Una vita – parte undecima

copertina
copertina

Simona si sentiva leggera, stanca ma appagata dalla lunga chiacchierata notturna. La mente era lucida, mentre dubbi e incertezze erano volati via col sorgere del sole.

Maria l’ascoltava attenta mentre sorseggiava un caffè ormai freddo e annuiva convinta. Percepiva un cambiamento benefico nella ragazza, come se l’involucro protettivo nel quale era avvolta mostrasse le prime fattezze di quello che sarebbe diventata tra non molto. Lei conosceva tutta la storia di Simona, anche se non ne aveva mai parlato direttamente, perché Lina le aveva narrato tutti i particolari. Il padre aveva strepitato a lungo tentando di intercettare la cognata per conoscere il nascondiglio della bambina. Però era stato dissuaso dalla minaccia di uno scandalo, che avrebbe travolto tutti e lui per primo. Il destino era stato benevole con loro e aveva dato una mano alla zia, perché il padre una notte, tornando a casa ubriaco, era stato travolto da un auto. La sorella, sempre più debole psichicamente, non aveva retto alla perdita del marito, dapprima richiudendosi in un mutismo esasperato, poi suicidandosi per il rimorso di non averlo contrastato.

Così i genitori di Simona se ne erano andati tragicamente travolti dalle loro stesse debolezze senza che lei sapesse che era rimasta orfana.

Simona conosceva qualcosa ma non tutto, perché zia Lina e Maria non avevano voluto aggiungere un trauma alla drammatica scoperta di come avesse vissuto pericolosamente coi genitori. Questo peso era stato un macigno sulla vita affettiva della ragazza, perché avvertiva l’incompletezza delle informazioni ricevute. Aveva percepito il caldo affetto delle due donne che l’avevano accudita e protetta durante quegli anni ma si sentiva incompiuta e dimezzata. Le sensazioni, che un padre premuroso poteva offrire a una figlia, non erano sostituibili minimamente da una figura femminile. Non era mai riuscita a essere del tutto sincera con loro, perché a torto non percepiva nelle due donne la sensibilità di una madre. Quindi determinati aspetti delle emozioni che i primi amori avevano suscitato in lei erano stati taciuti oppure minimizzati, perché provava una certa vergogna a confidarsi con loro. Però adesso comprendeva quanto fosse stata ingiusta e ingrata nei loro confronti, perché se era cresciuta solare e serena il merito era tutto loro.

Sia Simona che Maria sapevano di essere state in debito una con l’altra ma adesso era venuto il momento di chiarire tutto senza che queste rivelazioni potessero costituire un trauma.

Mentre Luca dormiva di un sonno profondo e senza sogni, Maria cominciò a parlare. “Credo che sia giunto il momento di raccontare quello che in tutti questi anni io e Lina abbiamo taciuto” e cominciò a narrare senza tralasciare nulla. La ragazza aveva gli occhi lucidi per l’emozione perché il mosaico incompleto dentro la mente prendeva forma e consistenza, lasciando intravedere il disegno finale.

Adesso comprendeva perché quel buffo ometto calvo e anziano aveva suscitato in lei delle sensazioni mai provate prima. Non le ricordava un padre, del quale aveva perso la fisionomia ma nemmeno le trasmetteva quell’amore paterno che non aveva mai assaporato. “No, non sono questi gli aspetti di quella empatia sorta tra me e Luca” si disse, ascoltando il lungo monologo di Maria. Era dunque quell’aria sognante, quasi eterea che aleggiava intorno a lui il vero segreto dell’attrazione. Il racconto di Maria era crudo, disincantato tale da non suscitare rimpianti, molto diverso da quello che avrebbe voluto ascoltare nel suo immaginario. Non provava odio verso i genitori, ma semplicemente disgusto per quello che avevano fatto e per quello che non erano riusciti a donare.

“È vero” si disse e ribatté silenziosamente: “È vero. Ho sempre sognato una madre che mi avrebbe guidato nel difficile cammino di diventare donna, mentre il padre mi avrebbe fornito sicurezza e protezione verso i guasti del mondo. Però non ho avuto né l’uno né l’altro”.

Questo non le aveva impedito di crescere pacata e piena di voglia di vivere per l’affetto sincero e premuroso di zia Lina e Maria. Però avvertiva che in realtà gli erano mancati i sogni, il cullarsi nelle notti tra desideri e visioni, perché due genitori ingrati e per nulla affettuosi glieli avevano rubati.

Luca sembrava vivere in una dimensione che non apparteneva al mondo del reale ma in una atmosfera soffice e ovattata, come le nubi che amava vedere scorrere nel cielo azzurro.

“Ecco il motivo per il quale mi sono sentita risucchiare verso di lui” ripeteva felice Simona. Lei amava distendersi su quel prato ad osservare il cielo e le nuvole bianche che componevano e scomponevano immagini fantastiche, mentre la fantasia la spingeva a salire e cavalcare quei batuffoli di bambagia bianca come mitici destrieri. Non aveva mai compreso la vera natura di quelle fantasticherie, che attribuiva alla sua natura appassionata e desiderosa di affetto.

“No!” ripeté con forza silenziosamente. “No! Non riuscivo a esprimere i miei sogni, perché non sono stata in grado di materializzarli”.

La vicinanza di Luca, che inseguiva il sogno di essere se stesso, le aveva aperto gli occhi su questo spicchio nascosto della sua personalità. Era proprio un viaggio apparentemente assurdo, seguendo il solo istinto, la molla che lo teneva in vita dopo un’esistenza dedicata all’apparire piuttosto che all’essere. Aveva intuito che lui era alla ricerca del cambiamento interiore, perché non era importante la meta ma il percorso, il movimento che conduce alla rivelazione di una parte di sé che per tanti anni era rimasta mascherata.

Anche lei doveva operare una trasformazione interiore per incidere sulla prospettiva di quello che voleva veramente dalla vita, per cambiare il suo modo di essere donna, di amare e di essere riamata. Doveva iniziare un nuovo percorso per capire se stessa e gli altri senza la mediazione, di chi le stava intorno, così poteva riappropriarsi di qualcosa che già le apparteneva ma che non sapeva di possedere.

“I miei sogni sono diversi da quelli di Luca. Ma sono questi che devo inseguire se voglio nascere una seconda volta” concluse mentre Maria snocciolava eventi e considerazioni, che non le interessavano più.

Simona abbracciò Maria e disse: “Grazie!”

parte decima parte dodicesima

una vita – parte decima

Alba - foto personale
Alba – foto personale

Maria aprì la finestra e scorse sotto il fico Simona e Luca.

«Simona, mi porti un cliente e poi lo tieni sotto le stelle?» disse ironicamente la donna, che si era stupita di vederli seduti a chiacchierare sul dondolo.

Lei avvampò per il rimprovero senza rispondere. Pareva una bambina, colta con le mani nel vasetto della marmellata.

«Signora» rispose Luca, vedendo la ragazza con le guance rosse e la bocca chiusa. «Simona mi ha fatto strada stanotte. Poi ci siamo fermati a fare quattro chiacchiere. C’era un invitante cielo stellato sopra di noi».

Maria sorrise, scuotendo il capo per la precisazione di Luca, che riteneva superflua.

«Scendo ad aprirvi il portone» disse, chiudendo la finestra.

Simona era in preda all’agitazione, perché aveva colto nella voce di Maria un rimprovero. Avrebbe voluto scappare, fuggire lontano ma la mano di Luca la trattenne e le trasmise fiducia. Il trambusto interno si placò, mentre dentro di lei avvertiva calma dopo la tempesta per le parole di Maria, comprendendo che le aveva fraintese. La aveva sovraccaricate di significati che non corrispondevano al messaggio che lei voleva trasmettere.

Simona dopo le riflessioni notturne acquisì la consapevolezza che non era più una ragazza. Aveva trent’anni. Era una donna adulta. Era giunto il momento di crescere e uscire dal proprio guscio. Non poteva rimanere chiusa nel suo mondo limitato, nel quale aveva vissuto fino allora. Doveva intraprendere un nuovo cammino per ricominciare a vivere in maniera differente.

Il sole stava sorgendo illuminando il giardino, mentre i primi raggi inondavano il fico già carico di frutti che tra un mese sarebbero diventati dolci e saporiti, mentre le gocce di rugiada diventavano vapore.

Maria sul portone richiamò la loro attenzione. «Restate lì» intimò a Luca e Simona. «Fra cinque minuti vi servo la colazione. Bombolone caldo e caffè bollente!»

Queste parole scatenarono in Luca un’altra ondata di ricordi. Rammentava le veglie estive notturne che si concludevano nel bar della spiaggia tra l’odore dolciastro del bombolone appena sfornato e del caffè amaro che gorgogliava nella napoletana. Allora aveva il gusto della voglia pulita di divertirsi nelle balere, dove si ballava stretti e accaldati al suono delle melodie lente e sognanti. Adesso era il simbolo della trasgressione e dello sballo, assordati da musica techno a tutto volume, a bere e prendere pasticche fino allo stordimento.

