Ottava parte La bambina senza nome

Krimhilde e le fanciulle scomparse

Su Caffè Letterario è apparsa da poco l’ottava puntata de Una bambina senza nome, che potete leggere anche qui.

Bea apparve sulla porta di comunicazione tra le due stanze. I lunghi serici capelli neri apparivano aggrovigliati come se una mano diabolica si fosse divertito a intrecciarli. Il viso rosso congestionato per l’ira che covava nel suo interno. Gli occhi spiritati per la vista del diavolo in persona. Vistose chiazze di bagnato lasciavano intravedere il reggiseno a balconcino. Sembrava infuriata. Anzi lo era.

Lorenzo si alzò per andarle incontro. Aveva lo sguardo moscio per averla coinvolta nel bagno di Esme, che seguiva con lo sguardo ferino le sue mosse.

Bea aprì e chiuse più volte la bocca come se fosse stata colta da afasia. Sbatté con violenza le palpebre, ma poi pian piano gli occhi ritornarono alla normalità del misto marrone e verde. Il viso riacquistò il colorito di sempre: quel incarnato leggermente olivastro che le donava fascino. La vista di Lorenzo preoccupato per lei aveva avuto il potere di rasserenarla dopo la lunga lotta con quella ragazza per lavarla e toglierle tutte quelle croste nere di cui il suo corpo era ricoperto.

Lorenzo le baciò le guance mentre la stringeva a sé con affetto. Avvertì delle fitte dolorose nella nuca. “Di certo è Esme che non gradisce le mie effusioni a Bea. Lei non è nulla per me ma Bea invece sì. È la moglie del mio miglior amico”. Poi la condusse sull’ottomana accanto a lui, tenendole la mano. Percepiva che si era calmata.

Esme lanciò occhiate assassine verso Lorenzo e Bea e il giallo dell’iride diventò ancor più luminoso come se si fosse incendiato. Era nel centro della stanza e sembrava cresciuta ancora.

«Non voleva farsi toccare da me!» affermò Bea con un tono leggermente stridulo della voce. «Nella reazione scomposta della ragazza è uscita dalla vasca un bel po’ di acqua! Un macello! Il tuo bagno sembra un campo di battaglia allagato! Giuro che non ho capito il motivo».

Lorenzo sorrise, stringendole le spalle. “Adesso viene il bello. Provare quello che ho comprato”. Affidare il compito a Bea non ci pensava per nulla. Doveva farlo lui. Dalle due borse tolse gli acquisti.

Bea scoppiò a ridere. «Pensi che quelle mutandine possano andarle bene?» E osservò quell’indumento adatto più a una bambola che alla ragazza ben sviluppata che stava ritta di fronte a loro. Si alzò di scatto e scomparve alla loro vista.

Esme con un sorriso sicuro si avvicinò a Lorenzo che con garbo la allontanò per farle comprendere che non desiderava troppa intimità tra loro. Fece un passo indietro con gli occhi velati di delusione.

Lui cercò di rimettere insieme i pezzi della giornata iniziata con l’incontro con Esme. Però sembrava che procedesse male. I commenti acidi dei clienti di Samuele, gli acquisti inutili dalla Giannina e guardò scoraggiato quello che era ammucchiato in disordine sull’ottomana. Alzò gli occhi verso la ragazza e poi li abbassò sui vestiti. Scosse il capo. Non c’era nulla che fosse indossabile.

Esme con fare civettuolo allentò il telo mostrando la coscia fino all’inguine. Una ciocca di capelli neri e umidi fece capolino dal turbante. Sperava di smuovere Lorenzo ma lui finse di non vedere nulla. Lui si sistemò sull’ottomana ed ebbe un lampo. “Questo devo riportarlo indietro e prendere qualcosa di più adatto. Ma quale taglia?” Scrutò la figura della ragazza ferma sul centro della stanza e deglutì. “Sì, è cresciuta ancora! Il seno appare sodo e fatica a restare dentro il telo. Vicino a Bea è alta quanto lei”.

Esme aveva lo sguardo deluso, perché non era riuscita a smuoverlo dal suo rifiuto di avvicinarsi. Quella donna le era antipatica ed era stata costretta a sentire le sue manacce sulla pelle.

La mente di Lorenzo lavorava a pieno regime, perché si trovava in una situazione ancor più delicata da quando erano saliti nelle sue stanze. Se l’acquisto di nuovi vestiti poteva rappresentare una questione marginale, la notte invece era oggettivamente un grosso problema. “Di certo non può rimanere qui oppure sono io a traslocare. Se una stanza del bed and breakfast è libera, potrebbe essere una soluzione soddisfacente. Ma se non ci fosse?” Scosse la testa e socchiuse gli occhi ma li riaprì subito Esme era vicinissima e lui sentiva il suo alito caldo sul viso. Si spostò bruscamente e con il braccio le comandò di tornare al suo posto. Il telo era quasi tutto discinto e lasciava intravvedere il corpo nudo.

Lorenzo si alzò e rimise nelle due borse gli acquisti alla rinfusa. Doveva tornare dalla Giannina per comprare altri capi, ma rimase a bocca aperta con gli occhi sgranati per la sorpresa sulla soglia dell’ingresso.

La bambina senza nome – parte settima

Prosegue la storia Di Lorenzo e della bambina raccolta per strada. La trovate su Caffè Letterario e anche qui.

Copertina Daniele

Secondo Samuele l’edificio, che ospitava la trattoria, era del quindicesimo secolo quando Monteacuto delle Alpi era un importante snodo di passaggio tra Bologna e Pistoia.

Per Lorenzo invece era più recente e avrebbe avuto circa trecento anni. Duecento in meno. «Una bella età comunque» dichiarava, «e li porta bene!» E non aveva cambiato idea nemmeno quando durante i lavori di ristrutturazione erano state trovate tracce di un incendio nella parte superiore del sottotetto.

Samuele un paio di anni dopo aver preso la residenza decise che era venuto il momento di rendere l’edificio più moderno e sicuro. Chiese l’aiuto di Lorenzo, che era tornato da Milano piuttosto ammosciato, per ristrutturare l’intero complesso formato da un corpo principale e una struttura secondaria accostata sul retro.

L’edificio di forma rettangolare con il lato più lungo si affacciava davanti su un ampio spazio suddiviso in due parti: una tenuta a prato e l’altra a parcheggio per i clienti della trattoria. Sul retro stava addossata una struttura più bassa che sembrava più vecchia del corpo principale. Lorenzo ipotizzò che fosse il nucleo originale della struttura, dove i viandanti diretti a Pistoia potevano sostare con le loro cavalcature. Le due ampie rimesse assomigliavano molto a scuderie, mentre sopra stavano delle stanze che il nonno Checco aveva strutturato in appartamento per Eleni e sua figlia. Dopo questo intervento la parte superiore aveva perso la struttura originale.

Visto che Beatrix avrebbe traslocato da Samuele, decisero di trasformarlo in un bed and breakfast, mentre una delle due rimesse era diventata un mini appartamento per aumentare la capienza e valorizzare l’intero complesso.

Come in tutte le vecchie dimore, la soffitta era il posto dove dormiva la servitù. La vecchia scala ripida e scomoda venne sostituita con una più comoda a chiocciola. La soffitta venne suddivisa in due parti. Una avrebbe funto da ripostiglio e l’altra parte sarebbe stata destinata a Lorenzo.

Arrivati nel sottotetto c’era un disimpegno disadorno, che prendeva luce da una piccola finestra a lato. Qui si aprivano due porte. Quella di destra conduceva al minuscolo appartamento occupato da Lorenzo, mentre sulla sinistra si accedeva al ripostiglio vero e proprio.

Lorenzo entrò con la ragazza in una stanza che fungeva da salotto o angolo relax. Una vecchia ottomana di cotone color écru a disegni floreali era addossata alla parete con un tavolino rotondo di ciliegio alla sua sinistra. A sinistra una minuscola libreria in legno laccato nero e sulla destra un mobile basso in radica. A completare l’arredo un tavolino con sopra un televisore. Era mobilio restaurato, in parte recuperato dal vecchio sottotetto. Due velux filtravano la luce per illuminare la stanza.

Lorenzo proseguì nella seconda stanza, arredata in modo minimale. Un letto matrimoniale in ferro battuto con testiere laccate a simboli floreali. Un comodino col piano di marmo accanto. Un armadio di ciliegio verde chiaro e una cassettiera bassa completavano gli arredi. Tre minuscole finestre e due velux la rendevano luminosa.

