. Però erano gli incontri amorosi che erano al centro dei suoi interessi, quando le guerre non lo catturavano.

Di Laura si era scordato il viso e l’aspetto, inghiottiti dalla coltre nevosa, finché un giorno il segretario non gli ricordò quel lontano impegno.

Adesso aveva altre priorità ma presto ci avrebbe fatto un pensiero.

Giacomo fece ritorno a casa al termine della nevicata non senza qualche difficoltà. Lo aspettavano i rimproveri della moglie e le attenzioni di Ghitta.

“Madonna Isabella” disse presentandosi sull’ora centrale nelle stanze della moglie al suo rientro. “Siete troppo severa nei giudizi. Se avessi potuto, sarei rientrato quella notte stessa. Ma ..”

“Niente scuse” sentenziò acida. “Siete rimasto fuori da questa casa per quasi due settimane, lasciando a me tutti gli oneri di gestirla per assicurare che ogni cosa funzionasse a dovere”.

“Mi sembrate ingenerosa nei miei confronti. Non mi pare che la gestione della casa ricadesse sulle mie spalle”. E azzardò un pensiero su chi governava, anche se ignorava se fosse vero oppure no. “Credo che voi, madonna Isabella, abbiate sempre diretto con mano ferma sia servitori che serve. Avesse scelto i camarieri personali di ognuno di noi. Io mi sono ritrovato Ghitta senza nessuno mi abbia chiesto nulla”. Mentì spudoratamente, perché quella servetta gli garbava e come.

La donna rimase in silenzio, come se Giacomo avesse colto nel segno. Forte di questo successo si accomiatò da lei.

“E ora, col vostro permesso, mi ritiro nelle mie stanze. Sento la necessità di un bagno ristoratore” e si avviò verso la porta.

“Messer Giacomo. Noi abbiamo già pranzato. Mandate Ghitta nelle cucine a vedere se è avanzato qualcosa. Stasera si cena al tocco del vespro”.

L’uomo annuì, accennando un «va bene, manderò Ghitta. Ma non ho molta fame», mentre usciva velocemente dalla stanza.

Aperto l’uscio delle sue camere, trovò Ghitta che lo aspettava sorridente.

“Messer Giacomo! Ben tornato!” e l’abbracciò con molto calore. “Abbiamo sentito la vostra mancanza in questi giorni ..”

“Chi noi?” domandò stupito e un po’ ironico.

“Volevo dire solo io, che non vi ho potuto curare e servire in ogni dettaglio” rispose senza batter ciglio, mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti infangati e bagnati.

“Avete necessità di un bagno caldo e di vestiti puliti. Chi vi ha ospitato non vi ha curato come si deve”.

L’uomo sorrise e la lasciò fare. Non c’era confronto con la moglie, fredda, boriosa e ispida come un riccio. Ripensò alle nottate con Giulia e con Ginevra e sospirò, perché era stata una parentesi piacevole e gradevole.

“Messer Giacomo” riprese Ghitta. “Vi sento sospirare come se rimpiangeste qualcosa o qualcuna. Ora siete di nuovo a casa e non dovrete rammaricarvi di quello che avete lasciato”.

“Siete gentile nei pensieri, Ghitta. Ma ora desidero un bagno caldo e poi riposarmi un po’”.

E così fu, anche se il riposo non arrivò subito.

Laura lentamente aveva ripreso le sue consuete attività, quando finalmente aveva potuto mettere il naso fuori della bottega. La strada era un immenso scivolo ghiacciato, percorribile solo a piedi e con cautela.

La visita del Duca era un lontano ricordo dimenticato e impolverato, mentre i vecchi e nuovi spasimanti tornavano alla carica.

Era una ragazza formosa e piena di fascino, che appariva agli occhi di tutti come una torre d’avorio inespugnabile. L’assedio continuava anche se era meno assillante per via delle condizioni climatiche che ostacolavano i movimenti delle persone e delle cose.

La ragazza era serena come la primavera che avanzava a grandi passi. La madre mugugnava non poco, perché passavano i giorni senza che la figlia decidesse di scegliere il partito da sposare.

“Madonna Paola” le diceva il marito. “Se vogliamo maritare nostra figlia dobbiamo sborsare molti scudi d’oro come dote. E non li abbiamo”.

“Messer Francesco, cosa dite! Ci sono facoltosi commercianti che sarebbero disposti a pagare loro molti fiorini pur di avere in sposa la nostra Eustochia! Volete che rimanga zitella tutta la vita? Allora sarebbe meglio che entri in un convento come Lucrezia, sua sorella”.

Il padre scuoteva la testa perché non era d’accordo.

“Nostra figlia è un prezioso aiuto in bottega. E poi la vorrei pensare maritata con qualcuno di suo gradimento e non col primo vecchio bavoso, pieno di lire marchesane”.

“Se è vecchio, tanto meglio. Così diventa vedova ancora giovane e piacente, ereditando il patrimonio del defunto marito” replicò seria la madre.

“Madonna Paola, mi sembrate molto venale! Per fortuna col mio lavoro sono in grado di mantenervi decorosamente”.

“Avete ragione, messer Francesco. Ma Laura rischia di rimanere zitella”.

Erano intenti in questa discussione, che ormai dominava i loro dialoghi, quando entrò un paggio del Duca.

“Messere, è questa la casa di dama Laura?” chiese risoluto, mentre osservava le due persone che stavano in quel momento nella bottega.

“Sì” rispose pronta Paola.

“Ho un messaggio per lei. Domani al tocco passerà la carrozza del conte Bernardino de’ Prosperi per condurla alla delizia di Belfiore”.

“Il segretario del Duca?” domandò stupito Francesco.

“Sì” e consegnò una pergamena sigillata col timbro del conte prima di andarsene.

“E Laura dov’è andata?” chiese la madre e cominciò la ricerca.

Era il 23 di aprile, il giorno di San Giorgio, patrono della città.

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Capitolo 17

Laura ammirava sconsolata la grande distesa bianca che aveva ricoperto ogni cosa: la strada come l’orto. Da diversi giorni era confinata in casa tra la bottega e la sua stanza, prigioniera della neve. Doveva condividere quegli angusti spazi coi genitori e il fratello e provava un senso di angoscia e oppressione. Ebbe un’associazione logica con la sorella, Lucrezia, che era suora nel convento di Sant’Agostino.

“Starà bene? Lei dice di sì ma dubito che affermi la verità. Sarà sostenuta da una grande fede ma gli spazi ristretti non aiutano di certo lo spirito. In questi giorni mi pare di essere rinchiusa in convento, dove la madre badessa è mia madre. E non è un bel vivere ma solo un sopravvivere per necessità”.

