Capitolo 5 – Roma e il suo fascino romantico

La carrozza si fermò, mentre Goethe si ergeva dal sedile osservando con cura tutti quei ruderi pieni di storia una volta ritti mentre ora erano malinconicamente ricoperti da erbacce e fungevano da comodi sedili per gatti.
E recitò ad alta voce:
Saget Steine mir an, o! sprecht, ihre hohen Paläste.
Strassen redet ein Wort! Genius regst du dich nicht?
Il vetturino rimase interdetto e pensò: ”Sono tutti suonati questi stranieri! Non parlano italiano, non capiscono il romano e sproloquiano in ostrogoto! Speriamo che mi paghino i quattro soldi pattuiti”.
Continuò a borbottare in attesa di nuove istruzioni, guardando il poeta, che si sporgeva dalla carrozza.
Angelica si destò dal dolce tepore che la presenza di Goethe le assicurava e si pose eretta sul sedile ammirando quei ruderi vecchi di oltre un millennio, mentre lo ascoltava a declamare i versi.
Sono appropriati i vostri versi e sono meravigliosamente belli! Colpiscono il cuore e l’anima come un raggio di sole squarcia le tenebre”.
Goethe continuò a declamare con enfasi.
Ja es ist alles beseelt in deinen heilegen Mauern
Ewige Roma, nur mir schweigen noch alles so still.
E rivolgendosi a lei, disse: “Vi piacciono, mia dolce Angelica questi versi? Li ho pensati in questo momento vedendo questi marmi e colonne giacere a terra. Peccato non avere qualcosa per trascriverli, perché non vorrei dimenticarli. Pensate, mia bella e dolce Signora, di ricordarli fino a quando non torniamo da voi?”
La donna guardando negli occhi Goethe rispose: “Come potrei dimenticare la sublime altezza di queste parole? Hanno colpito direttamente il cuore e la mente! Non temete, li ripeterò in silenzio per tutto il viaggio!”
Il pallido sole di dicembre illuminava quei ruderi, tra cui si aggiravano gatti ben pasciuti, mentre altri pigramente si scaldavano sdraiati su di essi.
I minuti passavano e il fiaccheraio cominciava a dare segni di impazienza finché disse in romanesco: “Andiamo? Questa sosta vi costa altri due soldi!”
Goethe si riscosse dalla contemplazione delle rovine sentendo la voce del vetturino senza però capire nulla di quello che stava dicendo.
Angelica, intuendo che il poeta non avesse compreso le parole, gli fece una traduzione sommaria del discorso, anche perché aveva capito che era arrivato il momento di andare e che la sosta avrebbe fatto lievitare il costo della passeggiata.
Ricevuto un cenno d’assenso col capo, il fiaccheraio fece schioccare la frusta in aria, incitando il cavallo a riprendere l’andatura.
La carrozza si mosse con lentezza, mentre i due amanti si sistemarono sotto la coperta ben stretti l’uno all’altra.
Angelica si sentiva serena vicino a lui e percepiva un calore come mai aveva ricevuto da un uomo, ripensando al loro primo incontro di quel lontano pomeriggio di novembre. Aveva capito subito che quell’uomo gli piaceva, ma l’educazione cattolica ricevuta e la frequentazione di alti dignitari della corte papale la frenavano e costituivano un potente blocco inibitorio nella sua personalità.
Era vero che aveva avuto occasionali avventure durate al massimo un giorno, ma erano state solo appagamenti dei desideri carnali e tutto era finito subito, confessando il suo peccato il giorno dopo e facendo penitenza per alcuni giorni.
Questa volta era diverso, perché il tradimento, anche se al momento era solo immaginario, ormai durava da oltre un mese e non aveva trovato il coraggio di parlarne col suo confessore, peccando ancora di più.
Signore, abbi pietà della mia anima perché ho tanto peccato! Desidero quest’uomo che non è mio marito e so di peccare ancora di più!” così rifletteva mentre era appoggiata col capo sul petto del poeta “E’ dolce e risoluto allo stesso tempo. Si esprime in maniera sublime toccando le corde più intime del mio cuore. La mia determinazione di resistere alla tentazione carnale diventa sempre più flebile e credo che entro un giorno o due sarò io stessa che lo cercherò!”
Goethe accarezzava con dolcezza il viso e i capelli di Angelica, sentendo il suo corpo fremere di piacere, e sospirava: “Questa dolce e fragile donna emana una sensualità veramente insolita, ma sembra casta e fedele al marito e io la desidero fare mia. Mi sento impotente con lei e non oso chiederle apertamente il suo amore. Eppure dopo il primo incontro mi pareva che provasse un desiderio forte per me. Forse mi sono sbagliato oppure sono stato troppo frettoloso e irruente. Quali corde sensibili devo toccare? Sembro essere tornato ragazzo, quando affrontavo inesperto i primi approcci amorosi! Chissà se questa passeggiata la sgelerà come neve al sole.”
La carrozza dondolava i due amanti, che si desideravano l’un verso l’altro, ma non riuscivano a trovare quell’intimità che provavano nel loro animo.
Alle prime ore del pomeriggio Goethe e Angelica fecero ritorno allo studio di via Sistina.