C’era un turbinio di idee dentro la mente di Luca, che rendevano sempre più opaca la sua visione dopo la lunga notte insonne e chiacchierata. Avvertiva la necessità di sdraiarsi su un letto e di chiudere gli occhi, di staccare la mente dal corpo ma doveva restare lì ad aspettare la colazione.

Maria portò un tavolo rotondo vicino al dondolo con alcune sedie e si fermò un attimo con loro per soddisfare la curiosità di conoscere gli argomenti interessanti che li avevano tenuti svegli.

«Nessuno» replicò con prontezza Luca, impedendo a Simona di rispondere. «O meglio tanti piccoli racconti di vita vissuta. Nulla in particolare».

Maria si allontanò insoddisfatta senza insistere ulteriormente.

Il leggero moto del dondolo e i caldi raggi del sole li fecero assopire in un dormiveglia rilassante, interrotto dal profumo zuccheroso del bombolone e da quello intenso del caffè.

L’atmosfera si riscaldò come la temperatura della mattina che faceva presagire una giornata caldissima. Erano anni che non gustava una colazione così genuina, perché fino a pochi giorni prima consisteva in un caffè amaro condito da qualche biscotto insapore.

Nonostante il caffè l’avesse svegliato completamente, percepiva la necessità di raccogliere le idee e staccare la spina da tutti quegli avvenimenti che con frenesia aveva vissuto nelle ultime ventiquattro ore. Salutate le due donne, che continuarono a parlare, si ritirò nella stanza a meditare in solitudine e al buio.

Si tolse i vestiti umidi di rugiada e di sudore per indossare pantaloncini e polo, mentre si sistemava su una poltrona di vimini. Aveva letto un libro, del quale non rammentava il titolo. Aveva presente visivamente solo la copertina e ne ricordava il contenuto. Trattava della casa da tè giapponese. Era rimasto incuriosito da quella pratica orientale per consumare una bevanda, che per loro racchiudeva la visione della vita. Si era ripromesso che, se un giorno si fosse recato in Giappone, ne avrebbe frequentato una. Era uno dei tanti sogni desiderati ma difficili da realizzare.

Adesso percepiva la necessità di riflettere, o meglio di svuotare la mente, per concentrarsi. Ripeteva, come un mantra, le tre parole, che ricordava di quella lontana lettura: vuoto, silenzio e meditazione. Però non riusciva a concentrarsi, perché era distratto da mille pensieri.

“Cosa faccio in questa stanza?” si domandò inquieto, perché il silenzio appena disturbato dal canto di un cardellino tardava ad arrivare.

“Perché mi sono lasciato coinvolgere emotivamente da una ragazza che mi ha scambiato per il padre che le manca?” si chiese, mentre tentava di sprofondare nel vuoto che era una dimensione sconosciuta per lui.

“Cosa vado cercando con questo viaggio senza meta?” si interrogò, mentre meditava sui motivi del suo vagabondare tra i ricordi del passato.

Luca si sforzava ma silenzio, vuoto e meditazione erano un miraggio difficile da ottenere.

Poi lentamente la stanchezza prese il sopravento mentre scivolava nel vuoto di un sonno senza sogni.

parte nona parte undecima

Una vita – parte nona

Luca era interdetto per la determinazione della ragazza nel volerlo accompagnare al casale senza trovarne le motivazioni.

Un pensiero fisso gli tormentava la mente, come il martello del fabbro sull’incudine: “Perché?”. Gli sembrava una ragazza seria, affidabile ma dallo sguardo smarrito come se cercasse disperatamente di estrarre dal proprio petto dei segreti, senza trovare l’ardire di farlo. Eppure non si era dimostrata timida quando lo aveva invitato a fermarsi per la sera e neppure poco prima con l’invito di trascorrere insieme la giornata al mare. Vedeva in lei la figlia e null’altro.

“Vediamo cosa vuole dirmi” pensò Luca, mentre continuava a parlare di mille altri argomenti.

«Perché ha intrapreso questo viaggio?» domandò Simona all’improvviso, mentre imboccavano il viottolo che conduceva al casale. «Non mi sembra che abbia una meta precisa».

Luca si fermò di colpo e rise allegro. «Si nota?» chiese con lo sguardo serio. «Quel darmi del lei, mi invecchia oltre misura».

Ripresero a camminare, salendo lungo la ripida salita.

«Ci provo ma non contarci» fece Simona, accennando un mezzo sorriso.

Luca non rispose, perché aveva il fiatone per la fatica di percorrere quel tratto di sentiero che portava all’aia del casale. Si riscoprì vecchio, perché qualche anno prima avrebbe fatto di corsa la salita.

La parte razionale si rammaricò di questi pensieri negativi, perché le mettevano tristezza ma doveva portare pazienza senza lasciarsi prendere dallo scoramento.

Giunti dinnanzi al portone chiuso, Luca si guardò attorno smarrito e perplesso. ”E adesso come faccio?” pensò. Non aveva le chiavi, né poteva importunare la proprietaria, perché non l’aveva avvertita che avrebbe fatto tardi. Lo sguardo si posò sulla vecchia Punto, che avrebbe potuto ospitarlo per la notte. Stava per salutarla, quando Simona lanciò una proposta.

«Ci fermiamo sul dondolo sotto le stelle a parlare» fece la ragazza con un bel sorriso sulle labbra. «Poi apriamo il portone!»

Luca non capiva come avrebbe potuto entrare senza suonare la campanella. Però non comprendeva quel plurale “noi”, perché lui era regolarmente alloggiato lì ma lei no.

Rinunciò a cosa volesse intendere Simona con “poi apriamo il portone”, perché la serata piena di stelle e con un falcetto di luna sembrava invitare alle chiacchiere.

Un brusio appena discreto si levò dal dondolo, mentre ognuno narrava qualcosa di sé. Capì che Simona era di casa nella cascina, che Maria l’aveva accudita come una madre e tanto altro ancora. Tuttavia il vero motivo per il quale aveva voluto restare sotto le stelle non lo aveva ancora rivelato.

Quel dondolarsi nell’aria frizzante di una notte di luglio risvegliò il guardiano dormiente dei ricordi, che prese le chiavi per aprire la stanza della memoria.

E la mente tornò a quella ultima notte trascorsa con la francesina con la quale tra coccole e baci aveva atteso il sorgere del sole prima nella tenda poi sulla spiaggia illuminata da piccoli fuochi.

“Cosa ci siamo detti?” ripensò Luca, rapito da quel ricordo lontano. Non aveva importanza rammentarlo. Sorrise al pensiero di quel mix di inglese, tedesco e dialetto per capire la metà di quello che volevano dirsi. Certe sensazioni non avevano bisogno di parole, perché l’intesa era perfetta, come può esserlo, quando si ha diciotto e sedici anni. La mente vagava libera senza ascoltare il frinire delle cicale e il cupo richiamo del gufo nascosto nel folto del noce.

Simona si fermò a guardarlo incantata dallo sguardo sognante di Luca.

L’improvviso silenzio ruppe il brusio delle parole, mentre lui ritornava sul dondolo ad ascoltarla come se quell’interruzione non fosse mai avvenuta.

Adesso Simona aveva la certezza di essere pronta a raccontare il segreto della sua infanzia, celato con cura dentro di lei. Ebbe un momento di sbandamento, perché non sapeva da dove cominciare. “I ricordi sbiaditi dal tempo o le sensazioni dolorose che portavo dentro?” si domandò, prima di prendere il coraggio a due mani.

La voce era incrinata per l’incertezza. Balbettò qualcosa che lasciava intuire la sua volontà di narrare. Luca la soccorse.

«Racconta. Sono in attesa di conoscere il tuo segreto».

Questa spinta la sbloccò, mentre metteva in fila tutti i ricordi.

«Devo tornare indietro nel tempo» disse Simona rinfrancata per la sicurezza, che Luca, che avrebbe voluto come padre, le infondeva. E aprì la cassaforte di un passato molto remoto.

Di zia Lina e Maria aveva già raccontato, quindi estrasse dal cuore il dolore di non avere avuto un padre, a parte quello nominale.

«Non riesco detestare i miei genitori, perché non sono mai riuscita odiare nessuno. Però quando ho compreso i motivi per i quali mi volevano sempre nel letto con loro, ho chiuso tutto in una cassetta, che ho sepolto in questo giardino» disse tutto d’un fiato Simona.

Adesso riusciva anche a sorridere a quanto era avvenuto tanti anni prima. Si sentiva più leggera, come sgravata da un figlio indesiderato. Un fiume di parole uscì dalla sua bocca.