La ragazza lo seguiva docile. Si lasciò condurre nel bagno, dotato di una vasca con seduta e di una comoda doccia oltre agli altri sanitari. L’ambiente era abbastanza spazioso e un velux consentiva di arearlo e dare luce.

Lorenzo rimuginava che doveva dare un nome a questa fanciulla. «Visto che non vuoi dirmi come ti chiami. Per me e per gli altri sarai Esmeralda. Dunque ti chiamerò Esme per semplificare il nome».

Per un attimo lei sollevò il viso e lo guardò negli occhi come per confermare che avrebbe risposto a questo nome.

Da un armadietto bianco estrasse due teli da bagno e un paio di salviette, un guanto di juta grezza e due ciabatte di spugna.

Aperto il rubinetto dell’acqua calda riempì la vasca. La saggiò con un gomito come si fa per i bambini, vi versò senza economie dei sali profumati e invitò Esme a togliersi il sacco che indossava da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia.

Lei rimase immobile nel centro del bagno. Lorenzo sbuffò innervosito e mormorò «Fa resistenza passiva».

Stizzito afferrò dal basso il sacco e con un colpo deciso glielo tolse. Lei rimase nuda come aveva ipotizzato ma senza dare segni d’imbarazzo. Lorenzo distolse lo sguardo da quelle nudità, anche perché nel basso ventre appariva una leggera peluria nera e il seno era appena pronunciato. Con l’indice dalla mano la invitò a entrare nella vasca che emanava un impercettibile vapore profumato alle rose.

Non dovette forzarla perché di sua spontanea volontà si immerse nell’acqua, che al contatto col suo corpo si intorbidì subito.

Adesso veniva la parte più imbarazzante: sfregare con vigore il sapone sulla sua pelle compresi i genitali e il seno. Era la prima volta che lo faceva con una donna e si percepiva il suo disagio nell’adempiere a questa azione.

Un tocco delicato sulla spalla lo fece voltare. Un sorriso gli spianò le rughe dalla fronte. Aveva di fronte Bea sorridente e ironica. Le lasciò sollevato il guanto insaponato senza troppo dispiacere.

Seduto pensoso sull’ottomana Lorenzo, sorreggeva la testa sul palmo della mano appoggiata sulla sponda. Non sentiva nulla, il tempo volava e lui tremò per Bea. “Quella ragazza sembra diabolica e per nulla umana” e ricordò l’esclamazione di Otello. Abbassò leggermente le palpebre corrugando la fronte.

Quando comparve Esme avvolta in un telo bianco che lasciava scoperte due gambe snelle e slanciate e la parte superiore del petto, si raddrizzò. Un turbante azzurro avvolgeva la testa, mettendo in risalto gli occhi gialli che splendevano come oro zecchino.

Con lo sguardo la fissò come non era mai accaduto da quando l’aveva raccolta. Lorenzo sobbalzò a quella vista, ma si ricompose avvertendo fastidio per le occhiate insistenti che Esme gli lanciava.

Aspettò impaziente che comparisse Bea che tardava a mostrarsi. “Che le sia capitato qualcosa di spiacevole?”

La bambina senza nome – parte sesta

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario è stata pubblicata da poco la sesta parte del racconto La bambina senza nome.

Per i pigri la ripubblico anche qui.

Buona lettura.

Samuele e Lorenzo avevano la stessa età: trentasei anni e si conoscevano da trenta. Avevano percorso insieme l’intero iter scolastico dalle elementari alla laurea, che conseguirono lo stesso giorno. Poi le loro strade si erano divise. Samuele era salito in montagna, Lorenzo aveva tentato la fortuna a Milano senza molto successo. Però anni dopo si sono di nuovo incrociate.

Checco, il nonno di Samuele, aveva gestito fino al 2006 la trattoria. Era frequentata d’estate dai turisti di Corno alle Scale e d’inverno dai pochi abitanti del borgo. In quel periodo era diversa dallo stato attuale. Giù alla buona con arredi rustici, che necessitavano di essere sistemati, e coi muri perimetrali scrostati, che mostravano mattoni rossi e blocchi di pietra anneriti dal tempo. Nel dicembre del 1991 Checco aveva accolto una profuga, Eleni, e sua figlia, Benkhuse, in fuga dall’Albania come altri sventurati sbarcati a Bari dal mercantile Vlora. Il nonno era rimasto vedovo l’anno precedente e l’arrivo di questa donna era stato per lui provvidenziale. Oltre a essere una bravissima cuoca Eleni gli aveva scaldato il letto per oltre quindici anni, finché non era passato a miglior vita.

Alla sua morte Samuele non aveva avuto nessuna intenzione di subentrargli nella gestione della trattoria, né aveva pensato di cederla. Con Lorenzo aveva progettato dopo il conseguimento della laurea in Ingegneria di andare a Londra e girare il mondo. Affidò a Eleni la guida della Trattoria del Duca, lasciandole mano libera sia nella conduzione del locale sia nella gestione dello stabile senza pretendere un centesimo ricavato dai proventi. Eleni affittò in estate e in inverno il suo appartamento, nella parte posteriore dell’edificio, a famiglie per le vacanze estive o invernali. Per circa cinque anni lei aveva guidato con abile mano la trattoria, fino a quando una brevissima malattia non l’aveva ricongiunta a Checco. Samuele, nonostante la fresca laurea in ingegneria e i grandi progetti per sfruttarla, scelse di salire a Monteacuto delle Alpi per prendere possesso dell’eredità, iniziando la sua attività di oste.

Di fianco al bancone della sala c’erano due porte su cui si notava in quella di sinistra una mano, che intimava l’alt e proibiva l’ingresso, e nell’altra i disegni stilizzati di un uomo e una donna. La prima portava nell’appartamento privato di Samuele, la seconda era quella dei servizi.

Lorenzo, tenendo per mano la bambina, anzi la ragazza, aprì la porta di sinistra e si trovò immerso nella penombra. A tentoni cercò l’interruttore della luce. Conosceva quella parte dell’edificio, perché spesso ne era stato ospite. Anzi nella zona di mansarda aveva un paio di stanze tutte per lui.

A passo spedito si avviò per la scala in mattoni che portava al primo piano. La foto del nonno di Samuele campeggiava, appesa al muro. Un viso dall’aspetto bonario e sorridente con due baffoni alla Francesco Giuseppe.

Nel corridoio, che conduceva alla scala per salire in mansarda, Lorenzo incontrò Bea, come chiamava la moglie di Samuele, e l’abbracciò con calore.

Lei era la figlia di Eleni, che Checco aveva accolta quando aveva due anni con l’arrivo della madre. Per lui era una figlia adottiva e come tale l’aveva sempre trattata. La chiamò Beatrix, perché il suo nome per lui era impronunciabile.

Lorenzo ricordò di averla vista la prima volta ai funerali di Checco. L’aveva notata accanto a una donna vestita di nero con un fazzoletto che le fasciava la testa come molte mussulmane. Lui stava dietro l’amico ma quella ragazza, a cui non dava più di quindici o sedici anni, ogni tanto si girava verso di loro. Ignorava chi fosse e per quali motivi si trovava lì.

Lorenzo era stato curioso di scoprire chi fosse. Samuele non gli aveva mai confidato che ci fosse anche una ragazza nella casa del nonno. Aveva sentito accennare alla presenza di una donna albanese e basta. Al termine della funzione la curiosità aveva avuto il sopravento e si era informato chi fosse quella fanciulla dai capelli lunghi e neri che incorniciavano un viso ovale con un incarnato leggermente abbronzato. Samuele gli aveva spiegato che era la figlia della compagna di Checco e l’aveva conosciuta una dozzina di anni prima, quando passava le vacanze estive qui a Monteacuto delle Alpi da bambino. Si chiamava Beatrix e aveva quattro anni di meno di loro. Durante i suoi soggiorni l’aveva ritenuta troppo infantile e piccola per giocare con lei e quindi l’aveva ignorata. Poi a quattordici anni aveva smesso di venire dal nonno e l’aveva persa di vista. Era stato il testimone di nozze di Bea e Samuele. Aveva presente il suo viso radioso e come fosse una bellissima coppia. Lui alto un metro e novanta e lei poco più bassa. Un metro e settantacinque. Quella era stata la seconda occasione per vederla. Poi le opportunità d’incontrarla divennero più numerose, perché Samuele si faceva aiutare da lui per qualche piccolo o grande guaio o per sfruttare la professione di Lorenzo.