Capitolo 4 – La felicità sognata

Il poeta aveva preso l’abitudine di venire ogni mattina nello studio, perché percepiva una forte attrazione verso di lei. Anche Angelica gradiva la compagnia di Goethe, perché avvertiva inconsciamente come le lusinghe che un giovane uomo le stava dedicando, stimolava la sua vanità femminile. Era come se fosse tornata indietro nel tempo, quando i corteggiatori non mancavano con le loro insistenti proposte.
Non provava fastidio per la sua presenza, anzi provava piacere e si recava all’atelier anche quando il tempo era inclemente, perché non voleva perdere quell’appuntamento fisso. La sua figura costituiva per lei una costante distrazione dalle usuali attività tanto che aveva smesso di dipingere, perché doveva prestare attenzione alle letture di quello che stava scrivendo.
Dopo il lungo silenzio creativo tra le ombre ovattate di Weimar, aveva ripreso la scrittura del Faust, interrotto più volte nel passato, annotava le impressioni e i ricordi del lungo viaggio attraverso la penisola verso Roma, dopo aver toccato Verona, Venezia, Ferrara, Firenze e tante altre località minori, sia pure solo per poche ore.
La vicinanza della donna e le giornate trascorse in sua compagnia avevano riacceso nel poeta la fiamma creativa, fornendogli ispirazione e voglia di scrivere, attività che faceva alla sera e al mattino presto quando non stava a oziare nello studio della pittrice.
“Angelica, fuori c’è un bellissimo sole. Usciamo per ammirare le rovine dell’antica Roma”.
“Ma qui siamo al caldo” replicava la donna, che avrebbe preferito rimanere nell’atelier.
“Prendete il mantello e il capello. Qui stiamo oziando” insisteva Goethe, mentre si avviava verso la porta.
Ogni qualvolta il sole romano illuminava la città. pretendeva che la pittrice lo accompagnasse per ammirare le antiche vestigia romane, le innumerevoli chiese sparse un po’ ovunque, chiedendole di esprimere pareri e sensazioni di fronte a un capitello rotolato a terra, a una statua ridotta in frammenti, a un quadro appeso sopra un altare.
Portava sempre con sé un blocco di carta e un carboncino che gli servivano per annotare commenti di Angelica e schizzare qualche disegno dei ruderi più interessanti.
Nonostante le blande proteste si prestava di buon grado nell’insolita veste di cicerone, perché sentiva crescere dentro di sé un sentimento che aveva sempre pensato che fosse morto o mai sbocciato. Era l’occasione per dare sfoggio della propria competenza artistica e vivere una vita diversa dal consueto, perché aveva sempre sognato di accompagnare la persona amata in un tour artistico, senza mai averne avuta l’occasione.
Così smise di dipingere per sé e per i committenti, trascurando la sua professione. Angelica accantonò l’autoritratto, perché voleva ritrarlo, mentre lo ammirava seduto sulla poltrona di raso rosso, ma il soggetto era inquieto e non restava fermo in posa.
Mio caro, Wolfgang, non state mai immobile. Come posso ritrarvi se vi agitate di continuo?” gli disse con garbo una mattina di inizio dicembre.
Mia adorata Angelica, non posso restare passivo, mentre vi guardo col pennello in mano. Voi siete troppo bella e seducente per non esternare il mio sentimento verso di voi. Suvvia, non siate inquieta con me, oggi è troppo bella come giornata per restare chiusi qui dentro. Usciamo e godiamoci questo splendido sole romano”.
Si avvicinò ad Angelica, le prese il pennello, deponendolo in barattolo di colore, e la baciò con ardore e passione senza che lei opponesse resistenza.
La donna sentiva il desiderio dentro di sé crescere giorno dopo giorno, ma era combattuta tra la voglia di trasgredire e la fedeltà a quel marito tanto mediocre quanto meschino. Altre volte lo aveva tradito, ma era durato lo spazio di un mattino: quella che si era soliti dire che fosse una scappatella. Consisteva in qualche bacio furtivo e veloce senza passione, molto raramente andava oltre nelle effusioni amorose. Tutto sommato erano peccati veniali, quelli che aveva commesso nel passato.
Questa volta era diverso, perché sentiva ingrandire dentro di sé un sentimento che non aveva provato prima, forse mai nei suoi 45 anni di vita. Sentiva il trasporto verso livelli più alti tanto da avere paura di risvegliarsi e comprendere che era stato solo un meraviglioso sogno..
Tra loro il tutto si era limitato fino a quel momento a qualche bacio appassionato, a qualche tenera carezza, anche se a stento era riuscita a controllare la libido ma era ben conscia che presto sarebbe capitolata.
Goethe aveva avuto molte donne nella sua vita, amanti segrete oppure no, non disdegnava di accompagnarsi anche a donne di strada. Questa sua fama di donnaiolo era risaputa nella cerchia degli amici e conoscenti, tanto che non destava più scalpore. Anche Angelica conosceva la particolare inclinazione del poeta, perché ne aveva sentito parlare a lungo e con dovizia di dettagli dalla nutrita schiera di tedeschi che vivevano a Roma. Questa colonia non perdeva mai l’occasione di invitarla alle feste che organizzavano e molti di loro erano assidui frequentatori del suo atelier.
L’educazione religiosa impartita dalla madre e la frequentazione degli ecclesiasti la rendeva dubbiosa e incerta se doveva lasciare libero sfogo alle sue inclinazioni oppure mortificare la carne come un penitente.
Così quando quella mattina di dicembre uscirono per le strade di Roma, sentì che il muro che aveva dentro di sé si stava sgretolando.
Era una fredda giornata, allietata da un bel sole, che a stento riscaldava i corpi, quando i due amanti si avviarono verso Piazza di Spagna gremita di bancarelle e di giostre per l’imminente Natale. C’era un frastuono festoso mentre tante persone si aggiravano tra i banchi. Erano popolani e nobili, mescolati tra loro senza distinzione di censo, accomunati dalla voglia di festeggiare la festività natalizia.
Angelica si appoggiava sul braccio del poeta con tenerezza e affetto, sentendo il calore che emanava e sospirava per le pene d’amore.
Mein Gott! Cosa devo fare? Quest’uomo mi piace e so di peccare. Finirò i miei giorni all’inferno. Ma la carne reclama il suo dono, come posso negarglielo? Se cadrò, e cadrò sicuramente in peccato, come potrò redimermi?” rifletté, mentre con passo svelto seguiva Goethe tra la folla e le bancarelle.
Giunsero con una certa fatica in una delle vie che si dipartivano dalla piazza, dove sostava un fiaccheraio insonnolito e avvolto in un pesante tabarro verde.
Il cavallo era circondato da una leggera nebbiolina prodotta dal sudore che si condensava nel freddo della mattina e aspettava che il suo padrone raccogliesse qualche cliente per muoversi e riscaldarsi un po’.
Goethe tirò per una falda l’uomo, dicendogli: “Vorremmo che ci portasse verso l’Appia ad ammirare qualche capitello romano. Ci dia una coperta ampia e calda per ripararci dal freddo durante la passeggiata. Mi raccomando vada piano, perché desideriamo apprezzare il paesaggio”.
Il vetturino si riscosse dal torpore in cui era caduto, guardò i due amanti e allungò al poeta una coperta un po’ logora e non troppo pulita senza degnarsi di aiutarli a salire e sistemarsi nella carrozza.
Angelica si rannicchiò fra le braccia di Goethe, che la coprì stringendola con passione.
Il lento incedere del cavallo trascinava la carrozza che sobbalzava sulle strade mal lastricate con grande rumore, mentre i due amanti erano sballottati sul sedile mentre guardavano case, chiese e ruderi romani, che sfilavano mute dinnanzi ai loro occhi. La pittrice illustrava con dovizie di particolari quello che scorreva lentamente nella passeggiata.
La donna però era sempre di più in un forte tumulto interiore tra passione montante e volontà di rimanere fedele, mentre la vicinanza con l’uomo, che l’attraeva, incrinava la sua fermezza a non tradire il coniuge.
Mille pensieri affollavano la mente e molte congetture sul futuro apparivano e scomparivano come la folgore tanto che lei non riusciva più a concentrarsi sul lavoro, che stava trascurando vergognosamente.
E’ bello e forte, “ diceva in silenzio “ed io lo desidero tanto. Tutte le notti mi compare in sogno come un semidio o un novello Apollo popolando la mia mente con la sua immagine. E’ dolce e un po’ timido, come il personaggio della sua opera, Werther. Quanto lo amo! Come vorrei essere posseduta da lui!”
Il fiaccheraio, intuendo che la coppia volesse avere intimità e che non avesse nessuna fretta, fece un lungo giro passando dai fori imperiali, dove Goethe chiese in un italiano stentato di fermarsi per qualche minuto.

