Prologo – Malcesine 15 settembre 1786

La vena poetica si è inaridita, seccata come i torrenti d’estate. Le immagini sono diventate acquerelli sfocati dai colori impastati. La parole muoiono prima ancora di essere scritte. Percepisco l’urgenza di respirare aria nuova, di conoscere nuovi mondi, nuove persone, di allacciare nuove relazioni amorose per sentire dentro di me stimoli innovativi e creativi che si sono esauriti nell’atmosfera ovattata di Weimar, dove sono stato in una gabbia dorata tra gli obblighi di governo e di corte e la gelosia di Charlotte. Come l’usignolo imprigionato nella voliera desidera cantare libero e volare senza vincoli nel cielo così anch’io voglio riacquistare la mia libertà. Perciò sono partito sulle orme di mio padre, Johann, e sto ripercorrendo le medesime strade alla ricerca del tempo perduto come tutti i grandi viandanti che mi hanno preceduto“.
Erano i pensieri amari di Goethe, ponderati nel buio di una cella, appena rischiarata dagli ultimi raggi del sole di fine settembre. «Le guardie veneziane mi hanno sorpreso a disegnare il castello di Malcenise. Non sapevo che fosse vietato e mi hanno trattato come se fossi una spia, rinchiudendomi in questa cella umida e buia del carcere di Verona». In attesa di comparire dinnanzi al magistrato di giustizia il poeta meditava sulla sua decisione repentina e inaspettata di lasciare Weimar e la corte ducale qualche settimana prima, ai primi di settembre del 1786, senza un saluto di commiato o un avviso della partenza. Si era avviato sotto falso nome verso Roma, accompagnato solo dai suoi ricordi giovanili. Anche se era incerto su come sarebbe finita questa imprudenza, era sempre più convinto che quella fosse stata una scelta saggia. «Dovevo cambiare aria. Ormai ero ripiegato su me stesso senza avere la forza di cambiare il mio quotidiano».
Con la testa appoggiata sulle mani e seduto su un pagliericcio sporco e puzzolente, aveva ben presente i racconti del padre, che venticinque anni prima aveva intrapreso un lungo viaggio in Italia arrivando fino a Napoli. Li aveva ascoltati da bambino tante volte. Il diario, scritto in un italiano approssimativo, era stata una lettura giovanile, che conservava in maniera nitida nella mente. Aveva ben presente dove andare e cosa visitare. Una mappa precisa e dettagliata del percorso da intraprendere era chiara nella sua mente.
Sperava che questa peregrinazione gli permettesse di riprendere il filo del discorso poetico ormai ridotto nei minimi termini. Molte erano le opere rimaste incompiute o appena abbozzate, mentre languivano e si ricoprivano di polvere, perché potesse accettare questo stato di inedia ancora a lungo. Nei dieci anni trascorsi a Weimar aveva scritto ben poco, perché era stato assorbito da altri impegni e distratto dall’amore verso Charlotte.
Assorto e con lo sguardo, che osservava inscurire quello spicchio di cielo che la bocca di lupo permetteva di vedere, Goethe ripercorse una fetta della sua vita.
“Avevo 25 anni quando ho conosciuto la notorietà con l’opera “Die Leiden des jungen Werthers”. La fama è arrivata troppo presto e ha rischiato di travolgermi. Sono cresciuto in un ambiente dove l’arte e la cultura erano di casa, respirandole come aria inebriante per la mente. Ho amato il bello e la raffinatezza delle opere classiche, che hanno nutrito la mia anima. Però la mia attenzione era rivolta anche verso altre forme di bellezza, che hanno rubato la mia libertà. Ma l’essere libero da vincoli cogenti è da sempre una componente del mio essere. A questa non ho mai rinunciato”.
Rammentava che aveva mostrato fin da subito questi due lati del proprio carattere: la passione per le donne e l’insofferenza verso un qualsivoglia legame. Qualsiasi novità lo attraeva come la calamita col ferro ma sbollito il primo impulso, quando questa diventava routine o obblighi costrittivi, sentiva la necessità di recidere drasticamente questi lacci e tornare di nuovo libero.
“Ricordo con piacere la chiamata a Weimar come precettore e guida del duca Karl August, col quale ho condiviso il governo del piccolo stato sassone. L’iniziale entusiasmo di partecipare al consiglio segreto che dirigeva la città-stato è stata per me, appena trentenne, come toccare il cielo con un dito. Mi sentivo forte e potente. Credo di non sbagliare ma per questo motivo sono stato corteggiato da molte donne. Loro sono state sempre al centro dei miei pensieri, ovunque mi trovassi. Però l’incontro con Charlotte è stato travolgente sotto ogni punto di vista. Lei si era impegnata a trasformarmi da un giovane insofferente alle regole in un perfetto cortigiano rispettoso degli obblighi di corte. Ben presto il nostro rapporto si è tramutato in sodalizio amoroso. Questa relazione mi ha lasciato un segno profondo, una traccia che è rimasta indelebile nel mio animo”.
Governare uno stato non era per lui il massimo delle aspirazioni, tanto che presto cominciò a dare segni di insofferenza. Si sentiva come un animale in gabbia, perché non amava avere vincoli sia nella vita quotidiana sia nell’amore, e la cura dello stato e la passione per Charlotte rappresentavano proprio quei legami che doveva recidere senza tentennamenti per non cadere nell’inedia e nell’apatia.
Nel settembre 1786, avviandosi in segreto da Karlsbad sotto falso nome, decise di intraprendere il viaggio in Italia per completare il suo bagaglio intellettuale e per toccare con mano la cultura classica, come aveva fatto il padre molti anni prima e tanti altri artisti prima di lui.
Era stato proprio quel ricordo a risvegliare in lui il desiderio di ripercorrere le stesse strade e rifare la medesima esperienza paterna. Però la vera molla fu la voglia di interrompere il sodalizio amoroso con Charlotte von Stein, che ormai lo stava opprimendo, togliendogli il respiro. Lei era la dama di compagnia della duchessa Anna Amalia di Saxe-Weimar, tramite la quale lo aveva conosciuto. La donna si sentiva molto infelice e soprattutto sola prima dell’incontro col poeta, perché il marito era spesso lontano da Weimar al seguito del duca o in lunghe missione all’estero per conto dello stesso. Una passione travolgente li accomunò fino al momento della partenza per l’Italia che mise fine alla loro relazione turbolenta e appassionata.
Condotto qualche giorno dopo dinnanzi ala magistrato si difese con ardore dall’accusa di spionaggio, cercvando di fare leva sulla fama del suo nome.
“Sono Joahnn Wolfang von Goethe” esordì nel suo italiano stentato. “Sono un poeta e uno scrittore che ama viaggiare alla ricerca del bello. Mi piace associare i disegni delle località visitate ai resoconti dei miei viaggi. Sto ripercorrendo le strade battute da mio padre, che mi ha sempre decantato la loro bellezza. Non era mia intenzione infrangere una legge di questa repubblica ..”.
Il magistrato lo ascoltava in silenzio e prendeva nota di quel effluvio di parole, che con tanta foga cercavano di spiegare e di illustrare chi era. Ogni tanto lo interrompeva per porgergli qualche domanda.
“Messer Goethe credo che voi abbiate agito in buona fede senza intenzioni dolose nel dipingere il castello di Malcesine” disse al termine dell’udienza. “Pertanto vi lascio libero di uscire dal carcere con l’impegno di uscire entro due giorni dai confini della repubblica veneta. Qualora non rispettiate questa sentenza, sarete condannato a trascorre molti anni nelle nostre galere”. Con queste parole chiuse il processo, aprendo le porte del carcere al poeta.
Dopo l’esperienza del carcere veronese, che nonostante tutto segnò in maniera positiva il suo umore, affrontò una lunga peregrinazione che sarebbe durata quasi tre anni. Goethe percorse la penisola da nord verso sud, toccando molte città lungo il cammino prima di giungere a fine ottobre a Roma.
Sono Philippe Moeller, commerciante e pittore in cerca del bello e del classico” si presentò così non appena era giunto alle porte daziarie di Roma. E in effetti sul biglietto da visita era proprio scritta questa frase.
Sistematosi in una locanda vicino a Castel Sant’Angelo, diede libero sfogo subito alla sua natura, partecipando alle feste popolari e frequentando osterie e donne di strada, comportandosi come un autentico popolano romano, intrecciando un rapporto amoroso con una serva dell’osteria dove abitualmente trascorreva le serate.
Quando ho scritto ‘Rõmische Elegien’, ho riletto la mia esperienza romana con gli occhi dei ricordi delle visite, delle feste e degli amori effimeri” diceva a chi gli chiedeva il senso di quelle liriche, piene di esuberante sessualità, che scandalizzarono il mondo chiuso e bigotto dell’epoca alla loro pubblicazione.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma iniziò a frequentare lo studio di Angelica, stringendo subito un solido rapporto di amicizia o forse qualcosa di più.
Lui era alto, di bell’aspetto e molto giovanile, lei era minuta e bassa di statura, ma proporzionata nella corporatura, dagli occhi mobili e vivi che le permettevano di parlare in modo eloquente attraverso lo sguardo.
L’atelier di Angelica era ormai diventato, per tutti i viaggiatori in transito nella città eterna, il punto di passaggio obbligato e di osservazione privilegiato per conoscere le ultime novità del mondo e non solo quelle.
Anche Goethe, come molti altri artisti e viaggiatori tedeschi, non seppe resistere al fascino e al richiamo misterioso, che quel posto esercitava. Voleva conoscere questa donna la cui fama si estendeva in tutta Europa sia per la bellezza sia per la bravura artistica.