Raccontò di essere cresciuta senza una figura maschile di riferimento, perché zia Lina e Maria erano rimaste single, disdegnando la compagnia degli uomini. Su questo punto in paese correvano molte dicerie, perché affermavano che dormissero insieme e che facessero all’amore tra loro.

«No, non era vero» negò con forza Simona. «Ognuna dormiva nel proprio letto. Ma questi pettegolezzi mi hanno sempre ferita nell’anima, perché dicevano che anch’io amavo solo le donne».

«Ti credo, Simona» la consolò Luca, cingendole le spalle con atteggiamento protettivo.

Una piccola lacrima scese furtiva dai suoi occhi, mentre sperava che Luca non si fosse accorto per l’emozione e la stizza, legati a questi ricordi.

«È vero» ammise Simona, avvertendo il calore dell’abbraccio di Luca. «Ho avuto pochi amori, se si possono chiamare così i brevi flirt, che duravano il tempo di un battere di ciglia».

Lei, quando stava con un ragazzo, cercava in lui una figura maschile che non aveva mai avuto, mentre a loro interessava solo il sesso.

«Come potevamo trovare quella empatia che fa nascere un sentimento?» recriminò Simona con forza.

Luca annuì col capo. Erano due mondi incomunicabili tra loro.

«Tomaso, l’ultimo, sembrava diverso, mentre io mi sforzavo di vederlo sotto una luce differente» si accalorò Simona. «Però mi accorsi che dopo il periodo iniziale aveva smesso di amarmi e chiusi la relazione».

Avvertiva dentro di lei un vuoto sentimentale, perché a trent’anni non aveva avuto un amore degno di questo nome, senza conoscere nemmeno cosa fosse il sesso.

Il cielo stava colorandosi di colori pastello per annunciare la nascita del sole.

parte ottava parte decima

Una vita – parte ottava

foto personale
foto personale

Mentre teneva sotto il braccio quello scricciolo effervescente come l’acqua frizzante, Luca si domandò stupito cosa avesse attirato la ragazza a legarsi a uno sconosciuto non certamente giovane, senza capelli e con la pancetta.

Forse Simona gliela aveva spiegato, mentre lo accompagnava nel bed and breakfast. Però lui non aveva ascoltato. immerso com’era nei ricordi e adesso non aveva il coraggio di chiederlo apertamente. S’era creato tra loro un’atmosfera di serena fiducia e non voleva incrinarla con domande inopportune. La strinse più vigorosamente per farle assaporare il calore che trasmetteva, ripromettendosi di prestare attenzione a quanto gli stava dicendo.

Simona si sentiva sicura e protetta da questo uomo dall’età indefinita ma dallo spirito giovanile. Appariva taciturno e leggermente svagato ma spandeva serenità a piene mani. Non conosceva nulla di lui, solo il nome “Luca”. Un po’ poco per affidarsi fiduciosa a uno sconosciuto ma percepiva che non le sarebbe capitato nulla di male, finché lui stava al suo fianco. Aveva compiuto ormai trenta anni e si sentiva vecchia nello spirito, perché non aveva combinato nulla di buono fino a quel momento.

La sua infanzia era stata tribolata e amara, segnata da un padre manesco e poco rispettoso del ruolo, da una madre troppo arrendevole, che aveva chiuso un occhio sulle attenzioni del marito verso la figlia. Aveva sei o sette anni, quando una zia la strappò dal quel mondo torbido, che rischiava di inquinare quella bambina, portandola lontana.

Simona aveva un carattere solare, estroverso e incline alla fiducia. Non aveva focalizzato bene le motivazioni che l’avevano costretta a dividere il letto coi genitori, a quei giochi strani ai quali partecipava assonnata e annoiata. Solo quando era diventata una ragazza aveva compreso come avesse ballato pericolosamente sul baratro del precipizio, nel quale sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di zia Lina.

L’affetto della zia e di Maria, la proprietaria del casale, sanò le ferite dello spirito. Dentro di lei rimase il guasto di un’infanzia rubata, che celò con molto impegno senza rivelarlo mai a nessuno. Qualche amore sfortunato, la morte della zia, la perdita delle radici l’accompagnarono nel difficile viaggio di emancipazione economica e fisica. Lasciò la casa accogliente di Maria, che per lei era la vera madre, per stabilirsi in un monolocale in centro paese vicino al bar dove lavorava da un paio di anni. Però quando si sentiva triste si rifugiava in quel casale nella stanza, dove adesso alloggiava Luca. Quella era stata per molti anni il suo regno ed era sempre vuota, a sua disposizione.

Quando Simona si era presentata alla porta con quell’ometto buffo, calvo e un po’ grassottello, Maria aveva intuito che poteva ospitarlo in quella stanza senza timore di urtare la sensibilità della ragazza.

Mentre passeggiavano fra una bancarella e un’altra, Luca percepì che Simona aveva un passato da far riemergere dalle tenebre. “Non è in questo clima festoso il momento più adatto per parlarne” si disse, mentre le acquistava dello zucchero filato. Non aveva pensato all’eventualità di fermarsi qualche giorno ma l’istinto gli suggerì che sarebbe stato opportuno restare lì per raccogliere le fantasie e le confidenze della ragazza. “Ci penserò domani” disse alla parte razionale che impertinente aveva fatto di nuovo capolino per dissuaderlo dal proposito, conscio che avrebbe dato ascolto alla parte sognatrice.

Qualche giovane lanciò occhiate non proprio cordiali a quella strana coppia che si aggirava tranquilla e sorridente tra banchi e le giostre. Forse pensavano al solito vecchio bavoso e danaroso, che si accoppia con una ragazza giovane e piacente. Luca non ci fece caso. Sereno come era accanto a Simona.

Osservarono del movimento verso uno spiazzo dove si ergeva un alto palo. Si diressero da quella parte. Simona sapeva cosa avrebbero trovato, mentre per Luca era semplice curiosità comprendere il motivo di tanto assembramento.

Era il momento dell’albero della cuccagna. Si fermarono per guardare le evoluzioni di gruppi di giovanotti, tesi a scalare quell’asta coperta di grasso con in cima una pentolaccia di coccio, che dovevano abbattere per conquistare il premio. Creavano una piramide umana ma alla fine mestamente il più leggero, che si issava agile sulle spalle degli altri, scivolava verso la base senza riuscire nell’intento di conquistare l’ambito premio. Risero e applaudirono quei tentativi infruttuosi e comici nell’epilogo. Poi si mossero in giro con gli occhi pieni di stupore, osservando quella folla festante, che si aggirava senza pensieri.

Luca le comprò dell’altro zucchero filato, le mandorle caramellate appena tolte dalla pentola di rame, il croccantino sottile. Ricordò che l’aveva fatto per Gloria, quando andavano alle giostre per la festa del patrono della sua città.

Simona percepiva che questa era una serata speciale, perché aveva trovato quel padre amorevole che le era mancato da sempre.

L’assenza di una figura paterna aveva segnato negativamente i suoi rapporti con i ragazzi, perché Simona avrebbe voluto trasfondere in loro quella mancanza, mentre loro cercavano una ragazza da amare e non da accudire.

Stanchi e appagati per il lungo girare, si sedettero su una panchina in attesa dei fuochi di mezzanotte.

«Luca» disse Simona, rompendo il silenzio. «Si fermi anche domani. È la mia giornata di libertà. Possiamo fare un salto al mare».

«Non lo so» rispose pacato mentre osservava quegli occhi vivaci e mobili. «Non le prometto nulla».

“Bugiardo” disse la parte razionale con tono di rimprovero. “Sai già che lo farai. Non puoi mentire a te stesso”.

“Ma no è vero” rimbeccò la parte creativa. “Lui deciderà al momento. Come sempre”.

Le due personalità di Luca presero a litigare, confondendolo, finché non le mise a tacere. Quello che lo rendeva incerto e terrorizzato era il pensiero del costume. Non ricordava da quanto tempo non fosse andato in spiaggia. Tuttavia questi pensieri sparirono in fretta.

Un botto squarciò il nero della notte, che si colorò di mille colori. Erano i tanti attesi fuochi che avrebbero suggellato la chiusura della lunga festa prima di darsi l’appuntamento al prossimo anno. Questo lo distolse dal dubbio di rispondere con un ‘sì’ o con un ‘no’. La meraviglia del cielo colorato gli fece dimenticare la richiesta di Simona.

Tutti a naso in su. «Oh! Oh!» esclamavano, osservando quella cascata di luci multicolore che striavano il cielo, mentre stormi di uccelli impauriti si levavano in volo per cercare nuovi ripari. L’abbaiare sguaiato dei cani era sovrastato dal rombo impetuoso degli scoppi, mentre i giardini ricolmi di persone commentavano lo spettacolo pirotecnico.

