Adesso aveva sei anni e vedeva la corte irregolare sommersa da assi e legname recuperato dalle vecchie case. C’erano due pezzi di marmo tondeggianti un tempo bianchi, ma adesso inscuriti dal tempo e dalla polvere. Forse facevano parte di vecchie colonne, che non sapeva dove fossero collocate.
“Erano la parte superiore o inferiore?” si interrogava senza troppa fretta, né curiosità, perché erano il mondo dei giochi assieme a due sedili di marmo rosato butterati dal tempo e dagli uomini.
Salire, scendere, saltare era il mondo della fantasia di bambino, che immaginava quali avventure doveva affrontare. Un lampo, un urlo di dolore era uscito dalla bocca, mentre la gamba sanguinava come una fontana. La corsa disperata al pronto soccorso, i pianti e le paure erano immagini vivide e reali, che scorrevano in sequenza sullo schermo in tre dimensioni della mente.
Il fasullo se ne stava in un cantuccio ben nascosto, ma pronto ad uscire allo scoperto infingardo ed falso, quando la malinconia avrebbe finito la pellicola.
Il filmato era irregolare, a strappi quasi singhiozzante, perché era consunto ed annerito dal tempo. Stava su un lettino guardando fuori dalla finestra un giardino ricco di magnolie imponenti dalle foglie verdi lucide, mentre piangeva in silenzio. La ferita era infetta, perché nella fretta avevano lasciato dentro una garza, mentre un uomo vestito di bianco scuoteva la testa e diceva “Speriamo”.
Avrebbe rivisto quelle magnolie altre volte, mentre lentamente la ferita diventava una lucida cicatrice ben evidente nel ginocchio.
I fotogrammi scorrevano veloci davanti agli occhi, mentre Luca bambino scendeva in strada dalla finestra della camera o scivolava incosciente sul corrimano delle scale. Era un discolo irrequieto sempre pronto ad arrampicarsi ovunque pensando a Tarzan e trascinava con se Gloria, che lo ammirava con due occhi dolci ed immensi.
Era solo nel dehor immerso nel caldo asfissiante di luglio e si concesse un intervallo per mangiare qualche boccone del panino che aspettava nel piatto.
Si chiese perché si era immerso nel flusso dei ricordi, che gorgogliavano sicuri nella mente, mentre il fasullo timidamente si affacciava fuori dal luogo segreto nel quale si era rintanato.
“Vergogna!” gli gridò il malinconico stizzito per la codardia dell’altra parte.
“Avete finito di litigare?” li riprese Luca irritato del continuo battibeccare delle due personalità che albergavano dentro di lui “Voglio ricordare e basta”.
La pellicola si era spezzata e doveva riattaccarla se voleva proseguire a vedere il prosieguo del film della sua vita. Non era facile, ma testardamente ci provava.
Il suo occhio stanco per il viaggio e per il sudore, che scivolava umido tra le ciglia, vide in lontananza dei bambini che disegnavano qualcosa sul marciapiede infuocato prima di iniziare un gioco chiassoso ed allegro.
Come per magia si sentì trasportare nella corte senza erba con un sicomoro frondoso e qualche aiuola maltenuta addossata ai muri. Era il suo regno da maggio ad ottobre con i giochi aiutati dalla fantasia, annaffiati da secchi d’acqua gelida, che dalle finestre venivano gettati con abbondanza per raffreddare la turbolenta gioiosità dei ragazzini.
Poi si concentrò su quel gioco tanto affascinate quanto inadeguato per le dimensioni della corte.
“Come si chiamava?” chiedeva aiuto al malinconico, perché il fasullo si era nuovamente nascosto.
“Ah! Bac e Pandon!” replicò con immediatezza la parte presente.
Era un gioco ricavato da un elemento povero: un vecchio manico di scopa, messo in un angolo in attesa di finire nella caldaia in minuscoli pezzi. Il pandon era una piccola scheggia di legno appuntita, che doveva essere colpita dal bac, il manico tagliato. La scheggia si alzava roteando prima di essere colpita al volo e mandata lontana. Però, c’era sempre un però nel gioco, perché se finiva su un vetro erano dolori.
Luca sorrideva beato e felice, ma era tempo di tornare ad Ersilia.
Il Viaggio – 2
La parte esteriore cominciò a sbuffare, perché quella malinconica non prestava attenzione alla strada. Stava dicendo che, se non fosse stato per lui, ora sarebbero finiti in un bel pasticcio.
La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica dove volteggiavano gabbiani grigi che stridevano felici per il lauto pasto che li aspettava.
Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.
Luca osservò distratto quel disastro, perché la mente continuava a volteggiare a cinquanta anni prima, quando aveva conosciuto Ersilia, ma si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo.
Udì dei clacson suonare impazienti, ma lui non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare un po’ lì. Si mosse cautamente mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto agitando la mano destra con frenesia.
Trovò un riparo sotto gli alberi, mentre si domandava cosa stava facendo il quel posto che non conosceva, diverso da tutti quelli conosciuti finora.
“Non ha importanza” disse all’irrequieta personalità esteriore, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere.
“Cosa devo decidere” ripeté stanco ed annoiato, mentre tentava di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume scomparso.
Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita, ma fissa e parlante.
C’era all’ombra dei tigli un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro, mentre attraversava la strada deserta.
Si soffermò un attimo per capire dove era finito seguendo l’estro del momento, ma tutto sembrava congiurare per nascondere il luogo. Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso ed intrigante sull’angolo.
“C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva, mentre immediatamente la parte nascosta cominciò a fantasticare sulle lettere celate.
“Ma non immaginare quello che non sai!” rimbeccò pronta l’alter ego manifesto, che rideva frustrato sulla fantasia della metà malinconica.