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Capitolo 3 – Il giorno dopo

Goethe s’aggiustò il mantello e ad ampie falcate si diresse verso Angelica, che era rimasta ferma come pietrificata. Lei non aveva ben chiaro, se fosse contenta della presenza del poeta oppure se avesse sperato di non incontrarlo.
Solo pochi istanti fa ho desiderato ardentemente che fosse qui ad aspettarmi, ma ora sono in preda al panico nel vederlo! Cosa devo fare? Sono in confusione. Non so che cosa fare! Mein Gott! Cosa debbo fare? Helfe mir, du lieber Gott!”
Mentre lei, colta dal panico e in stato quasi confusionale, era ferma, incapace di muovere un solo muscolo del corpo, il poeta le prese una mano che baciò con passione e galanteria. Aveva compreso lo stato emotivo della pittrice e voleva cogliere il momento propizio.
Mia cara, sono veramente felice di incontrarvi!” disse con voce suadente. “Oggi è una giornata radiosa, perché il vostro splendore illumina i miei occhi. Avete trascorso una serena notte?”
Tacque un istante per osservare la donna, che aveva gli occhi smarriti e appannati dall’ansia. Era sicuro che la sua presenza aveva rotto un equilibrio emozionale assai precario, riprendendo a parlare.
Mi dovrete scusare se sono stato impulsivo, aggredendovi con le mie parole, senza lasciarvi il tempo di respirare dopo la passeggiata verso il vostro studio”.
Angelica si riprese e, tratto un profondo sospiro, rispose cautamente con la voce velata dalla passione. “Sono io che sono stata scortese con voi, perché non ho risposto al vostro nobile saluto. Non è rispettoso lasciare un ospite così illustre fuori dall’uscio. Venite ed entrate con me. Voi siete il benvenuto in questa casa!”
Prese per mano il poeta e lo condusse per le scale verso l’atelier, dopo avere attraversato il grande portone spalancato.
Lo studio era stato rigovernato e si presentava ordinato e pulito. Appariva luminoso rispetto al giorno precedente per lo splendido sole, che filtrava da un’ampia finestra che guardava verso un giardino interno. Una tela, appoggiata sul grande cavalletto, mostrava la figura della pittrice, appena abbozzata che risplendeva sotto i raggi solari che la colpivano.
Goethe si fermò sulla porta ammirando il quadro incompleto. “Voi siete veramente abile nel ritrarre i volti delle persone. Siete riuscita con pochi tratti di pennello descrivere la vostra radiosa bellezza”.
Poi entrò con passo deciso nella stanza, aiutando Angelica a togliersi il mantello che le lasciava visibile il solo viso.
Si sedette sulla poltrona di raso rosso come la giornata precedente, mentre la pittrice si apprestava a mescolare i colori che avrebbe usato tra un po’ e a scegliere i pennelli più adatti al quadro, sistemandosi dinnanzi a un grande specchio a pavimento.
Angelica si muoveva con leggerezza e naturalezza, come se nessuno fosse intento a osservarla. Aveva ripreso il controllo di sé e delle proprie emozioni mentre era raggiante per il corteggiamento discreto, ma evidente di Goethe.
I suoi 45 anni le pesavano psicologicamente, perché percepiva il timore che gli uomini non la degnassero più di sguardi maliziosi, preferendo donne più giovani di lei. Sentiva che la passione lentamente svaniva, perché sempre meno il desiderio si faceva strada dentro di lei.
Non mancavano i corteggiatori, spesso petulanti e insistenti, ma erano sempre più anziani, mentre lei preferiva i giovani, che diventavano sempre più rari.
Adesso aveva dinnanzi a sé un giovane uomo, famoso e amante delle belle donne, pronto a corteggiarla, a lusingare la sua vanità di femmina. Sentiva il desiderio che saliva verso il viso ed ebbe la certezza di essere ancora invitante nonostante l’età non più giovanile.
Si volse verso il poeta, che non staccava lo sguardo dal suo viso, cominciando a parlare con voce bassa ma piena di calore.
Voi siete molto paziente con me, visto che ieri sera sono stata fredda e distaccata. Oggi sarà un giorno diverso e, se il vostro invito a pranzare è ancora valido, sarà per me un vero piacere seguirvi nell’osteria da voi scelta”. Voleva trasmettere senza ombre di dubbio la sua disponibilità alle attenzioni del poeta.
Tacque e aspettò con ansia che Goethe dicesse qualcosa, mentre il cuore in tumulto batteva a mille per la passione. Le pareva essere tornata adolescente quando gli uomini la corteggiavano per la sua fresca bellezza, percependo sensazioni che credeva ormai spente.
Il poeta, senza dire nulla, s’alzò, la prese fra le braccia e, dopo avere tolto il pennello e la tavolozza dalle mani, la baciò con trasporto.
Angelica lasciò fare e rispose con analogo slancio, assaporando il lungo bacio, mentre il viso pallido acquistava colore sulle gote.
I due amanti erano in piedi nel centro della stanza mentre un silenzio carico di tensione aleggiava a mezz’aria. Erano una splendida coppia e sembravano fatti uno per l’altro.
Si staccarono e, guardandosi negli occhi, scoppiarono in un riso allegro e festoso, quasi irrefrenabile, perché nessuno dei due aveva pensato che sarebbe arrivato questo momento così presto.
Maestro, voi siete abile anche nell’arte amatoria e sapete come cogliere i fiori della bellezza” disse Angelica senza staccare lo sguardo da lui..
Goethe di rimando rispose immediatamente. “Voi siete una splendida rosa che matura sotto il sole di Roma! E’ piacevole cogliere fiori profumati in questo giardino rigoglioso e curato. Sarò un servo devoto per voi che mi terrete compagnia. Vi condurrò per mano in quella osteria a cui ho accennato ieri sera”.
La donna, che non aspettava altro che l’invito fosse rinnovato, replicò prontamente: “Siete galante e discreto come si conviene a un vero signore. Dunque non posso non accettare una lusinga così ben presentata. Sarà un vero piacere farvi compagnia per conversare amabilmente con voi, così virtuoso nell’eloquio. Quando vorrete, io sono pronta”.
Si pulì le mani in uno straccio, si sistemò il vestito, mentre osservava le reazioni di Goethe, che non si aspettava tanta arrendevolezza dopo il rifiuto della sera precedente. Lui c’era rimasto male, perché non credeva che si negasse al suo fascino ma adesso grande era stata la sorpresa, perché il giorno dopo mostrava nello sguardo e nelle parole che si era sbagliato. Quel viso pallido e quegli occhi scuri l’avevano colpito fino dal primo istante che aveva varcato la soglia dello studio tanto che aveva desiderato che diventasse la sua amante segreta.
Dopo aver riflettuto per un attimo, disse, sfoderando un dolce sorriso. “Voi siete la benvenuta al mio fianco e non aspettavo altro che il vostro consenso. Quindi mettiamo i mantelli e incamminiamoci verso il Tevere, mentre osserviamo lo splendido paesaggio di Roma illuminato dal sole”.
Richiusa la porta alle loro spalle, si incamminarono uno accanto all’altro verso l’osteria da Mario vicino al Tevere, parlando allegramente, tenendosi per mano.
Iniziò così la felicità sognata da entrambi.

Capitolo 2 – L'attesa

Il giorno seguente Goethe si alzò di buon’ora, perché voleva tornare là, all’atelier.
Era rimasto colpito dalla delicata bellezza di Angelica e dalla naturale modestia della più famosa pittrice di Roma.
Uscì dalla locanda, dove alloggiava, nei pressi di Castel Sant’Angelo e con passo svelto s’incamminò verso via Sistina, dove era lo studio.
Le vie erano già animate da molti carrettieri, che portavano le loro merci al mercato, e dovette fare attenzione per non finire sotto le ruote dei loro carri.
La giornata era bella, come poteva esserlo solo a Roma in quel periodo: un cielo terso con qualche nuvola sparsa in qua e in là, un tiepido sole autunnale, l’aria frizzante del mattino.
Si fermò lungo il tragitto ad ammirare qualche vestigia dell’antica Roma, fece qualche schizzo sul blocco che portava sempre con sé.
La camminata gli aveva messo appetito e allegria, perché tra non molto sarebbe tornato nello studio di Angelica. Sull’angolo della strada un venditore ambulante aveva aperto un piccolo banco di frutta fresca, dove sostò per comprare qualche mela rossa da mangiare prima di arrivare.
Ripensava all’incontro di ieri che aveva acceso dentro di lui la passione.
Lei, ” disse sottovoce “ lei … è una giovane donna attraente e famosa, che è desiderata da tanti uomini ed invisa a tante donne. Lei gradisce la mia compagnia? Lei…” continuava a parlare da solo mentre di tanto in tanto mordeva la mela che aveva in mano, “Lei ha accettato il mio invito perché io sono Goethe o perché le piaccio?”
Parlava ormai ad alta voce tanto che i rari passanti mattinieri guardavano quello straniero avvolto nell’ampio mantello e con il cappello chiaro a falde larghe in testa come se fosse un matto scappato dal manicomio.
Non capivano nulla di quello che diceva: «Sie ist eine junge Dame. Sie ist eine berühmte und bekannte Malerin ihrer Zeit….». Scuotevano la testa e commentavano in romanesco il comportamento di quello strano individuo che camminava ad ampie falcate e urlava parole incomprensibili.
Goethe continuava, come se quei passanti ignoranti fossero dei fantasmi, blaterando in tedesco sempre più ad alta voce. «Mein ist das geträumte Glück. Angelica, wo ist Sie? Warte mir, ich komme früh!»
Più parlava, più affrettava il passo, più attirava gli sguardi incuriositi della gente per strada. Era un crescendo del quale non si rendeva conto, immerso nel suo mondo di immaginazione e di desiderio.
 