«È tempo di salutarci» disse Luca dopo che si era spento l’ultimo boato e tutto tornava buio e silenzioso.

«L’accompagno. Così non smarrisce la strada» ribatté Simona, decisa a trascorrere il resto della notte con lui, perché voleva parlare dei segreti che custodiva in fondo all’anima.

E si avviarono parlottando sottovoce verso il casale di Maria.

parte settima parte nona

Una vita – parte settima

PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE” ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna 9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” - www.fotoamatoricotignola.it
PREMIO SPECIALE “IL FOLKLORE NELLA TRADIZIONE POPOLARE”
ZANETTI MIRKO – Palo della Cuccagna
9° CONCORSO FOTOGRAFICO NAZIONALE “PREMIO SEGAVECCHIA” – www.fotoamatoricotignola.it

Luca camminò a lungo, tornando spesso sui suoi passi alla ricerca del paese. Tutti gli incroci sembravano uguali, tutte le strade avevano una singolare comunanza familiare, come se avesse abitato sempre in quel posto ma alla fine stabilì che si era perso.

Rise di gusto, perché la mente razionale gli aveva giocato un bello scherzetto, cancellando ogni ricordo del pomeriggio.

“Segui l’istinto” gli raccomandò la fantasia. “Ritroverai facilmente la strada”.

Girò a sinistra al primo incrocio, poi a destra, infine a sinistra e vide la strada ingombra di macchine. «Sono arrivato» esclamò Luca con un sorriso franco.

La chiassosa vitalità di giovani e anziani gli infuse nuova linfa a gettarsi nella mischia della sagra tra mille odori sgradevoli di olio bruciato e suoni sgraziati di chi arringava la fiumana a comprare lozioni miracolose.

Un certo languore lo informò che lo stomaco reclamava la sua parte, perché l’aveva tenuto a digiuno. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che non fossero wurstel bruciacchiati con cipolla stracotta o patatine in stick unte e bisunte. Notò in lontananza un chiosco assediato da una moltitudine di giovani. “Ecco dove si mangia” pensò Luca mettendosi in coda. Era il baracchino della piadina.

Fu un nuovo tuffo nel passato, quando trascorreva la settimana in tenda con gli amici sulla riviera romagnola. Piadina a mezzogiorno, replica alla sera erano i suoi pasti, perché riempiva lo stomaco togliendo il senso della fame. Doveva risparmiare per allungare la permanenza nel campeggio. Quando voleva fare bisboccia, sostituiva la piadina con fagioli borlotti liquefatti e tonno scadente in scatola. Erano tempi dalla felicità irriflessiva e istintiva che lo riempiva di gioia e voglia di vivere sopra e sotto le righe. Si sarebbe rifatto nel mangiare, tornando a casa, mentre il divertimento l’avrebbe soddisfatto lì.

Nuovi ricordi lo assalirono, mentre aspettava il suo turno per ordinare. La mente tornava a quando aveva diciotto anni. Aveva terminato la maturità scientifica, superata brillantemente nonostante la cornacchia del prof di lettere, che aveva faticato a dargli la sufficienza in italiano. Il risultato fu una bella media del sette, non male per quell’epoca, quando il sette era l’eccellenza, e gli servì per la borsa di studio all’università. Partì il primo di agosto, dieci giorni dopo la fine degli esami, su un vecchio treno a vapore, che costringeva a tenere chiusi i finestrini per non finire affumicati dalle polveri di carbone. Era con altri tre compagni di scuola. Tutti pronti a trascorrere quei quindici giorni di libertà, dormendo poco e divertendosi molto.

L’arrivo al campeggio avvenne su una carrozzella, perché un taxi era troppo costoso. Era più dandy ed eccentrico scaricare tenda e borsone da questa piuttosto che da un’anonima vettura verde di piazza. In una delle tante balere scalcinate e chiassose della costa incontrarono un gruppo di ragazze francesi, con le quali fecero subito comunella e coppia fissa. A Luca venne da sorridere, perché ovviamente gli toccò la più scorfano o meglio gli era rimasta di scegliere solo quella. O prendere o lasciare e restare solo. Non c’erano altre alternative. Era il più imbranato del gruppo e quando vedeva una ragazza andava in tilt e la mente segnalava ‘Game over’. Dunque due anni dopo Ersilia gli effetti erano sempre gli stessi. “Come avrei potuto cambiare?” pensò, mentre addentava con voracità la piadina.

La parte razionale gongolava e maliziosamente gli chiese il nome di quella francesina dai dentoni da coniglio, che urtavano i suoi duranti i baci bavosi. Anche qui niente di nuovo rispetto al periodo di Gloria. Non era ancora riuscito a baciare senza sbavare, senza fare il ‘limone’, che avrebbe acceso la passione nell’altra. “Che importanza può avere un nome per un’effimera storia, che è morta con la sua partenza per Parigi?” rimbeccò Luca per quella domanda inutile, perché lo aveva regolarmente dimenticato. Piccoli brandelli di memorie riaffioravano qua e là dal pozzo dei ricordi. Un viso sorridente, un carattere dolce e tranquillo, chiacchierate con un mix di lingue improbabili e ridicole e l’ultima notte trascorsa nella sua tenda teneramente abbracciati. Forse lei si sarebbe aspettata qualcosa di più, mentre Luca proprio non ci pensava. Non aveva ascoltato il corpo della francesina, non aveva saputo usare le mani come si doveva. Insomma il solito disastro che combinava Luca con le ragazze.

Un velo di malinconia scese per un attimo sui suoi occhi, subito spazzato dal ricordo di Ersilia, che aveva incrociata dopo il ritorno dal campeggio con ben altri risultati. Era stato forse l’effetto vacanza? Non lo sapeva ma aveva poca importanza per lui.

Mentre questi ricordi emergevano e poi sfumavano nel buio della notte stellata di luglio. stava sgranocchiando una piadina con spinaci, niente male si disse, quando una voce familiare gridò «Luca, Luca!»

Si guardò intorno, senza vedere un volto familiare, e tornò alla piadina, convinto di essere stato suggestionato in quel bailamme di suoni cacofonici e sovrapposti. Un’ombra si materializzò dinnanzi a lui. Alzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine.

«Simona» fu l’unico suono che la sua bocca emise. Se ne era scordato. Distratto dai molteplici ricordi, che affioravano ovunque come i funghi nel bosco, non aveva tenuto a mente l’appuntamento con la ragazza. Mentre la fantasia si affannava a estrarre dal cilindro tanti scampoli di vita vissuta, la parte razionale malignetta e gelosa si divertiva a confondere le idee a Luca.

«Ti ho aspettato dinnanzi al bar dove lavoro» disse col fiatone, come se avesse corso la maratona.

«Sono mortificato» riuscì a dire Luca contrito, «ma mi sono perso». Per rimediare alla figuraccia ordinò una piadina per lei, che si accomodò felice davanti a lui.

Chiacchierarono come due vecchi amici, che si ritrovavano dopo molti anni. Sembrava che dovessero smaltire tutto quello che era avvenuto nel frattempo. Finirono le piadine, innaffiate dall’albana secco. Luca ascoltava e annuiva alla valanga di parole che Simona riversava su di lui come una grandinata fuori stagione. Però la sua mente ogni tanto spaziava altrove, perso nei ricordi di Ersilia e rammaricato che il viaggio si stesse consumando in assenza della moglie.

Si domandò se lei avrebbe accettato un viaggio senza mete e senza obiettivi, solo guidato dal suo istinto. Scosse il capo. Questo viaggio era per lui la traversata del lago della memoria alla ricerca del tempo passato.

“Ma un passato esiste ancora?” si domandò incuriosito, mentre la ragazza narrava di come avesse smarrito molti anni prima le proprie radici.

«Andiamo a fare un giro tra i banchi» propose Simona, allungando le braccia, mentre si alzava. Pareva che volesse tenerlo stretto a sé.

Lei gli prese la mano, facendola passare sulla spalla. Sembravano padre e figlia che passavano in rassegna bancarelle e stand di giochi in attesa dei fuochi di mezzanotte.

parte sesta parte ottova

Una vita – parte sesta

un disegno di Maria matthews
un disegno di Maria matthews

«A destra», «A sinistra», «Prenda quella stradina stretta», «Siamo quasi arrivati» diceva Simona con lo sguardo allegro nel dare le indicazioni del percorso, come un provetto navigatore. Forse ancor meglio di quella voce gracchiante del gadget elettronico.

Quel fiume di parole esuberanti, che stavano sovrastando Luca, lo riportarono indietro nel tempo agli anni giovanili. Era il momento delle speranze, dei sogni, dei primi amori. Il pensiero corse a Ersilia ma poi virò su Gloria. “Chissà dov’è?” si disse, mentre seguiva le istruzioni di Simona. “Vive ancora? È sposata, single, divorziata?” Di lei aveva perduto le tracce senza molte nostalgie.