Prologo – Roma 2 novembre 1807

 

“Ho sacrificato il mio essere donna all’arte, così nessun uomo ha mai capito che io avevo desiderio di donare il mio corpo a loro. Io volevo essere amata perché sono donna e non perché posso produrre ricchezze, ma nessuno ha mai osato afferrare il dono che facevo loro“.
Era l’amaro sfogo di Angelica, rimasta sola e preda del male sottile che lentamente la stava divorando giorno dopo giorno, poiché nessuno era stato capace di donarle amore e renderla felice.
Ormai incapace di tenere in mano un pennello e preda di crisi depressive sempre più acute stava in un angolo della stanza a guardare fuori i colori intensi dell’autunno con lo sguardo vacuo, perso nel vuoto. Percepiva che la fine si stava avvicinando a grandi passi senza che trovasse il conforto in qualcuno, che le stesse vicino e la sostenesse. In un lampo di lucidità, sempre più raro nel buio che la stava sovrastando, ricordò chi era prima che la malattia degenerasse.
“Sono stata una ..” e ripiombò nell’oscurità della mente mentre le pareva di veleggiare su terre sconosciute fra persone che non parlavano la sua lingua. Volti senza corpi, corpi senza volti.
Avvolta in un ampio scialle di lana riccamente lavorata continuava a fissare inutilmente il giardino spoglio mentre le foglie lentamente cadevano per terra come una danza macabra. Il pomeriggio romano era inondato da un pallido sole che illuminava parzialmente il vetro, attraverso il quale Angelica osservava il mondo esterno. La vista cadde sul pino piantato al centro dello spiazzo antistante la casa sul Pincio.
Un lampo, un ricordo, un flashback accese la sua mente e cominciarono a scorrere delle immagini lontane.
«Chi sono?» si chiese tremante mentre si stringeva lo scialle sul petto come per proteggersi da un nemico misterioso e pericoloso.
“Sono Angelica Kauffmann, una pittrice famosa, anzi la più famosa del mio tempo. Sono conosciuta in tutta Europa ed ero ricercata da nobili e mercanti danarosi che passavano dal mio atelier romano con la speranza di portare a casa un ritratto dipinto da me”. Era l’amaro sfogo nella solitudine della casa romana, un tempo cenacolo di artisti e viaggiatori di passaggio, adesso silenziosa dimora disertata da tutti.
Di nuovo il buio calò sulla sua mente e si spense quel piccolo barlume, che l’aveva ravvivata, simile a una candela dalla luminosità incerta.
I suoi pensieri vagavano tra il vuoto della malattia e la regressione nel tempo. Altri flash, altri sprazzi di luce mentre tornava bambina. Si vedeva una ragazza di dieci anni, mentre seguiva il padre, partito dal Voralberg austriaco per approdare a Coira in Svizzera, dove era nata. Lo vedeva intento a raffigurare immagini sacre in piccole chiese tra le valli alpine e la pianura padana.
La bella voce allietava quel vagabondare incerto e frettoloso. Qualcuno voleva che lei si dedicasse al canto ma i colori, i volti, che prendeva forma come per magia sulle pareti nude, la fecero scegliere un’altra strada. Ben presto si scoprì una cittadina del mondo, perché la fama non era dovuta solamente a suoi meriti artistici ma era il risultato della sua personalità forte e decisa.
Come nella sua infanzia si alternavano montagne impervie e innevate a valli dolci e verdeggianti, così in questa stanza, che era inondata dalla luce crepuscolare della sera incipiente, si ritrovava tra ricordi lontani e vuoti presenti.
Si era sposata con un artista mediocre e avanti nell’età. Il loro matrimonio non era stato esaltante sotto il profilo amoroso, ma era stata semplice convenienza economica dopo l’infelice e sfortunata della prima unione.
“Nessun rimpianto. Né il primo né il secondo hanno saputo donarmi affetto. Carlo, molto più vecchio di me, non mi ha dedicato molte attenzioni. Ho sofferto, perché la mia femminilità aspirava a ricevere amore e passione ma non sono state appagate per nulla tra le mura domestiche”.
Un sospiro, un amaro ricordo.
“Per dimenticare la mancanza di sentimenti, mi sono dedicata senza tentennamenti alla pittura, che è stata ricompensata con molti zecchini d’oro. Ero ricca, perché Carlo ha amministrato con molta oculatezza il mio patrimonio, ma povera di emozioni, perché nessuno ha saputo cogliere i fiori del mio cuore”.
Possedeva una bellezza rara e delicata che attirava naturalmente gli uomini. Abituata a essere corteggiata da tutti, ricambiò pochi con uguale passione e riservatezza. Era sempre combattuta tra accettare la corte assidua e insistente dei molti ammiratori o rimanere fedele ma infelice al marito sposato nel 1781 a Londra. Il gran numero di uomini che frequentavano lo studio alimentò le dicerie che fosse una grande consumatrice di sesso, una mantide, suscitando le gelosie delle altre donne.
Torno a guardare fuori dalla finestra, osservando il pino che le ricordava una persona speciale, che aveva amato con passione e le aveva donato delle giornate meravigliose.
«Avevo 45 anni ed ero profondamente depressa, quando ho incontrato Goethe ma ero ancora meravigliosamente bella. Gli anni non avevano intaccato lo splendore del mio corpo».
 

Avviso a tutti quanti presenti e assenti

Non sono sparito. Semplicemente  WP mi ha messo a piedi, impedendomi di collegarmi al mio account e rispondere ai vostri commenti e commentare i vostri post. Poi oggi il diavolo ci ha messo le corna e solo a ora tardi ho potuto scrivere questo comunicato.
Mi impegnerò a passare tutti i blog degli ultimi due giorni e rispondere alle vostre osservazioni.
A domani!