Non riusciva a comprendere perché la clausura forzosa di questi giorni avesse risvegliato questa associazione di pensiero. Non era la prima volta che una nevicata copiosa l’aveva costretta a vivere nel poco spazio casalingo, dove tutti erano nervosi per via della mancanza di libertà di movimento. Si pestavano i piedi a vicenda, incendiandosi per un nonnulla. Però mai aveva collegato il convento con la casa come questa volta. Ricordava con senso di angoscia, come la partenza della sorella per il monastero fosse stata vissuta in famiglia peggio di un funerale. Da quel giorno nessuno di loro nominava il nome come se fosse stata inghiottita nel nulla.

Per i genitori era morta ma per lei era viva, perché era l’unica in famiglia che a intervalli regolari l’andava a trovare. L’incontro nel refettorio le metteva tormento nell’anima, vedendola vestita da novizia nella veste bianca e la ghirlanda verginale in testa. Lucrezia diceva di essere felice a contatto col Signore, ma a lei pareva triste e impaurita. Non la convincevano quelle parole, pronunciate stancamente, come se stesse salmodiando.

Qualche volta aveva accennato timidamente a Paola le sue impressioni ma non aveva risposto, ignorando le domande. Non capiva questo mutismo, perché, quando andava a messa in San Paolo, il frate predicatore non faceva altro che glorificare le suore dei monasteri di Ferrara, additandole come fulgidi esempi di carità cristiana. Però aveva rinunciato a pensarci, anche perché aveva ascoltato delle voci non propriamente tenere e benevole sulle suore nei conventi.

Le amiche raccontavano che si tenevano dei festini con vino e uomini, mentre le novizie perdevano la loro verginità. Non aveva compreso bene in che modo, perché era convinta che fosse l’uomo a privarle, mentre ke dicerie non includevano l’elemento maschile. Per lei quindi il mistero era fitto e impenetrabile.

“Ma come è possibile?” si domandava incredula. “E’ possibile che questo avvenga per opera di un’altra donna? E come?”.

La curiosità era enorme ma le risposte le apparivano stravaganti. Pertanto Laura non voleva prestare fede a quello che ascoltava e continuava a immaginare il monastero come a un’oasi di pace e spiritualità.

Appoggiata al davanzale della finestra, smise di associare la sua attuale condizione a quello della sorella e si dedicò all’osservazione di quello che doveva essere l’orto, completamente nascosto alla vista. Mentre prendevano forma questi pensieri, che di norma erano relegati in un angolo senza possibilità di uscire allo scoperto, il ricordo della visita del Duca era diventato un pallido ricordo che era sbiadito giorno dopo giorno. Ormai non ci pensava più.

Con un lungo sospiro si staccò dalla finestra e tornò da basso al tavolo di lavoro, anche se ormai non c’era quasi più niente da sistemare. Se non fosse cambiato nulla nei giorni successivi, percepiva il rischio di perdere la testa tra il non far niente e il continuo pensare alla sorella.

Giacomo rimase piacevolmente prigioniero di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro per conquistare l’attenzione dell’uomo. Non si annoiava sicuramente ma provava un senso di ansia perché era sicuro che sarebbe finito in qualche trabocchetto, che avrebbe smascherato la sua presenza anomala in questo periodo.

Lo staffiere era riuscito a raggiungere l’abitazione fuori delle mura per informare i famigliari che stava bene e che era impossibilito a fare ritorno a casa. L’aspetto, che avesse dato notizie alla famiglia, gli risultava indifferente perché non la percepiva come un luogo che gli suscitasse particolari emozioni. Giulia gli assegnò la stanza degli ospiti in un’ala defilata del palazzo, relativamente vicina alla sua e a quella di Ginevra. Questa sistemazione avrebbe consentito alle due donne di raggiungerlo senza dare troppo nell’occhio.

Durante la giornata Giacomo si comportava in maniera irreprensibile, cercando di soddisfare la curiosità dei padroni di casa.

“Siete l’ingegnere idraulico del Duca?” gli chiese a tavola il padre di Giulia.

“No, no. Non sovraintendo agli argini di fiumi e canali. Mi occupo di altro” mentì con la speranza di non dover spiegare le reali mansioni, che ignorava.

“Di cosa vi occupate?” lo incalzò la madre tra una portata e l’altra.

“Beh! il mio è un operato molto riservato. E il nostro Duca non ama che sia divulgato. Mi spiace essere così reticente ma dovete capire la mia posizione” si inventò per tagliare corto su questa discussione, che rischiava di prendere una piega non propriamente felice.

“Oh!” esclamò sorpresa e dispiaciuta la moglie del padrone di casa.

“Madre!” esclamò Giulia che sino a quel momento non era intervenuta. “Messer Giacomo è una persona discreta e riservata. Non ama parlare dei lavori assegnati dal nostro amato Duca. Dunque parliamo d’altro. Gli argomenti non mancano”.

Questo intervento aveva messo fine a una questione assai scivolosa, mentre lui poteva rilassarsi sicuro che non sarebbe stato più toccato.

Si informò sulle origini della casa, scoprendo che erano originari di Verona.

“Gran bella città è Verona” pensando a come la ricordava nella sua epoca. Com’era attualmente lo ignorava completamente.

“No. Ferrara è molto meglio. Il duca Ercole I l’ha trasformata in una città moderna con strade rettilinee e ampie. E’ tutto un cantiere. Anche questo palazzo è sorto da pochi anni. Qui un tempo c’era il mercato del bestiame”.

“Avete ragione. La città sta cambiando forma. Quasi non la riconosco più” aggiunse rinfrancato.

“Ma voi, messer Giacomo, dove abitate?” domandò maliziosamente la madre di Giulia.

“Fuori la mura. Nella tenuta dei Crispi” disse pronto, ricordando di averlo udito da Ghitta. “Io, mio fratello Ercole e le nostre famiglie. Non molto distante dal canale Naviglio. In una bella villa con annessa la chiesetta”.

Giacomo non aspettava altro che alzarsi da tavola per mettere fine allo stillicidio di domande ma doveva pazientare.

“Spero che presto possa togliere il disturbo ..”.

“Quale disturbo?” esclamò Giulia. “Sei un ospite graditissimo con il quale è piacevole discorrere”.

Un sorriso illuminò il viso dell’uomo per l’ennesima ciambella di salvataggio che gli aveva gettato.

Era la sera che era intrigante e gradevole con le attenzioni di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro con sua grande soddisfazione.

