Una storia così anonima – parte ottava

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Val Segusium, 4 novembre 1307, ora prima – anno secondo di Clemente V

Pietro è sempre più inquieto. Quella sgradevole sensazione di avere alla costole dei misteriosi inseguitori diventa sempre più acuta. Il chierico Phillipe non avverte lo stesso pericolo e ammira le colline e i campi su i due lati della strada. I colori dell’autunno si mostrano prepotenti e affascinano la vista. La strada ha un fondo accettabile tale da tenere un buon passo.

Arrivati a Venaus, si fermano a una fonte e fanno bere e riposare i cavalli, che coprono con una panno di lana rustica a protezione del freddo che diventa sempre più pungente. Presa la carrareccia di destra, iniziano a salire verso l’abbazia di Novalesa, dove hanno deciso di fare una breve sosta prima di affrontare il tratto finale della salita. Per quanto cresca la voglia di non perdere ulteriore tempo, pensa che sia improbabile riuscire a superare il valico del Mont Cenisium prima del Vespro, perché fa buio presto e il tempo a disposizione non è molto.

É quasi l’ora sesta, quando, usciti dal bosco, ai due viandanti appare in cima a un rilievo le imponenti mura dell’abbazia, che occupa il loro orizzonte. Il complesso monastico, che agli occhi di Pietro si presenta come un blocco grigio sul cielo plumbeo, si sviluppa alla destra di una chiesa di modeste dimensioni. Superata la ripida salita che conduce alla porta del monastero, accedono a un primo cortile, contornato da un loggiato. Il frate guardiano prende in custodia i cavalli, mentre Pietro e Phillipe sono accompagnati al refettorio.

“Vedo nuvole basse e cariche di neve. Pensate che riusciremo a passare il colle e scendere al di là prima del vespro?” chiede il frate a un monaco benedettino che sta portando loro una zuppa di vegetali fumante.

“Se volete rischiare, penso di sì. Però vi suggerisco di fermarvi per qualche giorno. Il tempo migliorerà verso il cinque di novembre e potrete valicare il colle in tutta sicurezza” risponde deponendo innanzi loro due scodelle odorose e calde.

Pietro non risponde e riflette. Non possiamo sprecare diversi giorni, si dice, con la speranza che il tempo migliori e col rischio che l’eventuale neve caduta impedisca il passaggio. Scuote la testa. Il chierico pare estraniato dalla questione, mangia con avidità quella zuppa di vegetali calda, dove ha immerso tocchetti di pane stantio.

Si è alzato un vento gelido, mentre le nubi si fanno più spesse e più basse. Il frate chiede notizie sul sentiero da prendere.

“É possibile procedere a cavallo oppure solo a piedi?” domanda a un monaco, che gli hanno indicato come profondo conoscitore dell’area.

“La mulattiera è ripida e insidiosa per una cavalcatura, salvo che non usiate i nostri cavalli alpini, i comtois, dal garrese basso e dallo zoccolo ampio e ben modellato. La folta pelliccia li ripara dal freddo. Sono resistenti alla fatica e abituati alla neve” gli risponde il benedettino.

Pietro non è molto convinto dell’affermazione. I cavalli che stanno cavalcando, provengono dall’Appennino. Sono dei Bardi, forti e robusti, abituati a terreni scoscesi e duri. Possono tenere una buona andatura per molte ore senza stancarsi e non temono il freddo.

“Grazie per le informazioni. Se ci indicate la strada, pensiamo di partire al più presto” ringrazia il frate.

Il monaco si stringe nelle spalle. Non ama contrariare gli ospiti. Li ha avvertiti ma, se vogliono agire di testa loro, non sarà certamente lui a polemizzare per modificare quanto hanno deciso.

