La notte di San Giovanni – parte quarta

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1 gennaio 1924. Era il giorno del suo diciassettesimo compleanno e la giovane Anna, figlia adottiva di Mitchell Hedges, aveva raggiunto il padre nella foresta pluviale del Belize qualche giorno prima di Natale. La madre non avrebbe voluto che si recasse là ma il padre fu irremovibile.
“Sarà un compleanno splendido e intrigante per Anna, che ricorderà per tutta la vita” le disse sicuro per convincerla.
Lei era al settimo cielo per la gioia e per lo spirito di avventura che aleggiava intorno alla spedizione iniziata sei mesi prima. Era un modo inconsueto per festeggiare l’anno nuovo e i suoi diciassette anni. Adorava quei genitori adottivi che l’avevano strappata al grigiore di un orfanotrofio. Però era il padre per il quale stravedeva e che avrebbe seguito anche all’inferno.
Si aggirò con lui tra le rovine della città perduta di Lubaantun, parola Maya che significa ‘città delle pietre cadute’. Tutto quello che vedeva per lei era una novità e non riusciva ad apprezzare il valore di quegli edifici. Osservò con gli occhi curiosi di una fanciulla, che stava sbocciando, quello che il padre le indicava e le spiegava.
Mike aveva scoperto tra le rovine di un edificio ridotto a un ammasso di pietre un teschio di cristallo. Lo nascose e non comunicò nulla agli altri componenti della spedizione. Voleva che fosse Anna a ritrovarlo il giorno del suo compleanno.
Così il primo giorno del nuovo anno Mike e sua figlia si sfilarono dall’accampamento, ancora in preda alla festa della notte appena passata, per andare da soli nella foresta.
Anna aveva una figura minuta dagli occhi mobili e vivaci. Amava l’avventura e non si spaventava facilmente. Quella mattina seguì il padre, anche se avrebbe voluto dormire ancora.
“Oggi è il tuo diciassettesimo compleanno e lo dobbiamo festeggiare nel migliore dei modi” le disse Mike, mentre sicuro si dirigeva verso un cumulo di rovine, che un tempo era stata una postazione sacra, dove si compivano riti anche cruenti. Gli indigeni, lontani discendenti dei Maya, gli avevano raccontato che sull’altare, che era sopravvissuto allo sfacelo, la notte del plenilunio veniva sacrificata una giovane donna ancora vergine.
Mentre si avvicinavano al posto, il padre le raccontava queste storie crudeli e sanguinarie, accendendo la curiosità della ragazza, per nulla impressionata da questi racconti.
“Guarda” le disse Mike, indicando un punto non troppo distante da loro. “Mi sembra di notare qualcosa che brilla”.
Anna osservò con attenzione nella direzione dell’indicazione. Era un altare maya. Una lastra ricoperta di muschio verde, sostenuta da quattro massi. La vegetazione la nascondeva agli occhi dei meno esperti ma Mike sapeva cogliere cosa si celasse sotto quel rigoglioso fogliame.
“Non vedo nulla che luccica” disse la ragazza, avvicinandosi.
“Osserva meglio” insistette il padre, scostando alcune foglie di felci.
“É vero! C’è qualcosa” esclamò inginocchiandosi. “Sembra… sembra un blocco di cristallo”. Allungò le mani verso l’oggetto che mandava bagliori.
“Fa attenzione! Potrebbe esserci un serpente o uno scorpione velenoso là sotto” l’ammonì Mike. “Usa il bastone per allontanare eventuali sorprese sgradite”.
Anna con cautela, muovendo il bastone, scoprì tra le rovine dell’altare un Teschio di cristallo.
“É magnifico!” Disse dopo averlo ripulito dalla terra e dal verde della vegetazione. “Ha anche una mandibola mobile!”
Notò che brillava in modo sinistro.
“Cosa ne facciamo?”
“Le regole della spedizione sono semplici. Tutto quello che viene ritrovata va documentato e consegnato a Lady Richardson-Brown, che è la finanziatrice. Ma vogliamo rispettarle oppure?”
“No. Questo teschio è troppo bello perché finisca come bottino nelle borse capienti di Milady”.
“Allora cosa facciamo?” gli domandò Anna.
Su questa domanda Deborah riprese i sensi. Si sentiva girare la testa e aveva il respiro affannato. La vista era ancora annebbiata. Percepiva delle mani sconosciute che le cingevano le spalle. Le immagini che fino a quel momento erano nitide nella sua mente, adesso sfumavano e diventavano indistinte fino a scomparire nel nulla. La testa pareva svuotata come le energie che la sostenevano.
“Venga, si sieda un momento” disse l’uomo con tono gentile e premuroso.
Si appoggiò a lui come se fosse un sostegno al quale doveva aggrapparsi. Non riusciva a comprendere dove si trovasse. “Sono… oppure è solo un sogno?” si disse, senza trovare una risposta sicura.
Avvertì sotto di sé una sedia che era comparsa come per magia. Non comprendeva come fosse finita lì. Era un particolare che non le interessava. Adesso doveva avere chiara la nozione del tempo e dello spazio. Doveva conoscere in quale località si trovava. Pareva aver smarrito la memoria.
