Daniele – parte 5

foto personale
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Dunque Natalia è sparita all’improvviso” si disse Daniele, che si muoveva per la stanza in modo irrequieto.

Il suo sguardo vagava sulla libreria, soffermandosi su quello che stava sulle mensole. Sorrise, pensando che era davvero disordinata. Libri sistemati casualmente. Alcuni in piedi, altri appoggiati a mostrare il dorso. Polvere che brillava in controluce. Poi i suoi occhi tornarono su Natalina, che era sul divano con le mani appoggiate sulle cosce. Pareva serena, per nulla preoccupata.

«Non capisco» sussurrò Daniele, che si era fermato innanzi a lei. «Non capisco proprio nulla di questa storia. Forse se cominciamo dall’inizio, avrò le idee più chiare».

Natalina si strinse nelle spalle, come se tutto questo non la riguardasse. «Vieni» sospirò la ragazza, allungando un braccio per afferrare la mano di Daniele. «Siediti. Qui accanto a me».

Lui si accomodò sul divano accanto a Natalina. La guardò fisso negli occhi e aspettò che cominciasse a parlare. Doveva spiegare molte cose. Il mistero di Natalia, la presenza dei due sudamericani, i collegamenti con la signora bionda e la ragazzina al seguito. A dipanare tutte le questioni avrebbero fatto notte con l’intermezzo del pranzo. Questo a dir poco.

«Una storia lunga. Vecchia di molti anni» iniziò la ragazza, tenendo le sue mani tra le sue. «Risale al tempo in cui Sara partì per Venezia. Una partenza senza arrivederci ma con molti rimpianti…».

«Ricordo bene quel giorno» interruppe Daniele la narrazione di Natalina. Un groppo alla gola lo colse, impedendogli di proseguire.

«Natalia la seguì» precisò la ragazza, come se il discorso non fosse stato interrotto dalla sua esternazione. «Erano amiche intime. Dove andava l’una, c’era anche l’altra. Io le seguivo come un cucciolo fedele. Però quella volta io rimasi a Roma. Avrei voluto seguirle ma ero troppo giovane per farlo. Sentivo mia sorella tutti i giorni. Lunghe telefonate e tanta nostalgia. Mi raccontava le sue giornate e quelle di Sara».

«Allora saprai di Lisa» balzò in piedi Daniele.

Natalina lo guardò con occhio stranito, come se qualcuno avesse bestemmiato in chiesa. «Lisa?» domandò, allargando i suoi occhioni nocciola. «Chi sarebbe Lisa?»

Daniele si sedette di nuovo accanto a lei. Ancora una volta non riusciva a ottenere notizie sulla fantomatica figlia. “Che sia solo il frutto di una mia fantasia morbosa?” si chiese, ben sapendo che non avrebbe trovato risposta.

«Nulla» replicò Daniele con occhio deluso. «Una mia fantasia. Un sogno ricorrente. Un desiderio inespresso».

«Natalia si confidò con me» riprese la narrazione Natalina. «Si era innamorata di un uomo. Molto più vecchio di lei. Una persona ricca. Viveva in una villa cinquecentesca sulla riviera del Brenta».

Daniele si irrigidì. Qualcosa non tornava. Corrugò la fronte. Sara era rimasta via circa tredici anni. Natalia molto meno. Con precisione non lo ricordava. Sapeva solo che non aveva seguito Sara in Germania. “Che relazione c’è tra quello che sta raccontando Natali’ e la sparizione di Natalia?” si domandò Daniele. Un altro pensiero si affacciò nella sua mente. Felice Maniero, faccia d’angelo. Il mitico criminale della mala del Brenta. Daniele lo scacciò quasi subito. Non poteva immaginare Natalia tra le braccia di questa persona.”No, non può essere!” si disse, scuotendo il capo.

«Insomma una concubina di lusso» sbottò Daniele, che non era riuscito a reprimere le parole e a frenare la lingua. Si pentì subito della sua affermazione ma ormai l’aveva detto.

Natalina lo guardò col viso accigliato e lo sguardo torvo. Stava dando della mantenuta a sua sorella. Se non di peggio.

«Che dici!» sibilò Natalina con gli occhi ridotti a fessura. «Era vero amore! E non mercenario!»

Daniele fece una faccia contrita, da autentico attore drammatico. Lui di solito misurato nelle parole, questa volta aveva smesso il suo aplomb, lasciandosi sfuggire una frase oltraggiosa. Stava per scusarsi, se le scuse avessero una valenza per calmare le acque, diventate tempestose, quando il trillo del campanello annunciò l’arrivo del pranzo.

Daniele si alzò per aprire il ragazzo e pagarlo. Avvertì che l’aria era diventata calda e il clima era mutato.

Di malumore Natalina seguì il padrone di casa in cucina, dove avevano apparecchiato il tavolo. Niente tovaglia ma un set all’americana in tinta. Piatti di porcellana bianca che spiccavano sul blu della tovaglietta. Daniele stappò il vino che versò nei calici colorati. Avrebbe voluto fare un brindisi per il ritorno di Natalina ma ritenne opportuno soprassedere. C’era poco da brindare dopo la sua uscita infelice su Natalia.

Le vivande erano quasi fredde. Daniele le infilò nel forno a colonna per riscaldarle. La pasta fredda non gli era mai piaciuta. Si appoggiò con un gomito sul piano di lavoro. Doveva trovare il modo per ricucire lo strappo.

Natalina scura in volto era seduta al tavolo. “Si vede che manca la presenza femminile” si disse per calmare il nervosismo, causato dalla battuta infelice di Daniele. Avrebbe voluto alzarsi e andarsene. Però le serviva il suo aiuto, se voleva rintracciare la sorella. Solo Daniele sarebbe stato in grado di farlo. Non comprendeva in base a quale elemento lo riteneva capace ma intuiva che era così.

Prese il calice e lo agitò con dolcezza, come fanno i sommelier per degustarlo. Lo depose con delicatezza davanti a lei. La mano tremava ancora per l’ira repressa. Daniele aveva il viso addolorato. Almeno era quello che lei gli leggeva sul volto. Le labbra stirate e chiuse. Gli occhi con un velo di autentico rammarico. Avrebbe voluto alzarsi per abbracciarlo e dirgli “La tua è stata una battuta pesante ma non è il tuo pensiero” ma si trattenne. Non era ancora il momento. Si concentrò sulla stanza che necessitava di essere sistemata. Niente di particolare. Quel tegame che spuntava dallo scolapiatti andava lavato e sistemato nel mobile. La caffettiera aveva bisogno di essere pulita a fondo. I residui di tanti caffè l’avevano resa quasi nera.

«È pronto il pranzo» annunciò Daniele con voce appena percettibile.

Aveva appena diviso il primo in due porzioni, quando il trillo del campanello li fece sobbalzare.

«Chi sarà?» domandò Daniele, che pensò subito a quelle due coppie che li avevano seguiti dall’aeroporto. Un’associazione istintiva ma poco plausibile. Vedeva troppe fiction televisive. Calmò il tumulto interno e guardò Natalina come a chiederle cosa fare.

«Vai al citofono» suggerì Natalina per nulla impensierita da quella intrusione. «Così lo saprai».

Lo sentì confabulare, mentre con la forchetta pasticciava con gli spaghetti. Udì alla fine “Sali” senza capire chi fosse. Di certo non era un estraneo.

Daniele rimase accanto alla porta, finché non spunto la chioma riccioluta di Sara. “Sembra che abbia il radar” sospirò Natalina, facendo il viso di circostanza. Anche se si erano riavvicinate, tra loro non correva buon sangue. Si sopportavano a malapena. Per Natalia, se fosse servito, avrebbe ingoiato anche le frecciate più pungenti di Sara. Rimase seduta. Tanto bastava Daniele ad accoglierla.

«Ciao» disse Daniele, baciandola sulle guance.

Natalina fece una smorfia di disgusto e subito dopo un sorriso di circostanza. «Ciao» fece anche lei, accennando ad alzarsi.

Sara rispose con un cenno del capo. Mostrava in viso il suo disappunto per la presenza di Natalina. Il sorriso era morto sulle labbra. Gli occhi cercarono il volto di Daniele.

«State mangiando?» chiosò ironica Sara, come se non fosse chiaro dai piatti in tavola.

«Metto un altro coperto per te?» domandò cortese Daniele, mentre Natalina si stringeva nelle spalle. Doveva controllarsi e fare buon viso a cattiva sorte.

Sara scosse il capo in segno di diniego. «Però un bicchiere di vino lo bevo volentieri» disse, prendo una sedia per sedersi.

«Sei tornata, Natalina?» fece Sara, sapendo che era una domanda oziosa. Se era lì, voleva dire che era tornata. «Quando?»

Natalina annuì col capo.

«Stamattina» la informò Daniele, mentre riempiva il calice col vino. «Non gradisci nulla, Sara? Nemmeno una porzione di dolce?»

Daniele si interrogava sui motivi di quella irruzione. Ieri sera si erano lasciati un po’ burrascosamente e nulla era cambiato nel frattempo.

Sara scosse la testa, poi ingollò il vino in una sola sorsata. Si deterse le labbra con una salvietta presa dal tavolo. Avrebbe voluto fare un certo discorso con Daniele ma la presenza di Natalina la frenava. Riguardava sua sorella e non sapeva come l’avrebbe presa. Se i loro rapporti in apparenza erano cordiali, in realtà nel loro intimo si odiavano, si detestavano. Una vecchia ruggine di molti anni prima, quando Natalina era sempre tra i piedi.

Daniele comprese ma forse intuì più che capire, che Sara non era venuta in visita di cortesia. Le leggeva negli occhi un messaggio muto ma inequivocabile. ‘Ho necessità urgente di parlarti da solo, senza la presenza inopportuna di Natalina’.

Quel muovere gli occhi da destra a sinistra, accompagnati da un gesto del capo non sfuggirono a Natalina, che strinse le labbra e si accigliò. “Si tratta di Natalia” pensò, mentre stava rigida sulla sedia. “Da qui non mi schiodo. Se vuole parlare, lo farà in mia presenza”.

Daniele era preso tra due fuochi. Da un lato avrebbe voluto ascoltare Sara. Dall’altro non intendeva mancare di rispetto a Natalina. Doveva giocare una partita sporca per portare a casa i risultati. “Ma come?” si domandò inquieto, tornando a osservare la cucina. Il lavello con quella pila di stoviglie da lavare non faceva un grande effetto. I tegami con tracce delle cotture precedenti facevano bella mostra nello scolapiatti. Distolse lo sguardo per concentrarlo sulle due donne che si fronteggiavano mute. Gli venne d’istinto di ridere. Senza motivo.

«Cosa c’è di comico?» fece Sara indispettita.

«Nulla» rispose Daniele con lo sguardo da candido angioletto.

«Allora perché ridi?» insistette Sara, che non comprendeva lo scoppio ilare di Daniele.

Lui si fece serio. “Se non ha capito, non capirà” rifletté Daniele, che doveva togliersi dall’impaccio nel quale era finito. Doveva aprirsi con schiettezza e affrontare i problemi senza aggirarli come era sua abitudine. “Ma comprenderanno le mie parole?” si disse, riflettendo sulle prossime mosse.

[Continua]

Daniele – parte 4

disegno - foto personale
disegno – foto personale

Daniele, in silenzio e attento a non sbagliare nulla, si avviò verso l’ingresso dell’autostrada Roma Fiumicino. Difficile capire se i due angeli custodi fossero dietro di loro. La fila di auto che li seguiva rendeva pressoché impossibile decifrare se qualcuno era alle loro calcagna.

Natalina era taciturna, mentre Daniele aspettava che spiegasse i motivi dell’improvviso rientro. Evidentemente si sbagliava, mentre lui attendeva l’occasione giusta per parlarne. Non gli andava di parlarne a freddo. Alla fine dei conti era stata Natalina a innescare i suoi dubbi ed era compito suo scioglierli.

La Roma-Fiumicino era trafficata ma scorrevole. Si poteva tenere una buona media, finché non imboccò il grande raccordo anulare.

«Uno strazio!» sbuffò Daniele, che smise di osservare lo specchietto retrovisivo per prestare attenzione a chi lo precedeva.

Stop and go. Una frenata e un’accelerata. Lo stomaco andava in gola per tornare al suo posto. “Nonostante il sabato” pensò, “la musica non cambia. Tutti sul raccordo. Affiancati come tanti soldatini”. Allo svincolo con l’Aurelia si immise nel traffico cittadino, non meno incasinato del raccordo.

Daniele guardò l’orologio. “È quasi ora di aperitivo” mugugnò, parcheggiando sotto casa.

«Vieni» ordinò Daniele prendendola per un braccio. «Facciamo un drink da Mario. Così possiamo parlare».

Natalina lo seguì docile ma scosse il capo in segno di diniego. Non era il posto adatto per parlare. Daniele diede una sbirciata veloce intorno a sé, mentre attraversava la strada. Ebbe un tuffo al cuore. I due sudamericani avevano tentato inutilmente di occultarsi dietro un suv. “Dunque ci hanno seguito” si disse, corrugando la fronte. “Non era un caso la presenza di Juan alle spalle di Natalì. Perché?”

