Vacanza al cavaliere di San Giorgio

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«Accidenti a quella luce improvvisa». Il risveglio di Marta è quasi violento. Si guarda intorno smarrita. La luce è sparita ma il rumore no. Sente un fischio e un cigolio. Spalanca gli occhi da miope nella speranza di capire da dove vengono. Nuova luce, nuovo cigolio. Eppure, si dice, gli scuri li ho chiusi prima di andare a letto. Almeno questo che crede. Nuova sensazione di buio, nuovo rumore sordo.

Si muove o meglio tenta di muoversi ma qualcosa sembra impedirlo. Il braccio e la gamba sinistra non riescono a fare dei movimenti. Si gira sul fianco sinistro e con la destra cerca di liberare l’altra mano.

Nuovo lampo di luce, nuovo rumore cigolante.

Sì, deve essere quello scuro poco stabile sul vecchio cardine a produrre quel frastuono metallico. Forse il vento l’ha afferrato con forza e l’ha spinto in fuori. Però adesso deve liberare la sinistra, perché a parte i lampi di luce non vede nulla che sia distante oltre un palmo di mano.

Marta deve districarsi dal groviglio del lenzuolo che la blocca.

Nuovo lampo e nuovo accecamento. Impreca perché sta perdendo tempo.

«Dove sono?» Pian piano tornano i ricordi. Una stanza spoglia. La porta finestra priva di tende. Un lavandino scrostato, un letto matrimoniale semisfondato, un comodino traballante.

«Mattino? O è ancora notte?»

Adesso è libera di muoversi.

Marta annaspa e cerca a tentoni gli occhiali sul comodino. «Spero di non farli cadere! Sarebbe una tragedia!»

Lo scuro geme ma non si muove più frenetico.

Si mette ritta appoggiandosi alla testiera fredda. Inforca gli occhiali. Adesso riesce a distinguere i contorni degli oggetti.

Dalla fessura degli scuri prende forma nel cielo nero un vago cerchio giallastro o forse bianco sporco. È sfumato. A malapena si riconoscono i contorni neri delle piante sullo sfondo.

«Dove sono?»

Frammenti di ricordi sbiaditi si affacciano nella testa, esattamente come i lampi di luce. Adesso ci sono, un istante dopo spariscono.

Poi come un puzzle i vari pezzi si incastrano uno con l’altro a formare il mosaico dell’immagine.

È la prima notte che dorme sola, non è mai successo negli ultimi ventiquattro anni. Con Mauro hanno deciso che non si sarebbero mai separati di notte dopo la nascita del loro unico figlio. Non gli era stato concesso di assistere al parto. «Ci sono delle complicazioni. Lei deve rimanere fuori» gli hanno detto infermiera e ostetrica con tono sgarbato. Però non si è dato per vinto e ha litigato con loro perché ha insistito per vederla. Solo la mattina seguente ha potuto entrare nella cameretta e sincerarsi che tutto fosse a posto. Ha firmato tutte le carte per portarla a casa con Tommaso subito per non lasciarla un’altra notte in ospedale.

A Marta scivola una lacrima sulla guancia al quel ricordo. Hanno giurato non avrebbero mai trascorso una notte separati. Per ventiquattro anni il giuramento è stato rispettato.

Si alza, si avvicina al vetro, si scosta i capelli dalla fronte, come se tra un attimo arrivasse Mauro alle sue spalle. Le avrebbe tolto gli occhiali coprendole gli occhi col palmo delle sue grosse mani. «Chi è?» Uno stupido gioco infantile che le piaceva. Si divincola ma la tiene stretta finché le sue labbra incontrano il suo mento. È ruvido perché non ha avuto il tempo radersi. Una sensazione che genera in lei il desiderio di abbracciarlo, di stringersi forte e sentire il suo corpo sul suo.

«È Tristano che cerca la sua Isotta, è Lancillotto che cerca la sua Ginevra o è Mauro che trova la sua Marta?». Un gioco erotico ingenuo quanto prevedibile…

Marta accende la luce, riempe la valigia. Non vuole rimanere un minuto in più nella stanza. Poi si blocca. «Devo aspettare che apra la reception, verificare se ci sono voli in giornata e chiamare un taxi per farmi portare all’aeroporto. Che idea stupida è stata venirci da sola al Cavaliere di San Giorgio!» Non è stata una sua idea ma del figlio e dei genitori. Doveva dimenticare la disgrazia del giorno prima. È stato un fulmine a ciel sereno, perché ha colto tutti di sorpresa.

Le lacrime scendono copiose inumidendo la camicia.

Il cielo cambia colorazione: al nero si sostituisce

il rosa del sole che sta nascendo. È l’alba di un nuovo giorno.

Marta stringe i pugni e strizza gli occhi per non vedere lo spettacolo del nuovo giorno.

Riapre la valigia e rimette a posto i vestiti.

«Farò questa vacanza fuori stagione».

Una sera di mezza estate Benedetta…

Copertina Daniele

Benedetta è annoiata. Sbadiglia e intreccia le mani dietro nuca. «È una serata noiosa» e guarda fuori dalla finestra senza vedere nulla. I vetri bagnati non riflettono luci esterne. Si alza e si sistema davanti al computer. Spera di trovare un diversivo per spegnere la noia. Naviga un po’ e poi si collega a Youtube.

«Di solito ci sono video interessanti ma stasera pare un mortorio» borbotta con tono affranto.

Si mette ritta, spalanca gli occhi, non ci vuol credere. «Moreno ha pubblicato sul suo canale un video che è stato visto 65891 volte in due giorni!»

Ricontrolla. Il numero è giusto, anzi si è incrementato di tre unità. Controlla i video precedenti e i numeri sono impietosi: due, dieci, ventidue, zero,…

«Ma cos’ha di tanto interessante da suscitare la curiosità di tanti navigatori?»

Clicca per vederlo. Durata venticinque secondi. Un titolo insignificante “Pratoline”. Le prime immagini sono tremolanti, quelle successive sfocate. Nessun audio, né sottotitoli. Una miseria di video. Riapre il video e non cambia nulla.

«Non è possibile che Moreno col suo video abbia attirato oltre sessantaseimila navigatori» esclama sgranando gli occhi. Il contatore delle visite continua a girare a ritmo folle. «È pur vero che ho dato tre esami massacranti ma è strano non aver sentito nulla dal gruppo. Domani chiamo Luciano. Di sicuro ne saprà di più.»

I ricci rossi si muovono al tempo di musica. Da Itunes sta ascoltando l’ultimo pezzo di Cassandra Wilson. Decide di scaricare l’intero CD sul Ipod. Domani se lo gusterà con le cuffiette mentre va in Università con la metropolitana.

Benedetta è stanca, anzi stressata per l’esame sostenuto in mattinata. Le si chiudono gli occhi. Lei dorme sulla parte sinistra del letto e sul comodino c’è una bella pila di libri che aspettano di essere letti. Prende quello che sta in cima rischiando di far franare a terra gli altri. Dondolano pericolosamente ma per fortuna restano al loro posto.