Lui guardò Bea che sembrava non invecchiare mai. La pelle del viso liscia. Solo qualche impercettibile ruga sulla fronte. Però erano quegli occhi misti marrone e verdi che l’avevano affascinato allora come adesso.

Bea arricciò il suo naso dritto e guardò con un misto di disgusto chi stava accanto a Lorenzo.

«Chi è?»

La domanda non lo colse di sorpresa. Ricordava l’accoglienza ricevuta nella sala e i commenti acidi. L’odore che la fanciulla emanava non era un olezzo di pulito e il sacco che la infagottava non aiutava a vederla di buon occhio.

«L’ho raccolta alla Fonte Vecchia che camminava sulla provinciale» spiegò con un sorriso forzato. «Ha bisogno di fare una bella vasca per provare i vestiti che ho comprato» e alzò le due borse che aveva posato per terra, quando l’aveva abbracciata.

La ragazza teneva lo sguardo rivolto verso terra in silenzio.

Bea fece un passo avanti e con la sinistra tentò invano di sollevare il viso. «E chi la dovrebbe lavare?» Chiese con un tono caustico a indicare la sua indisponibilità.

Il sorriso morì sulle labbra di Lorenzo al pensiero che fosse lui a occuparsene. Aveva sperato che come donna fosse disposta a farle il bagno. Lui si sentiva imbarazzato a doverle strofinare il corpo. Non l’aveva mai fatto a una donna e neppure a una adolescente.

«Ma almeno sai come si chiama, da dove viene?» Incalzò con tono inquisitorio Beatrix.

Lorenzo deglutì in modo rumoroso. Non l’aveva mai percepita così ostile. Scosse solo la testa per negare di conoscere le risposte. Non poteva inventarsi qualcosa per rabbonirla.

Beatrix strinse gli occhi e corrugò la fronte. Avrebbe voluto replicare con ironia ma si limitò a un laconico «buona fortuna» e girò i tacchi per rientrare nella sua stanza.

A Lorenzo non rimaneva altro che portarla nel alloggio che occupava quando soggiornava lì.

La bambina senza nome – parte quinta

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario ho pubblicato la quinta parte del racconto La bambina senza nome. La potete leggere anche qui.

 

Quello che apparve a Lorenzo era qualcosa di straordinario e inconsueto. Sette persone erano concentrate su quella figura minuta appollaiata sullo sgabello.

Sul tavolo, dove i quattro giocatori erano impegnati in una serrata partita a briscola e tresette, erano sparpagliate le carte come se una folata di vento le avesse rimescolate. Otello aveva il busto ruotato di 180 gradi ed era a bocca aperta.

Gli altri due avventori occupati in una furiosa discussione sulla formazione del Bologna sembravano impietriti nell’osservare quella bambina silenziosa accostata al bancone. I loro petti si muovevano come stantuffi impazziti. Sul piano del loro tavolino spiccavano gocce rosse fuoriuscite dal bicchiere adagiato su un fianco.

Samuele aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta e pareva una statua di sale. Teneva a mezz’aria un fiasco impagliato di vino rosso da versare nel calice appoggiato sul bancone.

Il fermo immagine colpì Lorenzo al suo ingresso nella sala. Sembrava che si fosse verificata una magia che aveva bloccato tutti gli astanti nelle loro posizioni attuali. Un moscone ronzava indisturbato tra il bancone e il vino versato. Il rumore prodotto era l’unico che si percepiva.

La sua entrata ebbe il potere di sbloccare la situazione. Otello e gli altri si girarono verso di lui tirando un sospiro di sollievo. Samuele riempì il calice e depose il fiasco sotto il bancone. Solo la bambina rimase immobile con lo sguardo fisso verso il pavimento.

Però c’era qualcosa di anomalo che all’inizio non era riuscito a focalizzare, impegnato a osservare la scena che si era presentata al suo ingresso. Adesso era chiaro. Guardò affranto le due borse che reggeva. Scrutò la bambina che non dava segni di percepire la sua presenza. Tornò a posare gli occhi su quello che teneva in mano. C’era qualcosa che non tornava rispetto a quando era uscito per andare dalla Giannina. La bambina sembrava una ragazza. Sbatté le palpebre come se si volesse accertare che era sveglio e non stava sognando.

Quel sacco di juta marroncino che presentava tre fori per permettere alla testa e alle braccia di fuoriuscire, adesso appariva ridicolamente insufficiente a contenere il corpo. Se avesse fatto un movimento brusco si sarebbe aperto in mille pezzi.

Deglutì in modo vistoso e rumoroso. Quella che aveva comprato di certo non sarebbe andato bene alle nuove dimensioni. Prenderla per un braccio e accompagnarla dalla Giannina per sostituire gli acquisti era fuori discussione. La commessa, che aveva arricciato il naso perché lo riteneva incapace di comprare le taglie giuste, lo avrebbe deriso con un sorrisino di compatimento. Poi era talmente sudicia che si sarebbe rifiutata di farla entrare. Si trovava in un cul de sac. Se poteva pensare di metterla in vasca e verificare che si lavasse nella versione bambina, non poteva pensare di farlo adesso che appariva sviluppata. “Serve una donna!” Pensò cercando di fare mente locale. “Ma chi?”

Per quanto si sforzasse non ne trovava una. Forse in città ma non di certo lì. Chiedere a Sam di prestarle Bea, la moglie, per compiere l’operazione lavaggio non era all’ordine del giorno. E poi bisognava vedere se lei era disponibile.

Mentre Lorenzo era alle prese con i suoi deliri e dubbi, nella sala tornò il solito frastuono. Il sibilo delle carte gettate sul tavolo, i litigi tra i componenti delle coppie di gioco perché aveva sbagliato la giocata, il ringhiare amichevole se era meglio Orso piuttosto che Sansone sulle fasce.

Però Lorenzo era incerto se sedersi sullo sgabello o tornare dalla Giannina, finché Samuele non l’apostrofò. «Cosa tieni nelle borse?»

Queste poche parole ebbero il potere di riscuoterlo dalla palude dei suoi dubbi. «Del vestiario ma…». Non osava proseguire perché temeva la derisione dell’amico ma poi prese coraggio.

«Quando sono uscito, era una bambina ma adesso…» Nuova pausa mentre guardava con l’occhio sorpreso chi aveva raccolto per strada.

«Ma è sempre rimasta lì. Buona buona» replicò Samuele, mettendo il calice di vino sul vassoio. «Sopra c’è una stanza vuota. Così li può provare se vanno bene. Lì trovi anche Bea, che, se le va, può darti una mano a vestirla».

Col vassoio in mano andò al tavolo di Al Pâg’.

«Vieni» e le afferrò una mano trascinandola giù dallo sgabello. Lei docile si mise al suo fianco. Lorenzo trasalì. “Cielo! È proprio cresciuta! E ha sviluppato anche dei pomini acerbi!” Se prima gli arrivava appena sotto l’ascella, adesso la testa era all’altezza delle spalle. “Eppure sono un metro e ottanta!” E deglutì vistosamente.

La bambina senza nome – parte quarta

È stato appena pubblicato su Caffè Letterario la quarta parte de racconto ‘La bambina senza nome’ che ripropongo anche qui.

Copertina Daniele

Lorenzo si alzò con lentezza dallo sgabello mentre la bambina rimaneva assorta e con gli occhi bassi verso terra come se fosse alla ricerca di qualcosa che aveva perso.

Samuele con lo straccio umido passò e ripassò più volte il bancone di rovere pieno di segni e bruciature. Erano gesti meccanici che ripeteva tutti i giorni. Però pensava a quella bambina tanto strana quanto inquietante. A pelle sentiva che avrebbe portato guai ma non poteva intimare all’amico di allontanarla. Aggrottò la fronte e fermò la mano con lo straccio. “Il bancone è già pulito” ammise osservandolo. In effetti era lucido come mai lo era stato prima. Sorrise storto, arricciando il lato destro della bocca.

Lorenzo osservò la bambina, mentre gli avventori avevano interrotto le loro attività per scrutarlo. Si chiesero che intenzioni aveva quel ragazzo, seppur giovane, leggermente stempiato e con qualche ciocca di capelli grigi. Speravano che allontanasse quella cinna dagli occhi gialli che parlava poco ma mangiava molto.

Samuele appoggiò il mento sul palmo della mano col gomito posato sul bancone. Con un soffio cercò di scostare una ciocca unta dei capelli scivolata sulla faccia. Anche lui era curioso di conoscere le mosse dell’amico.