“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava sulla sedia nel dehor, aspettando l’arrivo di qualcuno che tardava ad arrivare.
Erano sempre quei giorni di beata incoscienza che occupavano lo spazio e il tempo di Luca, perché era stato il primo e grande amore, che poi era diventato molti anni dopo realtà.
Prima c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino, che per anni era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte.
I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano incerti contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, ma lui non riusciva a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio.
Provò a concentrarsi, ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.
“Signore! Signore!” sentiva in lontananza una voce gentile fuori campo “Desidera ordinare qualcosa?”.
La parte malinconica strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa, mentre quella fasulla ghignava per la pessima figura.
“Solo io riesco a far squillare il dring, dring del campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa all’area sognante e romantica di Luca.
“Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco” ordinava alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.
L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone, mentre come per incanto lei aveva rotto le catene dell’oblio.
Adesso i ricordi tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo nella pozza limpida e poco profonda della mente.
“Hai visto menagramo” diceva il malinconico al fasullo “I ricordi ci sono e sono limpidi”.
Ed erano lì, sul tavolo, evidenti e chiari, Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni fa.
Il viaggio – 1
Luca spense il telefono, perché non voleva essere disturbato. Poi chi lo avrebbe chiamato, si domandava, attento al traffico nervoso che scorreva impetuoso attorno a lui. A parte Ersilia, che di certo non voleva ascoltare, non c’erano altre voci note da incrociare via etere. Quindi era meglio che tacesse muto e silenzioso.
Aveva preso una strada che non conosceva o quanto meno ne ignorava l’esistenza, perché aveva deciso in un momento di lucida follia che avrebbe inseguito quello che per quaranta anni non aveva fatto: seguire l’istinto ed abbandonarsi all’oblio.
Lui si sentiva profondamente malinconico, ma doveva per forza di cose essere allegro ed estroverso. Così la sua personalità si era scissa in maniera dicotomica in due parti: quella da mostrare al mondo intero e quella che cullava armoniosamente durante i sogni notturni.
Lui amava la seconda, quella vera, quella che gli dava tutte le soddisfazioni, che la prima gli negava. Durante il sonno immaginava di inseguire la Gloria, non quella dolce ragazza che aveva amato segretamente da ragazzo, ma la prima pagina della rivista letteraria “Il sabato”, dove gli autori famosi venivano intervistati. Però si domandava incerto e dubbioso se sarebbe riuscito rispondere alle varie domande, perché un conto era sognare, ben diverso era rispondere a tono su qualcosa che non conosceva.
Quali domande gli avrebbero potuto rivolgere, continuava ad interrogarsi, perché lui in quaranta anni non aveva scritto un rigo di nulla. Lui sognava ad occhi aperti che avrebbe vinto il premio Pulizter o il Nobel per la letteratura con un romanzo grosso come una torta nuziale dal titolo indefinito e dalla trama inconsistente.
Era un autentico sogno il suo, nel senso che sarebbe stato irrealizzabile.
“Non ha importanza” diceva sempre a quella parte di Luca, che svegliatasi con quella esterna e fasulla si abbandonava alla malinconia del nuovo giorno.
Però era bello lasciarsi cullare nel sonno da quelle visioni piene di luccicanti mondi da prime pagine anziché stare accanto alla grigia Ersilia, che ronfava pesante e senza luci vicino a lui.
Era affezionato alla moglie, che lo sopportava da molti anni.
Mentre guidava guardingo, attento ai cartelli e alle trappole del traffico, ripensò con malinconia a quanti tempo era passato quando l’aveva conosciuta.
“Sono passati troppi anni” disse alla sua controfigura mentre la musica dei Rolling Stones invadeva il suo spazio mentale entrando in contesa con la concentrazione.
Era a quell’epoca un giovane di belle speranze, neppure troppo bello, un po’ grassoccio ed imbranato quel tanto che bastava per sembrare a volte un tontolone. Lei, sicuramente, era una bella ragazza, leggermente più alta di lui e più vecchia di un paio d’anni, longilinea dalle lunghe gambe dritte come un fuso.
Mentre armeggiava impaziente e smarrito con l’autoradio alla ricerca di qualcosa di piacevole da ascoltare, si domandava perché tornava sempre a quel punto di cinquanta anni prima, quando aveva solo sedici anni.
La parte simulatrice di Luca fingeva di non saperlo, perché era talmente abituata a fingere che il vero gli pareva falso.
“Come puoi non conoscere i motivi?” gli rinfacciava il brandello malinconico, che già si inumidiva l’occhio al semplice ricordo di quegli anni dorati.
Luca era in terza liceo con viso butterato da una fastidiosa acne e gironzolava speranzoso nei paraggi della V A, la classe dove Ersilia imponeva la sua bellezza. Ci voleva poco, perché le altre ragazze erano meno di due mani tanto scorfani quanto secchione da fare invidia a Pico della Mirandola. Insomma erano tanto brave quanto inversamente erano graziose, beh!, dei mostri inguardabili proprio no, ma non facevano di sicuro concorrenza a Miss Italia. Magre, ossute, con seno inesistente, qualche brufolo mal coperto dalla cipria erano il campionario migliore del loro aspetto. Dunque Ersilia era la Nefertiti della classe, che attirava i compagni come il fiore era preso d’assalto da api e farfalle.
Luca non aveva speranze di essere notato perché, quando lei gli rivolgeva la parola, lui diventava rosso come un gambero e si impappinava come un principiante. Tutti i discorsi che aveva preparato con cura, qualora l’agognata preda si fosse degnata di un uno sguardo o di una parola, finivano in monosillabi incomprensibili e balbettanti, mentre la testa si svuotava d’incanto come un cestello saccheggiato dall’orso Yoghi.