“La strada si snoda a tornanti fra l’abbazia e Ferrera Cenisio, nel folto del bosco che vedete alle vostre spalle. É coperta dal ghiaccio piuttosto che dalla neve da ottobre ad aprile. Esistono maggiori probabilità di trovar neve nel tratto successivo, che da Ferrera porta al valico. L’ambiente innevato e gli spettrali edifici abbandonati portano il viandante ad immergersi nell’alone di mistero che pervade montagna e via di transito, frequentata anche in pieno inverno da pellegrini a piedi” dice il monaco con grave enfasi.
“Mi hanno detto che esiste un Ospizio quasi in prossimità del passo. É vero oppure è abbandonato?” si informa Pietro.
“Lo trovate in prossimità di un piccolo lago alpino. Un piccolo edificio in muratura, dove potete trovare ospitalità per la notte o riparo in caso di una forte nevicata” conferma il benedettino.
“C’è il rischio di smarrirci?” domanda Pietro, mentre il chierico si avvicina con le loro cavalcature.
“Direi di no, se ascoltate bene quello che vi dico. Il primo tratto è obbligato. Non esiste il pericolo di perdervi nel bosco. Però giunti a Ferrera Cenisio ci sono molti viottoli e il rischio esiste. Arrivati in paese, vi spostate verso le baite raggruppate sulla sponda destra del torrente Cenischia. Qui superata la chiesa, le ultime case e il cimitero, imboccate l’evidente mulattiera, che è fiancheggiata da muretti a secco. Non potete sbagliarvi. Proseguite lungo il tracciato che avanza fra radure e boschi di abeti e larici, mantenendo sempre il fianco sinistro della valle, in direzione ovest. Passata una strettoia, entrate nella Piana di San Nicolas, dove incontrate un lago alpino. Proseguite sulla strada, che sta sulla sponda destra tra la montagna e lo specchio lacustre. Di lì salite verso il valico. La via in discesa è ripida e infida e vi conduce a Lens-le-Bôrg rapidamente, dove potete trovare alloggio” spiega con dovizia di particolari il monaco.
Pietro e il chierico, dopo aver caricate le provviste sui cavalli, escono dall’abbazia per imboccare la strada che conduce al valico. Percorse poche miglia e lasciatesi alle spalle le ultime case del paese di Novalesa, si trovano immersi nel folto del bosco e delle nubi basse. Superati un paio di tornanti, facendo attenzione a risparmiare i cavalli, Pietro avverte nuovamente la presenza oscura di qualcuno alle loro spalle. Visto un viottolo e zittendo il chierico con un dito, si nascondono nel folto di un roveto. Dopo non molto tempo vedono passare tre cavalieri, tra cui il frate riconosce quel Henry de Caron che si era presentato alla magione bolognese qualche giorno prima.
Dunque sono loro che ci stanno seguendo da Bologna. I miei sensi non mi hanno ingannato‘ si dice Pietro, mentre il chierico osserva quelle tre figure basito. Lui non si era accorto di nulla ma il suo compagno sembra avere anche dietro degli occhi e delle orecchie.
Lasciato trascorrere per precauzione un certo lasso di tempo, Pietro e Phillipe riprendono a salire verso Ferrera con cautela e in perfetto silenzio. Il frate comprende che non riusciranno a valicare il passo prima che faccia buio. Decide di raggiungere l’ospizio, dove si fermeranno per la notte. Fiocchi di neve cadano dapprima radi, poi più fitti, imbiancando la mulattiera. Gli zoccoli dei cavalli tendono a non aver presa sul fondo ghiacciato. I due viandanti smontano da cavallo e camminano al loro fianco. Perdere una cavalcatura in questi momenti potrebbe trasformare il loro viaggio in tragedia, perché non conoscono quanto il paese di Ferrara Cenisio disti. Il buio del bosco e le nubi sempre più basse, che scaricano neve, li rendono guardinghi. Devono fare attenzione anche ai tre misteriosi cavalieri che li stanno inseguendo da molti giorni.
Dopo l’ennesimo tornate, scorgono in lontananza le sagome imbiancate di case di legno. Il paese appare disabitato. Non un filo di fumo si leva dai comignoli. Pietro indica col capo a Phillipe di accostare verso un gruppo di abeti.
“I tre cavalieri, che abbiamo visto poc’anzi, potrebbero aspettarci tra le case di Ferrera e tenderci un agguato. Quindi propongo di attraversare il torrente e tenerci al coperto sulla destra, finché non imbocchiamo la mulattiera che ci porta al valico” dice il frate quasi bisbigliando.
Il chierico annuisce e lo segue. Sa che si può e di deve fidare di questo templare, che intuisce i pericoli e li schiva. In breve si portano sul lato destro del torrente, protetti dal bosco e puntano verso la chiesa che scorgono in lontananza.
Henry de Caron, arrivato in paese, scopre di essere stato beffato da Pietro. Si ferma e impreca. Nuovamente deve fare i conti con l’acutezza di questa persona, che pare dotato di una diabolica lungimiranza.
“Messeri, quel infernale frate ci ha gabbati. O ha cambiato strada oppure è alle nostre spalle” dice Henry con tono irato, guardando Pierre in cagnesco. Lui doveva seguire le tracce delle due prede ma a conti fatti non si è accorto che sulla neve fresca mancavano i segni del loro passaggio. Nel paese, abbandonato nel periodo invernale, il manto candido appare incontaminato, salvo qualche segnale del passaggio di una volpe.
“Cosa facciamo, messer Henry?” domanda Hugo, affiancandolo.
Il capo della piccola spedizione non risponde e medita. Tornare indietro è pericoloso. La luce del giorno, già fievole per le nubi basse e per la nevicata in atto, si sarebbe spenta, lasciandoli in mezzo al bosco. Dunque si deve avanzare almeno fino al lago, dove avrebbero trovato un riparo di fortuna in una delle molte grotte presenti.