«Vado dalla Giannina per comprare qualcosa per lei» e indicò con lo sguardo la bambina. «Così non è presentabile».

Poi Lorenzo si avviò verso la porta.

Otello alzò il suo metro e ottanta dalla sedia. «La cinna la pues via cun tè» urlò con voce stentorea.

Lorenzo finse di non aver udito nulla e uscì all’aperto, chiudendo alle spalle la porta. “Sarebbe stato meglio portarla con me, così da non rischiare di comprare qualcosa che non le va bene”. Tuttavia scosse il capo. Non poteva portarla in quelle condizioni. I capelli neri avevano un diavolo per capello ed erano tutti attorcigliati. Rise sommessamente perché in effetti pareva proprio un diavolo. Piedi neri con croste di sudiciume che forse nemmeno un bagno avrebbe estirpato. Il naso moccioso colava sulla bocca. Le unghie erano incrostate di un colore scuro la cui natura era di difficile interpretazione. «No, no!» esplose con un filo di voce. «Compro qualcosa e poi la getto in vasca sotto l’acqua. Speriamo che Sam abbia acceso lo scaldabagno».

Il glin glon del campanello sopra la porta annunciò il suo ingresso e una giovane donna dai capelli biondo ossigenati gli venne incontro.

«Buon giorno! Posso esserle utile?»

Lorenzo si guardò intorno alla ricerca della Giannina, la proprietaria senza trovarla.

«Dovrei vestire una bambina…». Però si bloccò, pensando se in effetti era una bambina oppure una ragazza minuta oppure… Scosse il capo. Ignorava la sua età.

«La bambina non la vedo» chiosò garrula la commessa, scrutando alle spalle di Lorenzo se fosse entrata senza che l’avesse vista oppure fosse rimasta fuori.

«Infatti non c’è». Lorenzo controllò circolarmente in senso orario quello che c’era in esposizione. Un tempo la Giannina vendeva solo merceria ma poi aveva aggiunto sempre nuove mercanzie e adesso c’era un po’ di tutto, scarpe comprese. Insomma uno entrava nudo e usciva vestito. D’altra parte il borgo aveva perso abitanti e negozi. C’erano rimasti la Giannina con articoli per la persona e la casa, un mini market per gli alimentari, tabacchi e giornali e basta.

«Ma com’è?» Chiese curiosa la donna con tono leggermente sarcastico, pensando che un uomo non sarebbe stato in grado di comprare nulla.

«Mi serve dell’intimo, un vestito, calze e scarpe» ribatté con voce calma, ignorando la domanda e la velata ironia.

La commessa perse il sorriso e aggrottò la fronte ma fu preceduta da Lorenzo che proseguì. «La taglia è small. Le scarpe un trentasei o forse meglio un trentacinque. Per l’intimo mutandine di cotone e una canotta bianca. Ah! Il vestito intero con maniche corte».

La donna spalancò gli occhi ma non spiaccicò parola, girando sui tacchi per raggiungere uno stand dove erano appesi vestiti.

Lorenzo la seguì e indicò un vestitino a fiori molto grazioso. Poi scelse delle ballerine nere adatte ai colori dell’abito. Per il resto lasciò fare alla commessa.

Con due voluminose sporte di carta tornò alla trattoria.

Quello che lo lasciò di stucco fu la vista al suo interno. Rimase senza parole.

 

La bambina senza nome – terza parte

Copertina Daniele

Le altre parti le trovate prima e seconda.

La terza parte è stata pubblicata su Caffè Letterario ma la potete leggere anche qui.

In breve sul vassoio rimasero le briciole. La bambina li aveva divorati in pochi minuti. Pareva avesse una fame vecchia come il mondo.

Sandro e Otello ripresero la loro partita a carte contro Checco e Chiccaja ma sembravano forzati, senza entusiasmo. Se prima dell’arrivo di Lorenzo con la bambina ogni giocata era un lazzo, una battuta pungente, adesso il clima si era raffreddato. Poche parole ma molti sguardi inquieti verso quella cinna che suscitava troppi interrogativi su chi fosse in realtà.

Pipin e Al Pâg’ smisero di parlare di Thiago Motta, di Orso, di Skorupski e bisbigliavano osservando di sottecchi la bambina a divorare quei panini che loro ne avrebbero mangiati appena uno nello stesso tempo. Zuan di Chiccon invece era rimasto in silenzio con lo sguardo assorto, quasi assente. L’occhio era spento e le labbra serrate, ridotte a un sottile filo.

Samuele percepì che il clima era cambiato in peggio. Quelle sette persone non più giovanissime, anzi avanti nell’età, erano una costante fissa di quella sala. Non mancavano mai sia che fuori diluviasse, sia che una tormenta di neve avesse bloccato il paese. Loro erano sempre presenti e riempivano la sala col loro vociare un po’ sgraziato. Eppure era stata sufficiente la presenza di un’estranea, di una bambina enigmatica per cambiare l’atmosfera da gaia a pensierosa.

Provò a concentrarsi sul motivo della chiamata a Lorenzo ma la mente tornava di continuo su quella domanda “Chi è questa bambina?”. Non era una normale cinna come Elena, la figlia di Federico, il veterinario. “No, no!” e scosse la testa come per rafforzare il pensiero. “No! Troppo diversa e vestita male per essere un bambina di un paese nelle vicinanze”. E poi le conosceva tutte quelle dei borghi che facevano corolla a Monteacuto. Non ci voleva molto. Si potevano contare con le dita di una mano. “Dunque da dove è spuntata?” Per Samuele era un enigma irrisolto. “Lorenzo ha parlato di averla raccolta vicino alla Fonte Vecchia. Che sappia non ci sono case, nemmeno casolari nelle vicinanze. Solo roccia, arbusti e castagni. Se uno si perde lì, passano giorni prima che qualcuno lo possa soccorrere”.

Lorenzo era rimasto senza parole vedendo la piccola divorare quella montagna di panini farciti con abbondanza da Samuele. Ne voleva prendere uno da accompagnare al rosso frizzante ma non aveva fatto in tempo. La mano era rimasta a mezz’aria e vuota. Però lo stomaco brontolava perché voleva essere riempito. «Sam, me ne prepari uno con crudo e formaggio di capra stagionato?».

Samuele compì una piroetta e sparì in cucina per tornare con un mezzo sfilatino su un piatto. Lo consegnò direttamente nelle mani di Lorenzo, perché se l’avesse posato sul bancone le mani rapaci della cinna l’avrebbero artigliato prima che lui potesse afferrarlo.

Gli occhi gialli della bambina ebbero un guizzo di disappunto come una fiammata per spegnersi subito.

Lorenzo sussultò ma non mollò la presa. Aveva scorto quel lampo maligno. “Chi ho raccolto per strada?” pensò mentre masticava con vigore un boccone strappato dal pane che teneva saldo nella sinistra. Deglutì rumorosamente mentre sorseggiava il vino. Non gli era sfuggito l’atteggiamento della bambina che aveva lanciato un’occhiata carica di odio. “Eppure si avrebbe dovuto sfamare con dieci o dodici panini”. Sorrise perché definirli così era un eufemismo viste le dimensioni. Chiedere a Samuele un altro vassoio per la piccola era fuori discussione. Avrebbe spazzato via in poco tempo tutto. Si pulì la bocca dalle briciole col dorso della mano e finì il suo calice di rosso.

«Come ti chiami?» Chiese con tono dolce, cercando i suoi occhi rivolti verso il basso.

La domanda ebbe il potere di catalizzare tutti gli sguardi sulla bambina, mentre si udiva solo il roco ansare di Otello.

Nessuna risposta.

«Chi sei?»

Ancora silenzio. Sembrava che tutti avessero smesso di respirare tanto era assordante.

Adesso erano gli occhi di nove persone a fissarla senza un attimo di sosta. Tutti in attesa di una risposta che non arrivava e forse non sarebbe mai pervenuta.

Lorenzo, visti gli inutili tentativi di farla parlare, si rivolse a Samuele. «Quale impellente problema mi ha fatto scomodare dalla routine quotidiana?»

L’oste socchiuse prima l’occhio sinistro, poi quello destro come volesse concentrarsi sulla risposta. Li riaprì insieme e ammise con candore che in quel momento lo ignorava. «Ma sono certo che l’argomento era davvero importante se ti chiesto di salire dalla città».