È una serie di racconti scritti da una scrittrice bengalese dal nome complicato. Sono le storie di giovani bengalesi, come l’autrice, che vivono in America. Alcune sono veramente stranianti, altre allegre. Benedetta ha iniziato a leggere la storia di Neha e Asim. La trama la prende talmente che immagina di viaggiare da Oakland, dove vivono, a Chittagong insieme a loro. In questa città sono rimasti i nonni materni, Hita e Shamsur. Hanno ricevuto un cablo che li ha informati che il nonno era morto e tra due giorni ci sarebbero stati i funerali con la relativa cremazione. I due fratelli non hanno molto tempo per aspettare un volo diretto. Puntano su Mumbai, da lì con voli interni sperano di raggiungere in tempo Chittagong. Un viaggio massacrante per i fusi orari e per le tappe intermedie. Alle sei di mattina, ora locale, arrivano stravolti a destinazione al Shah Amanat International Airport. Noleggiano una macchina con autista e dai finestrini osservano un paesaggio che non è più a loro familiare. Quartieri degradati e altri puliti, accattoni che dormono nei giardini, lussuose macchine e altre che sembrano uscite da un rottamatore. Una leggera nebbia dovuto allo smog e all’orario ovatta le immagini che appaiono sfocate.

Per Benedetta quel contrasto sono una novità. Aveva letto che in quell’area del sudest asiatico ricchezza e povertà stanno a stretto contatto ma non immaginava che fosse così scioccante. Osserva i due fratelli che anche loro sgranano gli occhi per la sorpresa. Vivono ad Oakland dove sono nati e cresciuti. Lei lavora come ricercatrice nel campus della locale università e lui è odontotecnico. Neha, la sorella più grande, propone a Asim di andare a Bhasam Char, visto che il funerale del nonno si tiene all’imbrunire. «Solo due ore di traghetto. Quando eravamo piccoli, siamo venuti per visitare i nonni che ci hanno portati lì in gita.»

Asim scuote il capo. «Ora è nonna Hita ad aver bisogno di noi. Non possiamo lasciarla sola.»

Neha sorride. «Hai ragione. Ma per mezzogiorno siamo di ritorno. Rimaniamo con lei tutto il pomeriggio.» Poi ordina all’autista di portarli al porto dei traghetti.

Sono a metà strada, quando un turbine sconvolge quel tratto di mare nella Baia del Bengala.

Benedetta apre gli occhi stordita. Intorno non c’è assolutamente nulla tranne la sabbia e una luce abbacinante. La t-shirt di cotone azzurra è appiccata alla pelle, mostrando i segni del piccolo seno. Mani e gambe sono ricoperte di sabbia finissima chiara. Si sente smarrita. «Eppure ero sul traghetto.» Geme, mettendosi seduta. Le ultime immagini sono sfocate. Il vecchio che le ha offerto un fascio di foglie di betèl come segno di rispetto e di buon auspicio, lo sguardo adulto del neonato che la madre allatta placidamente. Poi il cielo sempre più scuro, gli animali sulla barca agitati, schiamazzi di gabbiani. Due marinai con gli occhi iniettati di sangue urlano indicando che i giubbotti sono sotto, nella stiva. Lo scafo imbarca acqua, le urla, il terrore, poi il buio.

Si sente osservata. Si gira con lentezza in circolo. Strilla. «Ahhhh!» Chiude la bocca impietrita dal terrore. Una scimmia a qualche metro di distanza la guarda di sbieco. Si muove con calma, sperando di non eccitarla. Però in apparenza non ha intenzioni bellicose. «Ti sei svegliata! Da dove vieni?»

«Parli? Sei tu che parli?» Balbetta con voce incerta.

«E chi se no? Vedi qualcun altro qui? Ma senti questa!» Puntualizza la scimmia che dal tono sembra innervosirsi.

«No, no, hai ragione.» Si affretta a calmarla. «È che non ho mai sentito una scimmia parlare. Dove sono?»

La scimmia fa una smorfia. Forse voleva sorridere. «Non lo so! Ero Bhasar Chor, prima che scomparisse. Mi son svegliata qui come te qualche giorno fa.»

Benedetta strabuzza gli occhi. Tutto gli sembra incomprensibile come se vivesse un sogno impossibile. «Come, scomparsa?» Farfuglia incespicando sulle parole. «La guida sul traghetto ci ha detto che è nata cinquant’anni fa dal nulla…»

«La guida! La guida? Ma dove vivi? Lo sai o no che le variazioni climatiche originate dall’effetto serra generano fenomeni estremi sempre più frequenti?»

«Sì,sì, ma…»

«Lo Tsunami del 2004 ha spazzato città e isole intere. Un’amica a Pucket s’è vista annegare due dei piccoli senza poter farci niente.»

«Mioddio! Sì, sì ma…noi ora cosa facciamo?» Benedetta ricorda di non essersi presentata e allunga la mano ma la ferma a mezz’aria imbarazzata. «Benedetta.»

«Chiamami Challow.» La scimmia si muove facendole segno di seguirla. «Vieni che t’insegno ad acchiappare granchi e gamberi. Sarà la nostra colazione, pranzo e cena. Poi speriamo di trovare qualcosa per ripararci dal sole. Rischiamo di bruciarci.»

La t-shirt, che non ricorda di possedere, e i calzoncini corti con qualche strappo che mostrano l’intimo, si sono asciugati. Sente pizzicare la pelle. La sua carnagione candida sta diventando rossa.

Challow prende un granchio e glielo porge. Lei prova a mangiarlo dopo aver rotto il carapace e spezzate le chele. L’interno è dolce.

Alza gli occhi su, verso il cielo azzurro. Vede proiettata un’ora 9:43. È il soffitto della sua casa di Lambrate. Quasi le dispiace di non essere più con Challow, perché tutto sommato era simpatica.

«Peccato! È stato solo un sogno.»

Benedetta adesso è sveglia.

«Il video di ieri sera e il racconto della… Dai, telefoniamo a Luciano!»

Il sogno del mare

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Fu di sera, già di buio; era ottobre. Il cielo era coperto. Il giorno avevamo vendemmiato e attraverso i filari vedevamo nel mare grigio avvicinarsi le vele d’una nave che batteva bandiera imperiale.” (Italo Calvino, Il visconte dimezzato. I meridiani – Arnaldo Mondadori Editore)

Marco era un ragazzino magro e ossuto come possono esserlo a dieci anni. Era in quell’età prepuberale in cui era ancora indefinito.

Era al mare ai primi di settembre, quando la stagione sta per lasciare il posto all’autunno. Il cielo era grigio scuro striato di qualche nuvola rossastra. Camminava sulla spiaggia deserta in attesa di rincasare per la cena serale, quando scorse una nave sull’orizzonte. Si fermò a osservarla scivolare snella.

Andava a vela come i vecchi vascelli, quelli di cui aveva diversi poster nella sua cameretta. Era incantato perché sembrava che volasse tra cielo e acqua, perché lì l’orizzonte si confonde. Si notavano solo le vele candide che si stagliavano sul grigio del cielo e due luci. Una a poppa e una prua.

«Chissà dove sta andando?» bisbigliò in un sussurro appena accennato.

Si ritrovò sul ponte di comando lucido a guidare quella ciurma indisciplinata, mentre il timoniere teneva la barra a dritta.

Si sgolava e imprecava ad alta voce. «Alzate la vela maestra! Mollate il fiocco! C’è troppo vento, virate a manca col vento contro!»

La sua voce roca e tagliente dava ordini secchi come schioppettate che arrivano diritti alle orecchie dei marinai.