Adesso doveva verificare anche la presenza della donna e della ragazzina e poi avrebbe fatto bingo. Natalina gli doveva molte spiegazioni. Non credeva che lei ignorasse queste presenze. Sull’altro marciapiede prima di entrare da Mario, Daniele si volse verso la Smart, come a sincerarsi che fosse posteggiata bene. “Evviva!” esclamò in silenzio. “Pure loro ci sono. Qui gatta ci cova”.

Si diresse verso il suo tavolo, che per fortuna era libero. Una postazione strategica, perché gli consentiva di osservare il locale senza sforzo. Passando accanto al bancone, fece un gesto, che venne recepito senza altre spiegazioni, con due dita. Mario annuì con un sorriso. Conosceva a menadito i segnali di Daniele. C’era un’intesa perfetta tra loro. Due spritz con salatini e olive nere. Lo alternava col mojito. Due dita a V indicava lo spritz. Le corna serviva per il mojito. Olive nere sempre e comunque. Gli stuzzichini erano variabili. Patatine e arachidi. Tartine e sfogliatine al formaggio. Dipendeva da quello che era disponibile.

«Che dici?» le chiese, quando furono seduti. «A me Sara non ha detto nulla. Quasi nulla. Di Natalia… insomma cosa mi dici?»

Daniele era spazientito. Due sudamericani, di cui uno pareva un bodyguard, li avevano seguiti e li aspettavano fuori dal locale. Una donna e una ragazzina pure. C’erano tutti gli ingredienti di un intrigo mondiale. E Natalina restava abbottonata a doppia mandata. In silenzio in macchina. In silenzio anche adesso. Solo gesti e mimica facciale per dire che sarebbe stata muta come un pesce. Natalina non aveva modificato l’aspetto del viso da quando era apparsa nella zona arrivi del Leonardo da Vinci. Senza una ruga, con l’occhio assente e le labbra strette. Daniele sbuffò, mentre piluccava un’oliva. “Dopo tre ore abbondanti ne so quanto prima” sospirò, sorseggiando lo spritz. “Ovvero nulla”.

«In casa apri bocca o scena muta?» chiese un Daniele tra l’arrabbiato e il rassegnato. L’enigma di base, anzi i due quesiti erano ancora irrisolti. Di Natalia non sapeva nulla, mentre di Lisa, la fantomatica figlia, tenacemente negata sia da Sara che da Natalia, aveva il dubbio che fosse mai venuta al mondo. Oltre a questi c’era da chiarire le presenze inquietanti fuori del locale.

Rimasero in silenzio, finendo l’aperitivo, fino a quando Daniele non si alzò per saldare il conto. Recuperato l’ingombrante trolley, salirono fino al suo bilocale. Controllò che tutto fosse in ordine. La porta subito. Poi gli oggetti e i cassetti. Lo sguardo spaziò veloce. Nulla era modificato rispetto alla mattina. Il solito velo di polvere che stazionava sul tavolo, il letto da rifare. Solo i bagno era ordinato, mentre in cucina la moka stava ancora sul piano cottura. Non si fidava di quegli estranei che stazionavano in strada. Proprio non riusciva a capire che relazione ci fosse con Natalina e tutti i rebus che continuavano a galleggiare nella mente.

«Ti sistemi qui?» domandò curioso Daniele. Lo spazio non abbondava nel bilocale ma stringendosi un po’ sarebbe stato sufficiente per entrambi.

«Sì» fece Natalina, inscenando un timido sorriso. «Se mi ospiti».

Daniele proruppe in una bella risata. «Ma certo! Sei la benvenuta, se ti va di dividere il letto con me».

Natalina annuì con gli occhi finalmente allegri.

«Se vuoi farti una doccia» disse Daniele, aprendo il frigo, che non era molto rifornito. «Là c’è il bagno. Asciugamani e accappatoio sono puliti di bucato».

Daniele si grattò una guancia. Preparare il pranzo sarebbe stato un’impresa ardua. Per il primo non c’era molta scelta: pennette integrali condite con olio e parmigiano grattugiato. Più complicato il secondo e la verdura. Un residuo di insalata gentile, neppure troppo fresca, e una frittata al massimo per una persona. “Volendo posso pensare a un tortino di pere e gorgonzola” rifletté Daniele, incerto sul da farsi. “Ma serve tempo”. L’altra soluzione, in attesa di fare rifornimento nei negozi vicini, sarebbe un catering, sfruttando qualche ristorante da asporto. “Ancora migliore sarebbe l’idea di finire al ristorante” concluse. “Serviti e riveriti e ampia scelta dal menù”.

«Andiamo al ristorante?» le chiese Daniele, infilando la testa nel bagno ovattato per il vapore della doccia.

«No!» rispose secca Natalina. «Mangio quello che c’è».

Daniele sorrise. «Direi che non c’è nulla o quasi» soggiunse con occhio divertito. «Vedo di trovare un ristorante caritatevole che ci porti il pranzo servito».

Controllò, telefonò, finché non trovo un’osteria che era disponibile a preparare loro qualcosa. Niente di speciale. Un primo, un secondo, una pietanza e dolce. Acqua e vino senza problemi. «Però dovette aspettare» affermò l’oste. «Di pronto non c’è nulla. Se venite qui, preparo tavolo e mangiare».

«No» rispose Daniele cortese ma fermo. «Siamo stanchi per un lungo viaggio dall’America. Possiamo pazientare, finché non arrivate».

Si sistemarono sul divano in attesa dell’arrivo del pranzo ordinato. Niente di speciale. Una pasta alla amatriciana, un filetto al rosmarino con verdure cotte. Per dolce pannacotta. Una bottiglia di un rosso dei Castelli Romani.

«Cosa mi doveva dire Sara?» la interrogò Daniele, guardandola negli occhi.

«Ti doveva dire di Natalia» disse in tono enigmatico Natalina. «Non ti ha detto nulla di mia sorella?»

Daniele scosse il capo in segno di diniego. Continuava a brancolare nel buio. Se qualcuno non si sbrigava a parlare, sarebbe esploso. Sembrava che tutti volessero prendersi gioco di lui con una serie di indovinelli sempre più misteriosi.

«Se te lo chiedo, un motivo c’è» sbottò Daniele, che a stento si tratteneva. «Non so nulla di tua sorella. Sarà almeno un mese che non la sento, né la vedo. Sparita nel nulla».

Natalina sospirò prima di rispondergli. «Troppe cose che si sarebbero dovute fare, non era state fatte. Troppo il tempo impiegato a costruire e smantellare le ragioni di una storia che ha molti lati oscuri».

Daniele osservò i suoi occhi diventati tristi, pieni di lacrime. Ancora un parlare in un codice che lui non conosceva. “Se queste benedette ragazze parlassero più chiaro” pensò. “Forse potrei anche capire le loro parole”.

«Se mi spieghi il nocciolo della questione» chiosò Daniele, che si alzò in piedi. «Forse potrei capire cosa è successo a Natalia».

Natalina lo guardò dispiaciuta. Il tempo che sana e che consola era scaduto. Lei era lì per questo.

«Natalia» cominciò Natalina, abbassando gli occhi. «È nei guai. Guai seri. Non so dove sia. So solo che mi ha cercato».

Daniele le prese le mani, fissandola con intensità. Non riusciva a immaginare in quale ginepraio si fosse cacciata Natalia.

[Continua]

Daniele – parte 3

copertina dell'ultimo libro Racconti di Vita
copertina di
Racconti di Vita

Daniele osservava senza vedere gli aerei in decollo e in atterraggio. Lo sguardo fisso nel vuoto. Le immagini passavano sulla retina e non rimanevano impresse. Era sempre quella domanda che catturava la sua attenzione. “Perché Natalina aveva pronunciato queste parole ‘Daniele sono tornata per questo!’” si chiedeva, tenendo in mano la tazzina vuota, incapace di posarla sul bancone. “Perché Sara era arrivata come una furia la sera precedente e aveva detto ‘Hai sentito di Natalia?’. Due frasi di certo collegate con un fattore comune: Natalia. Ma cosa le lega?”

Daniele scosse il capo infastidito, notando che una donna lo stava osservando in modo strano. “Ho forse esternato in modo plateale i miei pensieri? Oppure il mio comportamento appare singolare agli occhi della gente?” Si impose di sgombrare la mente da tutte queste pippe mentali. Tra un po’ sarebbe arrivata Natalina e forse ne avrebbe capito di più. Alzò lo sguardo verso il tabellone luminoso. Il volo AZ da Milano era atterrato. Landed si alternava con atterrato. Tirò un sospiro di sollievo. Depose la tazzina per avviarsi verso l’area arrivi domestici. Si mise in una posizione defilata, accanto a un pilastro ma con la visuale sgombra da ostacoli. I minuti passavano lenti e nessun passeggero compariva dall’apertura. Daniele spostò il peso da una gamba all’altra, impaziente di vedere Natalina.

Daniele notò che alcuni uomini tenevano ritti dei cartelli. ‘Rotary’, ‘MG Industrie’ e altri che non riuscì a decifrare. Una donna, tutta griffata, su due trampoli di scarpe, teneva timidamente in vista un bastone con un fiocco rosa. Altri allungavano il collo per vedere oltre il muro, dietro la curva.

Lui sorrise. Lo spettacolo offerto in quella zona era praticamente sempre lo stesso. Nulla di nuovo. Distolse lo sguardo dal solito siparietto delle attese e lo posò altrove. Vide una ragazzina, magra, dentro un piumino rosa. Capelli biondi, lunghi, lisci che ricadevano sulle spalle. Affiorava in basso sulle scarpe di vernice il fondo dei jeans.

Lisa come sarà?” pensò, distogliendo lo sguardo dal punto dove sarebbero sbucati i passeggeri del volo Milano – Roma. Si concentrò su quella fanciulla, che probabilmente avrebbe avuto l’età di Lisa. Gli sembrava una ragazzina che stava transitando in quell’età indefinita. Né bambina, né ragazza. Un momento della sua vita in rapida evoluzione. Gli ormoni in ebollizione. Il seno che prendeva forma. I primi mestrui. Gli innamoramenti. Le delusioni amorose. Il sentirsi brutta, acerba. L’invidia per le compagne che già sono sbocciate.

Che ne so?” pensò Daniele, andando col pensiero a Lisa. “Per me sono questi discorsi vuoti. Posso solo intuire che possa essere così”. Aveva accantonato le domande su Natalia, i quesiti senza risposta di Sara e Natalina, osservando quella biondina dai lineamenti ancora immaturi. “Chissà chi sta aspettando” sospirò Daniele, quando con la coda dell’occhio notò un certo movimento tra chi stava vicino a lui.

Distolse lo sguardo dalla ragazzina per dirigerlo verso il varco da cui finalmente apparvero i primi passeggeri, frettolosi di guadagnare l’uscita. Da prima pochi, che in pratica senza bagaglio sparivano alla sua vista. Poi il flusso si infittì, diventando un chiassoso vociare di saluti e sorrisi.

Mescolata agli altri arrivò Natalina col suo passo leggero e deciso e il piglio sicuro, che Daniele faticò a riconoscere. Non la ricordava così. Abbronzata, coi capelli corti e un’enorme valigia, che trascinava a fatica. Lo sguardo franco, sicuro di sé contrastava con i suoi ricordi. Una ragazza quasi timida, timorosa delle sue azioni era il ritratto impresso nella sua mente, quando quindici mesi prima l’aveva salutata in partenza per il Brasile. Adesso era una donna, affascinante, maturata nel fisico e nell’aspetto. Una ventisettenne dallo sguardo fiero e deciso, di chi è conscio delle proprie potenzialità senza nasconderle.

Daniele rimase affascinato dalla vista di Natalina e immaginò la sua uscita dall’aereo. Era scesa dalla scaletta come volando, prima fra tutti. Era seguita da un uomo alto e asciutto che, pur non sfiorandola, dava l’idea che fosse il suo angelo custode, perché nessuno le nuocesse, nemmeno per sbaglio.

Daniele non comprese il motivo di vedere alle spalle di Natalina un bodyguard. Forse era quell’uomo che adesso stava dietro di lei. Quasi un’ombra. Alto, atletico. Coi capelli tagliati corti, a spazzola. Mascella volitiva e sguardo mobile, in continuo movimento a destra e sinistra. Tipico della guardia del corpo. “Che ci fa con Natalina?” si interrogò Daniele, aggrottando le sopracciglia. “Perché viaggia con un personaggio del genere?” Una ridda di pensieri, di dubbi lo prese a tradimento. Non riuscì a scacciare quelle immagini, che gli davano le vertigini.

Un moto di gelosia lo colse ma lo represse quasi subito. “Forse è minacciata da qualche mafia” rifletté, staccandosi dalla colonna per avviarsi verso di lei. “Occuparsi dei ninhos de rua è un modo per attirare su di sé le attenzioni di chi sfrutta quei bambini per opere malavitose”. Poi ricordò quella misteriosa telefonata di tre mesi prima, quando Natalina gli aveva parlato di una raccolta di fondi. “Un milione di dollari è una montagna di quattrini” chiosò in silenzio, facendo un fischio di meraviglia, che attirò gli sguardi delle persone vicine. “Mica bruscolini! Chissà se ha raggiunto il suo obiettivo”. Forse per questo girava con una guardia del corpo, che anonima le proteggeva le spalle.