Lorenzo strinse le labbra e serrò la mandibola per evitare una risposta che avrebbe provocato la rottura di un’amicizia che durava dall’età scolare. Non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Adesso era lì e ci sarebbe rimasto, anche se la bambina raccolta per strada gli provocava strane sensazioni.

La bambina senza nome – seconda parte

La prima parte la trovate qui.

Ricordo che il primo settembre termina la promozione del mio nuovo romanzo Daniele in occasione del preordine a €0,99. Da quella data il prezzo sale a €3,99.

Copertina Daniele

[Seconda parte]

La sala non era grande come può esserlo in un posto di montagna che raccoglie gli abitanti del paese per l’immancabile partita a carte o discussione sulla squadra del cuore. Qui si tifava per il Bologna. Alla domenica si animava con qualche turista che voleva mangiare salciccia e polenta oppure pappardelle alla lepre che erano le specialità della trattoria.

Era una giornata feriale e quindi gli avventori erano del luogo. Quattro assorti in una partita a briscola e altri tre che litigavano sull’allenatore del Bologna. Un leggero odore di tabacco aleggiava nell’aria, anche se alle spalle di Samuele stava un bel cartello “VIETATO FUMARE”. Lui chiudeva un occhio se qualcuno fumava una cicca. Apriva l’unica finestra di fianco al bancone per arieggiare ma l’odore restava perché gli arredi ne erano impregnati, quando non era vietato e l’azzurrino del fumo si poteva tagliare col coltello.

Dietro al bancone stava Samuele con l’aria annoiata e impegnato a far mente locale perché aveva chiesto l’aiuto di Lorenzo. Alzò gli occhi sentendo aprire la porta. Mostrò tutto il suo stupore attraverso la mimica facciale. La bocca aperte, la pupilla dilatata e la voce afona. “Chi è quella bambina che Lorenzo tiene per mano?” Era stato il primo pensiero.

«L’è na frataccona!» urlò interdetto Sandro rimanendo con la mano in aria e la carta tra le dita.

Gli occhi della bambina brillarono per un istante e nessuno se ne accorse o almeno diede da vedere di aver scorto questo brillamento.

Il grido di Sandro raggelò l’ambiente e per una frazione di tempo piccola si cristallizzarono i movimenti delle persone.

Il primo a riprendere la parola fu Samuele che con il gesto della mano dal basso verso l’alto esplose con un «Ma che cazzo stai dicendo!»

Lorenzo era fermo sulla porta e si guardò intorno con aria disgustata. L’accoglienza non era stata delle migliori.

Sandro continuava a guardare i nuovi entrati e si era dimenticato che stava giocando a carte in coppia con Otello.

«Repit! É ‘n diaul vestîda da sgurina! Al so benissim! Di ben so!» Ribadì convinto Sandro.

«Vå! Cåda la curta» lo incitò Otello, vedendolo con la mano alzata.

Però Sandro continuava a fissare la bambina che teneva gli occhi bassi come a nasconderli agli astanti.

Lorenzo, superato il primo momento di fastidio, avanzò incurante dei sedici occhi che lo guardavano fisso.

«Ciao Sam! Non so chi sia ma l’ho raccolta per strada vicino alla Fonte Vecchia. Coi banchi di nebbia rischiava di essere arrotata da un automobilista che non la vedeva».

Lorenzo doveva in qualche modo giustificarla e motivare perché era lì con lui. Però quel grido del giocatore l’aveva scosso. “Forse ha ragione! Quel colore degli occhi non è usuale! Sembrano quelli di un gatto”.

Sandro non disse più nulla ma la carta rimase a mezz’aria incurante degli incitamenti del compagno di partita. “Sì, quella bambina…” e scosse la testa come per negare che lo fosse, “non può essere altro che un diavolo. Le mie ossa lo sentono!”

«Sì, sì!» e calò l’asso pigliatutto.

Però l’atmosfera era cambiata. Si avvertiva palpabile la tensione. Il vociare allegro ad alta voce si era trasformato in bisbigli tremolanti quasi come per non far ascoltare i loro discorsi.

Pipin, il vero nome era scomparso da cinquant’anni ovvero da quando aveva emesso il primo vagito, smise di parlare di Thiago Motta, del Bologna e osservava di sguincio la bambina, che teneva lo sguardo rivolto a terra. “La cinna ha gli occhi zal come un gât”. L’aveva notato ed era rimasto scioccato ma il grido di Sandro gli aveva cavato le parole di bocca.

Lorenzo senza sforzo insediò sullo sgabello la bambina. Si stupì per la sua leggerezza. L’aveva sollevata senza fatica: pareva una piuma. Si sistemò su quello accanto.

«Hai fame?» Non sapeva il perché ma era certo che avesse fame. Troppo magra e le due gambette parevano due stecchini tanto erano sottili.

Non si aspettava risposta visto che durante il tragitto era rimasta in silenzio come se fosse sorda oppure parlasse un’altra lingua. Però percepì un «Sì» appena sussurrato. Sobbalzò con le spalle e si girò verso di lei e le chiese di nuovo «Hai fame?». Quasi a sincerarsi di aver udito bene. Questa volta il sì fu più esplicito accompagnato da un lieve movimento della testa.

«Sam, puoi preparare un vassoio di panini? Abbiamo fame». Lorenzo si era girato verso l’amico Samuele. «Cosa c’era di tanto urgente da farmi venire fin qua su?»

L’oste rise mettendo in mostra una dentatura non perfetta e alquanto giallognola. «Non ti arrabbiare!» Fece come premessa a quello che avrebbe detto poi. «Non mi ricordo! È da quando ho telefonato che mi sforzo senza risultati». Scoppiò in una fragorosa risata che fu contagiosa.

Anche Lorenzo rise di gusto, scuotendo il capo. “È sempre così con Sam! Ti chiama e non ricorda il motivo. Prima di scendere lo scoprirò”.

Le risate rimasero a mezz’aria e non contagiarono gli altri avventori che rimasero in silenzio. La partita a carte rimase in sospeso, il calcio era stato sostituito dalla visione della bambina.

«Nei panini cosa metto?» chiese Samuele, prendendo un vassoio da sotto il banco.

«Mortadella, salame e prosciutto dolce. Quello buono. Acqua e un calice di vino rosso del tuo» precisò Lorenzo.

Il clima della sala era gelido. Si udivano solo i respiri tossicchianti delle persone presenti.

Samuel sparì dietro una tenda di plastica a righe bianche e rosse per ricomparire dopo una decina di minuti con un bel po’ di panini che profumavano di salumi. Mise il vassoio in mezzo tra Lorenzo e la bambina che con avidità afferrò quello che era in cima alla piramide. Lo addentò con voracità, mentre Samuele preparava il calice di rosso e metteva sul bancone una bottiglia di plastica con l’acqua naturale.

Lorenzo osservava con l’occhio stupito la bambina che divorava in rapida sequenza due, tre, quattro panini a grande velocità.

«Aveva fame la cinna!» Esclamò Otello, osservando il mucchio di panini che si riduceva sempre più.

[Fine seconda parte – continua]

La bambina senza nome

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un nuovo post che potete leggere anche qui.

Copertina Daniele

Ricordo che fino al 1 settembre Daniele il mio nuovo romanzo è in promozione  a 0,99€. Dal 1 settembre il prezzo sale a 3,99€ Quindi vi conviene prenotarlo per averlo a un prezzo scontato.

Il trillo del telefono lo fece sobbalzare e lo riportò alla realtà che aveva senso di esistere perché tempestata di ricordi. Guardò d’istinto la vecchia patacca, ereditata da Gaetano, amico fraterno del padre. Le cinque e dieci. «Chi può essere a questa ora?» Sbuffò innervosito dal brusco risveglio, accendendo la luce. «Solo qualche scocciatore che ha sbagliato numero».

Era una mattina d’inverno. Gennaio per la precisione e fuori era ancora buio pesto.

Stava dormendo, come fanno tutti i comuni mortali di notte, quando fu svegliato dal trillo imperioso del telefono fisso, vecchio retaggio di molti anni prima. Afferrò la cornetta, pronto a insultare chi l’aveva riportato alla veglia in modo imprevisto.

«Pronto» soffiò acido.

Nessuna risposta. Pareva muto. Eppure avvertiva che dall’altra parte c’era qualcuno. Un leggero soffio, come un ansimare represso arrivava al suo orecchio.

«Pronto» ripeté Daniele, che stava perdendo le staffe. «Chi è? Chi sei?»