Il veliero cavalcava agile l’onda bianca, pronta a scendere nell’incavo del mare e poi salire su quella successiva. La prua sottile tagliava il verde marino, mentre una danza di salti e tuffi l’accompagnava.

Marco era ritto come un fuso sulla plancia sferzato dal vento. Alle sue narici arrivava il profumo della salsedine.

«Marco! Che stai a fare imbambolato in riva al mare? La cena è pronta e si sta raffreddando!» Era sua madre che lo chiamava con tono di due ottave più forte del normale.

Il sogno svanì e corse veloce verso casa. Si tolse le scarpe piene di sabbia umida, si lavò le mani velocemente e si sedette tra Flora e Andrea, i suoi fratelli.

Sono passati quarant’anni dal quel incontro serale sulla spiaggia con un vascello che solcava le acque grige del Mar Tirreno. Ormai cinquantenne continua a sognare il mare, mentre osserva corrucciato il brulicare di uomini indaffarati e spenti che si agitano nelle vie della città dove risiede. Odia questa vita anonima e convulsa, ama l’aria aperta, il mare e la sua salsedine, i velieri senza essere ricambiato.

È in piedi davanti alla finestra del suo ufficio che domina la piazza del Mercato, pieno di bancarelle che vendono un po’ di tutto. Il suo sguardo si perde nell’orizzonte lontano alla ricerca del mare.

È marzo, ma il tempo per rifugiarsi nella vecchia casa delle vacanze in riva al mare tra i filari di vite e il noce dalle larghe chiome non è ancora arrivato. Deve aspettare maggio con le giornate lunghe e calde. Poi ogni fine settimana sarebbe corso là a respirare il profumo del mare.

Si strugge dalla malinconia e dal ricordo, perché non è potuto diventare un marinaio. I suoi vecchi non hanno voluto, doveva diventare Dottore, avere una casa in città, una moglie e dei figli belli come lui.

«Papà» disse un giorno di trent’anni prima, «anche all’Accademia navale divento Dottore».

Suo padre fu irremovibile. Doveva andare a Firenze all’università per diventare Dottore.

Marco chinò il capo. All’esterno sembrò rassegnato a seguire il diktat paterno, ma dentro coltivava l’idea del mare e della vita da marinaio. Rimase un sogno inespresso, perché al termine degli studi trovò Mara e la sposò.

Si trovava bene con lei, anche se il mare non le piaceva. Diceva che le incuteva paura e non sapeva nuotare. Mara ricambiò il suo amore verso Marco. Nacquero due figli belli che assomigliavano a lui. Sara e Andrea, come il fratello minore, morto giovanissimo.

Marco divenne uno stimato professionista con un ufficio in un vecchio edificio storico. Comprò una casa singola con un piccolo giardino nel quartiere più in della città.

Si rassegnò a malincuore a vivere fra cemento, auto, rumori e polvere in un’abitazione che molti gliela invidiavano, ma che a lui stava stretta.

A questi pensieri gli viene un groppo in gola. Lui ha soddisfatto i suoi vecchi ma dentro di sé si sente infelice. La casa in città l’ha comprata. La moglie c’è come pure i due figli belli come lui. Ha disponibilità di denaro ed è stimato e ricercato. Se suo padre fosse ancora in vita sarebbe felice di vedere il suo ragazzo che ha raggiunto l’obiettivo dei suoi sogni.

Marco per vedere il mare deve andare da solo nella vecchia casa delle vacanze. È spoglia e vuota dopo che i suoi vecchi uno alla volta in punta di piedi se ne sono andati nel piccolo cimitero in fondo alla strada.

Quell’abitazione non la ha voluta mai cedere, come le quindici pertiche di vigna ormai inselvatichitasi. Casa e vigneto sono tenuti in ordine da Giuseppe, il vecchio fattore.

Mara e i due ragazzi non hanno mai voluto vederla sperando che la vendesse.

Marco si mette là dove a dieci anni ha visto la nave con la bandiera imperiale. In quel punto all’orizzonte il cielo si confonde con il mare. Là il sole si inabissa colorando di rosso terra, acqua e cielo. Lui sta lì a bocca aperta per aspirare il gusto del sale che arriva da dietro le dune.

Ancora qualche settimana di supplizio a respirare cemento, poi da solo avrebbe preso quel viottolo polveroso che conduce alla vecchia casa senza luce e senza acqua. Con gli scuri incrostati di sale e le pietre rosse che sono imbiancate. È un casale troppo grande per lui ma avrebbe vissuto nelle stanze al pianoterra.

L’ampia cucina col camino di pietra che guarda l’orizzonte. Un tavolo rustico inscurito dal tempo. Qui sarebbe stato di vedetta, mentre mangia osservando il mare. La vecchia sala da pranzo col divano di cretonne liso e dai colori indefiniti. Questo è il suo letto. Avrebbe riattivato il camino per cuocere e riscaldare l’ambiente.

Sul fratino in cucina avrebbe scritto il suo amore per il mare alla luce della lampada a olio. Qui i ricordi di quaranta anni fa lo conducono per mano.

Il mistero del giardino di rose

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Lo potete leggere anche qui.

Rosewood è una ridente cittadina immersa nella verde pianura di Woodland. Questa si estende a ovest degli Spulucchi, che si vedono in lontananza. Case basse in legno circondate da giardini curati e recintati da siepi di photinia.

«Come stanno le sue rose, LeBron?» chiede Emilia, la giovane maestra, al signor Green, con le braccia appoggiate sul cancelletto di legno.

L’uomo, che ha il volto asciugato dal sole, si gira verso miss Taylor e sorride mostrando i denti ingialliti dal fumo della pipa.

Un refolo di vento scompiglia i riccioli biondi di Emilia e una ciocca gli copre un occhio, che con un soffio della bocca storta cerca di allontanare.

«Ancora un mese poi sarà una fioritura straordinaria» replica con voce soddisfatta LeBron.

Emilia agita la mano in segno di saluto e riprende a camminare verso la scuola dove i suoi ragazzi la stanno aspettando in aula.

Il vento soffia tra le foglie delle rose di Green, portando con sé un sospiro malinconico. Sembra un gemito di dolore che nessuno percepisce.

La Syracuse St. è una via che conduce fuori Rosewood verso la campagna. Non c’è quasi mai traffico perché poche persone la percorrono per uscire. Preferiscono la strada principale, Sunset BLVD., che taglia in due la cittadina. Al numero 15 di Syracuse St. c’è il cottage di LeBron Green e il rigoglioso giardino di rose. È un autentico paradiso curato con maniacale attenzione dal proprietario. LeBron è un ometto calvo tendente alla pinguedine, alto poco più di un metro e sessanta. Vive da solo dopo la morte della moglie Helen e la fuga in città della figlia Andrea.

È un mezzogiorno tranquillo come altri, quando Emilia di ritorno dalla Principal School passa dinnanzi al numero 15. Emilia è una giovane insegnante della Elementary School privata Regiswood. Bionda riccioluta, alta e slanciata. Ha praticato il basket con discreto successo nella Princess University di Woodland. Di origini per parte materna di Roma ama il giardinaggio e si ferma sempre dal signor Green per ammirare i suoi splendidi roseti.

Però quel giorno non è come quelli precedenti. LeBron giace riverso tra Double deligth e Moonstone in un lago di sangue.