Rimaneva lì impallato a bocca semi socchiusa con l’occhio spento e perso nel vuoto, finché Ersilia ridendo non si allontanava sotto braccio a quell’antipatico di Roberto. Allora si ridestava come la bella addormentata nel bosco mentre tutti i pensieri che erano fuggiti o si erano nascosti tra le pieghe della mente ritornavano allegri e beffardi a popolare la sua testa. Era un copione quotidiano, al quale non riusciva a trovare un rimedio.
Quello che più lo feriva erano i commenti dei compagni che riferivano come il tontolone di Luca aveva fatto girare la testa alla maliarda, così era chiamata la bella Ersilia, ma che quell’imbranato restava muto come un pesce, anzi farfugliava parole senza senso.
I sensi suonarono un campanello per avvertirlo che c’era un pericolo imminente.
Il fiume dei ricordi si essiccò o meglio sparì tra le rocce carsiche della memoria in attesa di ricomparire spumeggiante e limpido dopo il percorso sotterraneo.
Il viaggio
Si chiamava Luca D’Astolfi, ma era conosciuto da tutti come Ninì al Ros. Non c’era speranza di chiedergli il motivo, perché non lo sapeva nemmeno lui. I capelli, prima di perderli, erano quasi neri tanto erano scuri e non schiarivano nemmeno col sole. Quindi da questo versante il sopranome non era pervenuto.
Le sue tendenze politiche non viravano a sinistra, ma lui si era sempre professato come apolitico, perché andava a votare quando ne aveva voglia e di solito metteva la crocetta su quei partitini curiosi ed impossibili da essere seri. Quando era dentro quei squallidi gabbiotti di legno, che stavano su per miracolo, con una tenda dal colore indefinito per votare, era preso dalla voglia irresistibile di cercare il simbolo più insolito ed improbabile da contrassegnare con una bella X. Si diceva sempre che non c’era gusto di votare Democrazia Cristiana o Partito Comunista, perché erano i più gettonati, ma doveva aiutare quei minuscoli partitini che alla fine ottenevano qualche migliaia di preferenze da persone come lui.
Ricordava con una punta di malinconia che nel 1968, una delle prime volte che andava a votare, aveva contrassegnato con una bella ed evidente ics il partito “PAPI”. “Eh! Sì quelli erano dei bei tempi” diceva sempre al bar della piazza vicino a casa tra i sorrisi ironici degli amici e conoscenti.
C’era una particolarità che lo incuriosiva parecchio ed era questa. Scorrendo le preferenze ai singoli candidati, leggeva accanto al nome dei più sfigati, di solito quelli che stazionavano sul fondo della lista, un bel zero ovvero nessuno si era degnato di segnarlo sulla scheda elettorale. Ebbene lui si domandava sempre: “Se mi candido, almeno metto il mio nome, perché sarebbe vergognoso che accanto a Luca D’Astolfi compaia un bel zero. Poi bastonerei mia moglie, i miei figli, gli amici più fidati se non facessero altrettanto”. Eppure questa vergogna era sotto gli occhi di tutti e lui non riusciva a comprenderla. Dunque nemmeno le inclinazioni politiche svelavano il mistero.
In conclusione il sopranome era un enigma che Luca non aveva mai voluto conoscere, perché c’era poco capire. Da quando aveva la memoria, aveva all’incirca sei o sette anni, si era sempre sentito chiamare così in casa e fuori e lui rispondeva a tono.
Aveva sessantasei anni quando andò in pensione dopo una vita di lavoro dentro e fuori da quel capannone sulla via del mare. La moglie, Ersilia, ma che razza di nome le avevano appiccato si domandava spesso, si sentiva in ansia al pensiero di trovarselo tra i piedi tutto il giorno. La figlia, Ofelia, in questo caso l’errore era stato suo, perché aveva litigato per il nome con Ersilia e per dispetto l’aveva chiamata come la tragica protagonista di Amleto, aveva già trentacinque anni e zero matrimoni. Il figlio, Mario, finalmente un nome serio, se ne era andato da diversi anni per la sua strada e faceva la vita da single incallito nonostante la corte assidua di una fanciulla, della quale non ricordava nulla né nome né viso. Però non gliene importava nulla se il bambinone non voleva crescere in coppia. Era affari suoi, perché lui l’errore l’aveva già commesso.
Due giorni dopo avere raggiunto l’agognato traguardo decise che era venuto il momento di fare un bel viaggetto tutto solo. E lo disse ad Ersilia: “Domani parto per il mondo. Mi vedrai al ritorno”.
La moglie lo guardò stralunata e di sbieco, pronta a squartarlo vivo se avesse osato mettere in piedi quel subdolo piano.
“Ho capito bene?” rimbeccò acida la donna.
“Vado a preparare una borsa con le mie cose” rispose soave e serafico Luca, per nulla intimorito dall’atteggiamento bellicoso e pronto alla rissa della moglie, e sparì nella camera.
Così disse e così fece.
Il giorno dopo stava facendo discorsi infervorati ad un gestore di una pompa di benzina, dove c’era anche una minuscola officina, su viaggi, lavoro e pensioni da fame, ma anche su donne, politica e calcio.
Il gestore alto, ossuto, peloso e sporco di grasso e di benzina lo ascoltava non troppo convinto ed un tantino infastidito, perché non gli andava di parlare di determinati argomenti con uno sconosciuto. Mentre riempiva con la verde il serbatoio della Fiat un po’ anzianotta e scrostata del tempo, pensava che i clienti volevano parlare solo di donne, di politica e di calcio e non stavano mai zitti. Il flusso delle parole lo investiva come raffiche di libeccio freddo che nonostante la calura di Giugno gli provocava dei brividi nel corpo.