Se era qualcuno che si divertiva a svegliare il suo prossimo per gioco, cascava male, pensò. Un pensiero bizzarro questo, perché non aveva nessuna idea al riguardo di come farla pagare allo scocciatore. Stava per riporre la cornetta sul suo supporto, quando udì una voce femminile. Non era la solita ragazzina arrapata, che molestava gli amici di papà. Il tono era da persona adulta. Un timbro vocale per nulla sconosciuto.

«Ciao Dani» sussurrò impacciata. «Non dormivi, vero?»

Scaricò il malumore con una risata. “Alle cinque del mattino che fa un cristiano normale?” si chiese, sistemando meglio il cuscino dietro la schiena. “Dorme di certo. A meno che…”. Scosse la testa. Non era il suo caso. Non lo era da diverso tempo. Meglio non ricordare quando, pensò contrito.

Riconobbe subito la voce roca e morbida di Natalina. Natalia e sua sorella, Natalina, si facevano fatica a distinguere al telefono. Però questa volta era sicuro. Nessun dubbio su chi era dall’altra parte della comunicazione.

tratto da Daniele

Ecco il racconto.

Lorenzo era irritato con se stesso e non lo nascondeva. La bocca serrata, la fronte aggrottata, i muscoli facciali, che si muovevano in modo frenetico contraendosi e rilassandosi.

Non era stata sua intenzione affrontare i primi contrafforti dell’Appennino con una giornata grigia che non prometteva nulla di buono. Il cielo era plumbeo non per le nubi da pioggia ma per quella nebbia stagnante a mezza altezza. Lo sapeva per certo perché giornate come questa le aveva già affrontate in passato. Su quella strada che lo conduceva alla Trattoria del Duca avrebbe trovato banchi di nebbia mobili che sarebbero comparsi dopo una curva o a metà di un breve rettifilo. Sì, lo sapeva e questi erano pericolosi perché rischiava di finire nel dirupo. Si sarebbe trovato immerso in una caligine così appiccicosa e densa da non vedere il ciglio erboso della carreggiata. Come era apparsa all’improvviso, così avrebbe lasciato il posto a un cielo terso e azzurro con un sole splendente sopra la sua testa.

Finora saliva spedito con una buona visibilità, quando dopo aver affrontato il primo tornante si era trovato al buio senza vedere nulla. Anche se era preparato, frenò d’istinto e la Fiat ebbe un brusco scarto. Era un cavallo imbizzarrito di fronte a un ostacolo. Afferrò saldo il volante e alzò il piede dal freno, moderando la velocità. Raddrizzò il muso della macchina accostando con lentezza il bordo della strada, anche se non distingueva nulla. Grigio l’asfalto umido, grigia la vista, grigio anche il verde dell’erba. Andava a memoria, perché quella strada l’aveva percorsa innumerevoli volte. Ignorava se stava percorrendo una curva oppure era in un tratto rettilineo ma poco importava. Doveva mantenere salda la direzione di marcia. Qualche goccia di sudore gli imperlò la fronte, perché di stava affidando alla sua memoria fotografica.

Rimase accecato dal sole di mezzogiorno che splendeva in cielo. Per un riflesso condizionato chiuse le palpebre per ripararsi dall’accecamento. Le riaprì subito perché era pericoloso e poteva trovarsi oltre il ciglio stradale.

Spalancò gli occhi, sbatte in rapida sequenza le palpebre. Aprì la bocca per un ‘Oh!’ di sorpresa. Di fronte a lui notò una bambina che cammina nel suo senso di marcia. Piccola, minuta con indosso un camicione dal colore indefinito e piuttosto malmesso che le cadeva addosso come un sacco di patate. Vista da dietro le attribuì cinque o sei anni.

«Che ci fa una bambina su questa strada tutta sola?» borbottò incredulo come se avesse visto un fantasma. Sorpassata si fermò davanti.

Scese e la osservò meglio. Forse la prima impressione era falsa perché aveva quei tratti prepuberali che tra un paio d’anni o forse meno l’avrebbe trasformata in una ragazza. “Non cinque o sei anni ma di certo non meno di dieci”.

La bambina si fermò e guardò dritta negli occhi Lorenzo, interrogandolo sulle sue intenzioni.

Lui la scrutò. Era senza scarpe o qualcosa per riparare i piedi che apparivano scuri per la sporcizia. Camminava scalza. I capelli lunghi erano oleosi, perché da tempo non erano stati lavati, e si appiccavano al viso scuro bruciato dal sole. Le labbra erano strette e sottili, quasi esangui. Gli occhi erano enormi di color giallo. Tra questi e la bocca stava un naso minuscolo che quasi non si notava.

«Come ti chiami?» La interrogò Lorenzo per capire chi fosse e da dove provenisse.

Le labbra sottili si serrarono ancor di più assumendo un colorito roseo.

«Dove stai andando?»

Il giallo degli occhi lampeggiò per una frazione infinitesimale prima di tornare a essere slavati come prima.

«Hai fame?» Aveva notato la magrezza delle esili gambe e braccia.

La bambina lo guardava senza nessun interesse come se fosse stato trasparente.

«Vuoi un passaggio? Io arrivo alla Trattoria del Duca» Lorenzo modulò la voce in modo da incoraggiarla a prendere uno strappo: era dolce e suadente, quasi musicale. Si girò e aprì la porta lato passeggero.

La bambina docile con lo sguardo vacuo si sedette.

Riprese la marcia. Non doveva distare molto dalla sua meta. Forse una decina minuti.

La bambina rannicchiata in posizione quasi fetale rimase muta, come se non avesse il dono della voce, mettendo in mostra due gambe che sembravano due stecchini.

Lorenzo ogni tanto le lanciava uno sguardo per accertarsi che era sempre lì sul sedile senza essere agganciata alla cintura di sicurezza che faceva emettere un bip sonoro fastidioso. Aveva dedotto che quel camicione sporco e lacero coprisse le sue nudità, perché non gli pareva di aver scorso indumenti intimi.

Aveva rinunciato a interrogarla, perché sembrava non comprendere quello che le diceva. Però forse non voleva banalmente rispondere.

Arrivati alla Trattoria del Duca scesero e per mano fecero il loro ingresso nella sala.

Tutti si volsero per osservare chi Lorenzo aveva introdotto.

[fine prima parte]

 

Michela e Mattia

Krimhilde e le fanciulle scomparse

Su Caffè Letterario è stato pubblicato un altro spicchio di una storia al momento anonima.

Lo ripropongo anche qui.

Michela si avviò verso casa. Avvertiva dentro di sé la necessità di raccogliere i pensieri che erano scaturiti durante la mattinata e rimettere insieme i frammenti della sua vita. Non aveva senso rimanere in quelle aule popolate da facce sconosciute, che la guardavano con desiderio misto a curiosità, la spogliavano dalla corazza con cui finora si era fatto scudo. Percepiva ancora sulla propria pelle lo sguardo energico e voglioso del ragazzo che con una scusa banale aveva cercato di parlarle, di conoscerla. Si avvertiva nello sguardo la solitudine di non avere amici, nel parlare che era vuota negli affetti e insicura nelle azioni.

Il guscio che si era creato si stava sgretolando. Intuiva che sotto era nuda fisicamente e psicologicamente. Si domandava se sarebbe stata in grado di reagire al senso di ansietà che la stava tormentando trascinandola verso il basso. Sua madre era sempre più assente o meglio evanescente come un fantasma, al contrario di suo padre che le stava accanto pronto a sostenerla in ogni frangente. Questo però non le pareva sufficiente a ritrovare il senso di sicurezza smarrito negli ultimi anni.

Un aspetto non era riuscita a comprendere, perché suo padre si ostinasse a vivere sotto lo stesso tetto con sua madre, che visibilmente lo detestava e a stento lo sopportava.

Michela pensava che non avrebbe esitato un attimo ad andarsene se lei fosse stato al suo posto, perché non sarebbe riuscita a sopportare l’indifferenza di Laura, il disprezzo non troppo velato che provava verso di loro.

Le veniva da piangere, mentre a passi svelti si avvicinava a casa. Sperava di trovare solo il padre. Voleva parlargli, discutere di Laura, della loro vita e del loro futuro.

***

Mattia si immerse nel lavoro, mentre un tarlo continuava a lavorare nella sua mente in modo silente ma costante. Metà del suo corpo seguiva il suo aplomb professionale, impeccabile come un austero inglese, mentre l’altra metà sentiva la necessità di capire perché il rapporto con Laura si era ridotto a impercettibili monosillabi “Sì, no”.