Capitolo 62

Era venuto il tempo per dedicarsi alle due figlie, che erano cresciute in bellezza e in età. La maggiore aveva ormai diciassette anni, la minore quindici. Diverse come costituzione e temperamento avevano vissuto lontano da Giacomo. I due padri naturali erano spariti da tempo e non frequentavano più il palazzo. Lui, come padre di nome, doveva occuparsene e provvedere alla loro sistemazione.
“Mi ripugna costringerle a sposare persone che non amano. Alla fine finiscono come Costanza” rifletteva dopo il rientro nel settembre del 1526 nel suo palazzo. “Hanno ricevuto una buona educazione. Sono rispettose e cortesi. Dovrei trovare un buon partito che le possa rendere abbastanza felici. Un’impresa non facile da realizzare”.
Era una notte del novembre dello stesso anno, quando ne parlò per la prima volta con Isabella durante una delle rare visite nel suo letto da parte della moglie.
“Madonna” esordì mentre rifiatavano dopo qualche abbraccio passionale. “Madonna, le nostre figlie sono ormai grandi e pronte ad andare spose a qualche buon pretendente come è consuetudine in questa epoca ..”.
“Che volete dire, Messere” rispose irrigidendosi nell’ascoltare quelle parole.
“Nulla, Madonna. Semplicemente mi preoccupavo del loro futuro prima che qualche servo le deflorino o le mettano incinte”.
La donna si staccò da lui cercando nel buio di osservarne il viso. Rifletteva che in otto anni, da quella volta che le aveva rinfacciato la paternità delle ragazze, non aveva mai parlato di loro o si era preoccupato del loro stato.
“Come mai stanotte vi vengono questi pensieri?” chiese tra lo stupito e l’agitato.
“Così. Mi sembrava giusto parlarne con voi che ne siete la madre. Volete forse che finiscano male o tra le braccia di qualche pretendente poco attento alla loro felicità?”.
In questo periodo Giacomo faceva valere la sua personalità nei rapporti con Isabella, perché aveva la sensazione di dare troppo e di non ricevere molto in cambio. La percepiva lontana e distaccata come se volesse essere lasciata in pace. E forse questa sensazione corrispondeva al vero, perché negli ultimi due anni era diventate più casuale che ordinario il loro vivere insieme.
Isabella, sentendolo, comprendeva che la situazione si era capovolta: gli dava troppo poco tanto che ultimamente si era risentito più del dovuto. «Onde riuscire ad intrattenere una relazione positiva, soprattutto se comporta anche un lato sessuale, è necessario instaurare un fragile equilibrio tra le necessità ed i desideri di ognuno di noi e trovare un senso più profondo al nostro rapporto. Il parlare delle nostre figlie, che in realtà sono solo mie, rientra in questa logica. Giacomo si dimostra sensibile a attento, anche se so che non mi è molto fedele».
Questo equilibrio al momento era fragile ed instabile e a lei non conveniva romperlo bruscamente.
“Messere, avete ragione. Beatrice e Anna meritano maggiori attenzioni di quanto ne abbiamo dedicato finora. Ma ditemi come intendete procedere” chiese Isabella, stringendosi a lui.
“E’ questo il punto. Non so come procedere. Ho la sensazione di commettere degli errori” rispose ricambiando l’abbraccio e facendo scivolare le mani su quel corpo ancora piacente.
“E se ne riparliamo più tardi con maggior calma. Cosa ne dite” replicò la donna inarcando la schiena.
“Avete ragione, Madonna” disse l’uomo prendendola.
La passione fece dimenticare loro tutti i buoni propositi e l’argomento finì tra quelli che erano chiamati ricordi.
Delle tre dame che aveva frequentato con una certa assiduità in quegli anni, l’unica che gradiva le sue attenzioni nel 1526 era la sola Costanza, vedova e risoluta a non rimaritarsi con molta facilitò. Giulia aveva trovato un nuovo amante giovane e focoso, che si dedicava con cura alla sua persona senza farla sentire troppo vecchia coi suoi trentacinque anni. Eleonora era poco in città, perché aveva seguito il marito come ambasciatore a Venezia, dimenticando ben presto Giacomo e le sue cortesie. Nella città lagunare aveva incrociato un giovane moro che l’aveva stregata.
Dunque Giacomo aveva ripiegato sulla ancor giovane Costanza, che viveva sola nel grande palazzo di fianco al canale Naviglio.
“Messer Giacomo” gli disse una mattina dopo una notte di passione. “Messer Giacomo, non mi risposerò con altri se non con voi. Provo affetto e riconoscenza per voi, perché sapete donarmi istanti di dolce amore senza pretendere molto in cambio”.
C’era sintonia tra loro attraverso una spiritualità raffinata, l’assenza di egoismo e la stretta unione spirituale fra due persone che si rispettano. L’effetto era di far fantasticare la donna, aspetto di per sé piacevole e innocuo, finché si era mantenuto nei limiti della realtà. Però con la sua uscita aveva travalicato i confini, sconfinando in un mondo del tutto inesplorato.
“Cosa intendete dire, Madonna?” chiese Giacomo un po’ allarmato.
“Nulla di più di quello che avete inteso. Vi amo, anche se non sono sicura di essere riamata da voi. Ma non m’importa questo punto. Sto bene con voi e vi aspetterò con ansia per riabbracciarvi, ogni qualvolta voi vi presenterete alla mia porta”.
“Ma voi invecchierete nell’attesa” disse l’uomo guardandola nel viso.
“Sento che vi appartengo. E vi sarò fedele” tagliò corto Costanza, mentre con le mani frugava il corpo di Giacomo.
“Siete impertinente ma adorabile, Madonna Costanza” replicò l’uomo rispondendo alle sollecitazioni della donna.
Sempre più spesso passò le giornate con lei senza riprendere l’argomento della dichiarazione d’amore. Lei lo accettava come era senza pretendere nulla di più. Le era sufficiente essere posseduta e ricambiare con ardore giovanile la passione che le ardeva dentro
Una mattina di dicembre dello stesso anno Giacomo si risvegliò nel letto di Costanza in preda alla febbre.
“Madonna, non mi sento bene. Il corpo brucia ma provo freddo. Vorrei tornare nel mio palazzo” le disse mentre brividi gli squassavano il corpo.
“Messere, che avete?” rispose allarmata la donna. “Avete l’occhio lucido e il viso caldo bollente. Chiamo la carrozza per farvi condurre alla vostra dimora. Fattemi sapere qualcosa. Sono in ansia per voi”.
Arrivato al palazzo, Giacomo si mise a letto nelle sue stanze.
“Ghitta” disse alla serva. “Chiamate Madonna Isabella. La voglio accanto a me”.
La serva lo guardò sbigottita. Non l’aveva mai visto così bianco cadaverico, mentre tremava come foglia al vento sotto le coperte.
“Messere, come state” gli disse Isabella, accorsa preoccupata al suo capezzale.
“Brucio tra le fiamme dell’inferno, Madonna”.
“Non scherzate troppo. Non posso vedervi ridotto in questo stato. La vostra fronte arde come la legna nel camino. Chiamo Antonio, il nostro medico”.
Tra alti e bassi la salute di Giacomo peggiorò giorno dopo giorno, mentre la notizia della sua infermità arrivava fino al Castello. Alla porta del palazzo, nonostante il tempo inclemente, era una processione di servi, che venivano a informarsi sulle condizioni del malato. Il duca mandò il medico personale per un consulto ed era profondamente addolorato per la malattia che aveva colpito il suo ingegnere.
Giulia chiese a Isabella di vedere Giacomo. Eleonora mandò un biglietto augurale. Costanza rimase nell’ombra a struggersi con le pene d’amore.
Isabella era costantemente al fianco di Giacomo, avendo riscoperto quanto fosse importante per lei quell’uomo.
Il 17 gennaio del 1527 Giacomo spirò dolcemente fra le braccia della moglie, pianto dalle figlie, dalla fedele serva e dalle amanti storiche.
 