Si mosse incontro a Natalina con un bel sorriso. Lei si fermò per aspettarlo a braccia aperte. L’uomo alle sue spalle finse di cercare con lo sguardo qualcuno, un improbabile amico o una persona venuta ad accoglierlo. Questo movimento non sfuggì all’occhio attento di Daniele, che notò la ragazzina bionda muoversi verso di loro.

Tutto questo gettò nel panico Daniele. “In quale intrigo si è cacciata Natalina?” sospirò Daniele, che già si vedeva in mezzo a un casino internazionale. Complotti, tresche, inseguimenti mozzafiato, fughe avventurose. Insomma la sua fantasia era al galoppo. “Ma chi è quella ragazzina? Perché va incontro a Natalina?” Se la biondina a vederla lì era già un aspetto che lo incuriosiva, intuire accanto a Natalina quella presenza gli sembrò molto più misterioso di quanto sarebbe stato in condizioni normali. Il desiderio di rivedere Natalina passò in secondo piano. Lo accantonò per qualche istante. Un formicolio alla nuca avvertiva Daniele che c’erano guai in vista. “Cosa?” si chiese, allargando le braccia per abbracciarla.

Un abbraccio forte e lungo suggellò il loro incontro. Daniele avvertì tutto il calore che Natalina trasmetteva. Per un attimo non pensò a nulla. Solo a tenerla stretta in silenzio. Aveva creato una minuscola bolla, dove dentro c’erano solo loro due.

Questa scoppiò non appena sentì un parlare in una lingua latina, che non era spagnolo. Forse portoghese, quella che si parla in Brasile.

«Olá, Juan. Bem vindo a Roma» esclamò un uomo alle sue spalle, dandogli una stretta di mano vigorosa.

Dunque il nostro uomo si chiama Juan” catalogò nella mente Daniele, mentre baciava sulle guance Natalina. Non finì di pensare questo, quando udì quella voce bambina.

«Ciao, zia. Fatto buon viaggio?»

Daniele osservò Natalina per capire il senso di quella frase. Lei rimase con gli occhi fissi su di lui, come se non avesse ascoltato quelle parole. Daniele smarrito notò con la coda dell’occhio che una giovane donna era accanto a loro e stava stringendo quella ragazzina.

Possibile che i miei sensi mi abbiano ingannato?” si disse, prendendo sotto braccio Natalina e con l’altra mano il pesante trolley. La ragazza si abbandonò col capo sulla sua spalle, rimanendo in silenzio. Daniele sbirciò a destra e a sinistra. Come angeli custodi era attorniato dalla giovane signora con la ragazzina e dai due stranieri. Acceleravano e rallentavano il passo come loro a Daniele sembrò che volessero stare accanto a loro. Sensazioni, impressioni, brividi di paura. Il formicolio cresceva di pari passo alla percezione che qualcosa di anomalo fosse nell’aria. “Ma cosa?” rifletté, mentre senza dire nulla si dirigeva verso l’area dei treni.

«Non sei in macchina?» lo interrogò dubbiosa Natalina, che mostrava disappunto. Gli occhi avevano cessato di essere sorridenti e le labbra si erano strette, increspandosi.

«No. Hai dimenticato il caos sul GRA a quest’ora?» spiegò Daniele per scusarsi. «Sarei ancora intrappolato. Il trenino è comodo tra meno di un’ora siamo a casa».

Natalina non disse nulla ma il dal viso traspariva contrarietà. Le labbra serrate e la fronte aggrottata. Daniele intuì che voleva parlare senza che nessuno potesse ascoltare le loro parole. L’argomento doveva essere serio, se Natalina non desiderava avere intorno orecchie indiscrete. Sollevò le spalle. L’unica soluzione era noleggiare una macchina. Cambiò bruscamente direzione, puntando verso una vetrina, quella di Hertz.

Questo improvviso cambio disorientò la donna e il bodyguard, che, fatto qualche passo in avanti, si fermarono per intuire dove Daniele e Natalina si stavano dirigendo.

Dunque sono loro i nostri angeli custodi” sospirò Daniele, felice che il suo sesto senso non l’aveva ingannato. Osservò Natalina, che pareva indecifrabile. Un’autentica mummia. Lo seguì docile all’interno dell’agenzia.

«Vorremmo un auto» disse Daniele, sfoderando un bel sorriso alla ragazza dai capelli biondi dietro il bancone.

«Quanti giorni?» gli chiese la giovane donna, che aveva un sorriso stanco stampato sulla faccia. Non mutò espressione, nonostante il volto sorridente di Daniele.

«Un giorno o due al massimo» precisò Daniele, smorzando gli occhi allegri. «Una citycar, se fosse possibile».

La ragazza abbassò lo sguardo, digitò qualcosa, prima di rispondere.

«Una Smart è stata appena riconsegnata» disse la bionda senza distogliere il viso.

«Perfetto» confermò Daniele. «Era il tipo di auto che cercavo».

Tolse dal portafoglio carta di credito e patente per porgerli alla ragazza, che inarcò un sopracciglio nel leggere la residenza. Non commentò ma registrò tutto in silenzio, prima di restituire i due pezzi di plastica a Daniele.

«Un addetto le porterà l’auto nel piazzale» disse con tono neutro l’impiegata. «La restituzione…».

Daniele la interruppe prontamente. «Domani la riconsegniamo qui». E si avviò verso il piazzale. I loro angeli custodi sembravano spariti. Però lui non si fidava. Era certo che erano entrati in qualche agenzia di noleggio auto. Se avevano fortuna li avrebbe seminati. Natalina era rimasta in silenzio. Era aggrappata al suo braccio.

Nel piazzale un uomo li attendeva con una Smart vistosa. Di certo non sarebbe passata inosservata. Era un bel giallo che spiccava tra le altre auto bianche o blu.

Infilata a fatica l’enorme valigia nell’angusto bagagliaio, Daniele avviò il motore e partì.

[continua]

Daniele – parte 2

Interno Duomo - foto personale
Interno Duomo – foto personale
copertina dell'ultimo libro Racconti di Vita
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Racconti di Vita

«Non ho tempo di dirlo» strillò Natalina, mentre in sottofondo si udiva il classico avviso di imbarco immediato. «Ci sentiamo a Roma».

Daniele rimase con la cornetta in mano col laconico ‘Tuu, Tuu’ che gli ricordava che la comunicazione era stata bruscamente interrotta.

Un lampo. “Daniele sono tornata per questo!” uno schiaffo a mano aperta. “Daniele sono tornata per questo!” un pugno in pieno viso. “Daniele sono tornata per questo!” che, nella lingua di Natalina, significava “Daniele, cazzo! Stupido ragazzino viziato. Tu sai di Natalia e mi chiedi perché sono tornata?”

Daniele scosse la testa. Natalina era rimasta uguale a quella ragazzina impertinente, conosciuta tanti anni prima. La ricordava sempre attaccata alla sorella e Sara, come se fosse la loro ombra. Aveva un modo tutto suo per parlare. Daniele sorrise. “Sì. Gesticolava con le mani, che trasmettevano il suo pensiero con più chiarezza delle parole” pensò, mentre gli sovveniva un dubbio. Non le aveva confermato che sarebbe andata a prenderla all’aeroporto. Aveva perso tempo in inutili riflessioni e polemiche battute.

Tuttavia era quella frase finale ‘sono tornata per questo’ che continuava ad arrovellargli il cervello. “Ma cosa?” si ripeté un’altra volta. Proprio non ci arrivava. Doveva solo aspettare e pazientare tra non molto l’avrebbe saputo, se non l’avesse intuito prima.

Ormai era sveglissimo. Andò in cucina a prepararsi un caffè. Ci voleva dopo la brusca sveglia di Natalina. Meccanicamente riempi il filtro di caffè. Chiuse la moka e la mise sul fuoco. Ebbe un sussulto. Rise per la sua sbadataggine. Era talmente immerso nei suoi pensieri, che aveva dimenticato di riempire d’acqua il serbatoio. «Per fortuna che mi sono ricordato» esclamò, mentre procedeva al riempimento. «Sai che pessima riuscita sarebbe stata!»

Si appoggiò al tavolo nell’attesa. Un minuscolo ricordo affiorò nella sua mente. Daniele rifletté su quello che una volta Natalia si era lasciata sfuggire, nonostante l’impegno assunto con Sara. «Croce su cuore» aveva detto l’amica. «Sarà un segreto per sempre» aveva risposto Natalia e si era disegnata sul suo petto con le dita incrociate una piccola croce.

Però la promessa fatta da Natalia era stata disattesa. Lei gli aveva rivelato che Sara, dopo la partenza da Roma per Venezia aveva avuto una bella bimba. Lisa. Una bambina paffuta e ricciolona, come Daniele, con due fossette sulle guance che parevano la coppia conforme di quelle di lui.

Natalia era da sempre l’amica intima di Sara. Quell’amicizia non era stata minimamente intaccata dalla brutta fine della storia di Sara con Daniele. Quella partenza frettolosa, quel negare un’evidenza che era sotto gli occhi di tutti. Natalia aveva gestito in maniera esemplare la rottura assurda tra Daniele e Sara. Natalia aveva preso posizioni, dato giudizi, litigato, cazziato sia Daniele che Sara ma era rimasta vicina a entrambi. Solo una cosa non le aveva mai perdonato: la cattivissima gestione di Lisa. Non aveva accettato che lei si fosse rifiutata di dare alla bambina il cognome del padre, che secondo Natalia era Daniele. Su quello aveva continuato a battersi, fino allo stremo delle forze. Ma niente aveva potuto. Niente si può, se una storia finisce. Ed era finita. Secondo Sara invece no, non era terminata, perché Daniele l’avrebbe aspettata paziente. Natalia scuoteva il capo su questo punto, quando ne parlava con lei. Conosceva Daniele da una vita, prima ancora che Sara si imbattesse in lui. Natalia era un’intuitiva e, vedendo Daniele dopo la rottura, aveva percepito che lui, deluso e amareggiato, aveva chiuso il suo cuore. Una chiusura totale e definitiva. Daniele era caparbio e testardo al pari di Sara. Era stato questo anche uno dei motivi della rottura fra loro. Entrambi incapaci di fare un passo indietro. Decisi a mantenere le posizioni a costo di sfasciare tutto. Poi Natalia aveva osservato che Daniele si era ripiegato su se stesso. Chiuso a riccio, inaridito nei sentimenti. Non ci sarebbe stato più posto per Sara, quando lei era tornata dalla Germania e aveva provato a riprendere la storia, Natalia aveva compreso che la sua intuizione era giusta. Solo Sara si ostinava a pensare il contrario. Garbatamente aveva tentato di persuaderla, di non illudersi. Tutto inutile.

A Daniele venne in mente quella confessione, poi sempre negata da Natalia. E si chiese se c’era un collegamento tra la telefonata enigmatica di Natalina e il dubbio che Lisa fosse veramente sua figlia. Se così fosse, avrebbe dodici anni. Quasi una signorina o forse lo era già. Si domandò come sarebbe adesso e dove fosse. Natalia e Sara avevano eretto un vallo invalicabile come quello di Adriano nella gelida Britannia. Non avevano mai spiegato che fine avesse fatto Lisa. Sara aveva negato di avere partorito una bambina. Natalia si era trincerata dietro un mutismo, che valeva più di mille parole. Solo Daniele si era illuso di conoscere questa fantomatica figlia.

Daniele era convinto che queste tre donne, assai diverse tra loro, fossero le sue migliori amiche. “Ma sarà vero?” pensò, osservando il sereno della giornata di gennaio. Il cielo era ancora punteggiato di stelle. Le ritardatarie che tra non molto sarebbero scomparse nel rosato dell’alba.

Daniele sorseggiò il caffè, diventato freddo, preso com’era dai suoi pensieri. La sera precedente Sara aveva fatto irruzione nella su vita, dandogli del bugiardo. Secondo lei, lui doveva sapere cosa era successo a Natalia. “Ma come potevo conoscere il problema di Natalia” si disse, mettendo nel lavello la tazza sporca, “se sono settimane che non la vedo o la sento?”

Prese la moka per pulirla. Gesti meccanici, incondizionati. La giornata odierna era dedicata al relax. Rise, perché non era vero. Il sabato era dedicato alle pulizie del suo bilocale di Monte Mario. “Non credo che sarà così” pensò, andando in bagno a farsi una doccia.

Daniele prese tra le mani l’orologio: le sei e quarantacinque. Se avesse preso la macchina non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare a Fiumicino in tempo. A quell’ora il Grande Raccordo Anulare diventava il Grande Parcheggio Anulare. Tutti fermi. Tutti in fila. Sempre così tutti i giorni. Avrebbe preso il trenino a Roma Tiburtina. In quaranta minuti sarebbe arrivato. “Devo sbrigarmi” si disse, perché tra poco più di venti minuti doveva essere alla stazione. Aveva perso tempo in elucubrazioni inutili nel tentativo di risolvere un enigma su Natalia. Chiuse la mente a questi pensieri ma era ugualmente tardi. Doveva fare in fretta. Indossò un paio di jeans e un maglione e chiuse la porta alle spalle. Afferrò al volo il bus, che l’avrebbe scaricato dopo dieci minuti alla stazione. Imprecò perché gli sembrava una lumaca. Guardò in continuazione l’orologio, contando i minuti che mancavano alla partenza del trenino. Una corsa, uno sprint da centometrista. Gli pareva di essere Mennea. Con un balzo salì sul treno, mentre le porte si chiudevano alle sue spalle.