Con Anna non era stato mai in confidenza, pur conoscendola da quasi vent’anni; però oggi sentiva il bisogno impellente di articolare parole con qualcuno, di esternare il dolore e la rabbia accumulata in tutto questo tempo. Non voleva consigli, ma semplicemente parlare ed essere ascoltato.

La mattina trascorse lenta, come mai lo era stato, mentre ascoltava distratto le richieste dei clienti, prendendo appunti e attivando la registrazione dei loro colloqui. Era mentalmente assente.

Aspettava con inquietudine che anche l’ultimo visitatore se ne fosse andato, lasciandolo finalmente solo con i suoi pensieri, le sue ansie, i suoi timori per Michela, che soffriva per questa situazione assurda e balorda.

Si apprestava a congedare l’ultimo cliente della mattinata, quando sentì un leggero ronzio accompagnato da una breve melodia. Era arrivato un SMS, ma non poteva distrarsi troppo, perché voleva liquidare in fretta le tre persone sedute di fronte a lui.

Finalmente solo si appoggiò allo schienale, dimenticandosi di vedere chi aveva scritto. Chiamò tramite l’interfono: «Anna, chiudi tutto. È ora di andare al ristorante».

«Sì, Mattia» rispose con tono leggermente ansioso. «Tempo cinque minuti e sono pronta».

Ora poteva concentrarsi su quello che frullava in testa dalla mattina con insistenza. Doveva solo raccogliere quanto era sparso nella mente per impacchettarlo con cura, perché tra un po’ ne avrebbe avuto bisogno.

***

Michela, arrivata a casa piangente, scoprì che suo padre non c’era e forse non sarebbe tornato a pranzo. Si sentì perduta, perché aveva bisogno di sfogare le sue paure con lui.

Si accasciò sulla poltrona con lo sguardo smarrito di un animale intrappolato, mentre le lacrime ripresero a scendere inumidendo le guance.

Papà, vieni a casa. Ho bisogno di te. Dobbiamo parlare. Michi”. Inviò il messaggio e chiuse gli occhi. Si assopì. Come in un film, rivide le sequenze della sua vita tra flash e ricordi in maniera tumultuosa ed incoerente. La madre, Laura, campeggiava e sovrastava tutte le immagini, mentre il padre, Mattia, restava nell’ombra che il corpo proiettava nella mente.

La domanda ricorrente era perché sua madre non era partecipe della sua vita.

Cosa ho fatto per essere un’estranea per lei?” si domandava nel sonno agitato e popolato di sogni ed immagini, che come un immenso caleidoscopio si scomponevano e si ricomponevano in formati differenti.

Nel dormiveglia le veniva di singhiozzare, mentre le lacrime inumidivano le ciglia.

***

Mattia prese sotto braccio Anna, che docile si sistemò al fianco. Quel contatto le fece percepire un’improvvisa voglia di lui, mentre si incamminarono verso il ristorante Don Giovanni, dove un tavolo riservato li aspettava.

Il posto non era lontano, ma distava il tempo di una breve passeggiata. La giornata era bella, come raramente capita a Milano, sempre uggiosa, mai limpida. Però il cielo era terso e in lontananza si vedevano i monti che sovrastavano la Brianza.

Anna si strinse ancora più vicina a Mattia, che immerso nei suoi pensieri non percepì il messaggio che la segretaria stava trasmettendo.

Il tragitto era stato silenzioso, ma ognuno dei due riponeva molte speranze nel pranzo: Anna di essere notata da lui e Mattia di capire dove aveva sbagliato. Però, forse, non avrebbero ottenuto nulla.

Il tavolo era in un’area appartata e discreta, lontana dalla curiosità degli altri frequentatori. Anna lo aveva scelto per potere stare più tranquilli a conversare.

Il maitre arrivò silenzioso a raccogliere le ordinazioni, quando Mattia si ricordò che qualche tempo prima era arrivato un SMS, che non aveva letto.

«Anna» disse sbiancando in viso. «Mi dispiace ma non posso trattenermi. Mia figlia ha bisogno di me». E rivolgendosi al maitre che aspettava fermo aggiunse. «Sono desolato, ma non posso gustare i vostri piatti. La signora si trattiene a pranzo. Raddoppiate l’importo come se io avessi pranzato. Pagherà tutto lei. Arrivederci».

Strinse la mano ad Anna, mentre si alzava dal tavolo. «Non so se rientro nel pomeriggio. Sarebbe opportuno disdire gli appuntamenti. Ci sentiamo più tardi».

Ad Anna mancò il respiro come se una mano invisibile le stringesse la gola, mentre le lacrime salivano dal basso verso gli occhi. Però non era il momento di piangere in quel posto dove era conosciuta come la fidata segretaria di Mattia. Quindi era il caso di ricacciarle in gola. Si sarebbe sfogata più tardi.

Ordinò, mangiò in silenzio senza alcuno stimolo in fretta, perché voleva fuggire per dare sfogo alla rabbia e alla delusione.

Ripensandoci bene, era stato meglio che non fosse avvenuto nulla e non avesse palesato il suo desiderio verso di lui. Mentre masticava il cibo senza percepire il sapore, disse a se stessa che sarebbe stata incauta manifestare le emozioni che erano in lei, perché aveva un marito verso il quale provava affetto e un figlio che era nell’età di transizione, né bambino, né ragazzo. Avrebbe potuto compromettere quasi vent’anni della sua vita con il desiderio verso Mattia senza percepire minimamente se lui avrebbe gradito le sue attenzioni. Pagò come le era stato ordinato, nonostante che il proprietario insistesse che solo un pasto era stato consumato, e si avviò verso l’ufficio per consentire alle lacrime di sgorgare copiose dagli occhi.

Mattia era impaziente di arrivare a casa per sentire la voce di Michela e dare corpo alle domande che gli avrebbe posto.

La situazione con Laura era troppo compromessa per pensare di ricomporre una frattura che era diventata un solco amplissimo. Doveva prendere una decisione, per quanto fosse dolorosa per lui, perché doveva preservare Michela, la figlia tanto amata quanto desiderata, da ulteriori sofferenze.

Sì,“ si disse mentre guidava nervoso nel traffico caotico di Milano, “devo chiudere con Laura. Stasera le comunico che intendo divorziare e dare mandato al mio avvocato per avviare le pratiche. Non posso permettermi di perdere anche Michela, che ultimamente vedo molto sofferente ed emotivamente agitata”.

Arrivato in casa vide la figlia distesa sul divano che dormiva, mentre teneva stretto il telefono in attesa di un messaggio che non sarebbe arrivato.

Michela aprì gli occhi e abbracciò il padre.

Silvia e Laura

Su Caffè Letterario è stato da poco pubblicato un nuovo post che potete leggere anche qui.

Buona lettura

Gli occhi di Silvia si posarono sul giallo dei campi di colza che abbracciavano la strada da entrambi i lati, mentre si era protesa verso Laura, che guidava con andatura tranquilla. Percepì l’impulso di sfiorarle la nuca. Nell’incavo del collo aveva intravisto quel giallo abbagliante che si univa ai verdi intensi delle piante primaverili ed al bianco delle nuvole gonfie di vento. Gli stessi colori pulsavano in lei adesso per la semplice vicinanza.

«Chissà come sarebbe stato lo stage di Young. Mi dispiace che tu non ci sia potuta andare. Come abbiamo detto a tutti, era una buona occasione per vedere al lavoro un grande trainer, e un metodo lontanissimo da quello italiano». Risuonavano nell’abitacolo le parole di Laura appena sovrastate dal rumore del motore.

Silvia le sorrise, pensando alla telefonata del giorno precedente, perché ricordava bene quello che lei aveva detto a Laura. «Potrei dirti che ho seguito un desiderio improvviso, ma non sarebbe la verità. La verità l’ha detta il mio corpo che ribolliva tra le tue mani». Silvia aveva pensato che qualsiasi cosa venisse da Laura le sembrava un dono grande da assaporare e da godere con lentezza, anche se erano solo pochi minuti e non una giornata intera.

«Silvia, non so se stiamo tenendo un atteggiamento corretto, ma soprattutto se io lo assumo nei tuoi confronti. Però forse ti faccio del male» proruppe all’improvviso Laura rompendo il silenzio.

«Cosa dici?» Replicò quasi stizzita, mentre cercava la sua mano. Laura teneva fisso lo sguardo sulla strada come se il contatto non si fosse materializzato.