«Oh, mio Dio!» esclama Emilia mettendo la mano davanti alla bocca. «LeBron è stato ucciso!»

Afferrato dalla borsa a tracolla il telefono compone il 911.

Si gira verso il cottage di Green e resta a bocca aperta. Al suo posto c’è un immenso prato verde.

Lancia un urlo e si mette ritta nel letto.

Nuova pubblicazione su Caffè Letterario

La bambina senza nome

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post.

Lo potete leggere anche qui. E’ un capitolo di un vecchio romanzo scritto oltre dieci anni fa, che sto revisionando.

Buona lettura

Laura si accovacciò stringendo le gambe con le braccia e appoggiando il mento sulle ginocchia.

Chiuse gli occhi come per raccogliersi a pregare. In realtà pensò ai suoi genitori e cosa erano per lei.

Lei li amava e sua madre e suo padre la ricambiavano a modo loro. Se fosse amore, non l’aveva capito.

Augusto, il padre, era un uomo poderoso, alto e massiccio. Era un chirurgo di fama che soddisfaceva i capricci estetici delle donne facoltose. Tra convegni e vita in clinica non si vedeva quasi mai a casa. Quando c’era, Laura ricordava che era trattata come una ragazzina. Da certi dettagli sospettava che il padre avesse un’amante o forse anche qualcuna di più. Da dove arrivasse questa sensazione, lo ignorava ma erano gli atteggiamenti della madre, che rimproverava al marito le sue assenze fantasiose. Da lui Laura aveva preso la statura e i lineamenti del viso.

Sua madre si chiamava Marina, una bella donna dai capelli rossi e il viso lentigginoso. Era cresciuta nel collegio delle Orsoline che avevano lasciato il segno nella sua personalità. Niente sesso prima del matrimonio e molto poco anche dopo. Laura si chiese se questo fosse il motivo per cui suo padre la tradiva, come supponeva. Chiesa e signore di carità erano il massimo delle sue aspirazioni. La televisione era opera del diavolo, come affermava sempre sia con lei sia con le amiche bigotte. «Si vedono solo donne scollacciate e si ascoltano parolacce. Una vera perdizione per i giovani». Al massimo di ritorno dalla messa domenicale e dal rito della comunione si sintonizzava su “A sua immagine” a prendere la benedizione papale da Piazza San Pietro. Quindi in casa di certi argomenti non si poteva parlare. Rivelare cosa era successo tra lei e Roberto sarebbe stata una tragedia e sarebbe scoppiato il finimondo. “Per fortuna sono riuscita a tenerlo nascosto”.

Laura fino a diciotto anni non poteva muovere un passo se non era seguita dalla madre. Era stata fatta un’eccezione quando Laura aveva sedici anni. Era stato suggerito per irrobustire quel corpo gracile di svolgere un’attività sportiva. Marina si era opposta perché avrebbe preso autobus, tram e metropolitana senza il suo occhio vigile. Però quello che la preoccupava di più era la promiscuità che avrebbe dovuto frequentare. «Di sicuro perderà l’innocenza dei suoi anni» aveva sentenziato Marina rabbuiata in viso. «Finirà nel gorgo dei peccati all’inferno!» Augusto da bravo medico aveva dato il via libera superando le obiezioni della moglie. Così Laura aveva potuto andare in palestra, in piscina e al campo di atletica senza il fiato sul collo della madre.

«Con la maggiore età e la frequenza all’Università ho goduto di una relativa libertà. Però se loro erano in viaggio, i sermoni di mia madre erano terribili. Guai a chiamare un ragazzo in casa od organizzare festicciole. Non fare questo. Non fare quest’altro». Lei aveva annuito sempre.

«Sì, mamma. Uscirò solo per andare a lezione e poi sempre chiusa nella mia stanza». Sorrise al pensiero di tutte le volte che aveva trasgredito queste regole con Marco.

Un paio d’anni dopo l’inizio della loro relazione volle presentarlo ai genitori. «A mio padre è piaciuto subito per lo splendido fisico e i modi educati. A mia madre…». Aprì gli occhi e scoppiò in una fragorosa risata. Ricordava come l’aveva trattato quella volta. Un malfattore che le rubava la sua bambina. «E non ha mai cambiato idea. Anzi, quando ha saputo che non era più il mio ragazzo, ha commentato compiaciuta che quel mascalzone non ci fosse più a insidiare la mia innocenza».

Al pensiero di Marco due lacrime rigarono le guance di Laura.

La fiamma – seconda parte

La bambina senza nome

La seconda parte è pubblicata anche su Caffè Letterario.

La prima parte la trovate qui.

Ecco la seconda e ultima parte

Camminò per tre lune e tre soli, quando, incespicando nel buio, la sua mano percepì una superficie secca e ruvida. La tastò facendo scivolare le dita della destra e il palmo su di essa. Emise un gemito di dolore. Qualcosa di minuscolo si era incuneato sotto l’unghia dell’anulare. Era un pezzo di legno, una scheggia non di più. Forse era una parte di un ramo strappato dal vento oppure uno arbusto rotto dal passaggio di qualche animale. Lo infilò nella bisaccia che portava a tracolla. Tastò il terreno intorno alla ricerca di altre schegge, che ripose insieme alla prima.

Preso dalla frenesia, dal desiderio sfrenato di creare una luce in quel buio così profondo, si accucciò sul terreno. Estrasse quei pezzetti di legno che dispose a formare una piccola piramide. L’ultimo lo afferrò saldo nella destra e cominciò a sfregare, sbattere la pietra contro il pezzo di legno, finché all’improvviso apparvero una, due, tre scintille e si sprigionò una grande fiammata. Dal mucchietto si levarono delle lingue di fuoco che illuminarono il buio della notte. Lui arretrò impaurito per la magia della luce. Si avvicinò e avvertì calore. Si allontanò e il freddo riprese il sopravento. Tornò dove ardevano i legnetti. Raccolse altri pezzi che aggiunse alla pira e il fuoco riprese vigore. Sgranò gli occhi stupito, avvertendo che quella prodigiosa fiamma fosse una magia miracolosa ma anche pericolosa. La facilità, con cui da quel pezzo di legno si erano sprigionate delle lingue rossastre che salivano verso l’alto, era a dir poco prodigiosa. Eppure fino a pochi giorni prima il cielo aveva riversato sulla terra una pioggia torrenziale che l’aveva trasformata in un immenso pantano fangoso.

