Fantasmi – parte prima

Era il 22 luglio del 1961. Era una giornata torrida come i giorni che l’avevano preceduta. tanto che nemmeno le cicale avevano la forza di frinire, sfinite dal caldo e dall’aria rovente.
Marco aveva terminato il giorno prima la maturità scientifica e aspettava che anche gli amici fossero liberi da impegni per partire per il sospirato campeggio di Milano Marittima. Non era il suo vero nome, perché quello originale era davvero orribile: Olindo. Alla fine aveva optato per il troncamento del suo lungo cognome, Marconaldo e come tale era conosciuto da amici e parenti. Viveva coi genitori, la sorella e suo cognato in un grande palazzina stile liberty, posta lungo il vecchio ramo del Po di Primaro, circondata da un vasto giardino. Era stata fino al 1945 la casa del podestà di Ferrara ed era diventata la sede delle SS durante l’occupazione nazista di Ferrara. Lì erano arrivate molte persone ma ben poche ne erano uscite. La gente la chiamava la ‘casa degli spiriti‘ o ‘la casa maledetta‘, perché sostenevano che nel passarvi accanto si udivano ancora i gemiti delle persone torturate a morte e di notte vagassero i loro spettri in cerca di pace. Quando nell’aprile del 1945 Ferrara venne liberata, la casa rimase desolatamente vuota, perché gli occupanti avevano preferito fuggire nottetempo per non incappare nelle vendette dei partigiani. Nel vasto giardino, rimasto senza cura, crebbero rigogliose le erbacce con ospiti poco graditi: topi enormi e bisce d’acqua. Venne spogliata, ridotta in cattivo stato ma nessuno osò occuparla, perché alcune voci incontrollate dicevano che, chi aveva tentato di abitarla, era finito male. Quanto di vero ci fosse in queste dicerie, nessuno lo sapeva ma ognuno le alimentava con nuovi particolari agghiaccianti, finché nessuno dubitò della loro veridicità. In pratica rimase abbandonata a se stessa, senza che qualcuno osasse rivendicarne la proprietà. Tutto questo durò fino all’estate del 1949, quando Aldo Marconaldo con la moglie, Ersilia, e i due figli, Olindo e Genoveffa, la occupò, fregandosene di tutte quelle voci, che predicevano sventure.
Per non apparire degli abusivi cercarono senza troppo successo i legittimi proprietari o i loro eredi per regolarizzare l’affitto. Aldo, migrato dal vicino Veneto, aveva aperto sul Listone un esercizio di alimentari, che prosperava bene. La moglie lo aiutava dietro il bancone. Marco, che all’epoca aveva sei anni, con la sorella di dieci frequentavano le scuole elementari vicino alla Basilica di San Giorgio. Ben presto tutti dimenticarono quelle dicerie, salvo i più anziani che accuratamente evitavano di passare accanto. Scuotevano la testa e per nessuna ragione al mondo avrebbero posto un piede al suo interno.
Dopo essere entrati i Marconaldo cominciarono a sistemarla, riparando gli infissi rotti o asportati, ripulendola tutta con esclusione delle cantine poste nel semiinterrato. Un anno dopo rintracciò gli eredi del podestà, ucciso nella concitazione del dopoguerra, ai quali non parve vero disfarsi di quella palazzina macchiata di sangue innocente.
Nonostante tutte le chiacchiere, la famiglia Marconaldo si trovò bene in quella casa, fin troppo grande per loro. Al piano rialzato c’era l’ingresso su cui si aprivano le porte delle varie stanze e l’elegante scala che conduceva al primo piano, che adesso era parzialmente occupato dalla sorella col marito. Da una botola si accedeva al sottotetto, vasto quanto la casa e sufficientemente alto per restare ritti. Qui inizialmente vennero ammassati i mobili del precedente inquilino e poi tutto quello che nel corso degli anni venne dismesso da loro. Al semiinterrato, che al tempo dell’occupazione nazista era stato trasformato in luoghi di tortura, si accedeva tramite una scala in ardesia, chiusa da una porta in massello di noce pesante e robusta. Questa per ordine di Aldo doveva rimanere sempre chiusa e per nessun motivo ci si poteva accedere.
“Serve per tenere lontani gli spiriti dei morti, affinché nessuno li possa disturbare. Devono riposare in pace” disse il primo giorno di insediamento nella casa con tono autoritario e categorico. Tutti rispettarono il dettame di Aldo e mai fu violata quella disposizione.
Anche il grande giardino con gli anni ritornò ai vecchi splendori, anche se ultimamente si faceva sempre più fatica a tenerlo in ordine.
Quell’enorme villa di dieci stanze più due bagni, l’enorme cucina con camino e la lavanderia, che Aldo aveva pagato pochi soldi, adesso valeva una piccola fortuna, se avesse voluto venderla. Sapeva che era sproporzionata rispetto alle loro esigenze ma ormai faceva parte del suo DNA. Non l’avrebbe mai venduta, nemmeno se l’avessero ricoperto d’oro.
Quel 22 luglio Marco si aggirava annoiato e accaldato con solo un paio di calzoncini corti e sandali alla ricerca di qualcosa che lo tenesse occupato durante la mattinata. I genitori erano nella nuova bottega di Via Garibaldi, sempre piena di clienti, mentre la sorella e il cognato erano al lavoro in città. Lui era l’unico abitante della casa. Gli amici più intimi erano disponibili solo nel pomeriggio, quindi le ore della mattina era interminabili.
“Leggere un libro?” si disse, guardandosi intorno. “Troppo caldo! E poi per un mesetto non voglio sfogliare la pagina di nulla! Nemmeno del giornale! La maturità mi ha stressato!”
Poteva girare a occhi chiusi per le stanze della casa. In giardino si soffocava dall’afa. Decise di salire nel sottotetto a vedere se c’era qualcosa di interessante. Aperta la botola, lo ispezionò con cura tra ragnatele e polvere senza scoprire niente di nuovo che non conoscesse da una vita. Ridisceso al piano rialzato passò davanti alla porta delle cantine lucida e lustra ma cocciutamente chiusa. Marco sapeva bene dove si trovava la chiave per aprirla. Era infilata su un chiodo sopra l’architrave in legno. Era rimasta sempre lì, in bella vista senza mai suscitare curiosità o voglia di trasgredire gli ordini del padre.
Però quel giorno era particolare e il caldo fece la sua parte.
Il ragazzo si alzò in punta di piede prendendola e aprì quella misteriosa porta, che cigolò paurosamente sui cardini ormai arrugginiti. La scala era in penombra e a fatica si distinguevano i gradini. Non arrischiò di accendere l’interruttore, perché di sicuro i fili elettrici rischiavano un corto circuito. Riaccostatala, andò a prendere una torcia nella sua stanza. Riaperta con cautela una potente zaffata di umidità, mischiata all’aria viziata di muffa e di chiuso, lo investì con prepotenza, facendolo retrocedere per un attimo. Poi diresse la luce della torcia verso il basso sui gradini che conducevano di sotto. Scese con circospezione, perché erano scivolosi per l’umido deposto dai molti anni di chiusura. Fatti pochi scalini si chiese per quale motivo stava affrontando questa discesa.
“Eppure non sono mosso dalla curiosità di vedere” disse ad alta voce per darsi coraggio.
Marco aveva sempre rispettato il divieto del padre senza porsi eccessive domande, perché gli erano stati inculcati valori, per i quali era rispettoso di doveri, principi e regole. Questa era la prima volta che trasgrediva una proibizione. Rimase fermo senza scendere o risalire, incerto sul da farsi. L’aria gli prese la gola come se fosse animata da una mano reale, che gliela artigliava, stringendola. Gli mancò il respiro e la vista gli si annebbiò. La torcia stava quasi per scivolargli dalle dita, quando allargò il torace per inghiottire più ossigeno che poteva senza modificare quella strana sensazione di oppressione. Nonostante faticasse a respirare con regolarità, prese la decisione di procedere nella discesa. Voleva vedere cosa si annidava in quelle stanze chiuse da oltre quindici anni.