“Signore, signore”. Giacomo udì come in lontananza una voce che lo chiamava. “Signore, si è addormentato ma la biblioteca chiude”.
Si guardò intorno. Era in un angolo defilato e nascosto della sala di lettura. Fuori c’era buio e sentiva le braccia pesanti e intorpidite.
“Oh” fu l’unica parola che uscì dalle labbra, mentre lentamente si alzava. Aveva la testa greve e poco lucida, mentre infilava il cappotto per uscire.
Era rimasto tutta la giornata nella biblioteca a dormire, mentre aveva vissuto nove anni in un altra epoca molto remota. L’ultimo bagliore di quel mondo era stato il suo funerale.
“Mai vista una partecipazione femminile così numerosa” disse sorridendo dentro di sé.
Quattro gironi dopo la sua morte in una giornata rigida e serena il suo corpo era stato trasferito nella chiesetta di San Lazzaro, che stava all’inizio del viale d’ingresso. Come era costume su un lato dell’unica navata stavano le donne, sull’altro gli uomini. Mentre i banchi occupati dalle persone di sesso femminile erano insufficienti a contenerle tutte, sull’altro c’erano molti vuoti. Il paggio in rappresentanza del duca, il fratello, qualche fattore, Bizzo, il fedele cocchiere e i servi e pochi altri.
Sul primo banco stava Isabella con le due figlie, che piangevano come fontane. Di fianco a loro Costanza e Giulia con gli occhi rossi di lacrime e di dolore. Dietro una moltitudine di donne, tra le quali spiccava Ghitta, che appariva come un’inconsolabile vedova.
L’arciprete officiò la messa funebre con grande commozione della popolazione femminile e la cauta indifferenza di quello maschile.
Cominciò l’orazione funebre con queste parole.
«Messer Giacomo, uomo di rare virtù e marito esemplare, fedele sposo di Madonna Isabella ..»
Nell’udire quelle parole Giacomo scoppiò in una grande risata, mentre osservava i visi delle donne che lo avevano accompagnato in quei lunghi anni alla ricerca di un minimo indizio di dissenso da quelle incaute affermazioni. Nessuna accennò al benché microscopico movimento del viso mentre continuavano a piangere silenziosamente e in maniera composta e signorile. Nessuna trovò da ridire su quelle parole che suonavano false alle orecchie di Giacomo.
Al termine della cerimonia, prima che la bara venisse sigillata e calata nella cripta della chiesa, Isabella, Giulia e Costanza deposero una rosa rossa con un minuscolo messaggio attaccato per dimostrare la loro devozione. Poi si abbracciarono calorosamente e restarono così finché la pesante lastra di marmo non sigillò la tomba.
L’unica assente era Eleonora, impegnata col suo moro, a dimenticare le attenzioni di Giacomo.

Avviso a quel popolo di santi (lettori), poeti e scrittori (tanti), naviganti (viandanti tra un blog e l'altro)

Sono qui annunciarvi la lieta novella.
Col capitolo 45 cesso la pubblicazione della storia di Giacomo, Laura e Alfonso. Per deliziarvi ancora pubblicherò la puntata conclusiva, la numero 62. Tutte quelle dal 46 al 61 saranno secretate. «Era ora» mi sembra di sentire col tono di sollievo. Credo di avervi stancato a sufficienza con questa storia e quindi era giusto chiuderla, nel momento che il 2 novembre sono riuscito finalmente a mettere la parola fine al racconto fiume tipo Po in piena.
Chi chiederete atterriti che cosa vi propinerò al suo posto? Un revival, il primo racconto in assoluto scritto nel lontano 2007, rivisitato e corretto ma decisamente più corto. Nel frattempo cerco l’ispirazione per scrivere altro. Al momento le idee sono andate in letargo. Meno male, dice una voce sulla destra.
Per il secondo bog, quello ereditato da Windows Space, ci penserò.
A presto carissimi con la puntata conclusiva.

Capitolo 45

La primavera mostrava il suo volto sorridente e rinnovato, come Laura verso Alfonso, che dopo il periodo trascorso a Parigi era rientrato a Ferrara. La missione aveva avuto successo e forte dell’appoggio francese percepiva di essere ancora saldamente seduto sul trono. Il ducato nella sua integrità non era ancora salvo ma il tempo avrebbe smussato gli angoli e riconosciuta la sua autorità su tutti i possedimenti.
La relazione con Laura diventava sempre più stabile come le voci che circolavano che il duca avesse un’amante segreta, mentre si allentava il legame con la duchessa.
“Chi sarà mai?” si chiedeva la gente, avvezza alle avventure galanti di Alfonso. “E’ la solita passione effimera oppure stabile?”. Però nessun volto nessun nome prendeva corpo e le chiacchiere si infittivano
Nel mentre la gravidanza di Lucrezia proseguiva tra alti e bassi, tra le cure del governo durante l’assenza del consorte e quelle private relative ai parenti. Si sentiva sempre più debole ma nello stesso tempo determinata e ottimista a portare a compimento anche questa ottava gestazione
Anche la duchessa aveva un amore non troppo segreto, Francesco Gonzaga, suo cognato. Nella primavera del 1519 moriva consumato dal cosiddetto mal francese, lasciandola nello sconforto. Si ritrovava sola col consorte che dopo il rientro in città era sempre più distante e senza l’affettuoso sostegno del duca di Mantova. La cognata Isabella, che non era mai stata tenera con lei, strappò la lettera abbastanza formale che Lucrezia le aveva inviato per le condoglianze.
La duchessa avvertiva che qualcosa era mutato, nonostante si fosse avvicinata alla religiosità in maniera quasi totale, indossando il cilicio sotto la veste ducale.
Arrivò maggio mentre lei era sempre più inquieta. Non le erano sufficienti confessori e padri spirituali, comunicarsi tutti i giorni e pregare. Il peso dei suoi trentanove anni li avvertiva tutti, mentre la gravidanza si complicava. Il 15 di giugno del 1519 nacque una bambina, Isabella Maria, ma la duchessa fu assalita dalla febbre, mentre la figlia fu battezzata in gran fretta.
Il 24 giugno se ne andò, ormai incapace di comprendere il suo stato.
Alfonso in quei giorni non vide Laura, che l’aspettò paziente, sapendo che la duchessa era morente. Non si augurava che morisse nella speranza di succederle nel letto ufficialmente ma pregò per la sua anima.
Quando il paggio le recapitò il messaggio che era morta, sbiancò e si ritirò nella sua stanza, perché non voleva vedere nessuno. Si raccolse in preghiera e raccoglimento, pianse lacrime sincere. Comprese che da questo momento la sua vita sarebbe cambiata.
“Come?” si chiese. “Sarà nell’amore per Alfonso oppure nell’essere abbandonata?”
Non immaginava come sarebbe stato dipinto il domani ma doveva guardare avanti. Non era come pensava sua madre nel caso che tra lei e il duca ci fosse stata rottura. Era certa che avrebbe trovato un’altra persona con la quale condividere la vita.
“Ho solo diciannove anni e un’intera esistenza da consumare” rifletteva mentre pregava e piangeva la duchessa.
Era una calda sera di fine luglio, quando Laura incontrò Alfonso per la prima volta dopo la morte di Lucrezia. Erano seduti sotto il pergolato del casale del Verginese e parlavano tra loro sottovoce come se avessero paura che il vento potesse carpire loro dei segreti.
“Mi siete mancato, Alfonso. Ho percepito un vuoto dentro di me che non riuscivo a riempirlo. Però la morte della Duchessa, i funerali e il lutto hanno congiurato contro di noi” gli disse la ragazza, guardandolo negli occhi.
“Avete ragione. Tutto ha cospirato ma la morte di Lucrezia mi ha colpito” rispose il duca, tenendole le mani.
“Perché? Non pensiate che sia insensibile alla morte di qualcuno. Ho pianto lacrime sincere. Ho pregato con fede per la sua anima nella speranza che il buon Dio l’accolga in Paradiso. Ma vi domando cosa vi ha colpito, se volete dirmelo”.
“Ho sempre ritenuto Lucrezia una donna determinata nel raggiungere gli obiettivi che si prefiggeva. Anche in questa occasione l’ha dimostrato. Era malata ma ha sopportato la gravidanza con orgoglio, decisa a portarla a termine. Dopo la nascita della bambina, è stata assalita dalle febbri da puerpera e perdeva sangue dal naso. Però non era sua intenzione lasciarci. Temeva la morte, nonostante si fosse avvicinata a Dio. E’ rimasta aggrappata alla vita con tutte le sue forze ..”.
Alfonso fece una breve pausa, mentre Laura lo ascoltava in silenzio.
“Dunque era vero quel che hanno detto dopo la sua morte” rifletteva tacendo. “Non volevo credere alle voci circolate secondo le quali la duchessa aveva vissuto gli ultimi attimi nel terrore di morire”.
La ragazza raccolse le sue forze per formulare una domanda al duca.
“Come avete intuito che la vostra amata consorte fosse terrorizzata dalla morte imminente?”.
“Quando alcuni giorni dopo la nascita di Maria Isabella fui ammesso finalmente al suo capezzale, lessi nel suo viso stravolto dalla febbre, l’ansia, l’angoscia che la morte fosse accanto a lei. Sono sbiancato in viso per la consapevolezza di questa realtà. Non sono stato in grado di controllare le mie emozioni. Così lei ebbe la certezza che nonostante fosse decisa a vivere, non ce l’avrebbe fatta. Solo dopo questo incontro, è riuscita a distendere i lineamenti, preparandosi per la morte imminente”.
“Quel che dite è terribile e nello stesso tempo straordinario. Difficilmente una persona accetta serenamente un verdetto tanto spaventoso quanto irreversibile”.
“Basta. Parliamo d’altro. Lasciamo questi ricordi in un angolo” disse Alfonso per chiudere questo argomento.
Aveva provato commozione per la perdita della duchessa ma doveva guardare avanti e pensare al futuro che si apriva dinnanzi a lui.
Quel futuro aveva un nome Laura.