“Perché questa ragazza che mi fa da navigatore mi ricorda Gloria?” si domandò Luca, mentre un velo di nostalgia calò sul suo viso. Eppure Gloria era stata solo la compagna di giochi e di avventure, vissuti più con la fantasia che nella realtà, ma di certo non aveva provato amore. Non si era posto nemmeno il quesito se l’amava, perché per Luca era l’amica, cresciuta giorno dopo giorno insieme a lui. “Certo abbiamo fatto le prime prove di baciare” si disse, sorridendo per la goffaggine di entrambi. La lingua inumidiva il viso e non le labbra. Gli abbracci, a ripensarci adesso, erano una pessima imitazione di quello che avevano visto al cinema, mentre la spingeva col suo corpo contro il muro del corridoio. Che splendida emozione aveva provato, quando aveva sfiorato le minuscole protuberanze sul petto, dure come il marmo, che affioravano sotto la camicetta. Ricordò che era arrossito, mentre aveva ritratto la mano per aver osato tanto. Gloria lo lasciava fare senza dire nulla. “Certo mi assecondava” pensò Luca, serrando le labbra. “Nella mia ingenuità di bambino non mi sono posto la domanda se le mie effusioni le avessero trasmesso qualche emozione”. Forse, riandando con la mente a quei momenti, Gloria si sarebbe aspettata qualche ardimento più temerario da parte sua, che non arrivò.

«Attento» urlò nelle sue orecchie la voce un po’ stridula di Simona.

Luca scacciò quei ricordi lontani per concentrarsi sulla guida. Aveva guidato come un automa e di certo non avrebbe saputo ritrovare la strada per ritornare in paese o allontanarsi da questi luoghi. “Se sono arrivato fin qui, seguendo l’istinto” si disse per nulla preoccupato, “da qui ripartirò con lo stesso spirito”.

«Siamo arrivati» lo avvertì Simona, che aveva descritto ogni angolo, ogni casa, ogni via con entusiasmo e passione, senza che Luca avesse ascoltato una sola parola.

Frenò dolcemente, mentre lo sguardo spaziò verso l’alto e verso il basso, inspirando l’odore della ginestra fiorita. Osservò con occhio sognante lo spettacolo offerto dalla giornata che stava virando verso la sera. Davanti a lui si ergeva un vecchio casale consunto dal tempo, abbarbicato al termine di una ripida salita. Era circondato da cespugli di ginestra e lavanda con un maestoso noce che ombreggiava la facciata. Di lato un fico dava sollievo a un tratto di prato.

Simona prese per mano Luca e gli fece strada, annunciando l’arrivo di un nuovo ospite.

«Maria» disse forte, affacciandosi alla porta su cui stava scritto ‘PRIVATO’. «Hai una stanza per…» e si interruppe perché non sapeva come si chiamava l’uomo che era con lei. Nella concitazione del momento non glielo aveva chiesto e adesso era impacciata con le guance rosse.

«Luca. Luca D’Astolfi» le suggerì senza imbarazzo ridacchiando per la strana situazione che si era creata.

Una donna, avanti negli anni e un po’ sfiorita dal tempo, uscì dalla porta, abbracciando la ragazza. «Certamente. Una stanza libera c’è sempre per le persone che Simona accompagna. Per loro c’è sempre posto».

Rivolgendosi a Luca, chiese: «Partite domani?»

«Non so» rispose Luca, perché l’istinto non gli aveva suggerito nulla. «Potrei anche fermarmi qualche giorno».

La donna sorrise, mentre cominciava a registrare i suoi dati anagrafici.

La stanza era luminosa e guardava verso il mare, che in lontananza cominciava a tingersi di rosso. Arredata con semplicità con un piccolo bagno ricavato in un angolo, era calda e accogliente. A Luca apparve in linea con la padrona di casa. Osservò stupito quella minuscola ragazza che con tanta incoscienza e fiducia si era incaricata di accompagnarlo senza sapere nulla di lui, nemmeno il nome.

Era venuto il tempo di accendere il telefono per far sentire la sua voce a Ersilia, che lo rimproverò aspramente per il lungo silenzio.

«Dove sei?» gli chiese addolcendo il tono della voce.

«Sono a…». Tacque perché non lo sapeva proprio. Si era dimenticato di chiederlo a Simona, perché la parte sognante lo aveva riportato indietro negli anni. La mente sghignazzò, perché la fantasia batteva in ritirata. “E smettetela voi due” li rimproverò Luca. “Sapete solo beccarvi senza darmi un aiuto”.

L’istinto gli suggerì la risposta. «La vista è meravigliosa ma il nome non lo ricordo» ammise imbarazzato Luca. Si aspettò l’ennesima strigliata di capo dalla moglie, che stranamente arrivò.

Parlarono a lungo, come se quella separazione avesse sciolto loro la lingua. Erano anni che vivevano di monosillabi e frasi smozzicate dettate più dalla rabbia che dalla voglia di comunicare. Sentivano il bisogno di trasmettere le emozioni che salivano dal cuore, come se fossero tornati ai primi tempi del loro amore.

«Ci sentiamo domani, Ersilia» concluse rilassato e felice Luca. «e sono pentito di non averti trascinata con me».

«Fai il bravo» replicò lei con la voce incrinata dalla malinconia.

Spento il telefono, Luca ragionò sul come organizzare la serata. “Andrò a braccio come il solito” fece, mentre toglieva dalla valigia un paio di pantaloni chiari e una maglietta fucsia, che dispose sul letto, e dei mocassini leggeri. Sentì la necessità di lavarsi. Sotto il getto di una doccia tiepida strofinò con vigore il corpo per togliere ogni residuo di stanchezza e di caldo, mentre canticchiava un vecchio motivetto ‘All fruit’. Forse lo storpiava nel suo inglese maccheronico ma nessuno prestava attenzione alla sua voce stonata.

Sorrise L’istinto l’aveva guidato con giudizio ancora una volta. Però doveva concentrarsi su quello che gli aveva detto Simona prima di sparire. «Se rifai la strada che abbiamo percorso per arrivare qui» gli aveva spiegato, «ti ritrovi in paese. Stasera grande festa per il patrono con i fuochi d’artificio».

Sospirò, mentre un vago senso di incertezza affiorò nella mente, sospinto dalla parte razionale. “Magari fosse così semplice rintracciare la via” pensò, mentre la fantasia gli suggeriva di fare come era abituato. Lasciarsi guidare dal suo istinto.

“Hai ragione si disse e nel vago chiarore della giornata morente, quando tutti i gatti sono grigi e bigi, si incamminò verso il paese alla ricerca di Simona, il suo angelo custode.

parte quinta parte settima

Una vita – parte quinta

Luca si fermò un istante nell’osservare quello che accadeva intorno a lui, mentre bevve un sorso di vino bianco ormai riscaldato dall’aria rovente.

Lo schiamazzo dei bambini rompeva il silenzio infuocato del pomeriggio. Ripensò alla mattina, quando aveva annunciato a Ersilia la sua intenzione di intraprendere un viaggio. Il viso colmo di stupore e rabbia insieme a una velata minaccia. Luca scosse la testa. “Dovevo farlo” si disse, abbandonandosi sullo schienale della sedia. “Era una vita che desideravo farlo”. Era un modo per sfuggire alla noia della giornata e per stare insieme ai suoi ricordi.

Ersilia qualche mese dopo quell’incontro, nel quale lui era rimasto senza voce e senza pensieri, sparì con gli esami di maturità. Era un mese di luglio ugualmente caldo come quello che di questi giorni. Il sole arroventava l’aria e nelle aule si boccheggiava per l’afa. Il sudore incollava alla pelle ogni cosa. Luca era ancora lontano da quel traguardo.

Lui aveva percepito di essere entrato in una spirale che lo avrebbe trascinato verso un abisso senza speranze. Aveva sprecato l’unica cartuccia per colpire Ersilia, la donna dei suoi sogni, che era scappata a gambe levate. “Di chi era la colpa?” si chiese, mentre si dissetava con l’acqua. “Devo incolpare la mia dabbenaggine e la mia timidezza”.

Vide la ragazza e le fece un cenno. «Un caffè corretto con la grappa» ordinò alzando la voce, prima di ritornare a quei lontani giorni di luglio.

Luca aveva finito l’anno scolastico con una materia da portare a settembre. “Allora esistevano gli esami di riparazione” mormorò in silenzio, sorridendo come un ebete. “Ora li chiamano recupero debiti formativi. Bah! Cosa cambia?” Scosse la testa, perché mutava il nome ma la sostanza era la stessa. Quella materia insufficiente era stato un tassello del disgraziato innamoramento verso Ersilia, che era sparita, senza che lui avesse la speranza di riacciuffarla in extremis. Agli occhi di Luca lei era una donna matura che avrebbe affrontato l’università, mentre lui era un ragazzetto immaturo e incostante, che avrebbe continuato il percorso scolastico al liceo. Due percorsi e due mondi distinti erano sotto gli occhi grigio-verde di Luca, che non aveva capito la sua infatuazione per una ragazza più vecchia di lui, più alta, più, più … più in tutto.