“Il pieno sono 45€” disse a Luca, sperando che la mitragliatrice, che l’uomo aveva in bocca, cessasse di sparare parole che lui non raccoglieva ed ignorava.
Lui imperterrito continuò a parlare di Ibra e Kakà, di veline e altre donne uscite alla ribalta del gossip nei giorni precedenti, di elezioni e governo come se fosse un esperto in materia, senza prestare orecchio alle richieste dell’uomo in tuta giallo sporco. Non aveva ancora compreso che era in pensione da tre giorni, mentre nessun collega di lavoro lo stava ascoltando, come era normale quattro giorni prima.
Adesso il gestore era visibilmente contrariato, perché quell’uomo non solo parlava di temi che non lo affascinavano, ma stava facendo crescere la coda dei clienti in attesa.
“Mi dia 45€. E sposti la macchina, perché c’è coda dietro di lei” ribatté irritato e seccato con un mozzicone di sigaretta spento e unto di grasso, che faceva capolino tra le labbra serrate, senza prestare la minima attenzione al fiume che sgorgava senza posa dalla bocca di Luca.
Luca D’Astolfi era un piccoletto, che tendeva alla pinguedine dei suoi sessantasei anni, stempiato, ma forse sarebbe più corretto dire calvo, e tutto eccitato per aver raggiunto la pensione. Portava sul naso un paio di occhiali dalla montatura chiara, benché lui sostenesse che ci vedeva benissimo anche senza, mentre in realtà faceva fatica a distinguere un tre dall’otto.
A quella richiesta brusca la fonte cessò di colpo di zampillare parole, come se si fosse inaridita per un qualche accidente di imprevisto. Pagò in silenzio e se ne andò tutto offeso.
Il viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.
La prima guida
Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare ai primi di ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre molti amici andavano in campagna a raccogliere la frutta ed altri partecipavano alla campagna bieticola nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino, che in realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scopersi quando morì che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti comuni, ai quali eravamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via, ma bensì reminiscenze scolastiche Penelope, Laerte o melomani Aida, Radames oppure esotici Widmer, Wilmer. Questa era una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite. Come d’incanto i neonati assumevano sembianze umane e da quel momento in poi credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali, finché non scoprivano il loro vero nome, che ignoravano tranquillamente fino al momento nel quale compariva nel necrologio: Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me era rimasto sempre lo zio Lino.
Accanto a questa curiosa abitudine ce ne era un’altra quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso ed inspiegabile. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica: da lì passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico, perché le autostrade sarebbe venute molti anni dopo. Quindi in luglio ed agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion ed aveva un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, chiamato “Pipi” era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare Pipi.
Confinante c’era una baracchina di legno verde dove si vendevano gelati Alemagna confezionati, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Comunque avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato, Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero sudato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi l’operazione si svolse liscia come l’olio, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta ed oliata e mi consentiva nei rari momenti di relax di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio” e mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità, ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte ad una situazione di pericolo o intricata.
La Topolino aveva la particolarità che per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Fatte poche centinaia di metri tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione ancora. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un favoloso semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano solo le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
“Tacco e punta?” replicai con la bocca secca ed arida come il deserto del Sahara.
“Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me che ero in preda al panico e con le mani appiccate al volante era come scalare l’Everest a mani nude. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione senza altri inconvenienti di rilievo, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi tanto ero sudato per l’agitazione, con la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e con la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Però tutto questo svanì come per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida, molto più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e di avere maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.
Disegni e arabeschi
col ritmo della fantasia,
che si striano di luci e ombre.
Disegni e arabeschi si intrecciano
seguendo il ritmo della fantasia.
le nuvole striate di grigio e di bianco,
sfilacciate nel cielo azzurro
Micol e Konnie
Konnie era un ragazzetto di sei o sette anni, quando lo conobbe, frequentava la scuola elementare, dove aveva imparato qualche rudimento di italiano, che non aveva avuto molte occasioni di usare prima dell’arrivo di Micol.
Era biondissimo con occhi azzurri slavati, molto più alto di lei, che era di statura bassa e fragile come una sopramobile di cristallo. Lei aveva i capelli nerissimi con due splendidi occhi verdi che davano luminosità ad un viso anonimo.
Suo padre, Rubens, si domandava da quale componente della famiglia avesse acquisito quegli occhi, poiché loro e i parenti li avevano nocciola o una tonalità leggermente più scura. Rideva quando diceva questo a Vittoria, sua madre, che si rabbuiava in viso prima di esplodere come un vulcano in eruzione. Micol allora non capiva perché la madre alzasse il tono della voce prima di andarsene di sopra nella sua stanza sbattendo le porte.
Adesso che era vecchia, ripensando a quelle esplosioni di ira, capiva che suo padre pensava che lei avesse un genitore sconosciuto, perché la madre avrebbe avuto una relazione con un altro uomo. Eppure ritornando su questi episodi vecchi di molti anni, era convinta che il suo vero padre fosse proprio lui, perché aveva percepito sempre, fino a quando non l’aveva lasciata per sempre, un amore autentico, intenso ed incondizionato. Inoltre doveva riconoscere che molti tratti della sua personalità si combinavano alla perfezione con quelli di lui, come aveva ereditato dalla madre la determinazione a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Quando Micol arrivò in paese, Konnie la adottò immediatamente e la impose agli altri bambini, che vedevano in lei un’intrusa, un corpo estraneo alla loro cultura.
Lei lo ricambiò con altrettanta devozione e pur essendo piccola in tutti i sensi lo difendeva dagli attacchi verbali di chi lo canzonava, perché si sforzava di parlare in un italiano corretto e decente.