38 risposte a “Fantasmi – parte prima”

  1. Arrivo all’inizio di un tuo racconto, bello.
    Da bambina amavo avvicinarmi a una grande casa, chiamata Villa Paradiso, abbandonata da molti anni e immaginavo che al suo interno vi fossero chissà quali presenze…
    Un grande abbraccio
    Dona

  2. Buona sera, Gian Paolo !
    La ringrazio molto per associare i nomi dei miei nipoti Emanuel
    100% e il grande romanzo ANDREW Napoleone! 🙂 🙂 🙂
    Auguro con tutto il cuore che il mio nome nepoteilor a passare alla storia come il nome di Napoleone! 🙂 🙂 🙂
    Una bella serata! 🙂
    Tuo,
    Aljosha

  3. Senti mio caro, a parte l’immaginazione che a quanto pare è nel tuo DNA, ( anche nel racconto che mi sto gustando piano piano) scrivi veramente bene e dote ulteriore sai come catturare l’interesse del lettore. Che dire? Bravo, forse per tutte queste cose, è un pò pochino. Per ora accontentati così. Quando finirò con calma il racconto ( qui il tempo purtroppo non è dalla nostra parte caro amico), farò un elogio alla tua bravura. Sei in gamba caro Gian Paolo. Un forte abbraccio per ora te lo meriti tutto. Isabella

    1. Le tue parole mi fanno arrossire, sono un timido per natura…. Grazie Isabella.
      Il tempo? Beh! non si può dire buono ma accontentiamoci.
      Ricambio l’abbraccio
      Gian Paolo

      1. Talvolta la timidezza può essere un’arma vincente, e la tua scrittura ne è testimonianza. Magari più si è timidi più ci si realizza con la scrittura. E’ un modo per superarla., ma è anche un aiuto per creare. Due facce della stessa medaglia. A presto caro Gian Paolo. Isabella

  4. Un nuevo cuento, con un abanico de muchas posibilidades, misterio, y suspenso.como
    narras con tanta facilidad
    Espero no perderme si es largo pues mi memoría me falla
    mi cariño
    buen amigo*****

  5. c’è sempre una prima volta nel disubbidire ai divieti genitoriali…
    anch’io curiosa di scoprire cosa si annidava da quindici anni in quella stanza.
    buon pomeriggio 🙂

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