Quella fiamma però aveva un che di strano e terribile, di affascinante e misterioso. Il modo in cui le scintille guizzavano e si riunivano, vorticavano nell’aria nera, si espandevano e ritiravano la loro luce ardente gli faceva crescere una sensazione di paura e curiosità. Attrazione e repulsione erano i sentimenti che provava senza rendersi conto che si stava muovendo verso il fuoco, sempre più vicino. Se all’inizio, avvicinandosi percepiva dolore sul palmo delle mani, adesso non sentiva più nulla ma solo piacere. Più si accostava, più si accorgeva di non percepire calore, come se le fiamme che danzavano davanti a lui non fosse null’altro che una visione. Le scintille si fondevano davanti ai suoi occhi delineando forme nuove, segrete, svelando immagini diverse. All’improvviso nell’eterno caos del falò, qualcosa apparve e prese vita, unendosi con il suo corpo in una elegante danza. Capelli ardenti, le linee sensuali della bocca, il braciere degli occhi, le dita come lingue di fuoco, i seni morbidi e caldi, il ventre perso nelle vampe. Quella terribile e stupenda creatura lo attirava verso di sé, lo riscaldava con le sue parole e con la passione che sprigionavano i movimenti del suo corpo. Infondeva in lui un calore mai provato prima, che lo avvolgeva, lo faceva sentire strano, stanco in un limbo di piacere e tortura. La fiamma lo avvolse, bruciò i suoi miseri vestiti, lo irradiò di forza ed energia trascinandolo con sé e dentro di sé. Le mani roventi lo cinsero e le labbra cercarono le sue, con la lingua di fuoco caldo che danzava sul suo palato, esplorando la sua bocca. Lui, non potendo capire altro che la sensazione bellissima e tremenda del fuoco, ovunque sopra il suo corpo, rimaneva immobile. Gli occhi divorati dalle fiamme, le labbra schiuse in quell’ardente bacio. Nel crescendo di calore sentì a un tratto la sensazione intensa del piacere, che saliva e aumentava, stimolata dal furore di quelle mani, di quel corpo focoso. Nel delirio del rogo desiderò di possedere quella donna e le sue mani si mossero attraverso di lei.

Preso da quel bacio di fuoco carezzò il grembo caldo di lei, sentendo la fiamma vibrare sotto il suo tocco. Quella figura riprese vigore e ardore e dal ventre salirono fiammate azzurre di piacere. Lui era ormai diventato parte del fuoco, fiamma lui stesso e sopra la pira in fiamme accarezzò con desiderio la donna, risalendo e scendendo con la mano, seguendo le curve di quel corpo perfetto.

Lei, in risposta, lo avvolse nel fuoco della passione, lo spinse dentro di se avviluppandolo tra le fiamme. Lui, immerso nella smania del piacere, non percepiva il dolore del fuoco e del suo corpo in combustione. Godeva del piacere della fiamma. L’abbracciò traendola verso di sé. Le fiamme azzurre aumentarono. Nell’aria risuonava il gemito strano della donna e quello soffocato di lui, chinati l’uno sull’altra, ansimanti. All’improvviso il volto dell’uomo fu investito da una vampata di fiammate rosse. La lingua rossastra si contorse come mossa dal vento. La sua bocca rovente lo avvolse completamente.

Le vampate azzurre si alzarono in alto per gli scatti felini del bacino di lei. Lui sentì la bocca rovente allontanarsi dalla sua. Lei si alzò, attraversandolo totalmente, infiammandogli le viscere e lo cinse di nuovo tra le braccia, stringendo le gambe attorno ai suoi fianchi.

Lui travolto dal desiderio e dalla passione la strinse forte a sé. Lei imprigionata nella sua stretta perdeva man mano la sua parvenza di fiamma, avvolta dalle vampe azzurre del godimento. I loro corpi, le loro essenze erano ormai un’unica cosa, stretti l’uno all’altra in un incendio blu e rosso da cui si alzavano urli e gemiti. Le fiamme azzurre li avvolsero entrambi, tuonarono nei loro ventri, li gettarono nel delirio di un immenso piacere. I loro movimenti convulsi li facevano apparire come un unico grande essere di fuoco. Le vampate celesti si fusero nei loro corpi divenuti un’unica fiamma, finché il piacere non si estinse e di loro non rimase altro che cenere.

La fiamma – parte prima

da pexels-pixabay

La notte lo avvolgeva dentro il suo manto scuro e impenetrabile, costringendolo a camminare a carponi tastando il terreno con le mani per capire dove stava andando. Ignorava se la direzione era quella giusta ma non aveva alternative. Doveva muoversi, non poteva restare fermo. Intorno a lui c’erano pericoli che avvertiva come fitte nella testa.

Nella mano stringeva una pietra appuntita che gli dava relativa tranquillità ma sapeva che erano solo illusioni, un mero simbolo di speranza. L’aveva già usata per difendersi da un coyote che gli contendeva la preda appena uccisa. Non era servita a molto, perché aveva dovuto cederla all’altro, al predatore.

Secondo lui aveva una seconda e più importante proprietà: quella di generare il fuoco. Aveva visto molte lune prima, che un uomo del suo clan aveva usato una pietra dai colori strani emettere scintille come opera di magia. Poi si era sprigionata una fiammata rossa che aveva spaventato i presenti. Gli altri uomini si erano allontanati di un passo ma donne e bambini si erano stretti intorno a lui. Per questo prodigio era stato acclamato capo del clan e aveva intorno a sé donne e bambini che ubbidivano ai suoi ordini. Lui non poteva accettare la sua superiorità, perché lo giudicava vanitoso e senza capacità di guida. Così era partito alla ricerca del simbolo del fuoco. Aveva vagato per giorni nella valle, aveva scalato pendii impervi ma della pietra del fuoco nessuna traccia. Deluso aveva rinunciato alla ricerca e deciso di ritornare nel suo clan e accettare la guida dell’altro. Inciampò in una pietra e rovinò nella polvere. Avvertì nel costato un oggetto pungente che segnò la sua pelle dura come il cuoio. Alcune stille di sangue bagnarono il terreno. Si mise seduto e osservò alla luce del sole morente quello che gli aveva procurato dolore. Era una pietra aguzza dal colore strano. Verde con venature biancastre. Non ne aveva mai visto una simile. Con la mano tolse la polvere e acquistò lucentezza. Mandava bagliori a seconda di come la teneva in mano. Forse era la pietra che aveva cercato per giorni senza successo. Provò a sfregarla su un pezzetto di legno e produsse alcuni puntini luminosi che si spensero subito. Sobbalzò, lasciandola cadere. Riprovò e di nuovo quella magia si riprodusse. Quella scheggia di legno era diventata nera dove aveva sfregata la pietra. Intorno ce ne erano delle altre di forma diversa ma del medesimo colore. Incrociò le gambe sotto di sé e cominciò a lavorarla per renderla più aguzza. Osservò soddisfatto cosa era riuscito a ottenere ma il sole era basso sull’orizzonte. Doveva muoversi perché rimanendo fermo sarebbe stata facile preda degli animali che cacciavano di notte. Si alzò e si incamminò per tornare dal suo clan, tenendo stretto nella mano sinistra il suo trofeo.

[continua]

Pubblicato anche su Caffè Letterario.

Debbi

Su Caffè Letterario ho pubblicato un nuovo post, che potete leggere anche qui.

La parte in corsivo era l’incipit proposto come sfida al lettore attento alle sfumature.

Era uno stimolo all’inventiva dell’aspirante scrittore, che doveva dimostrarsi abile nel calarsi in un ambiente diverso dal suo.

Ci sarò riuscito? Leggete e poi giudicate.

Nel mentre pubblico il racconto.

Quando riaprì gli occhi, Debbi vide il sole, le foglie verdi e il viso di un uomo. Non si impressionò a quella vista. “So che cos’è tutto questo” e richiuse gli occhi.

Era quello che avevo sempre sognato. Avevo sedici anni allora… In quel istante avevo raggiunto quel mondo pieno di fantasie… Tutto pareva semplice e normale, come il sentimento che provavo adesso.