Divennero presto due compagni inseparabili: dove c’era l’uno, c’era anche l’altra. Si divertirono a sfidare il vecchio Kurt salendo sul melo posto nell’orto per rubargli le poche mele agre e piccole che produceva. Micol stava di vedetta per avvertire Konnie, quando avvistava il vecchio che urlando ed agitando un bastone nodoso minacciava chi sa quali supplizi per i due bambini, perché lei sentiva solo strepiti inarticolati senza capire una sola parola.
Come due gnomi dispettosi sparivano col loro carico di mele rubate nel bosco, che circondava la parte bassa del paese, dove non visti ridendo per avere beffato ancora una volta Kurt le mangiavano tutte con voracità e soddisfazione.
Più di una volta vide il vecchio bussare alla porta di casa per parlare animosamente con sua madre, che rispondeva con altrettanta fermezza, mentre Micol, non vista, sbirciava curiosa attraverso la fessura dell’ingresso, cercando di cogliere inutilmente qualche frammento. Parlavano un linguaggio sconosciuto per le sue orecchie, mentre loro si capivano perfettamente. Poi sua madre, ancora rossa in viso ed alterata nella voce per la litigata feroce sostenuta e combattuta senza esclusione di colpi, le diceva che avrebbe fatto i conti con suo padre, perché rubava le mele di Kurt. Non aveva mai capito se lo diceva per incuterle paura o per burlarsi di lei, perché l’argomento non veniva più ripreso fino alla prossima visita del vecchio.
Tra i due bambini cominciò un gioco strano diverso da quello che facevano con gli altri bambini, ma era molto divertente, perché consisteva nel trovare il vocabolo giusto per ogni oggetto che avevano in mano. Naturalmente Konnie doveva pescare dal suo dizionario di italiano scarso e sdrucito, Micol da quello di tedesco parimenti deficitario. E il pegno da pagare per ogni errore era una manciata di liquerizie, che abbondavano sempre nelle loro tasche, mentre il premio consisteva in un casto bacio sulle labbra. Questo permise di migliorare la conoscenza della lingua più ostica per loro e di far sbocciare un tenero amore infantile.
Micol cresceva ed era sempre più integrata nel tessuto del paese, perché non era considerata più una forestiera venuta dal profondo sud, ma una di loro che ragionava in tedesco e parlava la loro lingua. Per i paesani tutto quello che stava al di sotto delle montagne verso sud erano persone che minacciavano la loro tranquillità, che li volevano italianizzare, quindi erano i nemici da combattere, da tenere lontani dalle loro case.
Micol faticava ad inquadrare i motivi di tanto astio, non tanto verso lei o i genitori, che dopo un primo approccio di diffidenza erano entrati a far parte della comunità a pieno titolo, ma verso i turisti che nel periodo estivo sciamavano nei boschi rumorosi e chiassosi lasciando dietro di sé carte e altro sudiciume.
I due bambini d’estate avevano il loro punto segreto d’appuntamento: il nocciolo enorme posto sulla biforcazione tra il sentiero 1 e 1b. Lì pazientemente aspettavano l’arrivo dell’altro, prima di correre felici per mano tra rovi di more selvatiche e grandi felci verdi alla ricerca di una spiazzo al sole, dove potevano distendersi e chiacchierare spensierati su cosa fare il giorno dopo.
Micol quando era con Konnie si sentiva librare leggera come un pappo dondolante nell’aria, mentre lo osservava dal basso verso l’alto. Percepiva sicurezza e serenità, esattamente come all’interno della sua casa, era pronta a seguirlo in qualsiasi prova temeraria nella quale lui voleva cimentarsi. Lo seguiva scalando con incoscienza alberi che si piegavano pericolosamente sotto il peso lieve dei due bambini, scendendo per dirupi sdrucciolevoli per il fitto muschio verde ed umido fino sul limitare del ruscello che scorreva placido nella forra.
Una lacrima salata scivolò lieve sulla guancia di Micol, mentre ricordava Konnie e lei bambina quel giorno di agosto di molti anni prima, quando aveva sette od otto anni senza rammentare quanti erano con precisione.
Come tutti i giorni lei aveva raggiunto quel misterioso posto segreto, che poi segreto non era, ma per loro era come se lo fosse, ed aveva atteso con pazienza l’arrivo dell’amico.
Passò del tempo, che sembrò una giornata intera, mentre lei era seduta su un piccolo masso sporgente ad osservare i movimenti del bosco. Si sentiva inquieta perché era la prima volta che Konnie tardava ad arrivare, quando sentì in lontananza portata dall’eco la voce angosciata e stridula della madre “Micol! Dove sei?”.
Nessuno sapeva, tanto meno sua madre, che loro si incontravano il quel punto del bosco e si domandava perché la cercava con tanto impeto ed affanno. Si alzò per andare incontro a quel suono, che non sapeva con precisione da dove provenisse, perché ogni anfratto, ogni roccia rifletteva quel rumore di parole affannate e dolenti in tutte le direzioni.
Dopo aver vagato alla ricerca della sorgente per il bosco, la vide in una radura che correva ad abbracciarla. Non comprendeva il senso di quell’agitazione e il motivo per cui la stringeva al petto come se avesse il timore che volasse via col primo refolo di vento.
Le lacrime adesso scendeva sfacciatamente copiose e numerose sul viso di Micol, mentre riandava col pensiero all’atmosfera di casa tesa, nervosa ed agitata, alla cappa di inquietudine che aleggiava fra le abitazioni del paese, al andirivieni di persone note e sconosciute che si affacciavano sull’uscio.