Adesso comprese che quell’incidente scolastico, del tutto fortuito, era stato un segno del destino. Senza di esso non sarebbe mai cresciuto. Sarebbe rimasto l’eterno bambinone sognante e sognatore. Questo albergava comodo e soddisfatto dentro di lui. “Come avrei potuto cogliere la mela matura, che qualche anno più tardi sarebbe stata appesa al mio albero, pronta per cadere ai miei piedi?” rifletté, massaggiandosi il mento.

Mentre continuava a rinvangare i suoi ricordi, era arrivato il caffè, senza che Luca vi avesse prestato attenzione, nonostante la mente si fosse sbracciata per farglielo notare. Il tavolo era ingombro di cibo e bevande. C’era un mezzo panino ormai sfatto, un liquido biondo nel calice, la bottiglietta dell’acqua appena sorseggiata e la tazzina del caffè fredda.

La ragazza girava inquieta tra i tavoli vuoti, sbirciando Luca. La incuriosiva quell’uomo calvo e dal fisico appesantito da qualche chilo di troppo. Però lei tra qualche minuto terminava il suo turno e doveva incassare il conto prima di andarsene. Non osava avvicinarsi, perché lo vedeva assorto nei pensieri incurante dell’afa asfissiante e dei rumori che lentamente animavano la strada. Era indecisa, perché le sembrava di rubargli il tempo alle meditazioni. Il servizio ai tavoli non le era mai piaciuto. “Oggi ancora di più” pensò incerta tra chiedere il pagamento e osservarlo in silenzio.

La parte razionale richiamò l’attenzione di Luca. “Mi sono perso nei meandri della mente” si disse indispettito per quell’intrusione non gradita. “E per di più non so dove sono”.

La ragazza si avvicinò rinfrancata, Le sembrò il momento giusto per farsi pagare il conto.

«Sono tredici euro e quaranta centesimi, signore» disse con tono dolce e un bel sorriso, mentre posava sul tavolo lo scontrino fiscale. Aggiunse arrossendo. «Tra qualche minuto è finito il mio turno e dovrei incassare il conto. Spero di non avere rotto l’incantesimo dei suoi pensieri».

Luca le sorrise. Quel viso gli era piaciuto, appena l’aveva intravvisto.

«Certo» fece Luca, prendendo dal porta monete una banconota da venti euro. «Non mi sono accorto di essere rimasto così a lungo qui».

Mise sul tavolo i venti euro.

«Tra un attimo le porto il resto, signore» rispose la ragazza, voltandosi verso la cassa.

«Aspetti» disse Luca, trattenendola per un gomito, mentre accennava a tenere il resto come mancia. «Mi può dire sono finito?»

«A pochi chilometri d qui c’è il mare» rispose la ragazza, facendo lampeggiare di orgoglio i suoi grandi occhi verdi. «Ma adesso si trova sulle colline tra Appennino e mare Adriatico. Un posto meraviglioso».

Luca la osservò con lo sguardo incantato.

«Come si chiama?» le chiese, osservando quegli occhi verdi da gatta. Si sorprese di tanto ardimento e ripensò che avrebbe dovuto averne altrettanto quella volta con Ersilia. Invece era rimasto muto come un pesce.

Luca si aspettava una risposta stizzita ma, quando udì «Simona», sobbalzò sulla sedia perché si era rotto il silenzio dentro di lui.

«Pensa di fermarsi in paese, stasera?» gli chiese Simona curiosa di conoscere questo sconosciuto che le sembrava che vivesse in un mondo incantato.

«Non so» fece Luca, mettendo a tacere la parte razionale che era insorta alla sua espressione dubitativa. «Non ho deciso». Però la mente non rimase in silenzio. “Siete un bugiardo! Non è vero che non lo sai” strepitò inviperita. “Taci!” le impose Luca.

«C’è festa stasera per il santo Patrono» insistette Simona, che lo incalzò per convincerlo a rimanere. «Fuochi d’artificio a mezzanotte e tante bancarelle nel sagrato della chiesa».

Luca sorrise. Aveva deciso d’istinto. Si sarebbe fermato per osservare la festa, perché erano suoni familiari, quando a maggio si festeggiava nella sua città. Il sorriso sparì in fretta, perché non avrebbe saputo dove fermarsi per la notte.

«Ma c’è un albergo in paese?» chiese Luca con lo sguardo spento, perché forse non c’era nulla.

«Le posso indicare un bed and breakfast appena fuori dal paese» continuò Simona sorridente. «Se aspetta qualche minuto, la posso accompagnare io». E sparì alla sua vista.

Luca incerto era preso tra due fuochi. La mente, che gli ordinava di riprendere il viaggio verso l’ignoto, e la fantasia, che lo incitava a raccogliere quell’invito insperato. “Non te ne pentirai” gli suggerì la parte sognatrice, per convincerlo a restare.

Le due parti erano intente a litigare, quando Simona comparve dinnanzi in jeans e camicetta pronta a condurlo in posto sconosciuto.

«Andiamo» disse Luca d’istinto, avviandosi verso la macchina, mentre lei lo seguiva spensierata, incurante dello sguardo del gestore del bar.

parte quarta parte sesta

Una vita – parte quarta

tratto da wikipedia
tratto da wikipedia

Luca aveva sei anni. Vedeva la corte irregolare, sommersa da assi e legname, recuperato dalle vecchie case, bombardate dalla guerra. C’erano due pezzi di marmo tondeggianti un a volta bianchi, adesso inscuriti dal tempo e dalla polvere. Forse facevano parte di vecchie colonne, che non sapeva dove fossero collocate.

“Erano la parte superiore o inferiore?” si interrogò senza troppa fretta, né curiosità, perché erano il mondo dei giochi assieme a due sedili di marmo rosato butterati dal tempo.

Salire, scendere, saltare era il mondo della fantasia di bambino, che immaginava quali avventure dovesse affrontare. Un lampo. Un urlo di dolore era uscito dalla bocca, mentre la gamba sanguinava come una fontana. La corsa disperata al pronto soccorso, i pianti e le paure erano immagini vive e reali, che scorrevano sullo schermo in tre dimensioni della mente.

La mente razionale se ne stava in un cantuccio ben nascosto ma pronto a uscire allo scoperto infingardo e falso, quando la fantasia avrebbe finito la pellicola.

Il filmato era irregolare, a strappi quasi singhiozzante, perché era consunto e annerito dal tempo.

Luca stava su un lettino del Pronto Soccorso, molto diverso da quelli attuali. Vetrinette con dentro i medicinali, un lavandino di ferro smaltato bianco con qualche traccia di ruggine su una parete, un medico con un camice non immacolato che osservava la sua ferita. Luca guardava fuori dalla finestra un giardino ricco di magnolie imponenti dalle foglie verdi lucide, mentre piangeva in silenzio. La ferita era infetta, perché nella fretta della medicazione avevano lasciato dentro una garza. L’uomo scuoteva la testa e diceva «Speriamo».

Quali pensieri potevano essere frullati nella testa di Luca bambino? Adesso non lo sapeva, né lo ricordava ma quale importanza poteva avere. Mentre ripensava a quegli anni lontani, era sicuro che il terrore di perdere la gamba era stato immenso, sovrastato solo dall’incoscienza di avere sei anni.

Avrebbe rivisto quelle magnolie altre volte, mentre lentamente la ferita diventava una lucida cicatrice ben evidente nel ginocchio, che ancora adesso era in bella mostra.

I fotogrammi scorrevano veloci davanti agli occhi, mentre Luca bambino scendeva in strada dalla finestra della camera da letto o scivolava incosciente sul corrimano delle scale. Era un discolo irrequieto sempre pronto ad arrampicarsi ovunque pensando a Tarzan e trascinava con se Gloria, che lo ammirava con due occhi dolci e immensi.

Sorrise a quei lontani ricordi. “Forse sono cambiato?” si chiese, tenendo in mano il calice di vino. Scosse la testa, perché era conscio che era stato sempre fuori dal coro, perché stonava e rovinava l’armonia delle voci. “D’altra parte non sono tagliato per la musica” si concesse, sorseggiando il vino fresco.

Era solo nel dehor immerso nel caldo asfissiante di luglio e aspettò qualche attimo prima di mangiare un boccone del panino che aspettava nel piatto.

Si chiese perché si era immerso nel flusso dei ricordi, che gorgogliavano sicuri nella mente, mentre la razionalità timidamente si affacciava fuori dal luogo segreto nel quale si era rintanato.