Angelica, come al solito, indugiava nel letto, dove dormiva ormai da tempo sola, pigramente, complici i primi freddi autunnali che non la invogliavano ad uscire dal caldo tepore delle coperte, mentre ripensava all’incontro del giorno precedente alquanto strano col grande poeta.
Famosa e ricercata non c’era nobile o ricco o prelato, che non desiderasse essere ritratto da lei, come molte donne giovani o vecchie che venivano nel suo lussuoso atelier per essere dipinte sulla tela. Queste provavano una sincera e forte invidia verso di lei che pareva avere trovato l’elisir della eterna giovinezza, perché la sua bellezza non era appassita con l’età. Aveva innumerevoli corteggiatori tra i quali poteva scegliere a piacimento ma in questo periodo preferiva rimanere sola. Quando incontrò Goethe, lo vide come un bell’uomo giovane e famoso.
Le era piaciuto da subito senza un motivo preciso, perché vedeva qualcosa che le mancava nel matrimonio. Erano solo sensazioni non quantificabili che galleggiavano nella mente senza precisi riferimenti.
Era strano il suo atteggiamento mentale perché sentiva un’attrazione che non era né sessuale, né fisica: era un qualcosa di indecifrabile che neppure lei riusciva a concretizzare. Il fascino, uno stato indefinito e impalpabile, che aveva esercitato su di lei, l’aveva accompagnata durante la cena serale ed anche dopo senza lasciarle tregua. Era uno stillicidio di sensazioni che pungevano come mille spilli, facendo vagare in qua e in là la mente, estraniata dal corpo.
Durante notte aveva dormito in preda all’agitazione sognando lui, che le stava accanto nel letto. Più di una volta aveva allungato una mano sperando di trovare il suo corpo, ma si era svegliata stringendo solo il lenzuolo. La voglia, il desiderio era cresciuto di pari passo con la stanchezza della notte insonne rimpiangendo di avere rimandato al giorno dopo l’invito.
Perché sono stata così sciocca? Perché non ho accettato l’invito all’osteria? Perché ..” si domandava mentre sentiva il leggero fruscio delle lenzuola sulle braccia e sul viso, “Perché ho avuto paura di andare? E se oggi non venisse, cosa dovrei inventare per vederlo comparire? Se non venisse più, perché io l’ho respinto, come potrei richiamarlo vicino a me? Ha fascino, è discreto, è giovane e robusto”.
Angelica stava ripetendo ad alta voce questa sequela di perché, quando udì il bussare discreto alla porta “Entra pure Maria, sono sveglia” disse rigirandosi sotto le coperte. “Signora, la porta è chiusa a chiave” le rispose la governante.
La pittrice, uscita dal caldo abbraccio del cuscino, mentre rabbrividiva, apri la porta, lasciando entrare la donna con la colazione.
Maria, avvicinatosi al tavolino nel centro della stanza, posò il vassoio che teneva in mano, liberò le finestre dai pesanti tendaggi, favorendo un bel raggio di sole che inondò la stanza. Quel lampo di luce costrinse Angelica a chiudere gli occhi per un attimo, mentre rapida riguadagnava il caldo del letto. L’incanto della notte era strappato, mentre a malincuore doveva uscire dalle lenzuola per affrontare la nuova giornata.
La stanza era ampia con un grande letto a baldacchino al centro, un grande camino di fronte. In un angolo c’era un inginocchiatoio sotto il quadro della Vergine Maria con Gesù, dove tutte le sere prima di coricarsi recitava le preghiere.
Tra le due finestre stava un tavolo rettangolare rustico e semplice, dove faceva colazione alla mattina, mentre tra il letto e il camino c’era una comoda poltrona, da dove poteva ammirare il quadro che amava di più in assoluto il San Girolamo di Leonardo da Vinci. La stanza aveva al suo interno altri due vani: uno serviva come bagno e l’altro come guardaroba spogliatoio, ciascuno riscaldato da un camino.
Maria prese dalla stanza adiacente la pesante veste da camera ricamata di colore cremisi e l’aiutò ad infilarsela, le mise le pantofole di panno foderate con morbido pelo di agnello e sistemò una sedia accanto al tavolo apparecchiato con la colazione.
Accese il fuoco per riscaldare l’ambiente, liberò anche l’altra finestra dalla tenda e silenziosa in disparte aspettò che Angelica terminasse.
Non aveva fame, non provava gioia nel sorseggiare il latte caldo, né il pane dolce sembrava tale, insomma non c’era nessun piacere nel consumare il cibo, diversamente dalle altre mattine. La mente riandava di continuo alla giornata precedente, a quell’incontro tanto stimolante ed eccitante, al timore che non venisse nella giornata odierna nello studio, al pensiero che quell’invito non accettato prontamente non venisse ripetuto.
Maria, vista l’aria afflitta e lo sguardo appannato di Angelica, le chiese premurosa se avesse dormito male nella notte senza ricevere risposta. Cominciò a preparare la stanza da bagno accendendo il fuoco nel camino per riscaldare l’ambiente, a portare brocche di acqua calda e fumante per lavare la sua signora.
Era ormai quasi mezzogiorno, quando Angelica si avviò verso lo studio di Via Sistina, che distava pochi passi dalla sua bella casa posta un poco più in alto sul Pincio da dove si poteva osservare quasi tutta la città.
In quel istante lo vide avvolto nel suo mantello che camminava avanti e indietro davanti al portone che consentiva l’accesso all’atelier.
Ebbe un piccolo mancamento e stava per girarsi e tornare sui suoi passi, quando lui la vide.