“Dove sono?” chiese titubante, cercando di calmare il respiro affannoso. Si guardò intorno senza riconoscere né luogo né persone. Le pareva vivere un incubo, mentre la risposta non arrivava.
“Va meglio?”
“Sì,” rispose stordita “credo di sì”.
Però la domanda continuava a pulsare nella mente. “Perché non mi ha risposto? Perché non mi dice dove siamo? É forse un luogo segreto oppure?”
Reputò inutile riformulare la domanda, anche se non riusciva a delimitare il sogno dalla realtà.
Da qualche parte era comparso un bicchiere d’acqua fresca che l’aiutò a riaversi del tutto. La sensazione di vuoto si andava riempendo di suoni e di voci, di volti e di immagini. Intorno a lei s’era formato un piccolo assembramento di persone, tra le quali scorse il viso di Gina. “Dunque anche loro hanno assistito alla mia perdita di coscienza. Chissà cosa hanno pensato”.
Trascorsi pochi istanti rimase sola con un uomo che non conosceva. Gli altri erano sciamati nuovamente verso le bancarelle. La festa continuava e quello svenimento era stato un diversivo nella serata. La memoria riacquistava la percezione dove era e con essa stava sparendo la sensazione di angoscia che le aveva offuscato la mente.
Il primo pensiero di Deborah fu per il teschio. Temendo si fosse rovinato nel trambusto, aprii il sacchetto e la confezione di fortuna: sembrava intatto. Tirò un sospiro di sollievo. Ai suoi piedi vide l’oggetto che il vecchio ubriacone a tutti i costi aveva voluto donarle. Non le importava se si fosse rotto o scheggiato, perché le mandava impulsi negativi. Anzi imputò la sua presenza come la causa della sua perdita di conoscenza.
“Oggetto singolare” valutò il salvatore, mentre sbirciava nella borsa. Tutti i pensieri della ragazza erano rivolti al teschio tanto che si era scordata di lui.
Lo fissò, tentando di mettere a fuoco l’immagine. Il buio non favoriva di certo la visione, che appariva sfocata. Per la prima volta l’osservò con attenzione con tutte le cautele del caso. Occhi scuri, pelle olivastra, non si notavano con nitidezza, mentre il fisico asciutto era facilmente riconoscibile. “Però! Niente male! Che ci fa una persona del genere in questo buco di paese?” si disse, mentre sorseggiava l’acqua.
“Sì, molto” rispose Deborah, mentre si asciugava le labbra con un fazzoletto. “La signora che me l’ha venduto sostiene sia di origini Maya”.
“Addirittura? E lei ci crede?”
“Per la verità, no!” rispose ridendo. Fece una piccola pausa prima di riprendere a parlare.
“Certo, se fosse vero, sarebbero i cinquanta euro meglio spesi della mia vita”.
Un sorriso le illuminò il volto. L’uomo la guardò tra lo stupito e l’incredulo. Un’aria di commiserazione si stampò sulle sue labbra. Si domandò chi venderebbe per così poco un oggetto prezioso e antico. Assunse l’atteggiamento di chi finge di credere alle panzane. Di nuovo si pose la domanda se la ragazza fosse sana di mente o un’abile commediante.
Deborah non si accorse dello sguardo di compatimento che lui aveva sul viso, rimasto nell’ombra.
“Che sciocca! Non l’ho nemmeno ringraziata per l’aiuto! Senza di lei sarei caduta per terra come un sacco di patate”.
Lui sorrise, mentre diceva “Si figuri! L’ho vista in difficoltà e senza pensarci troppo sono intervenuto. L’importante è che lei si sia ripresa”.
“Che ne direbbe di darci del tu? Deborah” e allungò la mano verso di lui, mentre con la sinistra continuava a reggere il pesante souvenir.
“Alex” rispose in modo sbrigativo, stringendola.
“Posso farti una domanda?”
“Dimmi”
“L’oggetto dove l’hai trovato? É un teschio, mi pare. Non ho visto niente del genere sulle bancarelle. Eppure le ho visitate tutte”.
“Proprio dietro di me c’è un banchetto con oggetti etnici”. Si voltò e si accorse che non c’era più.

32 risposte a “La notte di San Giovanni – parte quarta”

  1. Suspenso, en está parte, con muchas aventuras, de ellos
    me encanta la descripción, con todos los detalles
    Me imagino el cráneo, y me da miedito****
    mi cariño***
    buen amigo******

  2. Nessuna notifica da parte di WP dei tuo nuovo post 🙁 e ari_ 🙁
    Qui il sogno e la realtà si sovrappongono, l’unico filo conduttore è un teschio e si è volatilizzato pure il banchetto di oggetti etnici dove Deborah l’aveva acquistato. Eppure l’oggetto è tra le sue mani, una prova tangibile quindi.
    Terrò a mente quella data: 1 gennaio 1924 qualcosa mi dice che …. 😉
    n.b. se nella vita non sei uno scrittore prendi in considerazione di diventarlo. Intriga troppo la Tua scrittura 🙄 e adesso resto ad aspettare la quinta parte, in trepida ansia.
    un abbraccione
    Affy

    1. Affy, non sono uno scrittore, questo è certo. Mi fa piacere che la mia scrittura coinvolga.
      WP a volte è smemorato. Mi è capitato un anno fa col blocco delle notifiche per due mesi.

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