Capitolo 44

Giacomo, dopo essersi vestito a fatica, rimpiangendo l’assenza di Ghitta, scese nella corte alla ricerca di Eleonora. C’erano ancora nel casale parecchie dame e cavalieri, seduti al fresco del pergolato. Lo osservarono e bisbigliarono qualcosa, mentre lui finse indifferenza ai loro pettegolezzi. Il suo obiettivo in quel momento era la ricerca di qualche servo per ottenere l’informazione che gli interessava.
“Madonna Eleonora, dove la posso trovare?” chiese incrociando una serva che sta portando una brocca di sidro a una coppia leggermente defilata rispetto alle altre.
“Non saprei. Vengo dalle cucine e non l’ho ancora vista. Provate nelle sue stanze, al primo piano” rispose garbata.
“Grazie”. Giacomo salì al primo piano, sperando che l’informazione fosse giusta.
“Non posso bussare a tutte le stanze. Potrebbe essere imbarazzante” rifletteva mentre incrociava un cameriere.
“Mi perdoni. Mi sono perso e sono alla ricerca delle stanze di Madonna Eleonora”.
“Sono le ultime due. In fondo a questo corridoio” rispose indicando con la mano direzione e porta.
“Grazie”.
Entrato dopo aver bussato, la trovò davanti allo specchio, mentre una serva la stava pettinando.
“Buon giorno, Madonna” disse Giacomo baciandole una mano.
“Buon giorno, Messer Giacomo. Riposato bene?”
“Magnificamente. Siete una padrona di casa veramente eccezionale”.
“Andate pure, Maria. Lasciateci soli” disse per licenziare la donna.
Aspettò che fosse uscita, prima di abbracciarlo e dargli un bacio appassionato.
“E’ stato tutto magnifico. Festa, cerimonia e poi il resto della notte con voi. Questa giornata rimarrà per sempre nella mia testa ..”
“E perché avete consentito a dama Giulia di entrare nel letto al vostro posto, stamani?” chiese con un tono di voce duro.
“Me l’aveva chiesto poco prima che ci coricassimo. Forse non avete gradito?” replicò traendolo a sé.
“No. Avrei preferito alzarmi insieme a voi”.
“Perché?”.
“Questioni personali, che per il momento tengo per me”.
“Averlo saputo, avrei detto di no, trovando una scusa. Siete in collera con me?” chiese contrita la ragazza.
“Con voi, no. Siete deliziosa e fragrante come una rosa. Ma con dama Giulia, sì. Ma non parliamo più di questa dama. Vorrei vedere la mia consorte, Madonna Isabella” domandò con tono addolcito.
“Sta ancora dormendo sotto l’effetto della tisana purificatrice. Di solito si svegliano a metà pomeriggio. Però se volete vederla riposare, vi accompagno. Così troverete la strada da solo più tardi”.
Giacomo si aspettava di uscire ma lei con un gesto rapido si tolse la veste, rimanendo nuda. Aveva un corpo giovane e splendido che ammirò prima di stringerla a sé. Era entrato con propositi bellicosi ma quella vista lo calmò. Madonna Isabella poteva continuare a riposare tranquilla.
“Alla fine la colpa è stata di Giulia che con una scusa si è intrufolata nel letto. Eleonora ha creduto di farle un favore” rifletté mentre sentiva pulsare il corpo della donna che premeva su di lui.
Da Isabella ci andarono più tardi. Dormiva serena nel buio di una stanza d’angolo, mentre una serva nell’ombra sedeva accanto alla porta. Un respiro regolare, un palpitare ritmico del petto indicavano che era rilassata e tranquilla.
“Quando accenna al risveglio, avvertitemi” disse Giacomo, uscendo in silenzio per tornare nella sua stanza.
Non gradiva incontrare altre persone, doveva riflettere sulla situazione. Quindi preferì isolarsi. Era seduto su una sedia di legno, osservando fuori dalla finestra il cielo azzurro appena toccato da qualche sbuffo di nuvola, quando udì un bussare discreto.
“Avanti” disse con voce stentorea.
“Non ci fate compagnia a tavola per il pranzo?” chiese Eleonora vestita di azzurro e bianco.
“No. Non ho fame. Aspetto che Madonna Isabella si svegli” rispose stancamente Giacomo. “Siete uno splendore” disse ammirandola.
“Allora faccio preparare questo tavolo e mangeremo qualcosa insieme. Desiderate qualcosa in particolare?”.
“Non ho fame. Va bene tutto, purché sia qualcosa di leggero”.
Pranzarono e si stesero sul letto a riposare nell’attesa del risveglio. Era metà pomeriggio, quando la serva bussò per annunciare che Isabella stava svegliandosi. Giacomo si affrettò a raggiungerla, mentre Eleonora preferì restare nell’ombra.
“Madonna Isabella” disse l’uomo tenendole una mano. “Come state?”
“Oh! Messer Giacomo!” rispose aprendo gli occhi. “Mi sento bene come mai prima d’ora. Riposata e rilassata. Evidentemente dopo il brindisi mi devo essere addormentata, perché ricordo solo di aver visto il buio. Però mi ha lasciato un gusto dolce in bocca. Dovete sapere che ho fatto un sogno bellissimo e nello stesso tempo singolare. Ve lo voglio raccontare. Sedetevi accanto a me”.
“Certamente. Ascoltare i sogni mi piace” replicò sistemandosi vicino.
“Dopo essermi addormentata, mi è parso di essere passata in un’altra dimensione. Non saprei descrivervi come e cosa. Però ero in un paese sconosciuto, accecato dal sole. Quattro uomini dalla pelle scura, come Alì ..”.
“Lasciate perdere Alì, il padre di Anna. Continuate il racconto” la interruppe bruscamente.
“Quattro uomini portavano sulle spalle una specie di sedia di vimini intrecciati, che non avevo mai visto. Io ero seduta lì. Dietro stavano un sacerdote che assomigliava al maestro di ieri sera e delle fanciulle che agitavano uno strano strumento e cantavano. Mi hanno messo su un’imbarcazione che non avevo mai visto. Questa scivolava leggera su un fiume. Non era il nostro Eridano, dalle acque grige tumultuose e venate dal verde dei pioppi. Era immenso, calmo e di un colore azzurro come il cielo. La barca filava veloce e ben presto siamo arrivati a un tempio, dove mi hanno fatto sedere su un altare bianco. Era ormai il tramonto e abbiamo aspettato che le stelle salissero alte nel cielo. Poi ..”.
“Poi?” incalzò Giacomo che voleva conoscere il seguito del racconto.
“Poi ho provato delle sensazioni piacevoli, Non saprei raccontarvele, perché erano solo impressioni. Percepivo benessere e piacere mentre l’aria fresca della notte accarezzava il mio corpo insinuandosi sotto la veste”.
“Tutto qui e nient’altro? ” le chiese, perché gli sembrava una narrazione incompleta.
“No. Ricordo solo questo. Però quella sensazione di piacevole benessere è ancora ben fissa nella mia mente. Mi sento leggera e appagata come se questo sogno ristoratore avesse rasserenato lo spirito. E’ stato un toccasana per la mia anima che mi ha fatto comprendere molto di voi. La vostra presenza al mio risveglio mi ha stimolata. Giacete insieme a me” concluse Isabella.
“Come volete, Madonna” le disse abbracciandola.
Mentre stavano uno accanto all’altra, osservando il soffitto nella penombra del tardo pomeriggio, Giacomo cominciò a parlare.
“Ora che siete riposata e appagata nello spirito e nel corpo, vestitevi perché si torna a casa”.
“Perché, Messere? Stiamo bene qui. Poi dama Eleonora ha detto che la festa continua ..” replicò sorpresa.
“La festa continuerà a casa nostra”.
“Non comprendo, perché dobbiamo lasciare questa casa prima che sia finita”.
“Non ammetto repliche. Preparatevi per tornare a casa” concluse con un tono che impediva una qualsiasi obiezione.