Capitolo 1 – L'incontro


Era un pomeriggio piovoso il primo novembre, quando Goethe entrò nello studio di Angelica rimanendo folgorato dalla bellezza per niente appannata dai suoi 45 anni.
Angelica”, esordì. “Posso chiamarvi così?” e rimase in attesa di una risposta della donna, che ignorava di avere fronte a sé il famoso poeta.
Certamente. Ma chi siete? Io non vi conosco” rispose Angelica con un soffio di voce ammirando il giovane dal portamento elegante con quel ampio mantello bianco e il cappello dalla larga tesa in mano.
Immediatamente tra loro si stabilì un filo che li legò nei sensi e nel cuore. La famosa pittrice era malinconica e infelice, perché il suo matrimonio con Antonio Zucchi stava andando a rotoli per colpa di lui, incapace di donarle un qualche afflato d’amore.
Goethe dopo un attimo di esitazione, disse con voce calma e chiara: “Sono Johann Wolfgang Goethe, il poeta e scrittore che tutti ammirano. Conoscete le mie opere?”
Diventata rossa per l’emozione, stette in silenzio pensando a quale risposta dare. “Sì, le conosco e le ho lette. E’ per me un grande onore e privilegio parlare con voi. Ma, annunciando la vostra visita, mi avevano detto che eravate il pittore Philippe Moeller. Forse si sono sbagliati?”
No, l’informazione era giusta, perché ho attraversato l’Italia e sto girando per Roma in incognito, sotto falso nome” rispose lusingato dall’effetto delle sue parole sulla donna. Un silenzio carico di incertezze aleggiava nello studio come se loro fossero impacciati e timorosi nel parlare.
Dopo aver taciuto per qualche istante, che gli apparve lungo come un’ora, riprese il discorso interrotto poco prima. “Voi siete una donna bellissima, meravigliosa. La vostra bellezza offusca gli splendori che ho potuto ammirare fino a questo momento”. Avvicinatosi le baciò la mano sporca di colori.
Angelica ebbe un sussulto di sorpresa: non si aspettava un simile gesto, ma ben presto riprese il controllo del proprio corpo e chiese con soavità: “Cosa posso fare per voi?”
Goethe, senza rispondere, si sedette su una sedia di raso, usata per mettere in posa i committenti, continuando ad ammirare la bellezza della donna, che lo aveva colpito. Gli avevano preannunciato che aveva una grazia rara e affascinate ma la realtà stava superando l’immaginazione. “Non vorrei mancarvi di rispetto o distrarvi dalle vostre occupazioni ma chiedo di osservarvi in religioso silenzio, mentre dipingete il vostro autoritratto? Avete la leggiadria di una dea greca. I pennelli e i colori vi donano un’armonia che non ho mai ammirato in nessun’altra donna”.
Angelica annuì tornando a mescolare i colori sulla tavola, mentre Goethe riprese a parlare, rompendo il silenzio composto di respiri e sospiri.
Non vorrei turbare la vostra concentrazione ma mi piace guardarvi” disse appoggiano la testa sul braccio come per scrutarla con maggior intensità. “Avete degli impegni per stasera? Gradirei che la vostra presenza mi tenesse compagnia a cena”.
Angelica, che aveva ripreso a lavorare coi colori come se fosse sola nello studio, rimase muta senza guardare Goethe. Pareva che avesse perso l’uso della parola ma in realtà non sapeva cosa rispondere. Era combattuta tra il desiderio di trascorrere la serata col poeta e il rispetto dei doveri coniugali. Poi prese la decisione di rimandare a domani l’invito del poeta, sfruttando la notte per ponderare con calma la situazione.
“Sono lusingata della vostra generosa offerta, ma stasera ho un gravoso impegno che mi impedisce di tenervi compagnia. Però se la proposta vale ancora per domani, posso accompagnarmi con voi nell’ora del mezzogiorno”.
Goethe abbozzò, incassando quel rifiuto, e proseguì: “Allora domani di buona ora sarò qui da voi a rimirarvi mentre lavorate e a mezzogiorno offrirò il mio braccio per accompagnarvi in una certa osteria che conosco bene. Così potremmo parlare liberamente senza l’assillo che possa distrarre la vostra mente mentre dipingete”.
Il poeta trascorse il resto del pomeriggio, seduto sulla poltrona di raso rosso, mentre osservava Angelica che dipingeva il proprio viso. Trasse da una tasca interna un piccolo blocco di fogli e una matita che usò per fare qualche schizzo della pittrice e dello studio.
Notò come la pittrice fosse abile nel dare quelle pennellate leggere sulla tela, che pareva animarsi sotto i suoi tocchi, mentre miscelava colori e tratti con maestria e precisione.
Il silenzio era surreale, quasi palpabile con la mano, mentre la osservava al lavoro.
La corta giornata di Novembre stava riempiendo di ombre lo studio e le candele a stento rischiaravano l’ambiente con curiosi giochi di chiari e di scuri che guizzavano lievemente sui muri e sui loro visi.
Angelica, senza proferire parola, depose i pennelli e i colori, pulendosi le mani con uno straccio ormai logoro e sporco. Si preparò al rientro a casa prima che le tenebre calassero del tutto, inghiottendo persone e cose.
Goethe si riscosse dal torpore entusiastico che l’aveva contagiato per l’intero pomeriggio, alzandosi dalla poltrona, si avvolse con cura nel mantello bianco e si calcò in testa il curioso cappello chiaro dalle larghe falde.
Uscirono insieme senza dire nulla dallo studio. Arrivati sul portone, Goethe prese la mano di Angelica baciandola con passione. “Posso accompagnarvi per un tratto di strada?” disse guardandola negli occhi
No. Vi ringrazio per la cortesia ma preferisco camminare un po’ in solitudine coi miei pensieri. Vi auguro una serena serata e Vi aspetto domani” rispose la donna, incamminandosi per rincasare. Non doveva percorrere molta strada per arrivarci.
Buona notte, mia Signora” la salutò con un profondo inchino. “Domani non mancherò di farvi nuovamente visita”. Rimase fermo, guardandola mentre si allontanava inghiottita dalle tenebre incipienti.
Era deluso dall’atteggiamento della donna, che l’avevano descritta come gaudente e passionale, mentre con lui si era mostrata fredda e distaccata con un’aria di sufficiente superiorità. Indubbiamente aveva uno charme che lo aveva colpito, mentre era sicuro che il suo l’avrebbe impressionata maggiormente ma l’evidenza era che aveva sopravalutato il suo fascino, sbagliando i calcoli su questo punto.
Rifletté che forse aveva messo troppa irruenza nell’invito e nel corteggiamento, costringendola a rimanere sulla difensiva. Poi lentamente si avviò a cercare compagnia femminile per la serata non molto soddisfatto da come era terminata la giornata.
Angelica, mentre percorreva la strada per rincasare pensò che era un giovane interessante tanto da non provare nessun imbarazzo, quando si era seduto sulla poltrona a osservarla in silenzio. Anzi aveva provato piacere e sensazioni positive.
Mille fantasie e mille pensieri si agitavano nella mente, mentre entrava in casa dove l’aspettavano per cena.