“Vergogna!” gli gridò la fantasia stizzita per la codardia dell’altra parte.

“Avete finito di litigare?” li riprese Luca irritato del continuo battibeccare delle due personalità che albergavano dentro di lui. “Voglio ricordare e basta”.

La pellicola si era spezzata e doveva riattaccarla, se voleva proseguire a vedere il prosieguo del film della sua vita. Non era facile ma testardamente ci provava.

Il suo occhio stanco per il viaggio, mentre il sudore scivolava tra le ciglia, vide in lontananza dei bambini che disegnavano qualcosa sul marciapiede infuocato prima di iniziare un gioco chiassoso e allegro.

“Un gioco di strada di certo” fece Luca affascinato da quel vociare infantile tra note acute e timidi sussurri. “Ma dove sono, se i bambini usano la fantasia per giocare?” Si guardò in giro alla ricerca della ragazza che lo aveva servito ma era sparita.

Non vide nessuno e così, come per magia, si sentì trasportare nella corte senza erba con un sicomoro frondoso e qualche aiuola maltenuta addossata ai muri. Era il suo regno da maggio a ottobre con i giochi aiutati dalla fantasia, annaffiati da secchi d’acqua gelida, che dalle finestre venivano gettati con abbondanza per raffreddare la turbolenta gioiosità dei ragazzini.

Poi si concentrò su quel gioco tanto affascinate quanto inadeguato per le dimensioni della corte.

“Come si chiamava?” chiese aiuto alla fantasia, perché la mente si era nuovamente nascosto.

“Ah! Bac e Pandon!” replicò lei con immediatezza.

Era un gioco ricavato da un elemento povero: un vecchio manico di scopa, messo in un angolo in attesa di finire nella caldaia in minuscoli pezzi. Il pandon era una piccola scheggia di legno appuntita da entrambi i lati, che doveva essere colpita dal bac, il manico tagliato. La scheggia si alzava roteando prima di essere colpita al volo e mandata lontana. Vinceva chi riusciva a mandarla il più distante possibile. L’abilità consisteva nel prendere il pandon. quando roteava veloce in modo imprevedibile. “Mica era semplice” pensò Luca, appoggiando le spalle allo schienale della sedia. “Riflessi e colpo d’occhio erano necessari, perché il pandon doveva essere colpito nel punto centrale per farlo volare lontano. Altrimenti cadeva miseramente ai tuoi piedi”. Però, c’era sempre un però nel gioco, perché se finiva su un vetro erano dolori.

Luca sorrideva beato e felice ma era tempo di tornare a Ersilia.

parte terza parte quinta

Una vita – parte terza

Dentro di lui avvertì un conflitto. La parte razionale rimproverava a quella sognatrice di essere disattenta. “Se non ci fossi io a fare da sentinella” disse con tono saccente la mente, “avremmo passato un bel guaio”, La fantasia sbuffò, alzando le spalle. “È meglio sognare che stare sempre a spaccare il capello in quattro” fece l’area fantasiosa con aria sognante. “Smettetela di litigare!” le rimproverò Luca. “Mi state distraendo”.

La via era ingombra di persone e detriti, come una discarica. Si era fermato appena in tempo per non finire nel caos.

Luca osservò distratto quel disastro. Lui continuò a ripercorrere quei cinquanta anni all’indietro, fino a quando aveva conosciuto Ersilia. Però avvertiva una strana sensazione. Si sentiva riarso dentro, perché la fiumara della memoria era un letto essiccato dal sole di agosto cosparso di sassi levigati dal tempo. I ricordi era svaniti.

Luca continuava a guardare davanti a lui ma non fissava nulla. Lo sguardo era perso nel vuoto. La mente girava a vuoto. Dei rumori fastidiosi lo distolsero. Si riscosse dall’apatia momentanea. Dei clacson suonavano impazienti ma Luca non aveva voglia di muoversi o meglio pensava di indugiare ancora un po’. Tuttavia non poteva restare lì a contemplare qualcosa che tutto sommato non gli interessava. Si avviò con lentezza, quasi esasperante, mentre un vigile nervoso gli faceva segno di andare più svelto, agitando la mano destra con frenesia.

Di colpo avvertì una grande stanchezza. Avrebbe voluto fermarsi ma non c’era nemmeno uno spiazzo degno di questo nome. Avanzò per quella strada a passo d’uomo, mentre mandava a quel paese gli automobilisti impazienti che continuavano a strombazzare dietro di lui. Scorse in lontananza una minuscola piazzola, che poteva accoglierlo.

Trovò un riparo sotto i platani che ombreggiavano la strada, mentre si domandò cosa stava facendo in quel posto sconosciuto. Si ricordò che era partito alla mattina verso una destinazione ignota, seguendo il proprio istinto. Adesso era in un luogo, lontano da un centro abitato, col sole di mezzogiorno alto nel cielo. Quindi aveva raggiunto l’obiettivo. Rimaneva un senso di insoddisfazione di fondo.

“Non ha importanza, dove siamo” ribatté Luca all’irrequieta razionalità della mente, che premeva per chiedere, per sapere, per decidere. “Perché dovrei prendere una decisione? Si vive al momento. Carpe diem. Direbbero i romani”.

Adesso il lungo stradone diritto era vuoto. Riavviò il motore e con circospezione si rimise sulla carreggiata.

“Cosa devo decidere?” ripeté stanco e annoiato, mentre tentava con la fantasia di insinuarsi nella terra arida alla ricerca del suo fiume di memorie scomparso.

Guardò l’ora e ammise che era venuto il momento di fare una sosta, di vedere qualche faccia non più di sfuggita ma fissa e parlante. Proseguì finché non incontrò un paese di cui all’ingresso non si curò di leggerne il nome. “Ha qualche importanza sapere se siamo arrivati a…?” disse Luca per placare la mente, che invece avrebbe voluto conoscere il nome della località.

Proseguì tranquillo, mentre una strada alberata lo accolse. Non c’era anima viva in giro alla quale domandare qualche informazione.

“Perché dovrei farlo?” si chiese con un sorriso stanco. “Un posto per fermarmi lo troverò di certo a meno che non sia un paese fantasma”.

Sapeva che non era così. Troppe case per essere disabitato. Procedette seguendo un misterioso impulso. Qualcosa gli diceva che avrebbe trovato un bar, una trattoria, una qualsiasi cosa dove poter prendere qualcosa. Il suo istinto ebbe successo. All’ombra dei tigli c’era un dehor, che sembrava ammiccare con l’occhio destro ‘Fermati. Qui si sta bene e al fresco’. Luca vide poco più avanti un parcheggio a pettine sotto gli alberi, del tutto deserto. Si fermò e scese dall’auto. Si stiracchiò per dare elasticità ai muscoli rattrappiti per il lungo viaggio.

Si soffermò un attimo per capire dove fosse finito, seguendo l’estro del momento. “Ma ha importanza sapere dove sono?” disse la fantasia, che si crogiolava nello sbizzarrirsi in sogni e fantasticherie sul misterioso luogo.

“Ma certo” rimbeccò acida la parte razionale di Luca, perché tutto sembrava congiurare per nascondere il nome del paese.

Non c’erano persone, né cartelli, né indicazioni alcuna, la toponomastica della strada era parzialmente coperta dal glicine fiorito che si inerpicava sinuoso e intrigante sull’angolo. “C…. Ma…..i” era il poco che si leggeva.

Subito l’immaginazione cominciò a lavorare sulle lettere celate. “Caro Maestro” si lasciò andare. “Ma no. C’è una i sul finale”. Lei avvertì un senso di impotenza perché non riusciva a comporre il nome.

“Ma non immaginare quello che non sai!” fece la mente, che ridacchiava sulla frustrazione della fantasia.

“Avete finito di beccarvi?” disse Luca, mentre si accomodava nel dehor, aspettando l’arrivo di un cameriere che tardava ad arrivare. “Ora si mangia e poche chiacchiere”.

Messi a tacere quei due impiastri, pronti solo a distrarlo, il suo pensiero tornò a quei giorni di beata incoscienza che era stata la sua adolescenza. Ersilia era stato il primo e grande amore, diventato alcuni anni più tardi realtà. Però prima di lei c’era stata Gloria, una ragazzina magra come uno stecchino. Era stata la compagna di giochi e di avventure, inseparabile fino a quando a tredici anni non aveva cambiato casa. I primi baci furtivi, le prime carezze audaci erano state strappati nella buia penombra dello stretto corridoio che dal cavedio interno portava nella corte esterna. Nessun ‘ti amo’ era stato mai sussurrato ma dove c’era l’uno, stava anche l’altra.