“Si prosegue” dice Henry deciso, mentre sprona il cavallo in avanti.
Pietro e Phillipe procedono con cautela, seguendo un sentiero che non esiste. Scendono nel torrente per evitare di spingersi troppo dentro la macchia, risalgono la sponda destra, finché non ritrovano la strada oltre Ferrera Cenisio. La neve, che cade con maggior intensità, li avverte che hanno sopravanzato di nuovo gli inseguitori. ‘Siamo di nuovo a un bivio’ si dice il frate, riflettendo sul da farsi. Deve operare una scelta: rischiare di avere alle spalle quel terzetto, dei quali non conosce le intenzioni oppure aspettare che passino nuovamente davanti. Lì il bosco sta per lasciare il posto alle rocce, sia pure per un breve tratto. Pietro è indeciso ma Phillipe, intuendo il dilemma del frate, si affianca e gli suggerisce un’altra alternativa.
“Più indietro, a mezzo miglia da qui, ho notato un sentiero stretto, che porta verso l’alto nel bosco, quello che vediamo su quelle rocce. Forse ci consente di arrivare all’ospizio senza essere notati” dice il chierico.
“E se non conduce da nessuna parte? Oppure ci porta in qualche valle stretta e cieca? Rischiamo di perderci col buio ormai incipiente e la neve che scende copiosa” replica Pietro, non del tutto convinto che sia la mossa giusta.
Loro rimangono al coperto nella boscaglia. Il monaco benedettino era stato preciso nella descrizione. Devono imboccare una mulattiera con dei muretti a secco sul lato verso la montagna, che li avrebbe condotto in una piana. E nel grigiore confuso si notano questi manufatti più scuri rispetto alla strada.
Indecisi, se tornare indietro e avventurarsi per quel sentiero sconosciuto oppure prendere con decisione la mulattiera indicata, avvertono delle parole confuse col nitrito dei cavalli.
“Il Signore è con noi” sussurra piano Pietro, mentre osservano sfilare come fantasmi imbiancati i tre cavalieri. Aspettano, finché le voci non si perdono nella lattea oscurità delle nuvole.
Con cautela seguono quelle orme, tenendosi vicino al bordo della via, pronti a una fuga precipitosa. Procedono lentamente, mentre il buio diventa sempre più evidente. Pietro dubita di poter arrivare con un filo di chiarore all’ospizio, che non dovrebbe distare molto dopo la piana. ‘Ma alla piana quanto manca?’ si chiede, togliendo dalla criniera del cavallo la neve che si è depositata. Osserva le tracce lasciate dal terzetto e giudica che hanno mezzo miglio di vantaggio.
Il bosco si apre su un pianoro innevato dove spiccano nel bianco della neve i cavalieri, che piegano verso sinistra, abbandonando la strada.
“Gesù Cristo ha ascoltato le nostre preghiere, Chierico Phillipe. La strada ora è sgombra. I tre ladroni si sono spostati verso sinistra, mentre noi dobbiamo tenere la destra. Se abbiamo fortuna, tra non molto siamo al caldo” dice Pietro, sollecitando il cavallo, che affonda faticosamente gli zoccoli nella neve.
“Messer Henry, siete sicuro che questa via ci porti da qualche parte?” chiede spaventato Hugo. Il buio, la nevicata, che per effetto del vento appare più violenta della realtà, creano sgomento nel cavaliere.
“Sì” risponde secco la guida dei tre, indicando un punto della roccia.
Pierre stringe le palpebre per mettere a fuoco l’indicazione ma nota solo il bianco della neve, da cui affiorano rocce più scure. Tace. Non commenta, conoscendo il carattere brusco e iracondo di Henry.
Hugo vorrebbe replicare che non vede nulla. Solo rocce e neve, che si confondono con le nubi basse. Nevica e si sente bagnato nelle ossa. Avrebbe preferito dormire nell’ospizio o fermarsi nel paese deserto, che hanno lasciato alle spalle. Però il capo era stato categorico: nessuno deve vederci. Scuote il capo, togliendosi dal viso la neve.
Come per magia una fenditura abbastanza ampia appare nella roccia all’improvviso.
“Siamo arrivati” dice Henry, che accende una torcia con un acciarino, prima di infilarsi nello spacco, sufficiente al passaggio di un uomo a cavallo.
I due compagni lo seguono, ben felici di mettersi al riparo. É un’ampia caverna dal fondo sassoso e leggermente umido. In lontananza si ascolta il gocciolio di acqua che cadde. Si portano il più interno possibile per ripararsi dal freddo e dalla nevicata, che ha preso vigore. Con dei piccoli pezzi di legna secca creano un falò per asciugarsi e riscaldarsi un po’. Chiudono l’apertura della grotta con un drappo di lana spesso e pesante, che bloccano con alcune rocce.
Pietro e Phillipe hanno la strada libera e accelerano il passo per raggiungere l’ospizio. Non possono mettere al galoppo i cavalli, perché il sentiero è ricoperto da una spessa coltre di neve. Tuttavia riescono tenere un discreto passo. Superata la piana, si inerpicano su stretti tornanti, finché non appare la sagoma rassicurante della struttura in mattoni, che manda verso l’alto un filo di fumo. É un segnale che l’ospizio è abitato. Col vento contrario, che ghiaccia i fiocchi sul viso e sul corpo, Pietro e Phillipe raggiungono il portone. Bussano per farsi aprire. L’ospizio li accoglie e li riscalda. Domani dovranno affrontare il passo e poi scendere a valle nell’altro versante. Sono intirizziti dal gelo. Mangiano una zuppa di cavolo e fagioli calda e corroborante. Fuori nel buio la neve cade copiosa, mulinata dal vento.
“Speriamo che domani il valico sia transitabile” dice Pietro, mentre si avvia verso la cappella per le preghiere del vespro prima del sonno ristoratore.
parte nona