Si sedette accanto al finestrino. La carrozza era praticamente vuota. A quell’ora i romani dormivano dopo il venerdì di sballo. Solo quei pochi pendolari che assonnati andavano al lavoro in aeroporto.

Daniele calmò il respiro dopo la lunga volata per prendere il trenino. Un momento senza pensare a nulla. Tuttavia la calma durò poco.

Il viaggio per Fiumicino gli sembrò lunghissimo. I pensieri cattivi lo distruggevano. Natalina, in Italia, Natalina a Roma. Per cosa non lo sapeva, anche se lei dava per scontato che ne conosceva i motivi. Sara l’aveva insultato dandogli del bugiardo. “Ma io non so nulla di Natalia” si disse, osservando il paesaggio che scorreva veloce sotto i suoi occhi, che non vedevano. “Eppure si ostinano a pensare il contrario”. Poi quel pensiero verso la fantomatica figlia. Lisa aveva detto Natalia. “Ma sarà vero?” si disse sbuffando Daniele. “Oppure è una delle solite bufale che si inventano le donne?”

Più pensava, meno scorgeva il motivo di tanta agitazione in Natalina e Sara. “Natalia è incinta?” si disse, appoggiano il mento sul palmo della mano. “Sarebbe una non notizia. Né Natalina avrebbe compiuto quel lungo e faticoso balzo da New York a Roma. Né Sara sarebbe apparsa ieri sera così inferocita”.

La scartò subito, perché sarebbe stata il frutto di una violenza su Natalia e non gli risultava una cosa del genere.

Natalia morente?” scosse la testa Daniele. Ipotizzò che Sara non gli avrebbe dato del bugiardo, né sarebbe arrivata a casa sua ieri sconvolta. Forse era questa la chiave per decifrare i motivi dell’agitazione di Sara, della sua eccitazione e delusione, quando ieri sera aveva bussato alla sua porta. “Quale evento o causa avrebbe potuto sconvolgere Sara al punto che si è presentata alla mia porta con gli occhi sbarrati e preoccupati?”

Non ebbe il tempo di analizzare questa prospettiva dell’apparizione di Sara, perché il trenino stava rallentando per fermarsi.

Daniele si alzò dal sedile per avviarsi verso la porta. Si fermò al centro con le spalle curve, lo sguardo perso oltre un punto sulla parete. Come un ubriaco si infilò il giaccone, senza guardare, preparandosi a uscire.

Erano ormai già le otto passate quando entrò nell’area aeroportuale degli arrivi. Il solito movimento delle persone in attesa a scrutare il pannello informativo. La voce gracchiante che annunciava decolli, atterraggi e ritardi. Il volo AZ da Milano non era ancora landed. Era in ritardo. Almeno trenta minuti. Si avviò verso il punto di ristoro. Avrebbe dovuto aspettare almeno tre quarti d’ora prima di scorgere Natalina, che compariva dal corridoio degli arrivi domestici, come sono chiamati in gergo i voli nazionali.

La vetrata dava sulla pista di atterraggio. Una caligine rendeva tutto più irreale. L’ora, il luogo, la situazione. Daniele stentava a riconoscere le sue stesse mani, strette attorno alla tazzina del caffè, aspettando che il volo atterrasse.

[continua]

Daniele – parte 1

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foto personale

Il trillo del telefono lo fece sobbalzare e lo riportò alla realtà che aveva senso di esistere solo perché tempestata di ricordi. Guardò istintivamente la vecchia patacca, ereditata da Gaetano, amico fraterno del padre. Le cinque e dieci. “Chi poteva essere a quell’ora?” pensò, accendendo la luce. “Solo qualche scocciatore che ha sbagliato numero”.

«Pronto?» soffiò nella cornetta del telefono fisso, vecchio retaggio di molti anni prima.

Nessuna risposta. Pareva muto. Eppure avvertiva che dall’altra parte c’era qualcuno. Un leggero soffio, come un ansimare represso arrivava al suo orecchio.

«Pronto?» ripeté Daniele, che stava perdendo le staffe. «Chi è? Chi sei?»

Se era qualcuno che si divertiva a svegliare il suo prossimo per gioco, cascava male. Pensò Daniele. Un pensiero bizzarro questo, perché non aveva nessuna idea per la testa al riguardo. Dunque stava per riporre la cornetta sul suo supporto, quando udì una voce femminile. Non era la solita ragazzina arrapata, che molestava gli amici di papà. Il tono era da persona adulta.

«Ciao Dani» sussurrò impacciata. «Non dormivi, vero?»

Scaricò la tensione con una risata. “Alle cinque del mattino che fa un cristiano normale?” pensò Daniele, sistemandosi meglio il cuscino dietro la schiena. “Dorme di certo. A meno che…”. Scosse la testa. Non era il suo caso. Non lo era da diverso tempo. Meglio non ricordare quando, pensò contrito.

Riconobbe immediatamente la voce roca e morbida di Natalia. Natalia o meglio Natalina. Natalia o meglio sua sorella, Natalina. Due ragazze che si facevano fatica a distinguere al telefono. Però era certo, questa volta. Nessun dubbio.

«Ciao Natalina!» disse sbadigliando rumorosamente per far capire che era in braccio a Morfeo prima della sua telefonata poco opportuna. «No? Non dormivo, secondo te? Qui sono le cinque e dieci del mattino».

Udì una leggera risata, come se fosse stata soffocata con la mano. Di Natalina l’infastidiva questo humour macabro, fatto di domande cretine. Ricordò una volta che aveva fatto un capitombolo da Guinness sul ghiaccio. E lei tutta calma gli chiese “Sei caduto?” L’avrebbe strozzata, se non avesse usato quel tono vagamente ingenuo e spontaneo, che le era proverbiale.

Natalina l’ultima volta che l’aveva sentita era a New York. “Se fosse ancora lì” pensò, sistemandosi più comodo nel letto. “Sarebbe sera da lei. Ma sono passati tre mesi. Quindi chissà da dove telefona”.

«Sì. Lo so» precisò Natalina. «Sono in Italia…».

Bella scoperta!” si disse innervosito Daniele. “Dove pensa che io sia?”

«Certo che lo so. Sei in Italia» precisò Daniele, interrompendola.

«Sono a Malpensa» proseguì Natalina, ignorando il suo sarcasmo. «Sono appena atterrata da New York. Tra tre ore arrivo a Fiumicino. Mi vieni a prendermi? O devo prendere un taxi?»

Daniele rimase senza voce. Attonito e basito. “Ma che domanda mi fa?” borbottò sconcertato. “Da quando in qua, mi devo scomodare per lei?”

Non l’aveva mai fatto e non aveva intenzione di cominciare proprio stamattina. Questo fu il suo primo pensiero, che represse senza indugio. Però erano passati mesi, forse un anno abbondante dall’ultima volta che l’aveva vista. “Posso lasciarla in balia di quei buzzurri alle otto del mattino?” si disse, preparandosi mentalmente alla levataccia.

Dunque Natalina è in Italia” rifletté con un bel sorriso. “Natalina a Roma!” Senza preavviso. L’aveva contattata un paio di giorni prima senza risultati. Il telefono squillava a vuoto, prima di attaccare la solita litania della segreteria, che nessuno ascolta.

L’ultima volta che l’aveva sentita era appena sbarcata nella grande mela, a New York, alla caccia di finanziatori. Gli era sembrata felice, tranquilla, totalmente presa dall’ultimo progetto della scuola itinerante per i ninhos de rua dell’assurda Bahia. Un’utopia costosa affrontata col sano entusiasmo degli incoscienti.

«Devo trovare un milione di dollari» gli aveva confidato.

«Pfiu!» aveva esclamato Daniele. «E come pensi di trovare quella montagna di denaro?»

Natalina era rimasta per qualche secondo in silenzio prima di rispondere. «Non lo so» aveva ammesso candidamente. «Ma li devo trovare entro trenta giorni».

Adesso era Daniele basito. Aveva provato in tutte le maniere a farla recedere da quel progetto impossibile. Creare una struttura per accogliere i ninhos de rua di Bahia, farli studiare, trasformarli un uomini e donne autosufficienti. La classica mission impossibile, un’utopia, che superava i limiti dell’assurdo. Servivano fondi, sponsor e personale. Però non c’era stato nulla da fare. Un anno prima era partita per il Brasile piena di entusiasmo e con tanti sogni nel cassetto. Si erano sentiti regolarmente fino a tre mesi prima. Poi era calato il silenzio. Non sapeva se la sua raccolta fondi fosse andata a buon fine, se era tornata a Bahia oppure era rimasta a New York. Nessuno sapeva nulla, nemmeno sua sorella Natalia.

E adesso era in Italia e fra tre ore a Roma. Pronta per essere abbracciata.

«Come sei qui?» fece Daniele sorpreso dalla telefonata. «Che ci fai qui?»

Silenzio. Solo un sibilo di un respiro affannato.

«Natali’?» domandò Daniele allarmato. «Sei sola? Non tenermi sulle spine».

«Dani» fece Natalina, interrompendosi subito.

«Dimmi, Natali’» disse paziente Daniele.

Nuovi rumori di fondo, come se stesse camminando con un altoparlante che gracchiava qualcosa.

Daniele trattenne il respiro. Natalina gli avrebbe provocato di certo un infarto per il suo modo di parlare a strappi, senza mai concludere il discorso.

«Hai sentito Sara?» riprese quella voce affannata. «Hai parlato con Sara?»

Daniele rimase in silenzio. “Certo che ho parlato con Sara” pensò. “Altra domanda idiota”. Si morsicò un labbro, facendo uscire una stilla di sangue.

«Dani, hai parlato con Sara?» ripeté Natalina la domanda.

«Sì, ieri sera» rispose laconico Daniele. “Ma che te ne importa di Sara? Non l’hai mai potuta sopportare” si disse, storcendo il naso.

Quello che gli aveva detto Sara gli bruciava ancora. Non poteva dimenticare quella voce rissosa e alterata, che lo aveva accusato di non pensare a lei.

Si erano conosciuti sui banchi del liceo. Avevano fatto coppia fissa fino alla maturità. Poi Sara era partita per Venezia. Voleva fare l’architetto. Daniele era rimasto a Roma a laurearsi ingegnere. Due percorsi distinti con esiti diversi. Lui brillante laureato, lei fuoricorso con pochi esami alle spalle. Lui l’aveva aspettata per qualche anno ma alla fine aveva capito che tutto era finito. Lei aveva girato per l’Europa come una hippy senza pensare a Daniele.

Natalia era l’amica del cuore di Sara. Natalina era sua sorella, di sette anni più piccola di lei. Daniele aveva visto in lei il ruolo di sorella minore, sempre appiccicata a loro. Fin da piccola. Sembrava essere la loro coscienza. Dove c’era Natalia e Sara, c’era anche lei. Daniele aveva vista Natalina come una bimbetta buona e ubbidiente con le trecce e il vestitino sempre in ordine. Poi crescendo una ragazzina diligente e attenta. Un’adolescente senza grilli per la testa, senza bravate.

Le loro strade si erano divise. Lui all’università, lei ai primi anni del liceo. Natalia dapprima aveva seguito Sara a Venezia ma presto era ritornata a Roma. La lontananza di Natalia aveva allontanato Natalina. Qualche volta si incrociavano ma niente era come prima.

Natalina era cresciuta. Era diventata un bella ragazza dai capelli castano chiari. Era fisicamente distinta dalla sorella ma dalla voce straordinariamente uguale. Natalia aveva forme robuste, che erano esplose nel periodo veneziano. Natalina aveva conservato forme minute e snelle.

Un giorno di sei anni prima il destino mise Daniele e Natalina sulla stessa strada. Lui era in segreteria per ritirare diploma di Laurea e l’abilitazione alla libera professione. Lei si iscriveva a lettere. Ripresero a frequentarsi, a uscire insieme. Per lui era una sorella ma lei lo vedeva come un amante, che si negava.

Natalina confermò quello che era sempre stata. Un’universitaria impeccabile, brillante e straordinaria. Chiuso il ciclo della laurea quinquennale, Natalina in una sera di ottobre aveva dato appuntamento a Daniele in pizzeria. Lui pensava per festeggiare il diploma di laurea in lingue straniere. Con sua grande sorpresa gli annunciò che aveva un biglietto per il Sud America e che sarebbe partita dopo due giorni.

«Io, qui, non so cosa fare» disse Natalina, guardando con i suoi occhi blu un Daniele tramortito dalla notizia. «Vado in Sud America. Faccio un viaggio, che ha una data d’inizio ma non di fine. Voglio esplorare questo terzo mondo di cui tanto si parla. Forse lì saprò che fare!»