Ladies and Gentlemen

Carissimi ho il piacere di annunciarvi ched finalmente la storia semiseria di Marco, Marta e Elisa è terminata sul sul serio.
Il capitolo finale, un fiume in piena che straripava da tutte le parti, è stato sezionato in tre parti, per non monopolizzare troppo le vostre sinapsi.
Per chi volesse leggerle con pazienza certosina da di seguito le coordinate.
Prima parte
https://nuovoorsobianco.wordpress.com/2012/10/23/ora-e-proprio-finiat-cala-la-tela-sulla-storia-1-di-2
Seconda parte
https://nuovoorsobianco.wordpress.com/2012/10/26/ora-e-proprio-finita-cala-la-tela-sulla-storia-2-di-3/
Terza e conclusiva parte
https://nuovoorsobianco.wordpress.com/2012/10/28/ora-e-proprio-finita-cala-la-tela-sulla-storia-3-di-3/
E con questo cala la tela.  Cosa pubblicherò? Non lo so ancora. Forse ripropongo il primissimo in assoluto racconto scritto. Un po’ particolare, rivisto e corretto più volte.
Passando ad argomenti più seri, stavo meditando. Vi chiederete ma medita pure sto essere presuntuoso?
Ebbene sì, ogni tanto medito. Cogito e cogito è mi è venuta la balzana ma sana idea di chiudere con un paio di puntate la storia di Laura, di Giacomo, Alfonso, ecc. Dovrei pubblicare altri venti o ventuno capitoli. Troppi per non annoiarvi a morte e portarvi allo sfinimento. Perché un paio? Il tempo di pensare a qualcos’altro e di scriverne qualche puntata.
Buona domenica e ottima lettura

