Capitolo 6

Castello Estense, salotto ducale. Vespro stesso giorno
 
Alfonso entrò nello studio ducale per vedere lo stato dell’arte. Era rimasto solo la sua sedia “Savonarola” nella stanza. Ponteggi e pitture ovunque, il salotto ducale era un cantiere aperto. Una squadra di pittori era all’opera per affrescare il soffitto. Si intravvedeva il disegno, appena abbozzato. Tutta l’area intorno alla torre Marchesana e nella via Coperta era un laboratorio, una fucina per ridisegnare i suoi appartamenti.
Si sedette a contemplare l’opera, che prometteva bene, ma la mente era occupata da un altro pensiero: Laura, la figlia del berrettaio.
“E’ una donna che emana forza e tranquillità. Nessun timore. Ha tenuto sempre gli occhi puntati verso di me senza mai abbassarli. Mi ha stregato”.
Si stupiva nel formulare questi pensieri. Era la prima volta che una donna generava in lui queste riflessioni.
Il Duca guardava il soffitto senza vedere niente mentre la mente associava Lucrezia.
“E’ sempre stata disponibile ma ora dopo otto gravidanze e faticose maternità la sua salute è sempre più un’incognita e fatica a riprendersi. E’ ancora una bella donna ma va declinando. Non riesco a comprenderla perché ha abbracciato il terz’ordine francescano, legandosi ai seguaci di San Bernardino e Santa Caterina. Sembra che voglia espiare delle colpe delle quali sicuramente si è macchiata nel passato, ma  che non mi interessano”.
I suoi pensieri erano rivolti solo all’unione carnale, a tenerla occupata nel governo della famiglia e del ducato, quando lui si doveva assentare per seguire una guerra o perorare una causa dei suoi possedimenti. Un sorriso comparve sul viso bruciato dal sole, mentre ricordava che in quasi quindici anni di matrimonio aveva generato quattro figli ancora in vita, l’ultimo dei quali era nato solo l’anno prima. Il ducato era salvo, perché la discendenza era assicurata: il papa, del quale era feudatario per Ferrara, non poteva revocare l’investitura agli eredi naturali, anche se era in corso un nuovo braccio di ferro con Clemente VII per i possedimenti modenesi. La scomunica era stata tolta ma stava ancor lottando per riottenere i territori di Modena e Reggio.
Dunque non era il pensiero di Lucrezia che lo tormentava ma la caparbia volontà di opporsi alle mire del Papa sul suo ducato.
“Ho accettato di sposare Lucrezia perché era la figlia del potente Papa Borgia ma in verità non ne ero molto felice. E’ vero che ha portato in dote una montagna di fiorini d’oro ma la sua bellezza è stata come un fiore che attrae le api. Ora questi pensieri sono svaniti perché non temo più che si svii. L’ho domata, imbrigliata ma è diventata passiva, Non c’è più gusto di passare le notti con lei. Devo ammettere che mi ha concesso un bel erede”.
La fugace immagine di Ercole, il primogenito passò nella sua mente. Lo vide, nonostante i suoi otto anni, forte e robusto, dal carattere risoluto e già sufficientemente scaltro nel farsi valere. “Sarà il mio successore alla guida del ducato quando Dio mi avrà richiamato a sé”.
Si domandò meravigliato le motivazioni di queste associazioni, che erano state avviate dal solo pensare alla donna vista nella mattinata, neppure logicamente correlate tra loro. Era un vagare  saltando da una considerazione all’altra sul filo della ragione.
Adesso però i suoi pensieri erano tornati a concentrarsi su Laura, la giovane dalla personalità forte e indipendente, che in qualche modo l’aveva attratto. Era titubante nel lanciarsi in questa nuova avventura.
“Perché?” si domandò mentre continuava a fissare inutilmente il soffitto.
Doveva riconoscere che Lucrezia aveva dimostrato delle capacità politiche, insospettate in una donna ed era molto amata dai ferraresi che vedevano in lei oltre la bellezza anche la bontà d’animo verso i poveri.
“Abbiamo gusti differenti in tema di arte. Lei si è circondata di poeti e letterati mentre io ho chiamato grandi pittori e scultori per abbellire i camerini del mio appartamento sopra la via Coperta. Io preferisco l’arcigno Cosmè Tura, lo scarno e rarefatto Ercole de’ Roberti, il potente Dosso Dossi, il sereno ma maschio Lorenzo Costa, mentre lei adora le dolci pennellate del Garofalo per decorare le sue stanze. Ma perché mi ritrovo a rincorrere questi pensieri?”.
Tutti questi turbinii di considerazioni avevano travolto Alfonso distraendolo dalla visione di come procedeva l’affresco del soffitto.
Però tornava con la mente alla mattina quando si era recato da Francesco, il berrettaio, con la scusa di ordinare un cappello da usare nelle prossime feste di carnevale.
Dunque era Laura il centro dei suoi pensieri, mentre il divagare su Lucrezia era solo un diversivo. Doveva rifletterci ma percepiva di essere stranamente incerto, lui che non aveva minimamente disdegnato di accoppiarsi anche con donne del mestiere.
Ancora una volta gli tornò prepotente alla mente Lucrezia e decise di rendergli omaggio prima di coricarsi.
Percorsi i corridoi che lo conducevano all’appartamento della moglie, la trovò intenta a giocare coi tarocchi nella sala dei Giochi.
“Madonna Lucrezia” esordì Alfonso sedendosi tra lei e Laura Rolla.
“Come state? Mi pare che abbiate una buona cera. Chi vince? E quale premio toccherà in sorte alla vincitrice?”.
“Va meglio, mio Signore” replicò serenamente la duchessa.
“Nulla. Giochiamo per ingannare il tempo prima di coricarci per il riposo notturno. Ma ora scusatemi” e si alzò diafana uscendo dalla sala.
Il duca rimase pensieroso faticava a comprenderne l’atteggiamento. Il suo temperamento robusto gli impose di salutare la compagnia delle donne che stavano con Lucrezia e rientrare nel proprio appartamento senza attenderne il ritorno.

21 risposte a “Capitolo 6”

  1. Ottima descrizione degli ambienti, che evidenzia la precisa indagine sui luoghi.
    Bella l’introspezione ducale che valuta se e quando abbandonarsi alla caccia di una nuova e allettante preda e gli obblighi di un matrimonio che sta sfiorendo.
    Ad un certo punto sembra quasi infastidito dalle scelte della sposa, anzi rifiuta di intavolare un dialogo allo scopo di sciogliere dei nodi, che sente ingombranti, ma che lascia volontariamente ben legati.
    Poi lo sguardo fugace, ma attento ai fatti politici rendono il racconto ancora più interessante e la curiosità rimane sempre ben sollecitata.

    1. Capehorn, amo molto la mia città, Ferrara, e non mi stanco divisitarne i luoghi. Qui si intrecciano ricostruzioni di fantasia, mie, a elementi storicamente provati, sui quali mi sono documentato.
      Se riesco ad attivare la curiosità nel lettore è un bel risultato.

      1. Amare la propria città, significa anche riuscire a trasmettere la storia e gli umori della gente. La fa capire e apprezare a chi si accosta a lei per la prima volta. Se poi la Storia ha impresso il proprio sigillo su di essa, allora il piacere di raccontarla aumenta con una punta di orgoglio ben riposto.

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