Scrutavo il volto inginocchiato vicino a me e sapevo che avrei dato la vita per poterlo vedere. Era una faccia senza segni di dolore, di paura o di colpa. La bocca… sì, la bocca era un qualcosa che metteva orgoglio. Era come se sentisse la fierezza di essere orgogliosa.

Continuai a esplorare i tratti del viso. I lineamenti decisi facevano pensare all’arroganza, alla tensione, all’ironia, eppure non c’era niente di tutto questo. Era il compendio di queste sensazioni: un’espressione di serena decisione e sicurezza, un’innocenza spietata che non avrebbe chiesto né accordato pietà. In conclusione era un volto che non aveva niente da nascondere. Sembrava una casa di vetro dove tutto era trasparente…

***

Chi era Debbi? Era la domanda che Barbara si poneva. Aveva tra le mani un brandello di carta, stropicciato e consunto. Era tra le pagine di un suo vecchio diario scolastico, dove annotava con cura i suoi pensieri anziché registrare compiti da fare a casa. Quegli oggetti che le ragazze custodivano con maniacale gelosia, tenendoli sotto chiave.

Era salita nella soffitta a cercare un vecchio oggetto di cui aveva perso memoria. In effetti aveva un vago sentore della forma e non ricordava il nome. Polvere e ragnatele avevano ricoperto tutto con una patina di oblio.

Stava rovistando in un baule con metodo alla sua ricerca, quando notò tra libri ingialliti e malmessi, blocchi di carta pieni di scarabocchi una copertina di pelle blu o meglio il dorso blu di qualcosa che stonava nel contesto. Un tempo era tenuto insieme da un elastico rosso, che adesso era diventato un segno appiccicaticcio appena definito. Era malconcio con la copertina staccata dal dorso e coi fogli che si staccavano tenendolo in mano.

L’aprì con cautela. Fu un tuffo nel passato. Tornò ragazza: i primi amori, le prime delusioni. Poi trovò i disegni infantili in stile Heidi dell’amica Serena, la sua compagna di banco. Infine delle fotografie in bianco e nero dai bordi seghettati, che facevano tenerezza. Ritraevano lei con le amiche, dei ragazzi, i primi amori disperati. Tra le ultime pagine scorse piegato in quattro parti un pezzetto di carta scolorito, quasi illeggibile.

Barbara lo girava e rigirava. Era stato strappato malamente da un quaderno a quadretti, su cui erano scritte un paio di frasi, cancellate con un tratto di biro e riscritte più volte. La grafia non era la sua, perché questa era lineare e rotonda, mentre lei usava tratti più spigolosi. Chi l’aveva scritto? Un maschio? Una femmina? Per alcuni svolazzi sulla A e sulla P era quasi certa che fosse una mano femminile, ma il resto era neutro. Avrebbe potuto essere un ragazzo o una ragazza in maniera indifferente ma di una cosa era sicura: non era la sua grafia.

Lei scriveva con caratteri minuscoli, nervosi, inclinati a destra con le righe che tendevano a salire verso l’alto tutte sbilenche, come se una calamita attirasse la penna in direzione del bordo superiore.

La grafia dell’ignota scrittrice era perfettamente dritta, come le cancellature e le riscritture. I caratteri allineati della medesima grandezza mostravano una precisione e un ordine che lei non aveva mai posseduto.

Barbara teneva in mano quel pezzetto di carta ingiallito con delicatezza. Faceva attenzione perché non si sbriciolasse, prima di essere in grado di conoscere l’autore e comprendere il senso delle poche frasi riportate.

«È il riassunto di un libro letto?» Scosse la testa, perché non ne aveva lo stile. «Forse è una frase tratta da un romanzo che l’aveva colpita. Ma quale romanzo? Eppure è così particolare che lo ricorderei se…». Strinse gli occhi e corrugò la fronte per concentrarsi nel tentativo di ricordarne il nome. «Ma forse è l’incipit di un racconto…». Chiuse le palpebre e si appoggiò al vecchio canterano coperto da un telo bianco. Il foglio planò con delicatezza accanto a lei. «Ma quale racconto? Io non ci ho mai provato. Basta leggere poche righe di questo diario per capire il perché. Non è il mio stile».

Riaprì il diario alla ricerca di qualche indizio. Si accoccolò sui talloni, appoggiando la schiena al baule aperto mentre teneva il diario sulle gambe.

Lunedì 6 maggio 1974

Oggi ho conosciuto Roby, finalmente! Gli ho parlato o meglio ho farfugliato qualcosa mentre le orecchie diventavano rosso fuoco e non solo loro! …

A quella lettura un sorriso compiaciuto le comparve sulle labbra. «Che imbranata ero a diventare rossa come un peperoncino. Oggi di sicuro sarei più aggressiva verso chi mi piace o mi attira». Però rise perché in verità mentiva a se stessa. Non era cambiata più di tanto da quegli anni.

Ricordò chi era Roby: il ragazzo più ricercato del liceo scientifico Roiti. Fece un rapido calcolo di quanti anni doveva avere nel 1974: ne aveva solo sedici. Lui frequentava la V C. Lei era in III A. Non era stato il primo ragazzo, né sarebbe stato l’ultimo. Eppure era arrossita come una ragazzina al primo amore.

«Sì, era un vecchio per me con i suoi diciotto anni». Chiuse gli occhi ritornando sedicenne. «Arrivava a scuola su una rombante Fiat Abarth 500 rossa dagli scarichi cromati lucidi ed enormi e il motore truccato». Li riaprì e scoppiò in una fragorosa risata. «Sì, tutte noi ragazze avremmo fatto carte false pur di sederci accanto a lui».

Poi una smorfia di tristezza le velò gli occhi al pensiero di quegli anni. Erano ricordi che bruciavano, ripensando come era cambiata da quegli anni.

«Allora ero timida e imbranata coi possibili morosi. Faticavo a spiaccicare due parole in fila senza diventare rossa dalla punta dei capelli ai piedi. Sembrava che tutti i pensieri si fossero volatilizzati, quando dovevo parlare con un ragazzo che mi piaceva. Si creava un vuoto nella testa e mi bloccavo».

Con Roby il copione non era mutato. Proseguì nella lettura di quegli appunti scritti venti anni prima.

Arrivata a trentasei anni, era ancora single perché non era mai riuscita a domare il suo carattere spigoloso e aggressivo. Eppure era in sostanza una timida che rappresentava la molla, che attirava i ragazzi allora e adesso gli uomini. In quegli anni la timidezza si palesava nel suo goffo agire tramite un gesticolare nervoso, con le parole che non uscivano dalla bocca, dal suo arrossire quando un ragazzo le parlava. Però ben presto loro si stancavano delle sue indecisioni e del suo mutismo e l’abbandonavano al suo destino. La situazione non era cambiata di molto nemmeno adesso che era una giovane donna in carriera.

Barbara ricordò come avesse timore del suo corpo che secondo lei era sgraziato e poco interessante. In realtà non era vero, perché era la seconda molla che attirava gli sguardi maschili. La sua figura era slanciata e ben proporzionata coi fianchi stretti e il seno sodo. La statura era superiore rispetto alle coetanee tarchiate e formose col viso deturpato dall’acne giovanile. La sua pelle bianca liscia senza i segni della pubertà valorizzava gli occhi blu e i capelli biondi appena mossi. Eppure si sentiva a disagio all’interno del suo fisico.