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Capitolo 16

La nevicata durò intensa per una settimana con la coltre nevosa che aveva assunto una bella consistenza con grossi cumuli complice il vento, che aveva spirato forte e gagliardo.
Ferrara era paralizzata, le strade impraticabili, per non parlare del contado sepolto e inghiottito sotto il manto bianco. Tutti erano costretti a restare al chiuso delle abitazioni. I negozi e le botteghe erano sbarrati sia per la neve sia perché nessuno azzardava mettere il naso fuori dalla porta. Le derrate alimentari ferme, i commerci sospesi Sembrava una città di fantasmi, se non fosse per il fumo che usciva dai comignoli.
Alfonso osservava dalle finestre incrostate di ghiaccio del suo appartamento sulla via coperta la desolazione della piazza e del giardino abitato solo da qualche raro passero alla ricerca di un improbabile cibo. Tutte le attività amministrative e politiche erano ferme, i lavori nello studio ducale interrotti., perché i pittori non potevano raggiungere il Castello Il ricordo di Laura si era sbiadito e quasi dissolto, perché nuove preoccupazioni, complice la forzata reclusione nelle sue stanze, avevano avuto il sopravvento. Le casse ducali erano vuote o quasi, nessuna novità arrivava da Roma circa i possedimenti modenesi.
“Il  tempo non aiuta ma l’attesa logora” rifletteva seduto accanto al camino acceso.  Il tempo sembrava avesse smesso di scorrere, si fosse fermato.
Il Duca, uomo d’azione, sembrava un leone in gabbia, perché costretto all’inazione. Anche le settimane future non promettevano nulla di buono. Alla neve si sarebbe sostituito il ghiaccio mentre sarebbe assai difficoltoso e pericoloso avventurarsi fuori dal Castello.
Si alzò, guardò nuovamente fuori, mentre un sole invernale illuminava lo scorcio di città visibile. Lo spettacolo era bello ma lo stato d’animo non gli consentiva di apprezzarlo. Lo riteneva, come era in realtà, un ostacolo, un impedimento al suo desiderio di muoversi, agire, decidere.
Aveva mille pensieri ma nessuno realizzabile, perché la neve aveva bloccato tutto. Erano giorni che non riceveva un consigliere o discuteva di un atto di giustizia. Era talmente furioso per essere costretto all’inedia, che si era dimenticato anche di avere una moglie e dei figli.
“Madonna Lucrezia starà bene? L’ultima visita risale a circa una settimana fa, prima della nevicata. E il piccolo Ercole? Con tutto il tempo che avevo non l’ho mai cercato e mi sono interessato a lui”.
Stava decidendo di andare nell’appartamento della Duchessa, quando udì bussare con discrezione alla porta del salotto ducale.
“Avanti!” tuonò indispettito.
Il maestro di casa si affacciò sull’uscio e disse che Messere Matteo Caselli chiedeva di essere ricevuto.
“Che entri” borbottò mentre si domandava quale problema urgente lo reclamava per affrontare le strade innevate.
“Mio Signore” iniziò ossequioso il consigliere di Giustizia. “Vengo per sottoporvi questa bozza da far approvare al prossimo Consiglio dei Savi”.
Il Duca lo guardò come si poteva osservare un oggetto strano, mai visto prima. Si era scomodato e aveva affrontato i problemi e i disagi del tragitto da casa al Castello per un editto, la cui urgenza non pareva assoluta, perché non ricordava di quale soggetto si trattava.
“Di grazia, quale bozza? Qual è l’argomento?” domandò curioso.
Matteo Caselli si avvicinò con un rotolo in mano, che aprì sul tavolo del salotto ducale, prima di consegnarlo a Alfonso.
“Vedete, mio Duca. Tempo fa mi avete richiesto un documento dove venivano messe in chiaro le disposizioni in caso d’incendio”.
“Ma non me l’aveva sottoposto messere Rinaldo Costabili? All’incirca una settimana fa?”
“Sì, illustrissimo Duca. Quello era una bozza informale, questa, salvo obiezioni da parte vostra, ha una veste definitiva” replicò pacato l’uomo.
Alfonso prese il documento e stupito cominciò a leggerlo.
 
In caso di incendio i pompieri, dovendosi recare immantinente sul luogo, recano con sé fabbri ferrai, legnaioli e muratori. Il massaro della contrada si deve preoccupare dell’apertura senza indugi dei negozi di droghieri, cerchiari e mastellari.

Il primo gennaio di ogni anno, a partire dal 1518, i massari di contrada devono nominare dei soggetti, a loro cognito per onestà, che al suono delle campane debbano correre sul luogo dell’incendio senza indugi o tentennamenti, giacché si era veduto nel passato per esperienza che concorrevano i cattivi per rubare anziché per aiutare. I nominati non possono ricusare la chiamata.

Per la contrada di San Romano i nominati sono 20, per Boccacanale 16. Per tutte le altre 10.

Ogni furto sarà punito con la forca. Se questo sarà di lieve entità, sarà cavato un occhio e a tal altro una mano
 
Il Duca finì di leggere la bozza e si appoggiò allo schienale della Savonarola, meditando su quanto c’era scritto.
“Interessante, messer Matteo! Molto interessante. Conciso e chiaro senza troppi fronzoli. Lo capirà anche il più umile stalliere”.
Il consigliere di Giustizia sorrise soddisfatto per la buona accoglienza del suo lavoro ma rimase in silenzio.
“Il prossimo consiglio dei Savi si terrà ai primi del mese di Febbraio e glielo sottoporrò affinché venga ratificata l’ordinanza. Così diventerà legge”.
“Col vostro permesso io mi ritiro e vi lascio la bozza”. Detto questo con un gran inchino lo salutò e si diresse verso l’uscio.
“Ora è giunto il momento di recarmi in visita alla Duchessa” e lasciato sul tavolo il documento si avviò per raggiungere gli appartamenti di Lucrezia.

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A Cristiania

Ami la solitudine,
ami il fresco silenzio dei campi,
hai in odio il convulso agitare della vita,
hai in odio le ipocrisie del mondo.
Perché non uniamo i nostri spiriti
per godere la solitudine
tanto amata, tanto cercata?