I ricordi erano confusi, offuscati da una coltre di polvere, che rendevano opachi i contorni. Eppure erano lì, pronti a balzare fuori, senza che Luca riuscisse a vederli, a rinfrescare la memoria. Stavano in un limbo di indeterminatezza, di non vuoto, di non pieno senza tempo e senza spazio. Provò a concentrarsi ma erano ricacciati indietro da qualcosa più forte della sua volontà.

«Signore! Signore!» sentì una voce gentile fuori campo. «Desidera ordinare qualcosa?»

Luca strizzò gli occhi per mettere a fuoco l’immagine di una ragazza giovane coi capelli raccolti sulla testa. Era lì da tempo. Qualcuno lo chiamava ma lui era volato altrove, indietro nel tempo. La cameriera stava di fronte a lui con un viso pulito, dove stavano incastrati due grandi occhi verdi.

“Solo io riesco a far squillare il campanello d’allarme” diceva beffarda e velenosa la mente alla componente estrosa di Luca.

La fantasia non poté ribattere, perché Luca li mise a tacere. Adesso doveva ascoltare la voce della cameriera.

«Un panino al prosciutto crudo, una bottiglietta d’acqua naturale fresca e un calice di vino bianco» ordinò alla ragazza dopo avere ascoltato la lunga litania del mangiare disponibile.

L’osservò che ancheggiante tornava al riparo del bancone. Notò i capelli di un bel colore ramato naturale. Prima non se ne era accorto. Quella vista avevano avuto il potere di ripescare dalla sua memoria quei lontani ricordi. Eppure non la associava a nessun volto femminile che aveva conosciuto nel passato. Era un’anonima figura dalla corporatura minuscola e dall’età non ben definita tra i venti e trenta anni.

Adesso gli episodi del passato tornavano gorgoglianti alla luce del sole, riemergendo dall’oblio nel quale erano confinati.

“Hai visto menagramo” disse la fantasia alla mente. “I ricordi ci sono e sono limpidi”.

Stavano lì, sul tavolo. Era sufficiente chiudere gli occhi per osservare lo scorrere della pellicola in bianco e nero di molti anni prima.

parte seconda parte quarta

Una vita – parte seconda

Luca spense il telefono, perché non voleva essere disturbato. “Chi mi chiamerà?” si domandò, mentre prestava attenzione al traffico nervoso che scorreva attorno a lui. A parte Ersilia, che di certo non aveva nessuna intenzione di ascoltare durante il viaggio, non c’erano altre voci da incrociare via etere. Quindi era meglio che tacesse.

Girò a destra, poi a sinistra, infilando una via che non conosceva. Non lesse i cartelli che indicavano la direzione. Una strada di cui ne ignorava l’esistenza. Aveva deciso, in un momento di lucida follia, che avrebbe inseguito quello che per quaranta anni non aveva fatto: seguire l’istinto, dimenticando chi era.

Luca avvertiva dentro di sé malinconia. Ne ignorava il motivo, perché in realtà doveva essere felice. Doppiamente felice. Era in pensione e stava affrontando un viaggio che aveva sempre sognato. Sapeva di essere un introverso che la mascherava, mostrando un lato della sua personalità che non gli apparteneva. Tutti lo credevano estroverso, perché parlava in continuazione di ogni argomento, anche talvolta a sproposito. Si inseriva, non gradito, in qualsiasi conversazione, dispensando suggerimenti e consigli gratuiti. Era un esperto di ogni cosa ma i colleghi e gli amici lo ignoravano, lasciandolo parlare a ruota libera. Qualcuno avrebbe potuto affermare che aveva una personalità bipolare, ammesso che si potesse definire così il suo carattere, scisso in maniera dicotomica in due parti. Quella da mostrare al mondo e quella che cullava durante i sogni notturni.

Luca amava la seconda, quella vera, quella che gli dava tutte le soddisfazioni, che la prima gli negava. Durante il sonno immaginava di inseguire la Gloria. Se qualcuno avesse sentito quel nome, avrebbe pensato a quella dolce ragazza che aveva condiviso giochi e avventure da bambino. No, sarebbe stato fuori strada. Era la prima pagina della rivista letteraria ‘Il sabato’, dove gli autori famosi venivano intervistati. Si domandò dubbioso, se sarebbe riuscito rispondere alle domande, perché un conto era sognare, ben diverso parlare su qualcosa che non conosceva.

“Ma quali domande mi avrebbero rivolto?” continuò a interrogarsi. In sessantasei anni non ho scritto un rigo di nulla”. Luca sognava a occhi aperti che avrebbe vinto il premio Pulizter o il Nobel per la letteratura con un romanzo, grosso come una torta nuziale a sette piani, dal titolo indefinito e dalla trama inconsistente.

Era un autentico sogno il suo, nel senso che sarebbe stato irrealizzabile. Sorrise compiaciuto. “Mi dovrei mettere a piangere?” pensò, mentre a uno svincolo si immise un una nuova via ignota. Seguiva il filo dei suoi pensieri, senza sapere verso quale destinazione stava andando.

“Non ha importanza” diceva tutte le mattine a quella parte di Luca, che, svegliatasi con quella esterna fasulla, si abbandonava alla malinconia del nuovo giorno. Però era bello lasciarsi cullare nel sonno da quelle visioni piene di luccicanti mondi da prime pagine patinate, anziché stare accanto alla grigia Ersilia, che ronfava pesante vicino a lui.

Era affezionato alla moglie, che lo sopportava da molti anni.

Mentre guidava guardingo, attento a non infilare un senso vietato e alle trappole del traffico, ripensò con malinconia quanti anni erano passati da quando l’aveva conosciuta.

“Sono passati troppi anni” disse alla sua controfigura, seduta sul posto del passeggero, mentre la musica dei Rolling Stones invadeva il suo spazio mentale, entrando in contesa con la concentrazione.

Era stato un giovane di belle speranze, neppure troppo bello, un po’ grassoccio e imbranato quel tanto che bastava per sembrare a volte un tontolone. Lei era una bella ragazza dai capelli biondo stoppia e gli occhi nocciola. Lo superava in altezza di poco, dalle lunghe gambe, dritte come un fuso, e con un fisico longilineo, che la faceva apparire come se fosse molto più alta del reale. Aveva un paio d’anni più di Luca.

Mentre armeggiava impaziente con l’autoradio alla ricerca di qualcosa di piacevole da ascoltare, si domandò, perché tornava sempre a quel punto di cinquanta anni prima, quando ne aveva solo sedici.

La parte falsa di Luca fingeva di non saperlo, perché era talmente abituata a simulare, che il vero gli pareva falso.

“Come puoi non conoscere i motivi?” gli rinfacciava il suo lato sognatore, che con malinconia inumidiva l’occhio al semplice ricordo di quegli anni dorati.

Luca era in terza liceo con viso butterato da una fastidiosa acne e gironzolava speranzoso nei paraggi della V A, la classe dove Ersilia imponeva la sua bellezza. Ci voleva poco, visto che le altre ragazze erano tanto scorfani quanto secchioni da fare invidia a Pico della Mirandola. Insomma erano tanto brave quanto inversamente apparivano graziose. “Beh!, dei mostri inguardabili proprio no” rise Luca ripensandoci. “Di certo non facevano concorrenza a Miss Italia. Magre, ossute, con seno inesistente, qualche brufolo mal coperto dalla cipria erano il campionario migliore del loro aspetto”. Dunque Ersilia era la Nefertiti della classe, che attirava i compagni come un fiore, preso d’assalto da api e farfalle.

Luca non aveva speranze di essere notato perché, quando lei gli rivolgeva la parola, lui diventava rosso come un gambero e si impappinava come un principiante. Tutti i discorsi che aveva preparato con cura, qualora l’agognata preda si fosse degnata di un uno sguardo o di una parola, finivano in monosillabi incomprensibili e balbettanti, mentre la testa si svuotava d’incanto come un cestello saccheggiato dall’orso Yoghi.

Rimaneva lì impallato a bocca semi socchiusa con l’occhio spento e perso nel vuoto, finché Ersilia ridendo non si allontanava sotto braccio a quell’antipatico di Roberto. Allora si ridestava come la bella addormentata nel bosco mentre i pensieri, che erano fuggiti o si erano nascosti tra le pieghe della mente, ritornavano allegri e beffardi a popolare la sua testa. Era un copione quotidiano, al quale non riusciva a trovare un rimedio.

Quello che più lo feriva erano i commenti dei compagni. Riferivano che quel tontolone di Luca aveva fatto girare la testa alla maliarda, così era chiamata la bella Ersilia, ma che quell’imbranato restava muto come un pesce o farfugliasse parole senza senso.

I sensi suonarono un campanello per avvertirlo che c’era un pericolo imminente a cui prestare attenzione.

Il fiume dei ricordi si essiccò o meglio sparì tra le rocce carsiche della memoria in attesa di ricomparire spumeggiante e limpido dopo il percorso sotterraneo, quando tutto era tornato in sicurezza.

parte prima parte terza