Nonostante un’intelligenza pronta e reattiva che esprimeva attraverso la scrittura brillante e asciutta, si ingarbugliava non poco quando doveva parlare. Si chiudeva a riccio impedendo ai coetanei di capire la sua vera essenza.

Questo era stato il suo limite durante il percorso scolastico. I professori l’avevano ritenuta una mediocre, anche se otteneva dei voti superiori alla media.

Come per contrappasso per superare questa timidezza innata aveva assunto col passare degli anni una personalità spigolosa e urticante che aveva tenuto lontano da lei i possibili corteggiatori. Non solo quelli.

Finita l’università aveva affrontato il mondo del lavoro con molte difficoltà. L’ingresso non fu facile, perché, quando affrontava test attitudinali e colloqui di assunzione, lasciava nello sconcerto gli esaminatori. Erano incapaci di decifrarne la personalità e comprenderne le potenzialità. Anche se mostrava una mente pronta e acuta nel rispondere alle domande più insidiose, non era in grado di esprimere con chiarezza una frase di senso compiuto tenendo atteggiamenti talvolta irritanti.

Ricordò che, se voleva essere indipendente, doveva trovare un lavoro dignitoso. Ebbe la fortuna di trovare un posto dove non le si chiedeva di parlare ma di scrivere. Una casa editrice importante era alla ricerca di una persona che doveva analizzare il contenuto dei manoscritti. Non doveva parlare ma scrivere se era meritevole di essere pubblicato. Le sue grandi capacità di analisi furono ben presto apprezzate. Aveva selezionato sempre il romanzo vincente senza mai sbagliare una valutazione. I libri da lei scelti finivano sempre in cima alle vendite. Le bastavano poche pagine per capire se manoscritto era in fieri un bestseller oppure sarebbe stato un fiasco colossale. In breve tempo aveva scalato le gerarchie interne e tutti i testi prima di essere stampati passavano dalla sua scrivania per il parere definitivo.

Ben presto si sparse la notizia che se un autore voleva pubblicare il suo testo doveva passare il giudizio di Barbara. Era diventata lo spauracchio di tutti gli scrittori, che cominciarono a tempestarla di inviti e omaggi con la speranza di ottenere una valutazione positiva. La vita sotto i riflettori non era adatta a lei.

Seduta sui talloni si riscosse e interruppe il fiume dei ricordi e riprese la lettura del diario.

«Dove ero rimasta? Ah! Stavo leggendo di Roby. Mi domando dove sarà in questo momento».

Lui era stato l’unico che, invece di ridere delle parole arruffate, le aveva chiesto: «Esci con me?». Non era molto cambiata, perché il suo viso diventò rosso incandescente a questo ricordo.

Barbara rise. Era stata una scena quasi fantozziana. Lei tra l’interdetto e la sorpresa rispose con un sì appena percettibile prima di scappare in aula. Ignorava dove e quando, mentre lui meravigliato era rimasto a bocca aperta per la sua fuga.

L’incontro fu un fiasco colossale, come era certificato dalla sua grafia ormai scolorita dal tempo. Rammentò che non era riuscita a dire tre parole di fila senza farfugliarne altre tre incongruenti tra l’ilarità e lo sconcerto di Roby. In compenso le scoccò un bacio mozzafiato da lasciarla tramortita per i resto della serata.

La relazione durò qualche mese finché lui stanco della timidezza di Barbara in tutti i sensi non la scaricò senza troppi rimpianti per Eleonora, meno bella e intelligente, ma in compenso molto più disinibita.

Barbara chiuse il vaso dei ricordi, riponendo il diario dove l’aveva trovato, mentre portò con sé il foglio per rileggerlo.

Ebbe un flash e capì che il destino aveva scritto quel pezzo di carta in cui si specchiava amaramente.

La bambina senza nome – parte undicesima

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la nuova puntata de La bambina senza nome, che ripropongo anche qui.

Sulla porta era comparsa una fanciulla, anzi una giovane donna, con serici capelli neri che si adagiavano morbidi sulle spalle. Incorniciavano l’ovale del viso leggermente abbronzato dove spiccavano due enormi occhi gialli. Alta slanciata indossava una camicetta di lino bianca che lasciava intravvedere il reggiseno dello stesso colore. Un paio di jeans azzurro sbiadito le fasciava il bacino e le gambe. Ai piedi portava delle ballerine nere. Anche senza l’aiuto dei tacchi la sua statura era ragguardevole quanto quella di Beatrix che da dietro la spingeva a entrare.

«E lei chi è?» Chiese quasi urlando Samuele a quella vista. «E che ci fai, Beatrix, alle sue spalle?»

Anche Otello e Ciccaja borbottarono qualcosa a quella apparizione. Niente di intellegibile ma solo stupore e apprensione. «Ma la cinna dov’è?» Bofonchiò con la voce ansiosa Otello. Non era lo stupore dell’apparizione della giovane ma l’affanno per la sorte della bambina quasi fosse la sua nipotina prediletta.

Lorenzo seduto sullo sgabello col braccio appoggiato al bancone a sorreggere la testa dapprima sgranò gli occhi per la sorpresa ma poi scoppiò a ridere. “Era arrivata bambina ma adesso è diventata una donna fatale”. Era sempre più convinto che non potesse stare per la notte nelle sue stanze. “Troppo rischioso”. Doveva sperare che Sam avesse una camera del bed and breakfast libera. Se così non fosse doveva parcheggiarla presso un’altra struttura dei dintorni. “Un passo alla volta” rifletté, mentre osservava Esme e ascoltava i commenti. “Domani deciderò se portarla a Bologna con me oppure caricarla su un treno per allontanarla”.

Esme rimase immobile accanto al bancone, mentre Beatrix con lo sguardo furioso si piazzò dinnanzi a Lorenzo. «Ho reso i tuoi acquisti ma è rimasto un bel buco da chiudere dalla Giannina. E la prossima volta…». Fece una pausa per prendere fiato prima di proseguire. «La prossima volta, ammesso che ci sia, la gestisci tu questo tipino».

Si girò per andarsene, quando Lorenzo le afferrò un braccio per bloccarla. «Cosa è successo dalla Giannina?»

Beatrix spalancò i suoi occhi che erano già grandi di natura. Sembravano due lampioni incandescenti. «Prima ho dovuta trascinarla come un sacco di patate. Poi ha fatto mille storie con Angela. Non voleva farsi toccare, non voleva togliersi i vestiti per provare quelli nuovi. Ha tentato di morderle una mano e per poco non ci è riuscita. In bocca non ha denti ma una tagliola per lupi. Gliela avrebbe mozzata se non avessi bloccato la sua testa. Ho sudato talmente che dovrò portare in lavanderia tutto quello che indosso. Mutande comprese!»

Detto questo urlando, Beatrix lasciò sgomenti Samuele e i due avventori perché cosi infuriata non l’avevano mai vista o sentita. «È demoniaca la tua Esme. È una diavolessa. E prima la porti via da qui, meglio è!» Si divincolò dalla presa di Lorenzo e ad ampie falcate sparì dietro la porta.

Samuele era impietrito col respiro affannoso. «Questa è Esme?» chiese volgendosi verso l’amico.