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Capitolo 15

Giacomo era ancora confuso e allo stesso tempo eccitato per l’avventura notturna della quale non ricordava nulla o solo qualche brandello piuttosto sbiadito. Anche il risveglio era stato sulla falsariga della notte. Quello di cui aveva certezza erano una donna al suo fianco della quale non rammentava il nome, un letto non suo e tanti interrogativi non risolti.
“Chi è?” si domandava al termine dell’eccitante amplesso. “La contessa Giulia o la vedova Ginevra? Oppure quell’altra misteriosa donna che si era unita a loro?”
L’unica evidenza era il tatto. Percepiva forme rotonde e una carne soda, compatta, mentre il resto era avvolto nella nebbia.
Della sera precedente rammentava con chiarezza l’arrivo, l’accoglienza e i sottili giochi, intrecciati a tavola con Giulia e Ginevra, sui comportamenti sessuali degli invitati e nel proseguimento della serata più esplicitamente sui loro.  Poi i fumi delle abbondanti libagioni con quel vino bianco ambrato e apparentemente innocuo, che hanno accompagnato il pantagruelico pranzo, l’hanno fatto scivolare in un limbo indefinito, composto da tanti piccoli scampoli di rara lucidità.
Adesso che la sbornia era passata, lasciando solo un pesante cerchio alla testa, si domandava dov’era. Questa sembrava una domanda ricorrente, che lo ossessionava dal giorno precedente, senza che riuscisse a dare una risposta coerente al suo stato. Quello che non comprendeva era se fosse il frutto di un incubo più o meno felice oppure fosse una realtà alquanto romanzata.
“L’unica certezza è che sono in una camera del tutto sconosciuta insieme a una donna della quale posso percepire i contorni senza conoscerne il volto. Invero assai poco per potermi destreggiare senza rischiare di smascherare le mie mancanze”.
La campagna di letto era nuda come lui d’altra parte. Respirava serena dopo aver fatto all’amore, assopita e tranquilla. Presumeva che fosse anche appagata, almeno questo era il suo convincimento. Giacomo allungò le mani esplorando nuovamente il corpo con circospezione. Il seno al tocco gli appariva florido, duro, che immaginò che restasse in posizione anche senza altri sostegni. Fece scivolare discreta e leggera la mano sinistra verso il basso che sentì sodo e compatto. Questi movimenti lo eccitarono nuovamente, mentre la donna mugolava come se provasse delle emozioni di piacere.
Si fermò e attese che desse qualche cenno di risveglio. Doveva essere già mattina inoltrata dal leggero chiarore che filtrava attraverso i pesanti tendaggi davanti alle finestre. Gli occhi cominciarono a intravedere le forme. Un naso regolare e un viso rotondo erano quello che poteva osservare, mentre il resto era nascosto dalla coperta di lana e agnello, sotto la quale erano rintanati per proteggersi dal freddo piuttosto pungente. La donna adesso era sveglia e vigile.
“Messere Giacomo, aveva ragione mia cugina ..” disse stringendosi nuovamente a lui. “Siete un amatore eccezionale”.
“Quale cugina?” si chiese stupito. “E poi fino a ieri non conoscevo nessuna donna, all’infuori di quelle della mia epoca! Come possono conoscere le mie doti amatorie, se per me erano delle illustre sconosciute?”. Però conservò gelosamente dentro di lui questi pensieri.
“Ma anche voi avete dimostrato una passione ardente e una natura focosa” replicò l’uomo con dolcezza.
“Siete galante e discreto, messere!”
Rifletté che doveva essere Ginevra, la vedova, la donna che gli stava accanto.
“Madonna Ginevra, vedo che la vedovanza non ha smorzato i vostri ardori” azzardò Giacomo, sperando di avere eseguito l’azzardo giusto.
Una gaia risata, che lo rincuorò, risuonò sotto le coperte.
“No! Era tempo che provassi nuovamente i piaceri della carne” replicò senza imbarazzo e con naturalezza.
Un sospiro di piacere mascherò il sollievo nell’avere indovinato chi era la compagna. Un veloce flash gli sovvenne, ricordando gli ultimi istanti del banchetto prima dell’oblio notturno.
Era ormai la fine del convivio, quando una terza donna giovane e sfrontata si unì a loro, proponendo una gara alle altre due.
“Vi propongo un gioco. Il premio è messer Giacomo. Chi vince ha diritto a passare la notte con lui” disse sistemandosi vicino a loro.
“E perché dovremo eseguire questo gioco?” domandò scocciata Giulia. “Nessuno vi ha invitata a aggregarvi a noi. Il messere è nostro ospite. E poi non è detto che noi abbiamo questi pensieri. Siamo ..”.
“Suvvia, dame! Lo sanno tutti che gli ospiti sono tali e vanno onorati al termine del convivio!” replicò scanzonata e pungente.
I fumi del vino fecero il resto. Ricordò che fece da paciere nel litigio, del quale era l’involontario protagonista, e accettò di essere l’oggetto della scommessa. Brandelli confusi del gioco e di come terminò veleggiavano nella mente. Infine il buio inghiottì tutto e con esso anche chi era risultata la vincitrice.
“Dunque ha vinto Ginevra. Mi domando se avesse vinto una delle altre due come sarebbe stata la notte” si chiese, mentre si stringeva alla donna.
Come se gli avesse letto il pensiero, Ginevra cominciò a parlare..
“Avrebbe vinto sicuramente Costanza, se la cugina non avesse fatto in modo che io risultassi la vincitrice. Quella donna non perde occasione nei banchetti di scegliere l’uomo col quale vuole trascorrere la notte. E’ sfrontata e priva di morale e tradisce il marito con tutti”.
“E lui cosa fa?” chiese curioso.
“Come tutti gli altri mariti. Tradisce la moglie, andando a letto con le amiche” rispose ridendo. “Perché voi non fate lo stesso?”.
Giacomo stava per replicare che non avrebbe tradito la moglie, quando si ricordò che in questa epoca ne aveva una, rimasta a casa.
“Sì, avete ragione, Madonna Ginevra. La mia era una domanda oziosa. Ma vi chiedo come siete riuscita a sconfiggere Costanza, la rivale”.
“Vedete la scommessa verteva se fosse entrato per primo una donna o un uomo oppure nessuno. Ella aveva puntato su una donna mentre io su nessuno e dama Giulia su un uomo. Quell’intrigante si era accordata con l’amica compiacente e avrebbe vinto di certo, se la cugina non avesse fatto un cenno al servitore per bloccarla. Così è andata. Non saprò mai ringraziarla per quello che ho provato stanotte”.
Aveva appena finito di mormorare le ultime parole, quando un bussare discreto e qualche colpetto di tosse annunciarono l’arrivo di qualcuno. Giacomo avrebbe voluto porre altre domande ma non c’era tempo, perché la porta si aprì mentre una donna scivolava furtiva dentro.
“Vi ho svegliato?” chiese una voce divertita. “E’ tempo di fare colazione. Fuori imperversa una bufera di neve che sta bloccando tutta Ferrara. Qui si muore dal gelo! Il fuoco è morto da un pezzo ma forse non ne avete avuto necessità”. E un risolino irriverente e vagamente geloso accompagnò quest’ultima affermazione.
“Neve? E come faccio a rientrare?” chiese sbigottito Giacomo, senza raccogliere la non troppo velata frecciata.
“Già stanco di Madonna Ginevra, Messer Giacomo?” replicò ironica Giulia.
“No, anzi .. Ma mi chiedevo come potrei raggiungere la casa fuori città”.
“Spedite il vostro staffiere. Però io sto gelando, mentre voi siete al caldo sotto le coltri”.
“E la colazione?” rimbeccò l’uomo, mentre Ginevra si stringeva con passione al suo corpo.
“Aspetta solo un mio cenno. Mi fate posto o non sono gradita?”
“Cosa dite, Madonna Ginevra? L’accogliamo qui o la lasciamo al gelo?”.
La donna sbuffò indispettita, senza dire nulla, lasciando il compito al compagno di decidere sulla risposta. Era chiaro che non desiderava la presenza della cugina.
Giacomo era preso tra due fuochi e avrebbe scontentato o l’una o l’altra con qualsiasi decisione che avrebbe preso. Decise di giocare la carta di fare colazione intorno al tavolo che stava accanto al camino, spento e gelato. Sicuramente avrebbe deluso entrambe ma almeno avrebbe avuto il tempo per ricucire, visto che era rimasto bloccato dalla neve.
“Accendo il camino e facciamo colazione attorno a quel tavolo” esclamò deciso, mentre incurante del freddo si precipitò verso gli indumenti ammonticchiati alla rinfusa ai piedi del letto.
“Siete impazzito?” urlarono all’unisono vedendolo nudo armeggiare con calzamaglia e corsetto. “Morirete dal gelo”.
“Se sarà così, sarà dolce dopo una notte fantastica” replicò battendo i denti.
“Ma perderete l’occasione di altre notti straordinarie” disse Ginevra, rimasta al caldo sotto le coperte.
“Per il momento sono sopravvissuto” e cominciò ad armeggiare col camino con scarsi risultati.
“Messere Giacomo, lasciate perdere. Chiamo la cameriera che in un attimo lo accenderà” e battè le mani.
La giornata prometteva bene.