Capitolo 43

Mentre Giacomo si girava per scoprire il volto della misteriosa dama che si era accostata alla schiena, udì un leggero fruscio come se qualcuno fosse uscito furtivamente dal letto. Allungò una mano, sentendo solo l’impronta calda di un corpo, quello di Eleonora.
“Madonna Giulia!” esclamò sorpreso, voltandosi.
“Messer Giacomo, quando vi ho visto ieri sera, ho percepito prepotente la voglia di sentire il vostro calore ..”.
“Solo perché mi avete visto?”.
“No, era tempo che provavo nostalgia di voi ma non potevo, ero bloccata dalla duchessa Anna ..”.
“E il vostro cavaliere?” chiese curioso, abbracciandola.
“E’ noioso e saccente. Una vera nullità rispetto a voi” disse con un tono di disgusto. “Ora starà vagando alla ricerca di una nuova preda. Anzi penso a quale stia puntando come un cane da caccia. L’ho abbandonato al suo destino ..”.
Giacomo era perplesso e rifletteva pensieroso sulla singolare situazione, nella quale si trovava.
“Dama Eleonora mi ha invitato alla sua festa e ha stabilito di dividere la mia persona con dama Costanza. Una specie di staffetta, che secondo le aspettative non dovrebbe creare problemi a nessuno dei tre. Madonna Isabella, la mia consorte, è un’aggiunta inaspettata dell’ultima ora. Credo che dovrò onorarla, visti gli avvenimenti più recenti. Al momento è sotto gli effetti di una droga o pozione strana e magica ma si sveglierà eccitata come una cagna in calore e stimolata da tante attenzioni. Farò fatica a trattenerla e sottrarla agli assalti di tanti cavalieri. Se non lo faccio ora, la perderò per sempre. Dama Giulia avrebbe dovuto essere fuori dai giochi, perché aveva un amante ufficiale ma pare che abbia avuto un ritorno di fiamma verso di me. Delle tre è quella che gradisco maggiormente ma non posso scontentare le altre due. La gestione di tre dame non è un problema di poco conto per non creare una situazione di malumori e risentimenti. Ma in realtà sono quattro e la situazione diventa quasi insostenibile. In questa vita scopro sempre novità di ogni genere. Non posso affermare di rimanere annoiato o senza dovermi occupare di qualche madonna. Dame e cavalieri gareggiano nel passare da un’alcova all’altra come api sui fiori. O si rimane sempre giovani, magari con l’aiutino di qualche pozione magica o si tira le cuoia”.
Giacomo era perplesso e rifletteva su questi aspetti del tutto inaspettati, quando si staccò da Giulia come se gli procurasse fastidio.
“Vi sento freddo, messere” disse la ragazza delusa dall’atteggiamento poco caloroso dell’uomo “Forse non gradite la mia presenza?”
“No, no” si affrettò a dire. “Stavo semplicemente ragionando su ..”
“Su cosa, se non sono indiscreta”.
“Su di voi, sulla festa e sull’epoca nella quale viviamo”.
“Su di me? E cosa, di grazia?” chiese curiosa la donna.
“Madonna Giulia, nel vedervi accanto a me sono rimasto sorpreso, piacevolmente e gradevolmente sorpreso. Sono passati molti mesi dall’ultima volta che ci siamo visti e credevo che ..”.
“E proprio per questo che ho convinto dama Eleonora a cedermi il suo posto per un poco, così che possa rinsaldare la nostra vicinanza. Quel lontano ricordo sbiadito è ancora nitido. Aver trascorso troppo tempo alla corte della duchessa Anna mi ha intristita, incupita. Avevo la necessità di annusare il vostro odore, di percepire il vostro calore ed eccomi qua. Le sensazioni che provo sono le stesse di un tempo. Direi sono ancora migliori come il buon vino invecchiato”.
Giulia rimase un istante in silenzio prima di riprendere a parlare.
“Circolano delle strane voci tra gli invitati alla festa. E’ stato un continuo parlare, un sussurrare più o meno convinto che ha tenuto desti dame e cavalieri. Ognuno diceva la propria opinione. Su un aspetto erano tutti d’accordo. Quell’Iside ha offerto uno spettacolo strepitoso, incarnando la dea come mai nessuna altra c’era riuscita. Nessuno l’aveva mai vista prima di questa notte ma qualcuno afferma che sia la vostra consorte ..”.
Giacomo ebbe un breve sussulto, perché non si aspettava questa domanda da parte di Giulia.
“Da tutti gli altri sì, ma da lei proprio no. Altro che odore o calore! Lei è stata mandata avanti per chiedermi conferma delle chiacchiere. Costanza non sa nulla, almeno credo. Eleonora tiene la bocca cucita nella speranza che l’accompagni anche il prossimo anno. Giulia usa la seduzione per strapparmi una risposta in nome di una vecchia amicizia”. Sospirò, perché immaginava che questa domanda sarebbe stata ripetuta troppe volte nel corso di quei giorni. Non poteva negare l’evidenza, ma anche affermare che era la sua consorte, sarebbe stata una sofferenza. Da qualunque parte girava il problema, capiva che era stato un errore madornale acconsentire che Isabella partecipasse alla festa. Adesso c’era poco margine per gestire la situazione. «E’ meglio affrontare il toro per le corna. Posso muovermi con maggiore libertà nel contrastare la fila di cavalieri pronti all’assalto di Isabella» rifletté prima di rispondere.
“Si” replicò laconico.
Giulia aveva avuto buon fiuto ma non si aspettava una risposta così immediata. Però rimase perplessa, perché quell’uomo, che aveva conosciuto come affettuoso e gentile, si stava rivelando cinico, avendo assistito allo spettacolo notturno senza intervenire. Per lei come donna sarebbe stato inaccettabile. Si scostò da Giacomo, lo fissò con gli occhi ormai abituati alla penombra prima di prorompere in una predica.
“Sono delusa di voi ..”.
“Perché?” chiese sapendo già la risposta.
“Mi chiedete il perché? Mi pare ovvio. Se io fossi stata al posto di quella dama e il mio cavaliere avesse presenziato impassibile a quanto è avvenuto, non l’avrei mai più voluto vedere e forse anche di peggio ..”.
“Madonna Giulia, se voi foste stata al posto della dama di stasera, significa che volevate essere lì nella parte di Iside. E il vostro cavaliere cosa doveva fare? Prendervi a schiaffi oppure legarvi al colonnato del vostro palazzo? La mia consorte desiderava partecipare alla festa. L’ho accontentata, ignorando che voi l’avreste designata come Iside. Dovevo forse alzarmi e dire «Madonna, torniamo a casa». Sarei diventato lo zimbello di tutta Ferrara. Ho cercato solo di restare calmo, trattenendo l’ira che avevo in corpo. Oggi sarà un altro giorno. Però sono rimasto deluso dalla vostra domanda. Non mi aspettavo che voi me l’avreste chiesto. Dagli altri si ma da voi no”.
Detto questo, Giacomo si alzò tirando i pesanti tendaggi per far entrare il sole, mentre la donna era rimasta in silenzio nel letto.
“Voi se volete, potete stare. Io mi preparo per la nuova giornata”. Detto questo si diresse verso una stanza dove avrebbe trovato acqua fresca e i suoi indumenti.
 
Febbraio era stato come al solito nevoso ma meno rigido del consueto. Verso la fine del mese le giornate erano fredde ma soleggiate. Un giorno, era il 22 febbraio del 1519, il paggio che Laura conosceva bene le recapitò una missiva.
 
«Mia adorata Laura!
Sono a due giorni di strada da Ferrara e aspetto il momento di potervi stringere a me.
Vostro Alfonso»
 
Il 24 febbraio il duca fece il suo ingresso in città acclamato e salutato da tutta la città. La missione francese era riuscita, sia pure parzialmente, e il ducato, almeno in parte, salvo. Subito organizzò un incontro con Laura, della quale aveva avvertito la mancanza nei lunghi mesi di lontananza.
La ragazza riprese gli incontri nella dimora di Rossetti dopo un lungo periodo costellato solo dal lungo silenzio dell’amato e dalle interminabili chiacchierate con la madre. Quel racconto aveva lasciato il segno nella mente della ragazza, che più di una volta aveva approfondito aspetti e particolari di quell’incontro.
“Madre, mi avete raccontato tutto oppure solo dei pezzettini?” chiese una sera mentre erano accanto al camino.
“Perché me lo chiedete? Pensate che vi abbia mentito?” replicò risentita, perché non voleva svelare anche il secondo incontro più drammatico del primo. Il famoso conte era morto mentre faceva all’amore con lei. Una situazione scioccante e al tempo stesso grottesca. Quasi era morta per lo spavento, sentendo sopra il suo corpo quello inerte dell’uomo, che la stava soffocando. Quel ricordo non era mai riuscito a cancellarlo dalla mente ma l’aveva occultato nel punto più profondo della mente.
“No, madre. Ragionavo che dopo avervi pagata con tutti quegli scudi d’oro, loro non si fossero accontentati. Ma forse mi sbaglio”.
“Figlia, avevo solo sedici anni e tanti ideali per la testa, amavo vostro padre e non volevo finire come Beatrice. Quindi resistetti a tutte le sirene dorate che mi proponevano. Vista l’inutilità delle proposte mi lasciarono in pace, mentre Beatrice, e forse altre, finirono nel gorgo delle donne di bordello”.
Laura ripensava a quest’ultimo colloquio, che giudicava equivoco e non chiarificatore, mentre si stringeva a Alfonso.
“Cosa state pensando, Madonna? Vi sento poco partecipe oggi come se un pensiero vi stia angustiando” le disse il duca, stringendola forte e con calore.
“Mi spiace, Alfonso, che vi sembri fredda dopo una così lunga astinenza. In realtà mi sembra ancora di sognare come nelle notti passate ..”.
“Chi sognate?”
“Voi. Tutte le notti mi siete apparso nel sonno. Sentivo la vostra presenza su di me, mentre la passione accendeva la mia mente. Poi mi svegliavo ed ero sola nel mio letto. Piangevo per la gioia di aver percepito che eravate con me, e per la tristezza che la realtà fosse diversa. Ecco perché potevo apparire distaccata, perché temevo che non fosse reale la vostra esistenza”.
Alfonso scoppiò a ridire, dicendo che c’era la sua ombra e non il suo corpo.
“Dammi un pizzicotto e mi sentirai urlare per il dolore” l’incitò il duca. “Sono reale e non un fantasma che appare nei sogni di una ragazza fresca e matura come voi”.
Laura scacciò tutti i pensieri e si strinse con vigore all’uomo che amava.
Dei discorsi della madre tutto sommato gliene importava poco. Adesso finalmente dopo molti mesi assaporava la gioia di giacere con Alfonso.