La madre la teneva abbracciata, mentre suo padre, insolitamente tornato presto, le accarezzava i capelli neri, senza che lei comprendesse il motivo di tutte le premure ed attenzione di cui era oggetto. Aveva la testa confusa perché Konnie aveva mancato l’appuntamento, perché i suoi genitori la coccolavano in maniera inusuale, perché percepiva un silenzio carico di dolore.
Frastornata ed intimidita prese il coraggio di chiedere: “Konnie doveva venire..”, ma la madre le chiuse la bocca e disse:”Micol, sii forte. Konnie è volato via..” prima che la voce si incrinasse per l’emozione.
Si divincolò, urlò e si rifugiò nella sua stanza nel sottotetto, mentre in Micol adesso il singhiozzo divenne un urlo di dolore.
Micol al Kindergarten
Micol aveva lasciato la grande pianura piatta quando aveva quattro anni seguendo i genitori a Bolzano, andando ad abitare in un minuscolo paese che non distava molto dalla città.
Era una tipica casa di montagna, parte in muratura e parte in legno con un piccolo fienile dove suo padre teneva un fuoristrada, e con un balcone di pino dove sua madre esponeva da aprile ad ottobre splendidi pelargonium rosso fuoco. Stava adagiata sul limitare del paese ai margini di un grande bosco che si espandeva misterioso verso il basso ed era circondata da un minuscolo giardino. Davanti e di lato c’erano arbusti bassi resistenti al freddo integrati durante la bella stagione da piante fiorite e colorate, mentre dietro un minuscolo orto procurava insalatina fresca e carote giganti deliziose e sugose.
Micol adesso era vecchia ed era tornata nella città della grande pianura piatta assolata e polverosa, ma nei suoi occhi conservava le istantanee di quando era bambina.
Rivedeva l’interno della casa dove durante i lunghi inverni stavano accoccolati intorno alla Kucheloefen, la grande stufa di maiolica posta nel centro della sala da pranzo, con le mattonelle bianche in ceramica di Thun decorate di fiori azzurri, con le ruvide e scomode panche di legno poste sui fianchi e il letto morbido e caldo sulla sommità.
Quello per tantissimi inverni fu la sua culla caldissima ed accogliente, dove cullava i sogni col dolce tepore della Stube. Ancora adesso sentiva nelle ossa vecchie e stanche il calore della legna di abete che bruciava silenziosa e crepitante nella grande bocca. Allora le sembrava tutto enorme: il letto, le panche di legno, la bocca nella quale suo padre introduceva i grossi ciocchi da bruciare, le assi che le impedivano di cadere giù.
Erano sensazioni strane le sue, perché era stata catapultata in un mondo diverso ed irreale. Gli altri bambini parlavano uno strano linguaggio che lei non capiva a parte Konnie, un ragazzino più vecchio di lei di un paio d’anni, che in un italiano stentato e pieno di errori cercava di comunicare. Poi l’ingresso alle Marcelline cambiò l’ immagine delle visioni e capovolse un mondo fatto di solitudine per l’incomunicabilità delle parole ed affidato al solo gesticolare.
Tutti i giorni suo padre la portava a Bolzano alla Kindergarten, dove trovava all’entrata la mitica Frau Leone, una signora non più giovanissima dall’aspetto imponente, perché ai suoi occhi anche lei era enorme.
La prima volta fu terrificante, perché era l’unica bambina che non conosceva una sillaba di tedesco, mentre l’energica Frau Leone la guardava come una bestia rara da conoscere e decifrare. Micol si sentiva confusa, impacciata, osservata da mille sguardi ironici e canzonatori, perché non sapeva dire “Willkommen, Frau Leone” oppure non comprendeva quando l’imponente Frau Leone la chiamava “Micol, kommt hier!”. Eppure leone era qualcosa che aveva sentito ancora da mamma e papà, che le ricordava una belva feroce dalla grossa criniera, ma adesso era una signora austera che non parlava per nulla l’italiano.
A stento aveva trattenuto le lacrime, doveva farsi forza, come si era raccomandata la mamma prima di salutarla quella mattina, e mostrare dignità e fierezza per essere l’unica italiana. E lei sopportò l’essere esclusa dai giochi e dal salmodiare le filastrocche, ma senza perdersi d’animo cercò tutto il primo giorno di farsi accettare, di intrufolarsi nei gruppetti, di fare amicizia, insomma di fare quello che fanno tutti i bambini: giocare e cantare in gruppo.
Quando suo padre l’accolse all’uscita liberò le lacrime che aveva trattenuto fino allora, mentre lui la faceva volare tra le braccia.
Nei giorni seguenti l’incubo era scendere dal letto, perché sapeva che l’avrebbe aspettata una nuova dura giornata di incomprensioni e stilettate pungenti, attenta ad osservare i movimenti dei compagni per ripetere gesti ed imprimere parole delle quali non comprendeva il significato.
Poi giorno dopo giorno con la tenacia e la testardaggine ereditata dalla madre cominciò a decifrare quel linguaggio ostico e dai suoni gutturali tanto diversi dalle parole conosciute fino a quel momento e finalmente poteva unirsi agli altri coetanei per recitare le Kinderreim, le brevi filastrocche che accompagnavano i giochi quotidiani.
Eins zwei drei vier fünf sechs sieben,
eine alte Frau kocht Rüben,
eine alte Frau kocht Speck
und Du bist weg.
Wenn die Kinder in den Gassen
wieder Kreisel tanzen lassen,
hopsa und juchheirassa !
ja, dann ist der Frühling da.
Ene, mene, miste,
es rappelt in der Kiste.
Ene, mene, meck,
und du bist weg.