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Capitolo 14

Laura Dianti lavorava alacremente ma continuava a rimuginare quanto aveva ascoltato dalla madre. Era una ragazza giovane ma aveva ben chiaro quello che voleva. Assecondare le voglie del Duca senza opporre resistena non erano questi gli obiettivi in cima alla scala dei desideri. Trovare un bel giovane, che le volesse bene, era un’aspirazione difficile da conquistare, anche perché la città non godeva di un grande credito morale. Ascoltando le amiche, pareva che ci fossero più bastardini che abitanti. Naturalmente sapeva che erano esagerazioni, ma un sottofondo di verità c’era. Un bel dilemma si annidava nella mente della ragazza tra sogni improbabili e realtà non lusinghiere.
Un senso di gelo percorreva le mani che faticavano a muovere l’ago con destrezza. Le accostò al braciere che emanava un caldo tepore che mitigava solo in parte l’aria circostante. Un breve sollievo irruppe dentro di lei, mentre un senso di calore rimetteva in circolo i pensieri. Si alzò per riattivare il sangue che pareva essersi congelato per il freddo, coagulandosi nelle vene, e guardò la strada dalla porta.
La neve turbinava in fiocchi ampi come una mano e tutto era bianco immacolato. Nessuno aveva osato uscire di casa o dalla bottega. Il silenzio era opprimente e affascinante.
Laura rimase immobile a osservare lo spettacolo, inalando il profumo della neve fresca.
“Se continua così, domani non possiamo uscire di casa” udì la voce del padre che commentava la spettacolare nevicata.
“Come facciamo?” replicò la ragazza per nulla entusiasta dell’idea.
Un lieve sorriso increspò il viso dell’uomo che continuò a parlare.
“Come facciamo? Come negli inverni passati. Restiamo chiusi nelle nostre case finché le scorte di legna e di cibo ce lo consentono. Poi ..”
“Poi, padre? Siamo nella strada dei commerci. La Calle di Ripa Grande. Nessuno fa nulla? Dobbiamo restare barricati in casa, finché il sole non tramuta neve in acqua?”.
L’uomo allargò le braccia e aggiunse. “Qualcuno libererà il portone d’ingresso del proprio negozio, qualche altro davanti a casa. Ma la strada rimane bloccata e nessuno oserà avventurarsi fuori”.
Alla ragazza non sembrava una buona giustificazione ma doveva accettarla. Tornò al posto di lavoro per riprendere a cucire il berretto iniziato il giorno precedente. Si era appena seduta e aveva ripreso l’ago che manovrava con rapidità e abilità, quando udì entrare la madre con una tazza di latte bollente in mano. Volute di vapore si levavano dalla scodella come tanti piccoli serpentelli.
“Ecco la vostra tazza con qualche piccola ciambella dolce appena cotta” e osservò lo stato del braciere.
Ormai le braci erano diventate cenere calda e non scaldavano più di tanto. Lo raccolse per mettere nuovi tizzoni ardenti, perché l’aria era veramente gelida e il fiato si condensava in minuscole gocce di ghiaccio.
Laura era ghiotta di quelle ciambelle che parevano sia nella forma sia nella sostanza minuscole brazadele, che la madre preparava con grande abilità di arzdoura. Ne prese una che ammorbidì nella scodella fumante e rifletteva ancora una volta sugli eventi del giorno precedente. Più mandava giù, più svaniva un po’ di consapevolezza e di sicurezza che aveva alimentato con l’uomo ideale, anche se non si era mai fatta illusioni. Era come se ingoiasse speranze friabili, che venivano dimenticate in fretta. Mangiava con calma, assaporando il gusto e il profumo delle ciambelle appena sfornate. Però il senso di colpa saliva insieme a quella folle, insana sensazione che stava effettivamente concretizzando ma che non aveva ancora focalizzato nella sua interezza.
Sul piatto di metallo, leggermente ammaccato sul bordo, stavano invitanti le ultime ciambelline che parevano suggerire che tutto sommato non avrebbero rovinato nulla, se ne avesse presa un’altra
“Non sono una gran bellezza, non sono neanche così donna, come molti credono. Sono una ragazzina invecchiata con l’aria innocente” si disse, mentre ne intingeva un’altra nel latte ormai intiepidito.
Il pensiero scivolò leggero nella bocca piena di briciole di ciambella e poi giù senza rimorsi verso lo stomaco. Si rendeva conto che nonostante tutte le smentite pubbliche un pensierino al Duca l’aveva fatto. Era un affascinante connubio tra sogno e realtà ma poi ripensandoci bene tornò coi piedi per terra. Tutto sommato era un’insignificante e semplice ragazza, magari anche noiosa e soprattutto inesperta. Quindi volare troppo alti non era mai un aspetto positivo, perché rischiava di passare il suo tempo a metà nel confronto con le altre e il resto nella ricerca di nascondersi agli occhi della gente.
“Lo pensano tutte, quando mi vedono. Segretamente e alle mie spalle confabulano ponendosi delle domande simili alle mie. «Perché lei e non io?»  Allora mi comincio a chiedere cosa c’è nel mio aspetto, nel mio modo di agire che possa dare l’impressione che ci sia qualcosa che abbia attirato il Duca. Lentamente acquisto la consapevolezza che in realtà lo sto facendo per una scelta precisa, quella classica «voglio uscire da questa vita di rinunce». Però non mi renderò conto di avere la sensazione di ballare su una corda tesa a 10 m dal suolo. Il risveglio potrebbe essere amaro”.
Laura era immersa in questi pensieri, mentre senza accorgersene aveva finito le ciambelle. Eppure c’era qualcosa che la rendeva nervosa, restia a lanciarsi in un’avventura dai contorni incerti. Forse era l’istinto di conservazione, che la frenava, perché percepiva di essere meno amabile o appetibile. Avrebbe desiderato essere amata e riamare a sua volta, ma era la sensazione di lasciare tutto al caso che non la convinceva. Doveva prendere in mano il suo destino e decidere cosa fare del suo futuro. Capiva di essere ancora una ragazza po’ timida ma non quella solitaria e superba di un tempo. Non si era spaventata, quando il Duca le aveva rivolto la parola, perché nel bene e nel male aveva un’idea sufficientemente precisa e chiara di quello che voleva. Doveva trovare solo la strada per raggiungere l’obiettivo che aveva in mente per poter dire a se stessa che se lo era guadagnato. Desiderava costruirsi un percorso per diventare una nuova donna senza aspettare che qualcuno le desse valore.
“A cosa state pensando” le chiese la madre vedendola assorta con la scodella del latte ormai freddo.
“A nulla, madre. A nulla” rispose pronta, riprendendo il lavoro interrotto.