Capitolo 42

Laura sentiva veramente come sua la dimora di Rossetti. La frequentò ancora qualche volta prima che Alfonso le annunciasse la sua partenza per Parigi.
“Devo incontrare il re di Francia, Francesco I, per difendere il mio ducato e sottrarlo alle mira del papa Leone X. Starò via qualche mese ma poi sarò tutto per voi”.
Laura annuì e non disse nulla.
“Cosa dovrei dire? Non partite, Alfonso! Restate qui, accanto a me! Gli affari di stato sono più importanti della mia persona” erano questi pensieri conseguenti all’annuncio della partenza.
Si limitò ad abbracciarlo con calore, perché per molti mesi non avrebbe potuto farlo. Era triste ma provò a nasconderla, perché non desiderava creargli delle difficoltà, avrebbe atteso con fiducia il suo ritorno come fanno tutte le mogli. Qualche giorno dopo il duca affrontò il lungo e pericoloso viaggio, sapendo che al suo rientro l’avrebbe trovata pronta ad accoglierlo.
Arrivò l’inverno in anticipo sui tempi ma a lei questo importava poco. Sentiva la mancanza di Alfonso. Aspettò con impazienza l’arrivo di qualche messaggio, che annunciasse il suo rientro in città, ma nessun paggio bussò alla sua porta per diversi mesi.
La ragazza ripensava nelle lunghe veglie invernali a quello che il duca aveva detto una delle ultime volte. «Il casale del Verginese e la dimora di Rossetti saranno vostre. Ma ho in serbo un’altra gradita sorpresa.». Si chiedeva di che tipo, perché non si era sbilanciato né tradito nel fornire altre indicazioni. Però accanto a questi pensieri piacevoli ce ne erano degli altri fastidiosi, perché continuavano a ronzargli nella testa come mosche moleste.
Paola aveva interrotto il suo racconto prima di descrivere l’incontro col conte e quello che era seguito. Laura le aveva detto che non voleva ascoltare il proseguimento ma non era vero. La curiosità era enorme esaltata da quella voglia pruriginosa di conoscere il mondo erotico degli adulti, perché il suo era limitato. Quei brevi accenni l’avevano stimolata e incuriosita a sapere cosa aveva provato, cosa era successo e come era finito. L’eccitava mettere a confronto la sua esperienza con quella della madre. Però non sapeva come riuscire a far riprendere la narrazione in modo spontaneo senza una sua esplicita richiesta. Le sembrava di essere diventata una bambina che osservava da una fessura nella porta cosa succedeva tra un uomo e una donna nella camera da letto.
“Non comprendo questa morbosa curiosità, che non ho avuto il coraggio di confessare a padre Fidenzio. Eppure ho rapporti stabili con un uomo. Una persona meravigliosa e delicata. Non ho da imparare nulla, perché so già tutto. Nonostante ascolterei a bocca aperta il racconto di mia madre”.
Questo pensiero compariva ciclicamente ma non trovava il modo di innescare il processo. Però era rimasta impressionata da quello che aveva rivelato Paola: Beatrice aveva solo tredici anni quando aveva subito quella violenza. Lei si rivide a quell’età. Era acerba nel fisico con la personalità che si stava formando. Era una persona in costruzione debole e facilmente manipolabile. Da poco era diventata donna e questo le aveva pesato non poco, perché era giunto inaspettato e per nulla preparata.
“Non è che ora ne sappia qualcosa di più ma in verità la comparsa del sangue non mi impressiona più come quella prima volta, quando mi sono svegliata con dolori e quel liquido rossastro e appiccicoso un po’ ovunque”.
Scacciò questi pensieri ricorrenti e si concentrò su Alfonso. Era un amante veramente straordinario che le sapeva donare istanti magnifici. Mai una volta si era dimostrato scortese, nemmeno nelle giornate di umore più nero. Laura lo adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di renderlo felice. Si sentiva serena quando lo ascoltava, quando erano nel letto. Una sensazione di benessere che non poteva descrivere. Era convinta che anche lui provasse analoghe sensazioni ma erano solo impressioni.
Nell’ultimo messaggio era stato tenerissimo, lasciando trasparire la grande voglia di stringerla a sé. Lei rispondeva con messaggi meno elaborati ma tuttavia sinceri. Adesso era meno impacciata nello scrivere, nel rispondere alle sue missive. Le parole non uscivano più stentate dalla sua mente ma fluiva più naturalmente.
Era una serata di metà febbraio del 1519, dopo l’ennesima sfuriata della neve durata un paio di giorni, che aveva ricoperto tutto per molti piedi. L’attività di berrettaio del padre andava avanti stancamente, perché quello che era pronto non poteva essere ritirato e le nuove commesse erano scarse. La gente era rintanata in casa.
“Laura, potete andare in cucina a tenere compagnia a vostra madre e riscaldarvi un po’ al fuoco del camini. Per stasera finisco io gli ultimi lavori” le disse Francesco. La ragazza accolse l’invito con gioia perché era davvero infreddolita. Aveva le mani ruvide dal freddo, tutte screpolate e con qualche doloroso gelone che non dava tregua.
“Se mi vedesse Alfonso, cosa direbbe?” pensò mentre si fregava per togliere quel pallore glaciale.
Trovò la madre che ricamava una veste accanto al fuoco del camino.
“Per chi è, madre?”.
“Per voi. Sarà nel vostro corredo di nozze. Ai miei tempi portai con me solo un paio di camice di lino, diverse di canapa grezza, due giornee, una gamurra, due gornelle. Le lenzuola per la prima notte e un altro paio per tutti i giorni di tela ruvida e grossa. Una tovaglia fine per la domenica e una più grezza per tutti i giorni. E poco altro. Tutto acquistato con qualche scudo di quelli famosi del conte ..”. Un lungo sospiro interruppe la descrizione del corredo.
“Gli altri convinsero Francesco a sposarmi” riprese. “E sì, servivano degli scudi d’oro per convincere i genitori di Francesco, affinché mi sposasse. Ci volevamo bene ma lui era un bravo apprendista nella bottega del berrettaio Ludovico, mentre io ero solo una bella fanciulla giovane e non più ..”.
Tacque, incupendo il viso. Il demone della curiosità si appollaiò sulla spalla di Laura. «Chiedile del famoso incontro col conte» le sussurrava maligno.
Era calato il silenzio mentre osservavano le lingue di fuoco che guizzano e crepitavano nel camino.
“Ma voi, madre, eravate giovane e bellissima. Questo era più che sufficiente” disse nel tentativo di portare il discorso sul famoso incontro.
“No, figlia mia. Sono qualità che servono a poco per sposare un buon partito come Francesco. Utili se vuoi finire in un bordello di Capo delle Volte, ma non apprezzate per le nozze. Una vecchia storpia ma danarosa vale molto di più di una fanciulla bella e robusta. Senza quei famosi scudi d’oro non avrei mai sposato vostro padre e tu non saresti nata. Si, ascoltai il consiglio di Beatrice ..”
“Ma ditemi, madre. Che fine ha fatto quella bambina?” la interruppe Laura come per sviare il discorso su un terreno neutro.
“Che fine vuoi che abbia fatto? Quella a cui sono destinate tutte le disgraziate come lei. Dopo quel primo incontro col conte, si sparse la voce che per due testoni d’argento avrebbe accolto dentro di sé qualsiasi signore. E così fu condannata a vita. A quindici anni rimase gravida e il bastardino non si sa dove sia finito. L’ho vista qualche tempo fa ingrigita, sfatta e invecchiata. Vive barattando il corpo per un pezzo di pane ..”.
“Madre, perdonatemi se ho portato il discorso sull’evento lontano. Non era mia intenzione riaprire una ferita ..”.
“No, no. Dovevo farlo per sgravarmi da questo segreto. Dunque ..”.
E riprese il filo della narrazione da dove l’aveva interrotto qualche mese prima, mentre Laura non perdeva una sola sillaba del racconto. Il demone della curiosità aveva raggiunto l’obiettivo.