Al suo arrivo in Brasile Natalina gli aveva comunicato del suo progetto sui ninhos de rua. Un qualcosa di grandioso se fosse andato a buon fine ma anche pericoloso per la sua vita. Laggiù le violenze, specialmente sulle donne, erano all’ordine del giorno. A nulla valsero le sue reiterate richieste di tornare in Italia.

Qualche mese prima della partenza di Natalina, Sara ricomparve nella sua vita. Era una Sara diversa da quella che ricordava dodici anni prima. Più dura, meno incline al lato romantico della coppia. Gelosa e irascibile. Aveva provato più volte di interrompere il legame tra Daniele e Natalina. Tra le due donne si era consolidata quella sorda e muta antipatia, che aveva radici lontane. Sara vedeva in Natalina la potenziale nemica, che sarebbe stata in grado di strapparle Daniele. Poi Natalina era partita e distava un giorno di viaggio da loro. Un tragitto aereo lunghissimo e faticoso. Tuttavia l’astio era rimasto immutato. Anzi si era consolidato in odio.

Ieri sera Sara era piombata nella sua casa come un tornado. Aveva accusato Daniele di tradirla.

«Mi disprezzi» aveva urlato paonazza in volto. «Non mi ami».

Lui era rimasto allibito da tanta furia. Per lui Sara era solo un’amica in questo momento. “No di certo” aveva ragionato, tentando di calmarla, “non la considero la mia compagna”. Il filo che li aveva uniti si era spezzato dodici anni prima, quando lei era partita per Venezia. Un legame che non poteva essere riannodato come se tutti quegli anni di silenzio non fossero mai esistiti.

Prima di congedarsi Sara aveva rivelato il vero motivo di quella rumorosa irruzione.

«Hai sentito di Natalia?» aveva esploso Sara, mentre infilava la giacca per uscire.

Daniele aveva aperto la bocca ma l’aveva richiusa subito. Non sapeva nulla di Natalia, che erano settimane che non la sentiva. “Che cazzo ha combinato questa volta?” si era chiesto. “L’ultima volta era entrata in coma etilico. Ora cosa?”

«No» aveva risposto secco Daniele. «Sono settimane che non la sento».

Sara lo guardò di sbieco, lanciandogli occhiate torve.

«Sei un bugiardo!» gli aveva mollato in faccio l’insulto. «Certo che lo sai!»

Daniele aveva scosso le spalle. Sapeva che era fatica inutile contraddirla. Avrebbe potuto dire di tutto. Compreso che Natalia era diventata il nuovo presidente della Repubblica. Lui non sarebbe stato capace di scalfire le sue idee. Non aveva la minima idea di cosa avesse combinato Natalia, né era curioso di saperlo.

Rimase muto, mentre Sara continuava a tempestarlo di insulti. Oramai viaggiavano su mondi separati. Adesso era Natalina che riesumava la questione.

«Di cosa avrebbe dovuto parlare Sara?» domandò cauto Daniele. Avvertiva un senso di disagio e temeva di essere coinvolto in complicazioni gratuite e pericolose.

«Daniele, sono tornata per questo» disse Natalina, che aveva il fiato roco per la veloce camminata.

«Questo cosa?» rimbeccò Daniele sempre più stranito. Tutti parlano per indovinelli cifrati e lui deve trovare la chiave di cifratura.

-FINE PRIMA PARTE-

Romano – una vita – parte seconda

tramonto - foto personale
tramonto – foto personale

La prima parte la trovate qui.

Un rumore nella notte interruppe il suo flashback. La magia di quel giorno era svanita. Si guardò intorno alla ricerca della fonte senza trovarlo. Provò a ricalarsi nei ricordi.

Romano ebbe un gesto di stizza ma non c’era nulla da fare se non riprendere la lettura della lettera.

Gli occhi si posarono su un verbo. Un moto di rabbia lo colse, leggendo quel ‘odiarla’ inserito accanto a sua figlia. “Sì, Cristina è mia figlia” disse Romano irritato per il comportamento assurdo di Flora, riprendendo in mano il foglio.

Niente. Non c’erano alternative. Dovevo abbandonarla. Scelsi l’orfanotrofio delle stelline, in via dei mille. Discreto e riservato. Gestito da personale laico. Firmai tutti i documenti perché potesse essere adottata in fretta. Avevo tempo fino al ventunesimo compleanno per conoscere la sua destinazione. Poi sarebbe calato il silenzio. Tutto quello che la legava a me sarebbe stato cancellato per sempre. Il destino mi ha punito. Un male maligno mi sta portando rapidamente alla tomba. Ho ancora poche settimane di lucidità o forse anche meno poi…

Si chiama Cristina ed è nata il giorno di Natale. Se vuoi conoscerla, devi recarti presso quella struttura, che ignoro se esista ancora, entro il ventiquattro dicembre prossimo. Dovrei allungarti una chiave ma l’ho smarrita.

Addio

Flora

30 novembre.

Romano gettò la lettera sulla scrivania con rabbia. Senza quella chiave non avrebbe concluso nulla, ammesso che esistesse ancora quel orfanotrofio. Sembrava volesse prendersi gioco di lui. Una volta di più Flora lo voleva punire.

Punire di cosa?” urlò in silenzio la sua disperazione. “Perché l’ho amata?”

Quel dubbio scavava nella sua mente come un tarlo. Non era per nulla convinto della sincerità della lettera. Dopo vent’anni riemergeva attraverso un messaggero anonimo, parlando di una figlia finita in adozione come se fosse un oggetto da mandare in discarica. “È davvero morta?” si domandò. Appoggiando il mento sul palmo aperto. “Perché mi vuole torturare ancora?”

La sua razionalità lavorava a pieno regime. Faceva mente locale se esistessero ancora strutture di quel genere, tanto care agli scrittori dell’ottocento. Ricordava la famosa ‘ruota degli esposti’ ma da tempo era stata chiusa. Di certo negli anni settanta non operava. “Il brefotrofio?” pensò. “Uhm! Forse no”. Qualcosa non lo convinceva. Sembrava uno scherzo di cattivo gusto.

Accese il PC. Doveva controllare se quella struttura esisteva. Aveva molti dubbi. Fece qualche conto. Erano gli anni delle rivolte studentesche, delle occupazioni e forse qualche residuo di orfanotrofio era sopravvissuto. “Ma ne siamo sicuri?” pensò, grattandosi la guancia. La barba che stava spuntando ispida gli dava noia, prurito.

Si riscosse. Non poteva perdere tempo. Mancavano due settimane al day after e poi avrebbe ignorato il viso di sua figlia, cosa stava facendo. Non avrebbe potuto trasmetterle nulla che potesse ricordarle chi era.

Avviò il motore di ricerca. Pareva sparita. C’era solo un riferimento a Milano, il famoso orfanotrofio delle Stelline, in corso Magenta, che adesso era diventato un centro congressi. A Roma ne aveva pescati due. “Ma sono per caso gli eredi di quello di vent’anni fa, dove è finita Cristina?” si domandò, grattandosi la guancia ruvida per la peluria che stava crescendo. Si annotò gli indirizzi. Domani ci sarebbe andato di persona. Però il tarlo era ‘senza chiave, mi diranno qualcosa?’.

Aveva trovato un edificio, alla Bufalotta, ora in sfacelo, che fino al 1973 era un orfanotrofio femminile. “La lettera parla di Stelline, non di Bufalotta” si disse, scorrendo l’elenco fornito dal motore di ricerca. Quello, che cercava, doveva essere una struttura che accoglieva i neonati, visto che Cristina aveva poche settimane, forse mesi di vita. Qualcosa non tornava nella lettera. Un’indicazione palesemente sbagliata. Informazioni nebulose o quanto mai incerte. L’assenza di un qualsiasi strumento per accedere alle notizie riservate su sua figlia. Scosse la testa.

Se per caso Flora mi ha raccontato un’altra bufala?” rifletté Romano, appoggiandosi allo schienale della poltrona. “Ne sarebbe capace. Però non la capisco. Non comprendo il senso di questa lettera. Una sottile perfidia nei miei confronti. E quel misterioso messaggero chi è? Che rapporti ha con Flora?”

Rise isterico a questo pensiero. Non erano domande banali. Dentro era racchiusa tutta la sua ansia. Vivaldi era terminato da un pezzo ma non aveva nessuna voglia di inserire un nuovo CD.

A quell’epoca Flora abitava in un monolocale nella zona degli antiquari. Piccolo ma caldo. Era sera, quando lo raggiunsero. Fecero all’amore con passione tutta la notte. Romano la lasciò al mattino con la promessa di sentirsi in giornata. Iniziò così la loro storia. Era lui che andava da lei e mai il viceversa.

«Qui sono a casa mia» fece Flora un giorno per ricusare le insistenze di Romano.

«Ma la mia è anche casa tua» specificò Romano.

«No. Casa tua è tua» precisò Flora con puntiglio. «Casa mia è mia».

Lui rinunciò a controbattere. Lei era un tipetto tosto ma riservato. Non aveva mai detto di quale località fosse originaria. Solo il cognome che non diceva nulla. Gli aveva confidato che il suo sogno era diventare una brava interprete o una traduttrice.

«Mi piace girare il mondo» gli aveva confidato Flora, mentre era accoccolata su di lui dopo una maratona amorosa.

«Dove?» le aveva domandato.

«Il mondo» rise Flora con quella risata allegra, mostrando una fossetta nella guancia destra.

Per un anno andò tutto bene. Lei studiava con profitto. Lui teneva un corso nella facoltà di matematica. Poi qualcosa si incrinò. “Cosa?” si domandò Romano, preso nel vortice dei ricordi. “Una sera mi disse che non mi voleva a a casa sua. Così senza spiegazioni. Pensai che avesse trovato un altro più giovane di me”.

Romano scosse la testa, ricordando quella volta. Non era da lui fare scenate di gelosia. Quindi non replicò. Per una settimana non si fece vedere, né sentire. Sembrava volatilizzata. L’andò a cercare in facoltà ma nessuno era in grado di dirgli dove fosse finita. Continuò le ricerche senza arrivare al nulla. Le compagne di corso alzavano le spalle e ridacchiavano dietro, quando se ne andava. Decise di dimenticarla ma inutilmente. Era sempre presente davanti agli occhi.

Passò l’estate e arrivò l’inverno. Romano aveva cominciato a non pensare più a lei. Era assorbito dalle lezioni all’università, dagli esami. Insomma Di lei solo un bel ricordo.

Era il 20 dicembre e il giorno dopo sarebbero iniziate le vacanze di Natale. Era fermo alla buvette dell’università, quando incrociò un collega, che conosceva di vista.

«Ciao, Romano» lo apostrofò Alberto. «Hai sentito?»

«Cosa?» fece Romano, guardandolo negli occhi.

Alberto sorrise, appoggiando la tazzina del caffè sul bancone.

«Ieri è successo un casino» proseguì, prendendo una sigaretta dalla tasca. «Una ragazza del secondo anno di slavistica per poco non partoriva in aula»,

Romano sbiancò. Per una curiosa associazione di idee pensò a Flora e alla sua sparizione misteriosa.

«Ma no!» esclamò poco convinto Romano. «Ci credo che sia scoppiato un casino. Ma come è finita?»

«È arrivato il 118 per portarla in ospedale» concluse Alberto, salutandolo per uscire a fumarsi la sigaretta.

Romano intrecciò le mani dietro la nuca. Ricordò bene quei giorni. Fece il giro di tutti gli ospedali, finché non scovò Flora al Bambin Gesù. Il resto lo sapeva. Guardò l’ora erano quasi le sette.

«Papi, papi» lo riscosse una vocina. «Ero preoccupata perché parlavi nel sonno. Flora, Cristina. Chi sono?»

Romano – una vita – parte prima

un calendario dell'avvento artigianale - foto personale
un calendario dell’avvento artigianale – foto personale

Romano andò a letto.

Mezz’ora dopo era ancora lì, a occhi aperti… no, non aperti, di più… sbarrati!

E come avrebbe potuto dormire, o anche soltanto assopirsi? Come avrebbe potuto rallentare il battito del suo cuore? In che modo avrebbe potuto cercare di placare il tremito che sentiva nelle vene, nelle arterie, il furore contro il destino che si era accanito in quella maniera incomprensibile verso il sangue del suo sangue?

Perché era Cristina! Finalmente Flora se l’era fatta uscire di bocca la verità, dopo quella bugia detta nella nursery in ospedale! Ma quella bugia… perché? Perché? Perché? La domanda continuava a ballonzolare nella sua testa.

Romano diede un’occhiata alla sveglia: segnava zero e ventiquattro. Si alzò dal letto. Inutile stare lì, meglio alzarsi, tanto non sarebbe riuscito a dormire. Se ne rendeva conto perfettamente.

Infilò una maglietta sopra gli slip che portava normalmente a letto. Estate e inverno dormiva solo con i boxer. Un abitudine contratta da quando aveva sei anni. Nemmeno Flora era riuscito a convincerlo a mettere il pigiama.

Faceva freddo. Il riscaldamento era spento. Non pensò di riattivarlo. Prese la felpa e i pantaloni della tuta dalla sedia per indossarli. Nei piedi nulla. Quelli erano abituati a stare senza nulla. “Ho i piedi sempre caldi” si disse, mentre finiva di vestirsi.