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Capitolo 13

Alfonso si aggirava inquieto nei suoi appartamenti. Fuori fioccava con grande intensità e tutto quello che vedeva attraverso le finestre era bianco. Il giardino ducale aveva assunto un aspetto allegro. Non certamente era così il suo umore.
Chiamò il cameriere personale per farsi aiutare a vestirsi e il maestro di casa per controllare gli appuntamenti nella giornata odierna.
“Al tocco Rinaldo Costabili. Poi il segretario Bernardino de’ Prosperi e Boezio de’ Silvestri .. Ma chi è costui?” si chiese vedendo questo nome. Gettò la carta sul tavolo, mentre andava a controllare alla finestra. La nevicata era diventata un diluvio per l’intensità. Finora il tempo era stato clemente. Un po’ di nebbia, qualche pioggia, freddo ma non eccessivo e pochissima neve. Adesso sembrava che volesse mostrare il suo vero volto invernale, arcigno e per  nulla rassicurante. Per qualche mese tutte le attività sarebbero state ferme o si sarebbero mosse al rallentatore.
“Circolare con la carrozza sarebbe pressoché impossibile. A piedi estremamente pericoloso”. Esclamò ad alta voce.
Come un leone in gabbia si trasferì nello studio ducale per leggere alcune carte e scrivere qualcosa per i giudici dei savi e il segretario.
Era da poco seduto sulla sua Savonarola, quando udì un bussare discreto alla porta.
“Avanti” urlò più per rabbia che per farsi sentire.
Il maestro di casa gli annunciò la visita dell’ambasciatore di Firenze.
“Eppure non l’avevo in lista per oggi” rifletté scorrendo velocemente la lista.
“Fattelo entrare” gli confermò di malagrazia. “Se devo ricevere qualcuno, non è certamente costui”.
L’ambasciatore entrò accompagnato dal maestro di casa e porse i suoi omaggi al Duca, che a denti stretti gli rispose in maniera poco ortodossa.
“Volevo salutarvi, Eccellentissimo Duca, perché sono di partenza per Firenze”.
“Ma sperate di mettervi in viaggio con questo tempo da lupi?” replicò divertito Alfonso.
“Devo farlo, perché sono stato richiamato con urgenza. Il governo della città è dilaniato da molte fazioni. Spero di partire oggi o domani al massimo”.
“E come credette di procedere? Il tempo è pessimo e le strade sono piene di neve ..”
“Con qualunque mezzo: la carrozza, il cavallo o la slitta. Ma devo raggiungere Firenze il prima possibile. Prendo commiato da voi e spero che rivederci tra qualche mese” tagliò corto l’ambasciatore.
“Che la fortuna vi assista” rispose asciutto e ironico il Duca.
Mentre l’ambasciatore prendeva congedo e spariva oltre la porta, Alfonso pensò che dovesse essere un temerario per affrontare un viaggio in quelle condizioni. Il Duca ricordò come in maniera rocambolesca era riuscito a ritornare nelle sue terre dopo essere stato ostaggio del Papa Giulio II.
“Sono stato fortunato, tutto sommato e me la sono cavata con poco” commentò la partenza dell’ambasciatore fiorentino. Però adesso doveva concentrarsi, perché tra non molto Rinaldo Costabili, nominato giudice dei Savi qualche anno prima, sarebbe venuto per discutere un’ordinanza che regolava le azioni in caso di incendi.
“Ma sarebbe riuscito a raggiungere il Palazzo Ducale?” era questo il pensiero.
Però c’era un altro punto che premeva urgentemente, relegando in un angolino Laura Dianti. Con la mediazione di Carlo V aveva versato al Papa una bella somma in fiorini d’oro per riconquistare i territori di Modena e Reggio. Leone X, un Medici, aveva accettato il pagamento ma aveva fatto orecchie da mercante perché aveva altre mire su quelle terre. Questo gli dava un senso di frustrazione e impotenza contro il quale non poteva fare nulla ma solo aspettare gli eventi.
Puntuale Rinaldo Costabili si presentò nello studio ducale. Era stato il consigliere segreto del padre di Alfonso, Ercole d’Este, mentre adesso ricopriva il ruolo di giudice dei dodici Savi. Questi amministravano il ducato imponendo gabelle e tasse, ma soprattutto rappresentavano la mano armata del Duca in tema di giustizia. Loro si riunivano in alcuni locali posti al piano terra del cortile Ducale, ma avevano anche un ingresso da via Cortevecchia accanto all’Osteria del Cavaletto.
“I miei omaggi, eccellentissimo Duca” esordì con un inchino Rinaldo. “Oggi il tempo non è clemente e presto la città sarà bloccata dalla neve”.
Alfonso annuì replicando al saluto, mentre consultava gli appunti che i Savi gli avevano sottoposto nei giorni precedenti.
“Dunque. Voi scrivete che i pompieri «devonsi recare sul luogo dell’incendio accompagnati da fabbri ferrai, legnaioli e muratori. I negozi di droghieri, cerchiari e mastellai devono essere aperti. I massari dei rioni devono nominare, a loro cogniti per onestà, delle persone, che devono correre sul luogo al suono delle campane. Loro ne saranno i responsabili, giacché si era veduto per esperienza che concorrevano anche i cattivi per rubare anziché per aiutare. Il massaro di San Romano dovrà indicare venti persone, sedici quello di Boccacanale e dieci quelli per i restanti rioni. Le nomine sono annuali ed eseguite il primo di ogni anno». Sì, mi pare un’ordinanza equilibrata. Pertanto completatela e sarà pubblicata col mio sigillo”.
Parlarono poi di giustizia e tasse. Il Duca doveva raccogliere molti fiorini per estinguere il debito contratto per il riacquisto di Modena e Reggio.
“Messer Rinaldo, restate mio ospite a colazione?” chiese Alfonso.
“Grazie, mio Duca” rispose pacato. “Un impegno gravoso mi attende. Dobbiamo valutare come punire i riottosi, affinché non ci siano più tumulti di piazza”.
E uscì dalla stanza dopo avere reso omaggio al Duca.