Adesso non era più il brutto anatroccolo che stava a bocca aperta cercando di captare qualche segnale che giungeva sempre distorto alle sue orecchie, mentre i compagni sicuri che non comprendesse dicevano “italienische Dummenkopf!”. Aveva imparato a difendersi, rispondendo per le rime senza lasciarsi prevaricare.
Non era passato molto tempo dal quel primo giorno, quando era ormai una di loro, considerata e trattata con rispetto, perché aveva imparato in fretta il loro linguaggio, che le sembrava meno armonioso di quello che usava coi genitori,
Frau Leone era rimasta sorpresa dai suoi progressi in un tempo veramente breve, ricredendosi sulla possibilità che potesse sopravvivere in un ambiente tipicamente ostile verso gli stranieri.
Micol aveva capito che, se non voleva essere emarginata, doveva sfoderare tutta la grinta che possedeva. E lo fece senza economie.
Micol
Era una sera di fine luglio, quando Micol prese la corriera “Korner Platz – Jenesien Gasthof Konig” come tutte le sere da due anni. Partì stracolma di persone dalla piazza sotto il monumento di Hofer come sempre a quest’ora della giornata.
Micol fu fortunata a trovare un posto vicino al finestrino abbassato passando sulle gambe di uno sconosciuto, che brontolò qualche parola in tedesco che non afferrò pienamente, quando si sedette dopo aver buttato lo zainetto sotto il sedile.
Lo guardò male senza aprire bocca, perché non le andava di parlare con uomini sconosciuti specialmente su questa corriera sempre piena di uomini e donne diversi.
La serata non prometteva bene, perché era rumorosa, piena di polvere ed offuscata dalla calura che opprimeva la città come una cappa di piombo fuso in attesa della brezza notturna. Le strade assolate erano invase da persone, che, abbandonati in fretta gli uffici torridi, cercavano ristoro nel loro appartamenti altrettanto infuocati. Quest’anno erano stati vietati i condizionatori per risparmiare energia, così la gente cadeva come mosche sotto il sole che picchiava implacabile. Per fortuna all’imbrunire un vento gelido incuneato tra le strette vallate di Sarnital raffreddava l’ambiente mentre alle persone era consentito di respirare.
Micol era giovane e robusta e sopportava meglio di altri la calura di una estate ardente come il fuoco che scoppiettava allegro nella stufa di maiolica posta nel centro della stanza da pranzo.
Era bello sedersi intorno appoggiando la schiena al caldo durante le lunghe veglie d’inverno, mentre fuori fioccava le neve e il vento disperdeva i fiocchi.
Aveva venticinque anni e da due sopportava quel viaggio che la portava tutti i giorni in centro città con qualsiasi tempo. Quando faceva molto freddo e le strade erano lucide lastre di ghiaccio sporco, incrociava le dita per scaramanzia e ringraziava il santo protettore che era sempre al suo fianco ad ogni tragitto.
Era tutto sommato una ragazza appena fuori dal bello col viso rotondo e paffutello, dove spiccavano due grandi occhi verdi, e dalla statura che tradiva le origini non tirolesi. Aveva imparato il tedesco alla scuola materna delle Marcelline, dove era stata accettata con grandi sforzi e suppliche perché era l’unica di lingua italiana. Aveva sempre mal sopportato quello sdoppiamento della personalità, ma adesso ringraziava di cuore quella scelta, perché era una bilingue perfetta.
Quella sera era cominciato male il viaggio di ritorno, perché la calura aveva eccitato gli animi, divenuti irritabili e irascibili per un nonnulla come le cime rosseggianti che facevano conca alla città. All’interno c’erano sicuramente oltre quaranta gradi, pensava mestamente Micol col sudore che appiccicava la camicetta alla pelle, e senza un alito di vento per allontanare quel lezzo di cipolla mischiato al disgusto del vino, che i vicini emanavano senza troppo ritegno.
L’uomo sconosciuto al suo fianco continuava a guardarla con un’intensità sospetta, come se la volesse spogliare, mentre lei imprecava contro tutta quella gente che si ammassava come bestiame sulla corriera.
Sporgeva la testa fuori dal finestrino per quel tanto che poteva dalla sua posizione cercando di captare qualche bava d’aria rovente. Si sentiva osservata, ma non poteva fare nulla per togliersi da dosso quelle punture che l’occhio generava sulla pelle.
Le sembrava di giacere nuda su un lenzuolo, su una lastra di metallo o di marmo, scrutata da mille sguardi di persone ignote e sconosciute, pronte a toccarla, a far scivolare le mani sulla pelle come le gocce di sudore che scendevano e rotolavano in minuscole perline bagnate tra i seni e dietro la schiena.
La lingua pareva ingrossata tanto faticava ad uscire dalla bocca per umettare le labbra screpolate e disidratate, perché aveva finito da tempo la scorta di acqua che portava nello zainetto.
Il viaggio fu lungo e penoso tra imprecazioni, bestemmie e rutti di gente ubriaca e nervosa che litigava col vicino senza ritegno, mentre Micol era riuscita a tenere abbassato il finestrino che faceva entrare a fiotti aria fresca che le scompigliava i capelli neri.
Lentamente l’uomo sconosciuto si avvicinava a lei, che si addossava al finestrino come un’acciuga marinata. Ormai era immobilizzata, mentre ansia e terrore scendevano come una cappa di gelo sul corpo accaldato e sudaticcio, ed avvertì una mano che frugava sotto la camicetta e l’altra che tentava di insinuarsi nei jeans.
Micol era un animale braccato dai cani e rintanato in un pertugio senza uscita, perché anche se avesse gridato nessuno l’avrebbe ascoltata.
Lo lasciò armeggiare per qualche istante, mentre studiava una via d’uscita: altri posti liberi non c’erano, ma vicino all’autista c’era un minuscolo spazio. Forse era lì la sua salvezza.