Prologo – Malcesine 15 settembre 1786

La vena poetica si è inaridita, seccata come i torrenti d’estate. Le immagini sono diventate acquerelli sfocati dai colori impastati. La parole muoiono prima ancora di essere scritte. Percepisco l’urgenza di respirare aria nuova, di conoscere nuovi mondi, nuove persone, di allacciare nuove relazioni amorose per sentire dentro di me stimoli innovativi e creativi che si sono esauriti nell’atmosfera ovattata di Weimar, dove sono stato in una gabbia dorata tra gli obblighi di governo e di corte e la gelosia di Charlotte. Come l’usignolo imprigionato nella voliera desidera cantare libero e volare senza vincoli nel cielo così anch’io voglio riacquistare la mia libertà. Perciò sono partito sulle orme di mio padre, Johann, e sto ripercorrendo le medesime strade alla ricerca del tempo perduto come tutti i grandi viandanti che mi hanno preceduto“.
Erano i pensieri amari di Goethe, ponderati nel buio di una cella, appena rischiarata dagli ultimi raggi del sole di fine settembre. «Le guardie veneziane mi hanno sorpreso a disegnare il castello di Malcenise. Non sapevo che fosse vietato e mi hanno trattato come se fossi una spia, rinchiudendomi in questa cella umida e buia del carcere di Verona». In attesa di comparire dinnanzi al magistrato di giustizia il poeta meditava sulla sua decisione repentina e inaspettata di lasciare Weimar e la corte ducale qualche settimana prima, ai primi di settembre del 1786, senza un saluto di commiato o un avviso della partenza. Si era avviato sotto falso nome verso Roma, accompagnato solo dai suoi ricordi giovanili. Anche se era incerto su come sarebbe finita questa imprudenza, era sempre più convinto che quella fosse stata una scelta saggia. «Dovevo cambiare aria. Ormai ero ripiegato su me stesso senza avere la forza di cambiare il mio quotidiano».
Con la testa appoggiata sulle mani e seduto su un pagliericcio sporco e puzzolente, aveva ben presente i racconti del padre, che venticinque anni prima aveva intrapreso un lungo viaggio in Italia arrivando fino a Napoli. Li aveva ascoltati da bambino tante volte. Il diario, scritto in un italiano approssimativo, era stata una lettura giovanile, che conservava in maniera nitida nella mente. Aveva ben presente dove andare e cosa visitare. Una mappa precisa e dettagliata del percorso da intraprendere era chiara nella sua mente.
Sperava che questa peregrinazione gli permettesse di riprendere il filo del discorso poetico ormai ridotto nei minimi termini. Molte erano le opere rimaste incompiute o appena abbozzate, mentre languivano e si ricoprivano di polvere, perché potesse accettare questo stato di inedia ancora a lungo. Nei dieci anni trascorsi a Weimar aveva scritto ben poco, perché era stato assorbito da altri impegni e distratto dall’amore verso Charlotte.
Assorto e con lo sguardo, che osservava inscurire quello spicchio di cielo che la bocca di lupo permetteva di vedere, Goethe ripercorse una fetta della sua vita.
“Avevo 25 anni quando ho conosciuto la notorietà con l’opera “Die Leiden des jungen Werthers”. La fama è arrivata troppo presto e ha rischiato di travolgermi. Sono cresciuto in un ambiente dove l’arte e la cultura erano di casa, respirandole come aria inebriante per la mente. Ho amato il bello e la raffinatezza delle opere classiche, che hanno nutrito la mia anima. Però la mia attenzione era rivolta anche verso altre forme di bellezza, che hanno rubato la mia libertà. Ma l’essere libero da vincoli cogenti è da sempre una componente del mio essere. A questa non ho mai rinunciato”.
Rammentava che aveva mostrato fin da subito questi due lati del proprio carattere: la passione per le donne e l’insofferenza verso un qualsivoglia legame. Qualsiasi novità lo attraeva come la calamita col ferro ma sbollito il primo impulso, quando questa diventava routine o obblighi costrittivi, sentiva la necessità di recidere drasticamente questi lacci e tornare di nuovo libero.
“Ricordo con piacere la chiamata a Weimar come precettore e guida del duca Karl August, col quale ho condiviso il governo del piccolo stato sassone. L’iniziale entusiasmo di partecipare al consiglio segreto che dirigeva la città-stato è stata per me, appena trentenne, come toccare il cielo con un dito. Mi sentivo forte e potente. Credo di non sbagliare ma per questo motivo sono stato corteggiato da molte donne. Loro sono state sempre al centro dei miei pensieri, ovunque mi trovassi. Però l’incontro con Charlotte è stato travolgente sotto ogni punto di vista. Lei si era impegnata a trasformarmi da un giovane insofferente alle regole in un perfetto cortigiano rispettoso degli obblighi di corte. Ben presto il nostro rapporto si è tramutato in sodalizio amoroso. Questa relazione mi ha lasciato un segno profondo, una traccia che è rimasta indelebile nel mio animo”.
Governare uno stato non era per lui il massimo delle aspirazioni, tanto che presto cominciò a dare segni di insofferenza. Si sentiva come un animale in gabbia, perché non amava avere vincoli sia nella vita quotidiana sia nell’amore, e la cura dello stato e la passione per Charlotte rappresentavano proprio quei legami che doveva recidere senza tentennamenti per non cadere nell’inedia e nell’apatia.
Nel settembre 1786, avviandosi in segreto da Karlsbad sotto falso nome, decise di intraprendere il viaggio in Italia per completare il suo bagaglio intellettuale e per toccare con mano la cultura classica, come aveva fatto il padre molti anni prima e tanti altri artisti prima di lui.
Era stato proprio quel ricordo a risvegliare in lui il desiderio di ripercorrere le stesse strade e rifare la medesima esperienza paterna. Però la vera molla fu la voglia di interrompere il sodalizio amoroso con Charlotte von Stein, che ormai lo stava opprimendo, togliendogli il respiro. Lei era la dama di compagnia della duchessa Anna Amalia di Saxe-Weimar, tramite la quale lo aveva conosciuto. La donna si sentiva molto infelice e soprattutto sola prima dell’incontro col poeta, perché il marito era spesso lontano da Weimar al seguito del duca o in lunghe missione all’estero per conto dello stesso. Una passione travolgente li accomunò fino al momento della partenza per l’Italia che mise fine alla loro relazione turbolenta e appassionata.
Condotto qualche giorno dopo dinnanzi ala magistrato si difese con ardore dall’accusa di spionaggio, cercvando di fare leva sulla fama del suo nome.
“Sono Joahnn Wolfang von Goethe” esordì nel suo italiano stentato. “Sono un poeta e uno scrittore che ama viaggiare alla ricerca del bello. Mi piace associare i disegni delle località visitate ai resoconti dei miei viaggi. Sto ripercorrendo le strade battute da mio padre, che mi ha sempre decantato la loro bellezza. Non era mia intenzione infrangere una legge di questa repubblica ..”.
Il magistrato lo ascoltava in silenzio e prendeva nota di quel effluvio di parole, che con tanta foga cercavano di spiegare e di illustrare chi era. Ogni tanto lo interrompeva per porgergli qualche domanda.
“Messer Goethe credo che voi abbiate agito in buona fede senza intenzioni dolose nel dipingere il castello di Malcesine” disse al termine dell’udienza. “Pertanto vi lascio libero di uscire dal carcere con l’impegno di uscire entro due giorni dai confini della repubblica veneta. Qualora non rispettiate questa sentenza, sarete condannato a trascorre molti anni nelle nostre galere”. Con queste parole chiuse il processo, aprendo le porte del carcere al poeta.
Dopo l’esperienza del carcere veronese, che nonostante tutto segnò in maniera positiva il suo umore, affrontò una lunga peregrinazione che sarebbe durata quasi tre anni. Goethe percorse la penisola da nord verso sud, toccando molte città lungo il cammino prima di giungere a fine ottobre a Roma.
Sono Philippe Moeller, commerciante e pittore in cerca del bello e del classico” si presentò così non appena era giunto alle porte daziarie di Roma. E in effetti sul biglietto da visita era proprio scritta questa frase.
Sistematosi in una locanda vicino a Castel Sant’Angelo, diede libero sfogo subito alla sua natura, partecipando alle feste popolari e frequentando osterie e donne di strada, comportandosi come un autentico popolano romano, intrecciando un rapporto amoroso con una serva dell’osteria dove abitualmente trascorreva le serate.
Quando ho scritto ‘Rõmische Elegien’, ho riletto la mia esperienza romana con gli occhi dei ricordi delle visite, delle feste e degli amori effimeri” diceva a chi gli chiedeva il senso di quelle liriche, piene di esuberante sessualità, che scandalizzarono il mondo chiuso e bigotto dell’epoca alla loro pubblicazione.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma iniziò a frequentare lo studio di Angelica, stringendo subito un solido rapporto di amicizia o forse qualcosa di più.
Lui era alto, di bell’aspetto e molto giovanile, lei era minuta e bassa di statura, ma proporzionata nella corporatura, dagli occhi mobili e vivi che le permettevano di parlare in modo eloquente attraverso lo sguardo.
L’atelier di Angelica era ormai diventato, per tutti i viaggiatori in transito nella città eterna, il punto di passaggio obbligato e di osservazione privilegiato per conoscere le ultime novità del mondo e non solo quelle.
Anche Goethe, come molti altri artisti e viaggiatori tedeschi, non seppe resistere al fascino e al richiamo misterioso, che quel posto esercitava. Voleva conoscere questa donna la cui fama si estendeva in tutta Europa sia per la bellezza sia per la bravura artistica.