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A Gigliola

Non ci sono parole,
non ci sono verbi
per quello che vorrei dirti.
Difficile e parlare,
ancora più difficile è esprimere
quel che penso di te.
Le parole escono veloci
come l’acqua impetuosa del fiume
ma non riesco a trasmettere
le sensazioni che sento per te.
I pensieri sono entità impalpabili,
come l’aria immota,
che grava su noi,
per esprimere quel che non riesco farti comprendere.
Tra noi c’è il dialogo
che esiste tra il muto e il sordo,
dove io sono il muto
e tu la sorda.

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Capitolo 12

Le prime luci dell’alba accolsero Laura con un cielo imbronciato che preannunciava neve. La ragazza rimase al caldo sotto le coperte, ripensando al sogno della notte. C’era qualcosa di strano che la turbava, perché raramente aveva visioni oniriche così ricche di particolari. Era questa la stranezza che la faceva riflettere.
Due erano i dettagli che erano rimasti impressi: la localizzazione sconosciuta e il misterioso personaggio che era apparso prima del risveglio quando quel «No!», che inizialmente le era morto in gola ma che poi era uscito di prepotenza nel silenzio della notte, aveva destato tutta la famiglia.
Si domandava quale era il reale significato del sogno e quale messaggio recondito voleva trasmettere.
“Quel labirinto verde, dove mi sono persa angosciata, non l’ho mai potuto ammirare. Chissà se esiste realmente. Era un posto meraviglioso e, allo stesso tempo, inquietante. Giravo e mi rigiravo in continuazione senza trovare la strada per uscire. Ad ogni passo cresceva l’inquietudine fino a diventare terrore. Che senso ha tutto questo? E poi quell’uomo misterioso, che è comparso all’improvviso, chi è? Cosa voleva da me?”.
Il dubbio non si era sciolto ma continuava a tormentarla. Doveva alzarsi ma inquieta e ansiosa titubava a uscire dal caldo rassicurante del letto come se fuori ci fosse l’ignoto, pronto a fagocitarla. Raccolse tutte le sue forze e, sospirando, uscì nel gelo della stanza. Velocemente si tolse il pesante camicione della notte per infilare i gelidi abiti da lavoro. Brividi di freddo attraversarono il corpo senza che Laura riuscisse a dominare ogni parte del corpo. Rapidamente raggiunse la cucina, dove la madre stava ravvivando il focolare per riscaldare la stanza.
“Buongiorno, madre” disse entrando, mentre si avvicinava al fuoco, che stava spandendo i primi tepori, per riscaldarsi.
“Buongiorno, Laura. Oggi la giornata sembra grigia. Il cielo non promette nulla di buono. Se volete, sulla madia c’è qualcosa avanzato da ieri sera. Più tardi scaldo una scodella di latte fresco”.
Poi Paola le domandò perché aveva urlato nel cuore della notte svegliando tutti i componenti familiari. Laura era incerta nella risposta perché non la conosceva neppure lei. Non poteva accampare come scusa che qualcosa era rimasto sullo stomaco a provocare un incubo, visto che si era ritirata a cena appena iniziata, mangiando poco o nulla.
“Niente, madre, niente. Solo un cattivo sogno che mi ha spaventato da morire” replicò la ragazza, per chiudere l’argomento.
Laura tagliò una fetta di pane, ormai avvizzito e secco, che cosparse con una cotognata di prugne. Aveva fame, perché la sera precedente non aveva assaggiato nulla o quasi nulla. Doveva tacitare lo stomaco, che brontolava per essere rimasto vuoto.
L’aria era diventata meno gelida, mentre il corpo aveva acquistato un po’ di calore. Aprì l’uscio dell’orto per sbirciare fuori. C’era ancora buio ma il cielo era chiaro, lattiginoso. Una raffica di vento la spinse a chiudere in fretta quella fessura e tornare al caldo accanto al camino.
“Fuori c’è aria di neve. Avete ragione, madre. Fra non molto cadranno i primi fiocchi”.
Preparò una grossa bugia con un cero nuovo, svuotò il braciere dalla cenere del giorno precedente prima di riempirlo con i tizzoni ardenti del focolare. Si avvolse nel pesante scialle di lana grezza colorata vivacemente e si preparò a trasferirsi nella stanza laboratorio. C’era molto lavoro arretrato, perché la visita del Duca aveva scombussolato tutte le loro attività.
“Io vado, madre. C’è molto lavoro da completare oggi”.
“Quando il latte sarà caldo, ve lo porto” aggiunse la donna, mentre la ragazza spariva nell’altra stanza.
Posata la bugia sul tavolo e il braciere sotto di esso, vicino ma non troppo alle gambe, cominciò a lavorare di cucito in maniera meccanica. Negli occhi c’era ancora la visione di quelle siepi, ben più alte di lei, dalle quali non  riusciva a venirne fuori.
«Ma chi era quell’uomo, sbucato all’improvviso?» era la domanda ricorrente alla quale non trovava una risposta soddisfacente.
 