«Sì» annuì mortificato. Da quando l’aveva raccolta alla Fonte Vecchia, erano stati solo guai. Adesso doveva trovare una giustificazione per questa trasformazione del tutto inspiegabile, salvo ammettere che fosse una creatura del diavolo come cominciava a supporre. I dubbi prendevano la forma di certezze.

«E questa quando è arrivata? Non l’ho mai vista? La bambina dove l’hai nascosta?»

Lorenzo cercava le parole giuste per far capire che bambina e giovane erano la stessa persona, quando intervenne Otello.

«La piccietta dov’è?» Il tono era quello di chi ha perso di vista la nipotina che gli era stata affidata. Mieloso e tremulo.

Lorenzo si raddrizzò e guardò dritto negli occhi smarriti di Samuele. Sapeva che nessuno gli avrebbe creduto e la spiegazione poteva alzare un polverone di domande.

«Sam, dimmi prima se hai una stanza libera. Te la pago doppia ma dimmi di sì. Ti prego» Il tono era accorato come se la risposta avesse il potere di vita e di morte su di lui. «Poi ti spiego tutto. Ma prima rispondimi».

Lorenzo era quasi certo che tutte le stanze fossero libere. C’era sempre il tutto esaurito in luglio e agosto per la vicinanza del Corno alle Scale. Settembre e ottobre erano mesi di riposo.

«Sì. Sono libere. Puoi scegliere quella che voi per lei. Ma…».

Lorenzo con la mano fece il gesto di tacere. Si schiarì la voce. «Sam è meglio sistemarsi attorno a questo tavolo con tre calici e la bottiglia buona di vino rosso».

Presa per un braccio Esme la fece sedere accanto a lui tra loro due.

Nella sala si udiva solo il respirare delle cinque persone.

La bambina senza nome – parte nona

Copertina Daniele

Su Caffè Letterario è stata da poco pubblicata la nona parte del racconto La bambina senza nome.

Lo potete leggere anche qui.

La visione che si presentò a Lorenzo lo lasciò di stucco. Dalla scala a chiocciola era apparsa Bea che teneva sulle braccia vestiti, intimo e in mano un paio di scarpe col tacchetto. Però quello che lo sorprese di più era il ghigno feroce del suo viso. Era la prima volta che la vedeva con gli occhi semichiusi e le labbra serrate che stravolgevano il suo viso sempre disteso.

«Vuoi assistere alla vestizione oppure preferisci raggiungere Samuele?» La voce era arrochita e per nulla dolce. Senza aggiungere altro lo scostò ed entrò nella stanza. Fermatasi dinnanzi a Esme, si voltò verso Lorenzo. «Una volta vestita, la puoi condurre dalla Giannina a scegliersi l’abbigliamento che meglio le piace. Anzi è meglio che gliela porti io. Tu sei troppo tenero con lei. Ricorda che questi sono in prestito e si chiamano Pietro torna indietro».

Posato il mucchietto sull’ottomana, ne estrasse un paio di slip di colore azzurro che valutò se potevano andare. «Togliti il telo e indossa questo!»

Come risposta Esme con le mani lo rincalzò e le lanciò uno sguardo di sfida come a dire ‘se vuoi me lo togli tu’.

Bea con un gesto rapido glielo strappò e le allungò le mutandine. «Queste non te le metto io!»

Lorenzo osservò la scena con la bocca semi aperta. Una Bea così determinata non l’aveva ancora vista. Non distolse lo sguardo dalla nudità della ragazza. “È cresciuta e come!” Folti riccioli scuri adornavano il basso ventre, che era piatto e tonico. Molti più numerosi di quando le aveva tolto il sacco. Il seno si era rassodato come aveva intuito qualche istante prima, vedendo il rigonfiamento sotto il telo.

Bea soppesò il reggiseno per determinare se non fosse troppo piccolo. Lei li aveva non troppo pronunciati ma usava quelli a balconcino per renderli più voluminosi. Scrollò il capo e glielo agganciò dopo aver allentate le spalline. Un paio di tocchi per sistemare le zinne che tendevano a trasbordare. Con un colpo secco le tolse il turbante. Una cascata di capelli neri e fini si allungò sotto le spalle. Erano ancora umidi. Col phon e la spazzola in un baleno glieli asciugò.

La vista era mozzafiato. Alta come Bea aveva un fisico tonico senza una smagliatura. Il viso ovale presentavano due lampioni al posto degli occhi che lampeggiavano senza sosta per l’ira repressa. Minacciavano a ogni istante vendetta contro quella donna che osava comandarla. Le labbra sottili, quasi esangui, e il naso dritto alla francese completavano il quadro. Lorenzo non le staccava gli occhi da dosso.

Bea dopo diverse prove optò per una camicetta azzurra e una gonna blu che valorizzavano il viso e le braccia. Per le scarpe non ci fu problema. Portava il suo stesso numero.

Tutto questo si era svolto in un’atmosfera impregnata dai grugniti di Bea e dai sospiri di Lorenzo. Esme sembrava una bambola di porcellana, inerte tra le braccia di una bambina a volte un po’ capricciosa.

«Andiamo!» Bea usò un tono autoritario e leggermente sgarbato senza che la ragazza muovesse un muscolo.

Afferrate le due borse, che contenevano quello da rendere, e il braccio di Esme, la trascinò fuori dalla stanza, sparendo dalla vista di Lorenzo.

Tutto era successo in fretta e solamente dopo qualche minuto comprese che erano andate dalla Giannina. Si riscosse dalla sorpresa degli avvenimenti che si erano svolti in rapida successione senza che lui avesse fatto nulla.

«Non posso ospitarla qui, anche se io dormissi sull’ottomana. È una donna. Per di più splendida! La sua metamorfosi nell’arco di poche ore ha qualcosa di prodigioso e di certo non è un essere umano» bofonchiò, mentre cercava di dare una parvenza di ordine al suo regno sconvolto dalla presenza di quelle due femmine.

Entrò nella sala, dove erano rimasti solo Otello e Chiccaja, seduti allo stesso tavolo. Bevevano l’ultimo calice della giornata prima di tornare alle loro dimore.

Lorenzo si avvicinò al bancone. Samuele era nel retro e mise la testa fuori dalla tenda a righe.

«Sam, hai una stanza libera per Esme?»

L’amico sbarrò gli occhi e lo fissò come se fosse uno zombie, arretrando di un passo. “Esme?” Pensò in una frazione di secondo chi fosse senza trovare risposta. “Lorenzo ha raccolto una bambina per strada che poi è cresciuta un po’ magicamente. Ma di Esme non mi ha mi ha detto nulla”. Non gli risultava che avesse trovato un’altra bambina o ragazza nel frattempo. Era salito nelle sue stanze e non era mai ridisceso. Come un flash ricordò che poco prima Bea gli aveva urlato che andava dalla Giannina. Non si era chiesto il motivo ma adesso cominciò a farsi strada l’idea che tra la richiesta di Lorenzo e l’andata della moglie in merceria ci fosse un qualche collegamento. Quale non lo immaginava ma quasi di sicuro era per quella bambina raccattata per strada. Un brivido di paura per Beatrix gli attraversò la schiena.

Samuele stava per formulare la domanda sui motivi della richiesta, quando Otello con il suo vocione urlò: «La cinna dove l’hai nascosta?»

Lorenzo sorrise storto e non rispose.