In cucina ignorò la caffettiera da tre, già pronta sul fornello per la mattina. Romano prese dal pensile quella da sei, che teneva per quando aveva ospiti. Sapeva che sarebbe stata una notte lunga. Molto lunga. Dopo averla preparata, la mise sul fuoco. Nell’attesa che l’aroma del caffè inondasse le sue narici andò in mansarda per accendere lo stereo.

Doveva stemperare l’inquietudine che aveva in corpo. Nell’alloggiamento accanto all’apparecchio passò in rassegna la sua collezione di CD di musica classica. Con un dito scorreva i dorsi con i nomi dei musicisti, ne estraeva uno per leggere cosa conteneva per poi riporlo nella stessa posizione. Era meticoloso e pignolo. Bach, Beethoven, Händel, Haydn, Mozart, Schubert, Schumann, Vivaldi. Tutti ordinati in ordine alfabetico per facilitare le ricerche.

Cercava un CD che avrebbe potuto aiutarlo a concentrarsi sui dilemmi che lo stavano attanagliando. Scosse la testa, mentre sentiva borbottare la moka. Doveva andare a spegnere il gas, prima di creare casini e rovinare caffè e Bialetti. Cosa ascoltare ci avrebbe pensato dopo esserselo versato. Scelta una tazza grande, di quelle da tè, la riempì fino all’orlo, zuccherandola pochissimo. Tornò in mansarda per sedersi davanti alla scrivania. L’impianto stereo era alle sue spalle. Sorseggiò il caffè. Era troppo caldo. Continuò la scansione dei titoli. “Schubert?” si disse, aggrottando la fronte. “No. Qualcosa di più morbido. Händel?” Pensò il concerto grosso. Quello londinese con strumenti originale. Un musicista straordinario per Romano, che adorava la musica barocca. “Ma forse non è adatto al momento” pensò, riponendo la custodia nello spazio rimasto vuoto. Passò oltre, fermandosi su Vivaldi. “Concerti per violino? O le quattro stagioni con molti stromenti?” Diede un’altra sorsata dalla tazza, prima di scegliere tra le due custodie.

Decise per un qualcosa di pacato, di tranquillo, qualcosa che avrebbe potuto calmare la sua agitazione, la sua frenesia. “’Le humane passioni’ vanno bene. Proprio quello che sto passando ora” fece sorseggiando il caffè che era intiepidito. “Sono cinque concerti per violino. Il solista è Giuliano Carmignola. Un eccellente violinista”. Inserì il cd nel cassettino e premette il tasto PLAY. Dale prime note del violino si acquietarono un poco i nervi.

Si accoccolò sulla sua amata poltrona, senza accendere il computer.

Finì di bere il caffè. Cominciò a ragionare da persona razionale come si considerava. Prese un blocco di carta riciclata per appuntare qualche nota. Cominciò a scrivere.

Uno: Cristina è davvero mia figlia. Due: Flora, dopo vent’anni che non ci vedevamo, ha mandato qualcuno con l’incarico di comunicarmi la sua morte e consegnarmi una lettera. Tre: l’ha fatto per necessità, quindi non mi devo fare pippe mentali sui motivi del suo silenzio e comportamento. Quattro: la lettera dice una cosa che mi ha lasciato di sasso. Cristina è stata abbandonata in orfanotrofio. Tra quindici giorni scade il termine per poterla riconoscere. Cinque: la vorrei riabbracciare, anche se so che è stata adottata da quando aveva sei mesi. Sei: ce la farò?

Il violino continuava in sottofondo a diffondere le note di Vivaldi. Romano non l’ascoltava ma gli serviva per raccogliere le idee.

Rilesse il blocco e la lettera. Questa conteneva una verità lapalissiana. In realtà non sapeva ancora nulla, cosa avrebbe dovuto oppure potuto fare. Flora nella sua disperazione prima di morire non era stata affatto chiara, se la situazione era davvero senza speranza oppure no.

Intanto il tema del CD era rimasto tranquillo, pacato, rilassante, quasi coinvolgente. Si fermò un attimo ad ascoltare prima di riprendere le riflessioni.

Rilesse la lettera e gli venne un moto di rabbia. Nemmeno in punto di morte aveva avuto un ripensamento verso di lui.

Quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più. Sarò sepolta in un cimitero di campagna, che non ti rivelo. Chi ti porterà notizia e lettera, ha fatto voto di silenzio e so che lo manterrà

Quando ti ho lasciato, ero incinta ma questo lo sai anche tu. In ospedale ho negato che Cristina fosse nostra figlia e ti ho allontanato da me. Non intendevo rivederti mai più. Ho sofferto troppo la tua vicinanza. Ti odiavo perché mi avevi messo incinta.

All’inizio volevo tenere Cristina ma poi… Era troppo te. Quando si attaccava al seno mi sembrava di vedere la tua bocca che mi succhiava i capezzoli. Era troppo uguale. Stessi capelli castano chiari. Stesso taglio degli occhi obliqui, Stessa forma della bocca con labbra sottili e appena accennate. Ma quelle due fossette mi ricordavano te. Avrei finita per odiarla.

Romano fece un sorriso amaro. Adesso i capelli erano bianchi. Il corpo di cinquantacinquenne era appesantito da un pizzico di pancetta. Gli occhi e le fossette, no quelli erano rimasti uguali.

Non capiva quell’odio, quel rancore. Eppure le aveva chiesto di sposarla.

«No!» gli aveva urlato in faccia con rabbia. «Niente nozze riparatrici. Dovevi pensarci prima».

Romano fu travolto dai ricordi. Accantonò la lettura.

Il giorno dopo il suo primo incontro con Flora pareva tutto ritornato alla normalità. Gli scontri tra gli studenti e la polizia si era conclusi con una grande retata. Erano rimaste solo le tracce del selciato parzialmente divelto e le carcasse di auto bruciate. Per il resto c’erano più poliziotti che studenti, che frettolosi entravano nella facoltà di Matematica. Romano entrò in Istituto e si avviò direttamente verso il suo studio per prendere alcuni testi per la prossima lezione. Aveva però l’impressione che sarebbe stata rinviata a data da destinarsi.

«Ciao Romano!» echeggiò nel corridoio dietro di lui una voce, che conosceva bene.

Si voltò e vide Giuseppe, un suo collega e carissimo amico.

«Oh, Giuse’, come va, che fai?» rispose Romano, dandogli una pacca sulla spalla.

«Niente oggi» rispose Giuseppe, prendendolo sotto braccio. «Lezioni sospese fino a nuovo ordine. Siamo in vacanza forzata!»

Romano fece una faccia strana come di sorpresa. In effetti lo immaginava. Troppa tensione per riprendere la normale attività didattica.

«Vado di fretta, Giuse’» disse Romano, sottraendosi alla stretta dell’amico.

«Vabbe’ Romano, se vedemo dopo da Toio?» strinse l’occhio Giuseppe.

«Sì, po’ esse… anzi no» fece Romano, pensando a Flora. «Devo vede’ se riesco a trova’ ‘na ragazza, una de’ lettere».

«Una?» lo rimproverò Giuseppe, stringendo gli occhi e aggrottando la fronte. «A Roma’, ecché fai… abbandoni l’amichi? Non presenti le nuove amiche?»

«Nooo» esclamò facendo un viso contrito. «L’ho conosciuta ieri… nun zò… boh… me piace… ma io je piacerò? Vabbe’, po’ esse che vengo co’ lei… Ciao Giuse’!»

Romano si sfilò dall’amico per chiudersi nel suo ufficio, per non dare troppe spiegazioni. Si diede del somaro per essersi lasciato sfuggire quella frase.

Rimase una buona mezz’ora, fingendo di cercare i due libri, che sapeva perfettamente dove erano nel caso che quel impiccione del suo amico avesse messo dentro la testa.

Uscì dall’istituto e si avviò verso la facoltà di lettere.

“Dunque… letteratura slava, aveva detto…” ricapitolò le informazioni. “Sì, sì, russo, polacco, ceco… cazzo ma ‘ndo trovo ‘sta slavistica?”

Fatto quattro gradini si trovò in atrio deserto.

«Scusi, il dipartimento di slavistica dov’è?» fece Romano, avvicinandosi a una bidella, che stava pulendo il pavimento.

«Al primo piano, le scale di là» indicò a sinistra la bidella col braccio teso.

Romano salì i gradini e la vide di spalle in fondo al corridoio.

«Flora!» gridò da venti metri di distanza.

Lei si voltò col suo splendido sorriso che le illuminò il volto.

«Romano!» disse, avviandosi di corsa a piccoli passi verso di lui.

Si abbracciarono, mentre lui cercò le sue labbra.

Lei non si ritrasse.

A Romano sembrò che in quel momento l’intero universo si fosse fermato, meno il suo cuore, che batteva a trecento al minuto. Sperò che il bacio non finisse mai ma dovette riprendere fiato.

«Flora!» disse, guardandola negli occhi.

«Romano!» fece lei con una sguardo che parlava più di mille parole. Luccicava per la felicità.

«Andiamo!» la esortò, trascinandola per un braccio.

«Sì, aspetta… un attimo!» oppose resistenza la ragazza. «Ciao Chiara, Vado. Poi ti chiamo»

Flora fece un cenno di saluto all’amica, che la guardò con gli occhi basiti. Si chiese chi era quell’uomo di certo più vecchio di loro. Aveva l’aria di uno che ci sapeva fare con le donne. Loro giocavano a esserlo con i loro vent’anni.

«Dai Romano. Andiamo!» disse Flora, facendosi abbracciare da lui.

Romano pensò che di certo avrebbe evitato Toio, dove avrebbe trovato Giuseppe. L’altro locale era Marco. Anche qui c’era il rischio di incrociare qualche rompiscatole.

«Andiamo, dove siamo stati ieri?» domandò Flora, che ricordava quel locale nella zona universitaria, dove Romano le aveva accompagnate.

«Ok. Va bene!» concordò Romano, fingendo di essere contento.

Dopo dieci minuti erano nel locale di Marco, il quale, appena li vide entrare, apostrofò Romano.

«Oh, Roma’, ciao! Me presenti ‘sta bella signorina, eh?, visto che ieri sete scappati manco foste evasi da Rebbibbia?»

«Uh, Marcoli’, me dispiace, manco t’ho pagato» borbottò Romano col viso contrito. «Flora, Marco».

«Piacere!» fece allegra la ragazza, allungando la mano.

«Er piacere è mio, Signori’» e le strinse con calore la mano.

«Embe’?» disse, volgendosi verso Romano. «Ieri nun hai pagato? Che c’è probblema? Tanto c’ho so’… si nun è oggi, sarà domani, Roma’, de te me fido. Che volete oggi?»

«Come ieri, Marcoli’, come ieri» rispose Romano e, visto che era libero lo stesso tavolo del giorno prima, si accomodarono lì.

«Questo sarà il nostro tavolo!» fece Flora, sedendosi.

«Ah, perché, hai intenzione di venire sempre qui?» la guardò sorpreso Romano.

«Beh, se va a te» sorrise, prendendogli la mano.

«A me? Con te verrei dappertutto!» esclamò Romano con gli occhi che brillavano per la felicità. Non avrebbe mai immaginato di averla conquistata in solo due incontri.

«Non correre, Romano» fece Flora, ammiccando. «Vola basso. Ci conosciamo da poco».

«Dici?» disse Romano, mostrando le sue fossette. «A me sembra di conoscerti da una vita, Flora. Me lo fai un altro sorriso? Quelli dei tuoi».

«Che ha di speciale?» domandò Flora con lo sguardo stupito.

«Mi piaci quando sorridi» fece Romano. «Mi sembra di annegarvi dentro».

Flora sorrise con un leggero rossore sulle guance. Era la prima volta che un uomo le chiedeva di sorridere. Ripensò ai coetanei solo pronti a sbavare, toccare, senza mai un complimento gentile.

Arrivò Marco, con i soliti stuzzichini, le patatine, naturalmente, e le birre.

Iniziarono a parlare fitto, quasi sottovoce, raccontandosi le loro vite, i progetti per il futuro ma Romano più che ascoltare Flora, continuava a guardarla, beandosi dei suoi sorrisi.

Finito di mangiare e bere, si alzarono.

«Marcoli’, grazie de tutto, me fai er conto?» disse Romano, alla cassa. «Oh, pure quello de ieri, eh?»

«No, quello de ieri considera che sia omaggio. Te l’ho offerto io» rispose Marco, battendo lo scontrino. «Oggi so’ cinquemila, Roma’».

«No, Marco, no» fece Romano, scuotendo la testa.

«Di’, voj litiga’?» disse Marco quasi offeso. «Ieri ho offerto io».

«Vabbe’, vabbe» concluse Romano, pagando la sola consumazione odierna. «Basta che nun t’encazzi!»

«Ebbravo, o vedi che quanno voj sai puro esse intelligente?» salutò Marco, incassando il biglietto da cinquemila lire. «Va’, va’, annatevene regazzi’, che c’ho da fa’»

Romano e Flora, appena usciti dalla porta del locale, non resistettero. Si abbracciarono stretti, mentre lei cercò le sue labbra.