Con mossa improvvisa afferrò con una mano lo zainetto sotto il sedile e con l’altra abbrancò saldamente i testicoli dell’uomo che urlò dal dolore mollando la presa.
Tutti si girarono mentre i suoni svanivano fuori dai finestrini per capire chi aveva strillato quel rumore sguaiato.
In un baleno Micol si portò vicino all’uscita pronta a scendere per raggiungere la casa di corsa e con la speranza di sfuggirgli.
L’uomo accasciato sul sedile ululava dal dolore con gli occhi pieni di lacrime ed arrossati dalla collera, perché la preda era momentaneamente fuggita. Barcollando tra spintoni e bestemmie cercò di avvicinarsi a Micol, ma per sua sfortuna incrociò una persona alticcia che gli mise le mani addosso.
L’alterco durò quel tanto che le permise di scendere e vedere la chiusura della porta alle spalle, mentre si avviava col cuore in gola verso casa. Si fermò un istante per esaminare chi c’era alle spalle, mentre vide l’uomo sconosciuto che gesticolava con l’autista nel tentativo di aprire la porta.
Micol s’affrettò leggera come una piuma verso l’intrico dei vicoli stretti che la inghiottirono tra le ombre calanti della sera. Conosceva ogni anfratto, ogni pertugio tra case e staccionate, dove bambina aveva giocato a nascondino per molte estati, e si sentiva ormai al sicuro.
Chiuso il portone di casa con qualche affanno e sospiro di sollievo, rifletté che era ormai giunto il momento di sospendere quei viaggi.
Frammento su Sofia e Matteo
Sofia chiamò Matteo, che impaziente era in attesa, corrucciato ed irritato perché lo stava trattando come un vecchio straccio da buttare nel rusco.
“Ciao” esordì con naturalezza senza avvertire la necessità di giustificare il ritardo e proseguì secca e brusca che l’appuntamento era tra quindici minuti sotto casa, senza dar modo a Matteo di dire una qualsiasi parola.
Matteo, già in fibrillazione per l’attesa prolungata e senza giustificazioni, si innervosì per il comportamento sfacciato e dispotico di Sofia al punto di decidere di mandare all’aria l’incontro. Il pensiero di far saltare il banco lo sfiorò come una meteora impazzita, perché avrebbe anche potuto accettare la telefonata molto oltre l’orario concordato, ma non aveva gradito per nulla l’assenza di una giustificazione di facciata ed il tono sbrigativo e arrogante tenuto durante l’effimera conversazione.
“Se crede che io sia il suo tappetino, si sbaglia in maniera grossolana. Se non fosse stato per Paolo, a quest’ora sarei già nel mio letto a dormire” stava borbottando irato e furibondo.
Era visibilmente seccato perché ultimamente Sofia era diversa da quella conosciuta inizialmente, come se avesse mille grilli che danzavano furiosamente nella testa. Era giunto il momento di chiarirsi perché la relazione stava prendendo una piega per nulla buona.
Sofia intravide tra luci fugaci e precarie ed ombre in chiaroscuro il viso di Matteo irritato ed incavolato mentre stava parcheggiando nelle vicinanze.
Con tono di comando l’obbligò a salire in macchina al termine del parcheggio per andare su direttamente dal box.
Matteo continuava a ribollire come il mosto nel tino dopo la vendemmia, mentre Sofia rifletteva sulla serata appena trascorsa quasi dimentica della sua presenza.
“Non so che cosa mi ha preso stasera. Prima quel bacio appassionato e caldo con Marco, poi quello con Laura”.
Ripensandoci a freddo c’era mancato pochissimo per spogliarsi e fare all’amore con lui. E ridendo, pensò che non c’era molto da togliere, perché sarebbe stata sufficiente alzare la mini e tutti i giochi sarebbero stati fatti.
L’aspetto più inquietante e del tutto inaspettato era stato il bacio con Laura e le relative carezze intime. Era la prima volta che le capitava, ma la sensazione provata era stata fortissima: una vampata di calore aveva avvolto il corpo mentre la mente aveva comandato alla lingua e alle mani di ricambiare le attenzioni.
Il flusso dei pensieri furono interrotti dall’insistente ed impaziente picchiettare di Matteo, che si sentiva sempre più stizzito con lei.
“Pazienza”; esclamò, perché adesso doveva concentrarsi sul compagno per accoglierlo con calore e farsi perdonare il comportamento tenuto fino a quel momento.
Sofia si identificava fortemente con le sue idee e le sue opinioni in questo periodo della sua esistenza ed era facile alla lite; aveva l’impressione che un parere contrario al suo fosse un affronto personale. E questo era venuto a galla più volte nel corso della serata appena conclusa e per riflesso l’aveva riverberato su Matteo senza accorgersene.
Sapeva che non sarebbe stato facile rabbonirlo, perché era stata fino al questo momento prepotente, sfrontata e pochissima disponibile al dialogo. Percepiva di essere stata indisponente oltre misura come se l’altro lato della sua personalità avesse sopraffatto quello che la vedeva innamorata ed affettuosa con lui.
L’aspetto peggiore era la sensazione di turbamento interno, ma anche di eccitamento che la prendeva all’improvviso in modo travolgente ed incontrollato.
Doveva dunque mantenere sotto controllo le emozioni, non in modo repressivo, ma in maniera che le permettesse di avere uno sguardo più equilibrato e realistico sulla vita di relazione.
Lui si sistemò sul sedile mentre l’umore stava peggiorando come una tempesta tropicale in arrivo dal mare, non essendo per nulla disponibile ad ulteriori sgarbi.
I due amanti erano finalmente vicini e la notte prometteva scintille come una barra di ferro che veniva fresata.