«Il male non sempre si fa con l’intento di nuocere» rispose con tono pacato, mentre tentava invano di placare l’intimo subbuglio che cresceva più intenso.

«Non ti seguo». Silvia corrugò la fronte e la voce diventò incerta e titubante come se il cielo si fosse oscurato all’improvviso e minacciasse tempesta «Ho voglia di provare i costumi per lo spettacolo. Desidero stare con te nella tua casa sul lago. Sento che mi parlerà di aspetti che non conosco. Io ti ho vista solo in quell’aula o all’interno del teatro. Ho voglia della tua vicinanza, della tua pelle, delle tue parole. Questo non è male. Non può essere il male».

Mentre Laura cercava di domare il demone del desiderio, che si affacciava nella mente, sfiorò il viso di Silvia, che cominciò ad accarezzarle la mano con la guancia finché lei non sorrise.

Il borgo, che era la meta del viaggio, apparve repentino dopo una curva, mentre uscivano da un piccolo bosco di querce e castagni nella campagna ondulata della Brianza.

Il lago splendeva in lontananza quando Laura si infilò in un dedalo di stradine, attorniate da piccole case antiche. Silvia chiese di scendere, perché voleva percorrerle a piedi. Laura sorrise a questa richiesta, perché le sembrava una bambina con il viso solcato dalle emozione di chi vede per la prima volta un mondo nuovo tutto da scoprire.

In quelle vie strette e poco baciate dal sole c’era il negozio di costumi teatrali più ricercato dalle compagnie Loro arrivarono in silenzio tenendosi per mano.

La proprietaria riconobbe subito Laura che conosceva di vista dai tempi in cui faceva la costumista teatrale, accogliendole affabilmente. Raccontò di aver aperto la sua attività da dieci anni in questo borgo lontano dalle strade di grande scorrimento e di non aver risentito dello spostamento da Milano. I suoi costumi e la sua competenza continuavano ad essere ricercati dalle compagnie sia professionali che amatoriali.

«Cerchiamo i costumi delle protagoniste per una piccola rappresentazione di ‘Romeo e Giulietta’, che farò con i miei allievi del secondo anno tra poco meno di un mese». Spiegò Laura con tono professionale e garbato.

«Che taglia?» Rispose la costumista con una punta di incertezza mista a dubbio, perché le sembrava strano che venisse una persona sola a provare i costumi per le diverse interpreti.

«Li proverà lei, che è Nutrice» continuò Laura con voce decisa e secca ritenendo inopportuno dare altre spiegazioni.

La proprietaria in silenzio andò nel retrobottega a prendere due costumi uno per Giulietta ed uno per Nutrice. Mentre li provavano, ne avrebbe presi altri, anche se sapeva che sarebbe stata fatica inutile. Era certa che avrebbero scelto questi, ignorando gli altri. L’esperienza maturata in tanti anni e la conoscenza dei gusti di Laura le suggerirono che i due costumi avrebbero messo in risalto la figura di questa ragazza minuta e pallida. Si domandò quale strano rapporto intercorresse tra le due donne tanto diverse per aspetto ed età.

Silvia entrò nel camerino con un abito blu di broccatello, si tolse i jeans e la canotta, rimanendo con le sole mutandine. Sentì alle sue spalle una presenza che le accarezzava la nuca con la lingua. Si girò delicatamente e guardò in silenzio con gli occhi che scintillavano di piacere nel sentire il desiderio crescere dentro di lei.

«Come va?» La proprietaria stava davanti al mucchio di costumi da provare. Laura chiuse la lampo sulla schiena di Silvia che le sorrise maliziosa, mentre uscivano dal camerino. L’abito faceva risaltare la pelle chiara. Il taglio impero le sottolineava il seno. Era semplicemente perfetto. L’effetto era quello atteso.

Che sto facendo? Potrebbe essere mia figlia” si disse mentre un pensiero doloroso attraversava la mente di Laura. Guardò Silvia che le sorrideva con una grazia che non aveva mai avuto prima di allora, piena di luce, e si rincuorò, ricambiando il sorriso.

«Ora il costume della nutrice, il tuo. Mia saggia Nutrice» disse con voce leggera e sonora Laura per interrompere quel flusso di pensieri che aleggiavano minacciosi nella testa.

La scollatura arricciata dell’abito esaltava il piccolo seno di Silvia e la linea semplice seguiva i suoi fianchi. Si sentiva per la prima volta una giovane bellissima donna, sotto lo sguardo attento e dolce di Laura.

La proprietaria era soddisfatta perché aveva intuito cosa cercavano. Ripose con cura nelle confezioni i ricchi abiti di Giulietta e della Nutrice. Laura saldò il conto, mentre percepiva netto lo sguardo curioso della costumista su di loro. Però era una donna di teatro, dove la libertà e la capacità di non restare in un ruolo prestabilito erano valori condivisi. La proprietaria uscì dal bancone per salutarle e le baciò sulle guance, come si usa nell’ambiente, mentre Laura stringeva la mano di Silvia. E uscirono coi pacchi a dondolare sulle loro gambe.

La casa non era molto distante appena fuori dal paese e il lago splendeva davanti a loro illuminato da un luminoso sole di aprile.

Silvia lo vedeva attraverso il finestrino ed assaporava ogni sfumatura della luce che increspava la quiete dell’acqua. Le pareva che Laura fosse serena accanto a lei, mentre la vedeva sorridere con tenerezza.

Arrivarono davanti ad una casetta bianca, semplice e isolata, circondata su due lati da un fitto faggeto. Il prato prospiciente l’ingresso era ben curato con macchie di rose che stavano fiorendo.

Entrarono accolte da una vasta stanza con il camino in un angolo e la cucina a vista dalla parte opposta, mentre una scala in legno portava al soppalco, dove troneggiava un letto matrimoniale.

Laura aveva scelto mobili rustici di legno fulvo e tappeti etnici. Silvia si soffermò a lungo davanti ai calchi di maschere greche, alle maschere africane di legno, a quelle della commedia dell’arte.

«Chissà quanti pezzi hai…» iniziò Silvia stupita per la quantità e la varietà di maschere appese alle pareti ed in ogni dove.

«Non ne ho di maschere a casa» la interruppe subito Laura per troncare domande imbarazzanti «Qui c’è la collezione che avevo prima di sposarmi. Qualche pezzo è dono di mio marito, ma quando ho smesso di viaggiare non ho più aggiornato la mia raccolta».

«Cosa è successo?» chiese titubante, come se avesse il timore di aprire un cesto del quale ignorava il contenuto.

«Ho avuto un grave crollo nervoso durante la gravidanza e dopo la nascita di mia figlia. Michela è stata allevata dal padre, anche se io nominalmente sono la madre. Io non sono quella donna che ho voluto mostrare, per non mandare in pezzi la mia vita esteriore composta da marito e famiglia». Sottolineò queste parole con un sorriso pieno di dolore e proseguì che la maternità non voluta aveva trasformato l’amore per Mattia in rancore sordo mai dissimulato nonostante che lui la colmasse di attenzioni.

«Come ti ho detto, non è stato un desiderio improvviso quello che ho provato per te. È che mi hai permesso di far emergere la parte del mio essere nascosto e mai conosciuto». Le sorrise con dolcezza stringendole la mano, mentre Silvia spiegava come si fosse sentita attratta da lei.

Lei cercava aiuto e protezione, amore e desiderio. Aveva sentito a poco a poco che la loro vicinanza si stava trasformando in qualcosa di diverso, quando ebbe la certezza dei suoi sentimenti durante l’incontro di qualche giorno prima.

Erano al centro della stanza e si fissavano con intensità pronte ad esternare le loro sensazioni, ma Laura si sentiva in dovere di spiegare, di precisare, di rendere manifesto quello che in tutti questi anni aveva trattenuto dentro di sé.

«Sto maturando l’idea di andare via da casa, di separarmi da mio marito, di pensare a me stessa con una visione differente della mia vita».

Era consapevole che la casa in cui viveva le andava stretta, mortificava la sua creatività, si sentiva prigioniera di un cliché, che era estraneo alla sua personalità.

«Percepisco che ho delle colpe verso di lui, e soprattutto verso mia figlia, che ha più o meno la tua età. Entrambi mostrano affetto verso di me, che non riesco a ricambiare. Intuisco che devo stare da sola coi miei pensieri e le mie emozioni per ritrovare la calma che in questi anni ho smarrito. Non temere, perché un posto per te ci sarà sempre».

Silvia abbracciò Laura che cominciò a piangere.