Fu un limone coi fiocchi. Lingue che si cercavano, saliva che si mescolava. Era quello bello. Quello de core, de panza, de tutto. Quello che aveva gli ingredienti giusti al posto giusto, esattamente dove devono essere. Quello che si faceva in due e ci si trovava in due. Le labbra, le lingue, le salive e i corpi diventarono un unicum di curiosità e desiderio, di grazia e sostanza, di poesia e carne ma lasciava presagire orizzonti di piacere a breve termine. E fece venire voglia di continuare.

Sembrò durare un’eternità.

«Flora».

«Romano?».

Un scambio di sguardi mise fine a quel botta e risposta.

«Andiamo?» disse Flora, prendendolo per mano con il suo sorriso che toglieva il fiato. «Vieni da me?»

«Sì» rispose Romano, mentre si incamminarono.

Davide – una vita

Ragazza - disegno di Veronica
Ragazza – disegno di Veronica

Nostra figlia…” udì in lontananza Davide dietro la porta.

Assurdamente l’eccitazione di vedersela lì davanti viaggiava in parallelo con un dolore cupo che si andava allargando dal petto fino alla gola, che pareva stretta in una morsa.

La aprì e si trovò di fronte Sandra, scarmigliata e col viso rigato di lacrime. Le sensazioni di prima si stavano tramutando in fastidio. ‘Che autorizzazioni ha per comparirmi davanti come un doloroso ricordo del passato?’ si domandò Davide con sguardo accigliato. Si girò di scatto, dandole le spalle.

La porta era aperta, mentre Sandra stava sulla soglia. Lei era lì. Doveva esserci un senso in quella presenza. Davide non lo sapeva ma doveva scoprirlo in fretta. Era un fantasma che si materializzava all’improvviso. Non poteva lasciare dubbi dentro di sé.

Il rumore della porta, che si chiudeva, lo fece sobbalzare. Sandra l’aveva accostata con delicatezza e vi si era appoggiata con la grazia e l’abbandono di un bambino sul punto di assopirsi.

“Tua figlia se ne è andata” aggiunse con un filo di voce.

Troppi concetti per una frase sola, e così breve per giunta, fu il pensiero di Davide.

Come se ne è andata?” domandò, continuando a voltarle le spalle.

Avvertì solo un respiro rauco, interrotto dai singhiozzi. Si voltò per fissare in viso Sandra, che aveva il volto rigato dalle lacrime. Davide avrebbe voluto scuoterla, farsi spiegare quell’affermazione ma non riuscì a dire nient’altro. Si limitò a osservarla.

Lui in piedi impietrito da sensazioni dolorose. Lei accasciata per terra con le spalle appoggiate alla porta.

Davide percepì sul palmo la sensazione di lanugine calda della testolina della sua bambina, quando la portarono su dal nido dopo la nascita. Era grande e teneva su la testa, già curiosa e avida di vedere e sapere. Sandra non sapeva che fosse lì. Non glielo avrebbe permesso. Non poteva non vedere sua figlia, che da poche ore era venuta al mondo.

Era l’unico flash che aveva di lei. Poi un buio che dura da vent’anni. Adesso Sandra si presentava alla sua porta a invocare il suo aiuto. ‘Per cosa?’ si chiese Davide, socchiudendo gli occhi. ‘Se ne è andata, perché è morta oppure per qualche motivo ha lasciato la casa di Sandra?’ Era questo il suo dubbio che Sandra non aveva voluto chiarire. Si girò per osservarla.

Sandra era ancora una bella donna. Aveva cinquant’anni portati con dignità e decoro. Adesso era una pantera grigia, capace di essere una cacciatrice pericolosa. Lui aveva perso qualche capello, mostrando una incipiente calvizia. Quelli che restavano erano bianchi candidi. ‘Ma cosa ha fatto in tutti questi anni?’ sospirò Davide, tornando al quesito irrisolto, mentre corrugava la fronte. ‘Ma ora perché è qui?’

Ritornò indietro negli anni, quando lui e Sandra vivevano insieme. La bella favola era durata poco, schiantata contro un muro, composto da una miriade di incomprensioni, recriminazioni e sospetti. Lui sapeva di non avere nulla di cui vergognarsi, nulla di importante. ‘Ma cosa è rilevante e cosa non lo è in un rapporto a due?’ si era chiesto allora, quando Sandra se ne andò. Era la medesima domanda che stava per rivolgere a se stesso, vedendola con lo sguardo spento di una persona sconfitta.

L’unica certezza era che un giorno Sandra portò via il suo pancione e il suo odore, lasciando i suoi yogurt nel frigo. Da quel momento sparì. Solo casualmente seppe che era nata Sofia, perché un amico medico, che lavorava in ginecologia, lo avvertì del parto di Sandra. Era giusto che lo sapesse.

La corsa in ospedale fu diversa da come l’aveva immaginata. Da solo, col cuore in gola. La sensazione calda di quella testa di bimba, tutta nel suo palmo.

“Mettila giù” disse Sandra con lo sguardo gelido e vigile. “Subito”.

Lei non ebbe bisogno di gesti o di alzare il tono. Era già fin troppo imperiosa così, nonostante avesse partorito da poche ore. D’istinto Davide la strinse al petto.

È anche mia” disse Davide, guardandola di sbieco. “Non puoi dirmi questo”.

“No, non lo è!” fece Sandra, chiudendo gli occhi.

Sofia la vide quel giorno e poi mai più.

Come un dèja vu Davide percepì l’angoscia di quel giorno, il mesto ritorno a casa, il pianto di rabbia e di impotenza. Fu determinato nella voglia di ricostruirsi una vita ma era anche sgomento, perché avvertiva la sensazione di non riuscirci.

Si riscosse. Tornò a guardare quella donna accasciata per terra. Chiedeva un aiuto, ignorandone i motivi. Non aveva spiegato nulla. Solamente che Sofia era andata. ‘Certo non l’ha detto’ fece Davide, avvicinandosi per alzarla da terra, ‘Ma è di sicuro sparita nel nulla come lei da questa casa’.

Formalmente erano ancora marito e moglie. Nessuno dei due aveva chiesto né la separazione, né il divorzio. Strana sensazione provò Davide. ‘È come se fosse rientrata dopo avere fatto la spesa sotto casa’. Scosse il capo, perché alla fine non era cambiata per nulla in questi anni. Era rimasta come la ricordava. Sandra doveva spiegare troppe cose. Dai motivi, per i quali se ne era andata, a cosa aveva fatto in questi vent’anni e per finire perché chiedeva il suo aiuto.

Vieni” le disse Davide, sollevandola per un braccio.

Si sedettero accanto sul divano. Sandra si guardò intorno alla ricerca di ricordi familiari del passato. Ripassò lo sguardo due volte su oggetti e mobilio, senza cogliere nulla di familiare.

È cambiato tutto” sussurrò Davide, che aveva intuito cosa cercasse con gli occhi.

Sandra annuì col capo. Davide aveva cancellato dalla loro casa ogni segno che potesse ricondurla alla loro unione. Lei chiuse gli occhi, perché non voleva umiliare il suo orgoglio con delle lacrime riparatrici.

Davide la sfiorò con lo sguardo, cercando le parole, oltre che ai pensieri, per lenire il suo stato d’animo.

“Racconta” le disse secco. Doveva sapere e finora era rimasto all’oscuro su tutto.

Al resto avrebbero pensato dopo. Agli anni persi, agli abbracci mancati, alla solitudine di uomo single. Per questi ci sarebbe stato tempo alla fine del racconto, adesso c’era altro. Più importante. I motivi per i quali Sofia se ne era andata.

Abbiamo fatto tre giorni fa una litigata feroce” iniziò Sandra con un filo di voce. “Ha sbattuto la porta. Se ne è andata via con la macchina, facendo urlare le gomme”.

Davide sorrise. ‘Come potrebbe Sofia essere diversa dalla madre’ sogghignò divertito. ‘Il DNA non mente’. Ricordava bene le liti furibonde tra loro, che per poco non terminavano con l’arrivo dei carabinieri. Le porte sbattute con violenza. Le sgommate dell’auto. Un copione visto molte volte nei due anni da marito e moglie. Adesso Sofia lo ripeteva con sua madre con le medesime modalità.

E poi?” suggerì Davide per stimolarla a parlare per comprendere i motivi del litigio e del perché Sandra era vicino a lui.

Poi?” disse Sandra, alzando lo sguardo su di lui. “Niente”.

Per lei sembrava sufficiente quello che aveva detto. Era inutile sprecare parole.

Come niente?” fece Davide, spalancando gli occhi per la sorpresa.

Un litigo finito nel nulla. Davide scosse la testa. Sandra non era cambiata. Era sempre la stessa. Quando ritornava, una volta sbollita l’ira, non c’era mai staro niente. Tutto era normale. Semplici incomprensioni sulle quali non c’era nulla da discutere.

Per questo fai una tragedia?” domandò Davide sempre più basito dal comportamento di Sandra. “Se non c’è nulla ma un semplice litigio, perché sei qui vicino a me dopo vent’anni di silenzio?”

Sa tre giorni ignoro dove sia” spiegò Sandra, che si stava ricomponendo e riprendendo il suo aplomb.

Hai provato a cercarla?” chiese Davide, alzando il tono della sua voce. Scosse la testa. ‘Sempre così. Non è cambiata’ pensò, osservandola.

Perché credi che sia qui?” fece Sandra, agitando le mani. “Qui a umiliarmi davanti a te?”

Lui la guardò di sbieco. Si era presentata chiedendo il suo aiuto e adesso affermava di essersi umiliata. Il conto non gli tornava. Non era l’assenza di tre giorni a preoccuparla ma qualcosa che non voleva rivelare. ‘Perché?’ si chiese con lo sguardo accigliato.

Ma il motivo del litigio si conosce?” disse Davide leggermente alterato. “Oppure anche quello è niente?”

Sandra aprì la bocca e poi la richiuse, stringendo le labbra. Davide dava segni di impazienza. Si alzò e camminò nervosamente per la stanza. ‘Che vuole questa donna da me?’ pensò scuro in volto, mentre stava decidendo se metterla alla porta. La sua presenza gli aveva già rovinato la giornata e forse anche i prossimi mesi. Vedendola, l’amore assopito dentro di lui stava rialzando la testa in modo pericoloso. Ci aveva messo del tempo per scacciare la sua immagine dagli occhi ma era stato sufficiente vederla, perché tornasse di prepotenza a galla. Doveva agire prima che fosse troppo tardi.

Stava per afferrare Sandra e scuoterla con vigore, quando il campanello squillò. Si fermò di botto. Guardò in direzione della porta.

Quale altro intruso si permette di rompere?” sbottò irosamente, andando ad aprirla.

C’erano due persone, che si tenevano per mano. Un uomo non più giovane e una ragazza di circa vent’anni, che varcarono la soglia senza curarsi di Davide. Lui rimase impietrito dalla sorpresa e per la rabbia di un’intrusione non gradita senza chiedere il permesso di entrare.

Cosa fai qui?” apostrofò Sandra la ragazza, guardandola.

Come sapevi che ero qui?” ribatté Sandra, che imporporò il viso per la collera.

Davide chiuse la porta e si domandò chi fossero questi due. ‘Perché diventa rossa?’ pensò. Non capiva nulla e sperò che ci fossero delle spiegazioni.

È stata Bea a darmi questo indirizzo” replicò acida la ragazza, che teneva per mano un uomo ben più vecchio di lei. “Quando ho esauriti tutti quelli che conoscevo”.

Solita impicciona, Bea” commentò Sandra, che faticava a controllarsi.

La ragazza finalmente si degnò di osservare Davide, come se fosse lui l’intruso in quella casa. Lo sguardo era fiero e le labbra fremevano per il nervosismo.

E quello chi è?” domandò a Sandra la ragazza, indicandolo col viso.

È tuo padre” disse ridendo.

Bertrando – Una vita

foto personale
foto personale

Quella voce…

Bertrando si irrigidì, non capiva. Non era possibile, a furia di pensarci, di immaginare, di sognare, di desiderare, ecco, certo, iniziava ad avere le allucinazioni, a sentire le voci. Si appoggiò allo schienale, scacciò con la mano dal viso qualcosa che solo lui poteva vedere, infastidito, quasi fosse sufficiente quel gesto per allontanare i pensieri, i desideri persi in un passato lontano. Ma poi la sentì nuovamente. “Sì, era lei” si disse Bertrando con lo sguardo che spaziava per la stanza, come se cercasse qualcosa che non vedeva. Un appiglio per non sprofondare nell’angoscia. “Oramai ne sono certo. Non posso sbagliare”. Si avvicinò alla porta esitante. Aveva paura di chi stava dietro.

Sconvolto non connetteva bene i pensieri. Gli pareva di avere preso una sbronza. Sì, una ciucca di quelle che ti mettono ko per due giorni, lasciandoti come biglietto da visita un’emicrania feroce. Stralunato, ubriaco da ciò che sentiva salirgli dallo stomaco tornò a sedersi sulla poltrona.