Prologo – Roma 2 novembre 1807

 

“Ho sacrificato il mio essere donna all’arte, così nessun uomo ha mai capito che io avevo desiderio di donare il mio corpo a loro. Io volevo essere amata perché sono donna e non perché posso produrre ricchezze, ma nessuno ha mai osato afferrare il dono che facevo loro“.
Era l’amaro sfogo di Angelica, rimasta sola e preda del male sottile che lentamente la stava divorando giorno dopo giorno, poiché nessuno era stato capace di donarle amore e renderla felice.
Ormai incapace di tenere in mano un pennello e preda di crisi depressive sempre più acute stava in un angolo della stanza a guardare fuori i colori intensi dell’autunno con lo sguardo vacuo, perso nel vuoto. Percepiva che la fine si stava avvicinando a grandi passi senza che trovasse il conforto in qualcuno, che le stesse vicino e la sostenesse. In un lampo di lucidità, sempre più raro nel buio che la stava sovrastando, ricordò chi era prima che la malattia degenerasse.
“Sono stata una ..” e ripiombò nell’oscurità della mente mentre le pareva di veleggiare su terre sconosciute fra persone che non parlavano la sua lingua. Volti senza corpi, corpi senza volti.
Avvolta in un ampio scialle di lana riccamente lavorata continuava a fissare inutilmente il giardino spoglio mentre le foglie lentamente cadevano per terra come una danza macabra. Il pomeriggio romano era inondato da un pallido sole che illuminava parzialmente il vetro, attraverso il quale Angelica osservava il mondo esterno. La vista cadde sul pino piantato al centro dello spiazzo antistante la casa sul Pincio.
Un lampo, un ricordo, un flashback accese la sua mente e cominciarono a scorrere delle immagini lontane.
«Chi sono?» si chiese tremante mentre si stringeva lo scialle sul petto come per proteggersi da un nemico misterioso e pericoloso.
“Sono Angelica Kauffmann, una pittrice famosa, anzi la più famosa del mio tempo. Sono conosciuta in tutta Europa ed ero ricercata da nobili e mercanti danarosi che passavano dal mio atelier romano con la speranza di portare a casa un ritratto dipinto da me”. Era l’amaro sfogo nella solitudine della casa romana, un tempo cenacolo di artisti e viaggiatori di passaggio, adesso silenziosa dimora disertata da tutti.
Di nuovo il buio calò sulla sua mente e si spense quel piccolo barlume, che l’aveva ravvivata, simile a una candela dalla luminosità incerta.
I suoi pensieri vagavano tra il vuoto della malattia e la regressione nel tempo. Altri flash, altri sprazzi di luce mentre tornava bambina. Si vedeva una ragazza di dieci anni, mentre seguiva il padre, partito dal Voralberg austriaco per approdare a Coira in Svizzera, dove era nata. Lo vedeva intento a raffigurare immagini sacre in piccole chiese tra le valli alpine e la pianura padana.
La bella voce allietava quel vagabondare incerto e frettoloso. Qualcuno voleva che lei si dedicasse al canto ma i colori, i volti, che prendeva forma come per magia sulle pareti nude, la fecero scegliere un’altra strada. Ben presto si scoprì una cittadina del mondo, perché la fama non era dovuta solamente a suoi meriti artistici ma era il risultato della sua personalità forte e decisa.
Come nella sua infanzia si alternavano montagne impervie e innevate a valli dolci e verdeggianti, così in questa stanza, che era inondata dalla luce crepuscolare della sera incipiente, si ritrovava tra ricordi lontani e vuoti presenti.
Si era sposata con un artista mediocre e avanti nell’età. Il loro matrimonio non era stato esaltante sotto il profilo amoroso, ma era stata semplice convenienza economica dopo l’infelice e sfortunata della prima unione.
“Nessun rimpianto. Né il primo né il secondo hanno saputo donarmi affetto. Carlo, molto più vecchio di me, non mi ha dedicato molte attenzioni. Ho sofferto, perché la mia femminilità aspirava a ricevere amore e passione ma non sono state appagate per nulla tra le mura domestiche”.
Un sospiro, un amaro ricordo.
“Per dimenticare la mancanza di sentimenti, mi sono dedicata senza tentennamenti alla pittura, che è stata ricompensata con molti zecchini d’oro. Ero ricca, perché Carlo ha amministrato con molta oculatezza il mio patrimonio, ma povera di emozioni, perché nessuno ha saputo cogliere i fiori del mio cuore”.
Possedeva una bellezza rara e delicata che attirava naturalmente gli uomini. Abituata a essere corteggiata da tutti, ricambiò pochi con uguale passione e riservatezza. Era sempre combattuta tra accettare la corte assidua e insistente dei molti ammiratori o rimanere fedele ma infelice al marito sposato nel 1781 a Londra. Il gran numero di uomini che frequentavano lo studio alimentò le dicerie che fosse una grande consumatrice di sesso, una mantide, suscitando le gelosie delle altre donne.
Torno a guardare fuori dalla finestra, osservando il pino che le ricordava una persona speciale, che aveva amato con passione e le aveva donato delle giornate meravigliose.
«Avevo 45 anni ed ero profondamente depressa, quando ho incontrato Goethe ma ero ancora meravigliosamente bella. Gli anni non avevano intaccato lo splendore del mio corpo».
 

Avviso a tutti quanti presenti e assenti

Non sono sparito. Semplicemente  WP mi ha messo a piedi, impedendomi di collegarmi al mio account e rispondere ai vostri commenti e commentare i vostri post. Poi oggi il diavolo ci ha messo le corna e solo a ora tardi ho potuto scrivere questo comunicato.
Mi impegnerò a passare tutti i blog degli ultimi due giorni e rispondere alle vostre osservazioni.
A domani!