0 risposte a “Una storia così anonima – parte ottava”

  1. Se mai volessi intraprendere un viaggio per Ferrera Cenisio basterebbe fare riferimento alle tue indicazioni molto precise caro Gian Paolo. Sei bravissimo. Passa da me nel frattempo, c’è una cosa per te. Un abbraccio. Isabella

  2. Scenario e capitolo affascinante.
    Sembra di essere assieme a Pietro e Phillipe
    Pietro fa invidia ai migliori investigatori, non perde un colpo…
    E Henry de “Carogn ” avrà molto da infuriarsi per l’intelligenza acuta e mirabile di Pietro
    Complimenti, Gian Paolo
    Un abbraccio felice ( per averti letto)
    Mistral

  3. Davvero avvincente questo inseguimento, ancora più bello perché governato dai ritmi della natura e degli eventi climatici. Si sente il freddo, si vede la neve, si respirano le nuvole di fiato emesse dai cavalli nell’aria di cristallo. Una pagina splendida, impreziosita dalla precisione descrittiva e dallo stile asciutto, adamantino, perfettamente adeguato alla vicenda

  4. Stasera apprendo l’esistenza dei comtois…
    La narrazione prende corpo, il lettore segue avvinto anche dal paesaggio al quale hai dato un ruolo di comprimario.
    Il mistero continua. Sei avvezzo a certe ambientazioni noto..
    I personaggi stanno acquisendo sempre più spessore.
    Tuttavia per consentire meglio la fruizione io avrei diviso a metà la puntata che, se non erro, è più lunga delle altre…
    Ti segnalo un refuso “quel infernale”..
    ( hai notato il mio commento nella puntata precedente?)

    1. Grazie per la segnalazione. Dividere in due parti? Può darsi. Al memento non è in revisione.
      Grazie per le tue parole.
      I comtois, sono i cavalli alpini dalla folta pelliccia. Un tempo usati per superare le Alpi.

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