Si prese il viso tra le mani. Chiuse gli occhi, come se fosse sufficiente a non udire. “Non è possibile” sospirò Bertrando, stringendo le labbra. “Una voce dal passato si sta insinuando nella mia testa”. Eppure ricordava con nitidezza che l’aveva chiusa fuori. L’aveva scacciata dai suoi pensieri. Era stato troppo male tanti anni prima. “Cosa vuole?” si domandò incerto se tornare vicino alla porta o ignorarla. “Perché ritorna? Perché mi vuole fare ancora del male?”

Era stata una storia di grandi passioni ma anche di furibonde liti. Erano stati anni che non poteva cancellare. Però quello che gli aveva fatto male. Troppo. A Bertrando si inumidì l’occhio a quel ricordo. “Quello che mi ha fatto male” proseguì nel suo pensiero, “è stata quell’accusa”.

Un vulnus mai sanato. Anni trascorsi a nascondersi, inseguito dai media. Gli amici, se così si potevano chiamare, che gli avevano voltato le spalle come se non l’avessero mai conosciuto. Alla fine l’accusa era caduta ma nessuno se ne accorse. Nessuno gli chiese scusa. Nemmeno lei, accecata dalla sua vendetta.

Quale vendetta?” si chiese, mentre le mani passavano nervose nei radi capelli, che era incanutiti. “Quale sgarbo le ho fatto per accusarmi di quella infamia?”

Era difficile per lui dimenticare. Era impossibile cancellare quei sei mesi rinchiuso in una cella con altri quattro detenuti. Dei tagliagola, dai quali si era dovuto difendere. Era invecchiato di vent’anni, quando finalmente l’avvocato lo fece uscire. Tuttavia la sua vita era rimasta sconvolta. Solo, senza uno straccio di lavoro. Senza una casa, perché la loro era rimasta a lei. Come un barbone andava a dormire nel dormitorio pubblico e scroccava un pasto caldo alla mensa della Caritas. Poi decise che doveva andarsene ma non poteva fino al processo. La giustizia lo voleva giustiziare a fuoco lento. Rosolarlo come un tenero maialino. Un supplizio quotidiano. Un fantasma per tutti, fuorché per la giustizia. Non poteva avvicinarsi a lei, perché avrebbe rischiato di finire nuovamente dietro le sbarre. Non poteva vedere sua figlia, Dalila, perché…

Perché?” si domandò restando bloccato sulla poltrona, mentre quella voce lo torturava. ‘Apri. So che ci sei’.

Non poteva aprire. Doveva ripercorrere il suo calvario. Era riuscito tramite il suo avvocato ad avere un posto come guardiano notturno in una fabbrichetta.

Giorno dopo giorno come una formichina aveva messo da parte qualcosa, che gli avrebbe permesso di ricompensare Arturo, il suo unico amico, il suo avvocato, che aveva capito la sua sincerità. Il resto serviva per il bilocale dove abitava adesso, mentre continuava a frequentare quella mensa di diseredati per risparmiare.

Questo gli aveva permesso di ricostruire la sua identità e avere fiducia in se stesso. C’era ancora il vuoto intorno a lui ma di questo non gliene importava nulla. Poi finalmente arrivò il giorno della resurrezione.

Il signor Benforte è assolto per non avere commesso il fatto”.

Però nessuno lo seppe. Lei non si fece vedere quel giorno, conscia della bugia detta e incapace di osservare il crollo di quel castello di infamie che aveva costruito con pazienza. Arturo gli aveva suggerito di procedere contro di lei per calunnia e diffamazione ma Bertrando era troppo stanco per lottare ancora nelle aule di tribunale. Lasciò perdere. Quel modesto lavoro era sufficiente per sentirsi vivo.

Adesso lei era lì, dietro una porta chiusa. “Cosa vuole ancora da me?” si disse con l’angoscia che montava impetuosa nella sua mente. L’unico modo era aprirle per sentire cosa gli doveva dire. Si alzò, mentre quella voce aveva un filo di implorazione, un qualcosa di anomalo. Non era la solita voce di Nicole, altera e dispotica. Sembrava implorare qualcosa. “Ma cosa?” si domandò, sapendo che la risposta era farla entrare.

Esitò davanti alla porta chiusa. Avvertiva che quella presenza lo avrebbe destabilizzato. Percepiva che non avrebbe portato nulla di buono. Questa sensazione negativa la sentiva nonostante il portoncino fosse chiuso e lui al riparo dietro di esso.

Emanava una forza esiziale verso di lui. La personalità di Nicole lo aveva tormentato nel passato, gli aveva rubato i sogni. Però non era riuscito a cancellare le sensazione che le aveva dato nei cinque anni burrascosi trascorsi con lei.

Tolse la catenella. Sentì il respiro affannoso di Nicole. La mente voleva obbligare la mano a non aprire ma il cuore spingeva nella direzione opposta. Girò il chiavistello, che produsse un frastuono incredibile. “Solo io sento questo rumore?” si chiese ansando per l’emozione. Apri piano. Una piccola fessura.

Nicole era lì, immobile, che sbirciava con i suoi occhi nocciola il viso di Bertrando.

Ti sei deciso ad aprirmi?” fece con un ghigno, storcendo al bocca.

Bertrando scostò il battente quel tanto per vedere il suo viso. Era sempre intatto. Affilato come una lama di coltello. Una piccola fossetta sul mento. I capelli biondi come l’oro vecchio. Un tuffo al cuore. Un ritorno a dieci anni prima, l’ultima volta che l’aveva vista. Era dinnanzi a lui, aspettando che aprisse completamente la porta. Sapeva che lo avrebbe fatto.

Non mi fai entrare?” sussurrò Nicole, come faceva un tempo. “Devo parlarti. Non mi va che tutti sentano le nostre parole”.

Bertrando spalancò l’uscio mettendosi di lato per farla entrare. Poi chiuse con dolcezza la porta.

Si guardarono in silenzio. lui era rigido, ghiacciato. Il suo cuore si era quasi fermato, perché l’emozione gli aveva chiuso la gola. Avrebbe voluto dirle qualcosa, qualunque cosa ma nessuna gli uscì dalle labbra. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo viso. Quel viso, quello sguardo, quella pelle, quelle labbra che aveva imparato a memoria. Erano come le poesie che bastava un abbrivio per ricordare ogni parola e inflessione della voce, mentre le declamava con sicurezza.

Sapeva che poi sarebbe stato male ma volle imprimersi tutto nella mente. Per altri giorni, per nuovi ricordi, per notti insonni.

Era bella, magrissima per nulla sfiorita dal tempo. Sembrava che si fosse scordato di lei, che l’avesse solo sfiorata, accarezzata piano, lieve, temendo di sciuparla. Gli occhi erano cambiati, diversi. Più tristi e profondi. Vi si leggeva un dolore radicato in profondità, impossibile da alleviare. Occhi asciutti, senza più lacrime.

“Nicole” mormorò Bertrando.

La lingua sembrava arrotolata, impedendo alle parole di uscire. Avvertiva nel petto un macigno che lo schiacciava, lo opprimeva. Si odiò. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia, stringerla, accarezzarla, cullarla, lavare tutto quel dolore che sentiva emanare dalla sua persona. Invece non riuscì a dar voce ai pensieri, rimanendo muto.

“Non mi fai accomodare?” fece Nicole, muovendo per la prima volta gli occhi con filo di curiosità. Girò lo sguardo su quella stanza che fungeva da sala e cucina. Spoglia ma ordinata. “Non è cambiato” si disse Nicole con un sorriso che mostrò le fossette sulle guance. Però immediatamente ridivenne spento, senza luce.

A lui parve che la voce fosse stanca, rassegnata, priva di calore. Intuì che gli doveva annunciare qualcosa, come se stesse compiendo un servizio, qualcosa che non voleva ma che doveva fare.

Bertrando si scostò e la fece accomodare sulla poltrona. Nicole si fermò accanto al tavolo senza sedersi. Diede una nuova occhiata circolare, senza soffermarsi su nulla, indifferente.

Si girò verso quell’uomo, che aveva amato e poi odiato con tutte le sue forze. Le costava fatica e dolore essere al suo cospetto. Fissò il suo viso. Uno sguardo che ricordava Nicole di quell’epoca lontana, quando vivevano insieme. Mandò bagliori, che parevano sfidarlo prima di spegnersi di nuovo.

“Bertrando… tua figlia… nostra figlia… Dalila sta morendo!”

Una vita – parte dodicesima

Foto personale
Foto personale

Il sole era alto e scottava, quando Luca scese nell’atrio del casale, dove trovò Maria appisolata su una vecchia poltrona di vimini.

La osservò in silenzio, ascoltò il rapido sibilo del naso e il rauco gridare della bocca semi aperta e decise che non era il caso di svegliarla.

Si guardò intorno, diede una rapida sbirciata al giardino sperando di incrociare il viso di Simona ma tutto sembrava calmo e tranquillo come una delle tante giornate di luglio.

Trasse un profondo respiro, si girò per ritornare nella camera e si avviò lentamente verso le scale, quando un gemito potente richiamò la sua attenzione.

“Signor Luca!” udì una voce impastata da sonno e stanchezza che sembrava provenire dal mondo degli inferi.

“Signor Luca!” ripeté la voce. “Simona è andata al mare. La troverà al bagno Garden”.

“Grazie” rispose l’uomo voltandosi lentamente come se avesse il timore di svegliare completamente quella voce, mentre vedeva il viso di Maria contratto in una smorfia di stizza e di fastidio.

Non era sua intenzione di andare al mare ma doveva fingere di essere contento, come gli imponeva la parte razionale, perché così doveva apparire agli occhi della gente. La fantasia insorse, affermando che doveva dirlo apertamente che non ci sarebbe andato. Il nuovo bisticcio confuse le idee di Luca che stava incerto se dire a Maria, che sarebbe andato altrove. Risalì in camera come per istinto senza un preciso motivo.

Di lì a qualche minuto ridiscese le scale e chiese come avrebbe fatto a raggiungere il famoso bagno Giardino.

Maria provò a spiegargli che il bagno si chiamava Garden e non Giardino, che non sarebbe stato difficile raggiungerlo e che li avrebbe aspettati per cena.

Luca annuì uscendo, ma intuiva che non sarebbe stata una passeggiata. Il caldo mozzava il respiro e ronzava pericolosamente nella testa.

Girò a lungo per il paese cercando con affanno la strada del mare senza riuscire a trovarla, distratto dal pensiero di Ersilia.

Dopo la fugace avventura con la francesina dal sorriso dolce era ritornato in città in attesa di cominciare la sognata università, che avrebbe cambiato tutte le sue abitudini scandite dagli orari del liceo.

Una sera, mentre sedeva solitario nei giardini pubblici, incrociò lo sguardo di Ersilia e subito divenne audace.

“Ciao!” le disse andandole incontro mentre la testa entrava in tumulto come al solito.

Ersilia allargò le braccia e lo strinse con vigore a sé, mentre lui la baciava sulle labbra senza timori e senza arrossire. Questa volta il colpo secco, che aveva dato ai suoi pensieri, non l’avevano mandato in tilt e la partita poteva continuare.

L’abbraccio gli sembrò lunghissimo con le bocche che continuavano a restare unite. Si guardarono e scoppiarono a ridere, forse pensando all’ultimo incontro che era stato un fallimento.

Luca cominciò a parlare in maniera sciolta e senza timore, le prese la mano e camminarono a lungo nel buio rotto dalle lampade pubbliche. Lei sembrava felice di ritrovare quel ragazzo impacciato e timido dopo diverse storie una più fallimentare dell’altra. Quell’incontro casuale le aveva aperto gli occhi. Luca era imbranato ma sincero nelle sue manifestazioni d’affetto.

“Ci vediamo domani alle undici in piazza” le disse senza nemmeno porsi il problema se lei era disponibile o desiderava rivederlo.

“Alle undici” rispose Ersilia, mentre un nuovo focoso bacio suggellava quel fortuito incontro.

Giorno dopo giorno la loro storia si cementava nelle aspettative e nelle convinzioni fino a diventare solida come il granito. Gli anni dell’università volarono come coriandoli al vento perché volevano convalidare il loro amore con il matrimonio.

Le immagini scorrevano veloci dinnanzi agli occhi senza posa e senza interruzioni, quando all’improvviso tutto diventò buio e i ricordi sparirono.

Luca aprì gli occhi, ma vide solo buio.

Sentiva freddo senza percepire da dove venisse. Eppure doveva essere estate ma non ricordava quando.

Si mosse, ma si sentiva impacciato, legato come se fosse costretto in qualcosa d’angusto. Non capiva il motivo di queste sensazioni sgradevoli.

Provò a parlare ma non udiva il suono della sua voce. Solo un sibilo, che attribuì ai suoi polmoni.

Richiuse gli occhi per verificare che non fosse un sogno. Percepiva che era una realtà diversa che non riusciva a focalizzare. Provò a concentrarsi su un pensiero, su Ersilia ma mille altri immagini si affollavano caotiche nella mente.

“Quale è stata l’ultima sensazione?” si chiese incerto senza trovare una risposta degna di questo nome.

“Dove sono?” provò a chiedersi inutilmente.

E chiuse gli occhi per calmare il peso che aveva dentro.

E fu per sempre.

FINE

parte undecima