Alfonso si svegliò nel grande letto e rimase a mirare il baldacchino che stava sopra di lui. Aveva ancora nitida la visione notturna. Lui e Laura nel grande giardino del Verginese. Avevano giocato a lungo a rincorrersi nel labirinto verde, prima che lui l’afferrasse e la trasportasse nella stanza da letto preparata per l’occasione.
Era stato un momento magico possedere quella fanciulla. Il ricordo di quel momento era ben fisso nella mente. Scacciò questi pensieri con forza, perché non poteva essere stato attratto da una ragazzina ancora acerba come lei. Eppure lo tormentavano come una spina infilata tra la pelle e il corsetto senza che lui riuscisse a porre rimedio.
“Io sono il Duca e non devo chiedere nulla a nessuno. Tutto è mio”.
Però quel viso continuava a galleggiare dinnanzi ai suoi occhi, Nella giornata odierna doveva sbrigare molte questioni politiche e risolvere diversi problemi relativi alla giustizia. Queste considerazioni gli fecero svanire tutto l’entusiasmo che il sogno notturno aveva acceso A malincuore tirò il cordone vicino al letto. Aveva fame.
Il cameriere personale si precipitò e chiese cosa desiderasse.
“Ho fame” rispose asciutto, mentre si era appoggiato con la schiena alla spalliera del letto.
Un altro servo, piuttosto giovane, era intento a riattivare il fuoco del camino per riscaldare la stanza. Le pesanti tende cremisi furono spostate dalle finestre per far entrare la luce del nuovo giorno. Questa era debole, offuscata da cristalli di ghiaccio depositati sulle vetrate colorate del finestrone di sinistra.
“Nevica” annunciò il cameriere personale mentre deponeva un tavolino sul letto.
Alfonso fu contrariato da questa informazione, perché complicava tutti i suoi progetti. C’era stato bel tempo fino al giorno precedente, mentre adesso il maltempo la faceva da padrone. Significava che tutti gli spostamenti sarebbero stati difficoltosi per non dire impossibili. Il solo pensiero di restare vincolato agli appartamenti ducali senza possibilità di muoversi liberamente lo rendeva irascibile.
“Oggi devo ricevere i rappresentanti dei Savi per stabilire le pene di alcuni condannati. Se nevica salta tutto. Poi devo incontrare gli ingegneri per le nuove fortificazioni .. Invece dovrò rimandare tutto!”. E non erano i soli appuntamenti della giornata odierna.
Però era il pensiero di Laura che lo rendeva di cattivo umore, perché il segretario, Bernardino de’ Prosperi, non sarebbe stato in grado di eseguire i suoi ordini.
Il profumo del pane appena sfornato dalla cucina ducale lo distolse momentaneamente da queste meditazioni cupe.
 
Giacomo si svegliò chiedendosi dove era, Percepiva al suo fianco la presenza di una donna sconosciuta, che non era sua moglie. Almeno quella che ricordava nella sua epoca. Poi il letto era più duro di quello nel quale era abituato da una vita a dormire. Aprì un occhio e notò che per tre lati cadeva un pesante tendaggio. Tutto gli appariva insolito come se fosse ancora in braccio a Morfeo tra sogni e fantasie.
“Ma dove sono finito?” si chiese muovendosi con cautela per non destare chi dormiva vicino a lui. Poi come un raggio di sole squarcia il muro di nebbia, rammentò che era stato proiettato in un’altra dimensione, che faticava non solo a comprendere ma anche ad adattarsi.
“In questa vita profondamente differente da quella nella quale ho vissuto fino a ieri non riesco ancora a capacitarmi in quale spazio temporale sono finito. Ma in particolare stento a calarmi nel nuovo ruolo, di ingegnere del Duca. Ma quale Duca?”.
Allungò una mano tastando la presenza di una donna che dormiva profondamente al suo fianco. Al contatto ella si girò, accovacciandosi su di lui soddisfatta.
“Ma chi è costei?” si domandò. La sua nuova esistenza era tutto un indovinello del quale doveva trovare le risposte giuste per non incappare in pessime figure.
Ricordi confusi vennero a galla senza che Giacomo riuscisse a distinguere quelli recenti da quelli passati. Ricordava vagamente che nella giornata precedente si era recato in biblioteca per consultare un vecchio libriccino, che non aveva ancora visto. In compenso era finito nel periodo storico del ducato estense. Per questo motivo tutti i suoi guai nascevano da questo improvviso e non voluto salto indietro nel tempo, perché non era in grado di governare le sue azioni quotidiane per la mancata conoscenza delle circostanze che lo riguardavano. Un senso di incertezza unitamente ad ansia accompagnava i suoi pensieri, rischiando di creargli seri problemi.
“Quale duca?” si domandò ancora una volta. “Presto lo scoprirò. Almeno questo è il mio auspicio”.
Però adesso era impellente scoprire chi era la misteriosa donna che stava accoccolata su di lui. Nebulosamente altri frammenti tornavano a galla: aveva fatto all’amore con una passione insospettata, perché nella nuova dimensione era ringiovanito miracolosamente. Almeno questo aspetto della nuova esistenza era stato piacevolmente gradito e apprezzato da Giacomo.
“Ma chi è costei?” si chiese per l’ennesima volta. “Come sono finito a letto con lei? E’ stato sicuramente piacevole ma ..” e la domanda sfumava.
Provò a ricordare cosa era successo la sera precedente. La mente era ancora annebbiata dalle molteplici libagioni, accompagnata da una feroce emicrania che gli martellava la testa.
“Ero fra due splendide donne, Giulia e Ginevra, che facevano a gara per conquistarmi ..Ah! che mal di testa!”. Una fitta lancinante lo distolse dal ripercorrere la serata precedente.
“Sei stato magnifico” udì mugolare dalla donna che si stringeva a lui. Questo aggettivo lo rese euforico, mentre percepiva delle labbra incollarsi sulle sue e un movimento del corpo che non si prestava a equivoci.
“Ma chi sei? Giulia o Ginevra?” si domandò quasi implorando, mentre ricambiava il bacio.
Qualche altro frammento si ricompose nella mente ma era insufficiente a svelarne l’identità. Ricordò che due o forse tre donne fecero un gioco dove Giacomo era il trofeo in palio. Però non rammentava come era finita la gara, salvo che adesso si ritrovava in una stanza buia a letto con una sconosciuta. Al vago ricordo un sorriso gli increspò le labbra, perché tutto sommato aveva avuto un epilogo molto felice e gradevole.
“Era una delle due oppure una terza persona che non conosco?” rifletté, mentre le mani della donna frugavano il suo corpo in maniera impertinente.
Rimase passivo per un lasso di tempo non troppo lungo ma ben presto divenne attivo, dimenticando tutti i dubbi che lo avevano assalito dal momento del risveglio.
E fu un altro tripudio dei sensi.

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