Capitolo 62

Era venuto il tempo per dedicarsi alle due figlie, che erano cresciute in bellezza e in età. La maggiore aveva ormai diciassette anni, la minore quindici. Diverse come costituzione e temperamento avevano vissuto lontano da Giacomo. I due padri naturali erano spariti da tempo e non frequentavano più il palazzo. Lui, come padre di nome, doveva occuparsene e provvedere alla loro sistemazione.
“Mi ripugna costringerle a sposare persone che non amano. Alla fine finiscono come Costanza” rifletteva dopo il rientro nel settembre del 1526 nel suo palazzo. “Hanno ricevuto una buona educazione. Sono rispettose e cortesi. Dovrei trovare un buon partito che le possa rendere abbastanza felici. Un’impresa non facile da realizzare”.
Era una notte del novembre dello stesso anno, quando ne parlò per la prima volta con Isabella durante una delle rare visite nel suo letto da parte della moglie.
“Madonna” esordì mentre rifiatavano dopo qualche abbraccio passionale. “Madonna, le nostre figlie sono ormai grandi e pronte ad andare spose a qualche buon pretendente come è consuetudine in questa epoca ..”.
“Che volete dire, Messere” rispose irrigidendosi nell’ascoltare quelle parole.
“Nulla, Madonna. Semplicemente mi preoccupavo del loro futuro prima che qualche servo le deflorino o le mettano incinte”.
La donna si staccò da lui cercando nel buio di osservarne il viso. Rifletteva che in otto anni, da quella volta che le aveva rinfacciato la paternità delle ragazze, non aveva mai parlato di loro o si era preoccupato del loro stato.
“Come mai stanotte vi vengono questi pensieri?” chiese tra lo stupito e l’agitato.
“Così. Mi sembrava giusto parlarne con voi che ne siete la madre. Volete forse che finiscano male o tra le braccia di qualche pretendente poco attento alla loro felicità?”.
In questo periodo Giacomo faceva valere la sua personalità nei rapporti con Isabella, perché aveva la sensazione di dare troppo e di non ricevere molto in cambio. La percepiva lontana e distaccata come se volesse essere lasciata in pace. E forse questa sensazione corrispondeva al vero, perché negli ultimi due anni era diventate più casuale che ordinario il loro vivere insieme.
Isabella, sentendolo, comprendeva che la situazione si era capovolta: gli dava troppo poco tanto che ultimamente si era risentito più del dovuto. «Onde riuscire ad intrattenere una relazione positiva, soprattutto se comporta anche un lato sessuale, è necessario instaurare un fragile equilibrio tra le necessità ed i desideri di ognuno di noi e trovare un senso più profondo al nostro rapporto. Il parlare delle nostre figlie, che in realtà sono solo mie, rientra in questa logica. Giacomo si dimostra sensibile a attento, anche se so che non mi è molto fedele».
Questo equilibrio al momento era fragile ed instabile e a lei non conveniva romperlo bruscamente.
“Messere, avete ragione. Beatrice e Anna meritano maggiori attenzioni di quanto ne abbiamo dedicato finora. Ma ditemi come intendete procedere” chiese Isabella, stringendosi a lui.
“E’ questo il punto. Non so come procedere. Ho la sensazione di commettere degli errori” rispose ricambiando l’abbraccio e facendo scivolare le mani su quel corpo ancora piacente.
“E se ne riparliamo più tardi con maggior calma. Cosa ne dite” replicò la donna inarcando la schiena.
“Avete ragione, Madonna” disse l’uomo prendendola.
La passione fece dimenticare loro tutti i buoni propositi e l’argomento finì tra quelli che erano chiamati ricordi.
Delle tre dame che aveva frequentato con una certa assiduità in quegli anni, l’unica che gradiva le sue attenzioni nel 1526 era la sola Costanza, vedova e risoluta a non rimaritarsi con molta facilitò. Giulia aveva trovato un nuovo amante giovane e focoso, che si dedicava con cura alla sua persona senza farla sentire troppo vecchia coi suoi trentacinque anni. Eleonora era poco in città, perché aveva seguito il marito come ambasciatore a Venezia, dimenticando ben presto Giacomo e le sue cortesie. Nella città lagunare aveva incrociato un giovane moro che l’aveva stregata.
Dunque Giacomo aveva ripiegato sulla ancor giovane Costanza, che viveva sola nel grande palazzo di fianco al canale Naviglio.
“Messer Giacomo” gli disse una mattina dopo una notte di passione. “Messer Giacomo, non mi risposerò con altri se non con voi. Provo affetto e riconoscenza per voi, perché sapete donarmi istanti di dolce amore senza pretendere molto in cambio”.
C’era sintonia tra loro attraverso una spiritualità raffinata, l’assenza di egoismo e la stretta unione spirituale fra due persone che si rispettano. L’effetto era di far fantasticare la donna, aspetto di per sé piacevole e innocuo, finché si era mantenuto nei limiti della realtà. Però con la sua uscita aveva travalicato i confini, sconfinando in un mondo del tutto inesplorato.
“Cosa intendete dire, Madonna?” chiese Giacomo un po’ allarmato.
“Nulla di più di quello che avete inteso. Vi amo, anche se non sono sicura di essere riamata da voi. Ma non m’importa questo punto. Sto bene con voi e vi aspetterò con ansia per riabbracciarvi, ogni qualvolta voi vi presenterete alla mia porta”.
“Ma voi invecchierete nell’attesa” disse l’uomo guardandola nel viso.
“Sento che vi appartengo. E vi sarò fedele” tagliò corto Costanza, mentre con le mani frugava il corpo di Giacomo.
“Siete impertinente ma adorabile, Madonna Costanza” replicò l’uomo rispondendo alle sollecitazioni della donna.
Sempre più spesso passò le giornate con lei senza riprendere l’argomento della dichiarazione d’amore. Lei lo accettava come era senza pretendere nulla di più. Le era sufficiente essere posseduta e ricambiare con ardore giovanile la passione che le ardeva dentro
Una mattina di dicembre dello stesso anno Giacomo si risvegliò nel letto di Costanza in preda alla febbre.
“Madonna, non mi sento bene. Il corpo brucia ma provo freddo. Vorrei tornare nel mio palazzo” le disse mentre brividi gli squassavano il corpo.
“Messere, che avete?” rispose allarmata la donna. “Avete l’occhio lucido e il viso caldo bollente. Chiamo la carrozza per farvi condurre alla vostra dimora. Fattemi sapere qualcosa. Sono in ansia per voi”.
Arrivato al palazzo, Giacomo si mise a letto nelle sue stanze.
“Ghitta” disse alla serva. “Chiamate Madonna Isabella. La voglio accanto a me”.
La serva lo guardò sbigottita. Non l’aveva mai visto così bianco cadaverico, mentre tremava come foglia al vento sotto le coperte.
“Messere, come state” gli disse Isabella, accorsa preoccupata al suo capezzale.
“Brucio tra le fiamme dell’inferno, Madonna”.
“Non scherzate troppo. Non posso vedervi ridotto in questo stato. La vostra fronte arde come la legna nel camino. Chiamo Antonio, il nostro medico”.
Tra alti e bassi la salute di Giacomo peggiorò giorno dopo giorno, mentre la notizia della sua infermità arrivava fino al Castello. Alla porta del palazzo, nonostante il tempo inclemente, era una processione di servi, che venivano a informarsi sulle condizioni del malato. Il duca mandò il medico personale per un consulto ed era profondamente addolorato per la malattia che aveva colpito il suo ingegnere.
Giulia chiese a Isabella di vedere Giacomo. Eleonora mandò un biglietto augurale. Costanza rimase nell’ombra a struggersi con le pene d’amore.
Isabella era costantemente al fianco di Giacomo, avendo riscoperto quanto fosse importante per lei quell’uomo.
Il 17 gennaio del 1527 Giacomo spirò dolcemente fra le braccia della moglie, pianto dalle figlie, dalla fedele serva e dalle amanti storiche.
 
“Signore, signore”. Giacomo udì come in lontananza una voce che lo chiamava. “Signore, si è addormentato ma la biblioteca chiude”.
Si guardò intorno. Era in un angolo defilato e nascosto della sala di lettura. Fuori c’era buio e sentiva le braccia pesanti e intorpidite.
“Oh” fu l’unica parola che uscì dalle labbra, mentre lentamente si alzava. Aveva la testa greve e poco lucida, mentre infilava il cappotto per uscire.
Era rimasto tutta la giornata nella biblioteca a dormire, mentre aveva vissuto nove anni in un altra epoca molto remota. L’ultimo bagliore di quel mondo era stato il suo funerale.
“Mai vista una partecipazione femminile così numerosa” disse sorridendo dentro di sé.
Quattro gironi dopo la sua morte in una giornata rigida e serena il suo corpo era stato trasferito nella chiesetta di San Lazzaro, che stava all’inizio del viale d’ingresso. Come era costume su un lato dell’unica navata stavano le donne, sull’altro gli uomini. Mentre i banchi occupati dalle persone di sesso femminile erano insufficienti a contenerle tutte, sull’altro c’erano molti vuoti. Il paggio in rappresentanza del duca, il fratello, qualche fattore, Bizzo, il fedele cocchiere e i servi e pochi altri.
Sul primo banco stava Isabella con le due figlie, che piangevano come fontane. Di fianco a loro Costanza e Giulia con gli occhi rossi di lacrime e di dolore. Dietro una moltitudine di donne, tra le quali spiccava Ghitta, che appariva come un’inconsolabile vedova.
L’arciprete officiò la messa funebre con grande commozione della popolazione femminile e la cauta indifferenza di quello maschile.
Cominciò l’orazione funebre con queste parole.
«Messer Giacomo, uomo di rare virtù e marito esemplare, fedele sposo di Madonna Isabella ..»
Nell’udire quelle parole Giacomo scoppiò in una grande risata, mentre osservava i visi delle donne che lo avevano accompagnato in quei lunghi anni alla ricerca di un minimo indizio di dissenso da quelle incaute affermazioni. Nessuna accennò al benché microscopico movimento del viso mentre continuavano a piangere silenziosamente e in maniera composta e signorile. Nessuna trovò da ridire su quelle parole che suonavano false alle orecchie di Giacomo.
Al termine della cerimonia, prima che la bara venisse sigillata e calata nella cripta della chiesa, Isabella, Giulia e Costanza deposero una rosa rossa con un minuscolo messaggio attaccato per dimostrare la loro devozione. Poi si abbracciarono calorosamente e restarono così finché la pesante lastra di marmo non sigillò la tomba.
L’unica assente era Eleonora, impegnata col suo moro, a dimenticare le attenzioni di Giacomo.