Capitolo 27

Giacomo aveva lasciato alle spalle la baruffa con Isabella, che aveva minacciato tuoni e fulmini se non avesse messo la testa a posto e ordine alla sua vita, rispettando i doveri coniugali e familiari.

“Siete voi, l’uomo, e dovete dirigere la casa, pagare i fornitori e gestire i contadini. Voi non ci siete mai quando serve. Devo fare tutto io!” attaccò la donna appena lui mise piede nella stanza.

“Ma Madonna Isabella, io sono l’ingegnere del Duca e ..” replicò con soavità.

“Ma quale ingegnere! Voi siete il mio sposo e dovete accudire me e le bambine ..” urlò con quanta voce aveva in corpo.

Giacomo impallidì e stava per esplodere con un «Ho anche delle figlie?», quando, mordendosi le labbra, si trattenne dal dire qualcosa. Cercò vanamente di darsi un contegno, perché erano ormai quasi quattro mesi che frequentava questa casa e nessuno aveva avuto il coraggio di avvertirlo della figliolanza. Come una cipolla si spoglia, levando una buccia dopo l’altra, così scopriva una moltitudine di aspetti che lo coinvolgevano un po’ alla spicciolata.

“Ma loro stanno bene? Non me le mostrate mai e come faccio a seguirle?” disse timidamente per rifilare la patata bollente alla moglie.

“E come? Tornate a ore impossibili oppure vi assentate per giorni. State chiuso nelle vostre stanze con quella Ghitta ..”

“Veramente Ghitta me l’avete assegnata voi! E poi se non ci fosse lei ..”.

“Sì, se non ci fosse lei, ne avreste trovata un’altra di gonna per soddisfare i vostri istinti. Uno sposo così fedifrago, come posso mostrarlo alle mie figlie?” replicò acida.

“Ecco il punto. Sono figlie vostre e ..” incalzò Giacomo. “Voi me le negate e le mettete contro di me come se fossi un mostro”.

L’ultima stoccata aveva colto nel segno e Isabella era a corto di munizioni da sparare, perché colta dall’ira si era tirata la zappa sui piedi.

“Poi” aggiunse trionfante, affondando il coltello nella piaga. “Voi alla notte avete mille mali e non siete mai disponibile. Che devo fare? Una petizione al Duca o una richiesta al Vescovo?”.

La donna aveva perso ogni velleità e riusciva solo a balbettare qualche parola poco coesa, ormai sconfitta sul piano della dialettica.

“Se non avete altro da dirmi, mi ritiro nelle mie stanze a mangiare qualcosa. Ho un lavoro urgente e delicato da svolgere per il Duca e non vorrei perdere tempo in chiacchiere di poco conto. A proposito. Stasera posso passare dalla vostra stanza?”.

“Ma veramente. Non so.. Sarebbe meglio di no. Sapete ..” farfugliò incerta e colta di sorpresa da questa richiesta che era nella carte de dolèance. Negarsi aveva avuto il significato della resa senza condizione ed era un argomento che non poteva più spenderlo.

“Sapete che non avete voglia della mia compagnia” tagliò corto Giacomo e con un inchino la salutò, uscendo dalla stanza.

Chiusa la porta dei suoi appartamenti, chiese a Ghitta se le figlie stavano bene.

“Sì, le ho viste mentre voi eravate da Madonna Isabella. Non so il perché ma vi assomigliano poco. Beatrice ha un curioso naso e una capigliatura ricciolina come quella degli ebrei. Lucrezia è un amore, ma ha un colorito scuro e capelli folti e neri”.

“Volete dire per caso che non sono figlie mie?” chiese burbero, anche se dentro di sé ridacchiava.

“No, messere. Non intendevo dire questo. Non mi piace malignare come una comare. Ma la cuoca dice sempre che ..”

“Cosa dice la cuoca? Mi interessa conoscere il pensiero di chi lavora in questa casa. Dimmi, cosa ha detto la cuoca?”

Ghitta divenne rossa come un pomodoro maturo, poi disse in maniera appena sussurrata. “Dice che Beatrice assomiglia a Abramo ..”

“Abramo? E’ chi è costui?” domandò curioso e inquieto, immaginando già la risposta.

“E’ il commerciante di tessuti, che visita regolarmente la casa” pronunciò tutto d’un fiato la serva, come sgravata da un macigno che le pesava troppo.

“E Lucrezia di chi sarebbe figlia, visto il colorito non pallido?” incalzò Giacomo.

“Ma non so. Però posso sentire da Geltrude ..”.

“E chi sarebbe Geltrude?”

“La cuoca, naturalmente” replicò sorridente.

“Fa la cuoca o la comare?”

“Entrambe le cose!”

“Bene dopo i pettegolezzi, portami qualcosa da mangiare. Queste chiacchiere mi hanno messo appetito. Vorrei fare un riposino prima di riprendere un certo lavoro”.

Mangiò e il riposino fu rimandato ad altro giorno. Ghitta aveva degli argomenti molto persuasivi. Naturalmente anche quel certo lavoro fu spostato al giorno successivo. Adesso doveva tornare in città per l’appuntamento con Giulia. La serva corrugò la fronte e le chiese se sarebbe tornato per la sera.

“Non lo so. Dipende da certi affari” disse Giacomo in maniera enigmatica, prima di allontanarsi con la carrozza.

Il nuovo giorno arrivò soleggiato e caldo ma Laura rimase sepolta da una marea di domande che qualche volta facevano male come sassate.

Quando il cielo cominciò a rischiarare, la ragazza si alzò un po’ intontita per la notte trascorsa agitata e quasi insonne, preparandosi per la nuova giornata di lavoro. La visita alla delizia era stata archiviata come una bella parentesi, di cui ignorava quali sarebbero stati gli sviluppi futuri. Si lavò nella speranza di togliersi la patina dell’insonnia, indossò un comodo camicione di canapa grezza e ruvida e scese in cucina, dove trovò la madre pronta a porle raffiche di domande. Non poteva sottrarsi come la sera precedente e come San Sebastiano si preparò al martirio trafitta dalle frecce delle domande.

“Ieri sera avevo mille quesiti da porvi ma voi li avete scansati con eleganza. Oggi esigo risposte precise e coerenti. Come avete trascorso la giornata? Non mi lascio abbindolare da repliche fumose e incerte. Siete avvertita a rispondere dicendo la verità”.

“Madre, è stata una giornata meravigliosa tra suoni e cibo. Il nostro amatissimo Duca è stato un cavaliere perfetto. Non ne ho mai incontrato uno …”

“Forse volete dire che per l’intero pomeriggio vi siete guardati negli occhi, tenendovi per mano e declamando sonetti d’amore? Ma che figlia ho generato! Il nostro eccellentissimo Duca avrà pensato che siete fredda come il marmo! E così avete sprecato questa nuova occasione. Il destino non bussa più di due volte ..”

“Ma madre, cosa dovevamo fare?” la interruppe, abbassando gli occhi, per non mostrare l’imbarazzo su quello che Paola si aspettava che dicesse.

“Cosa dovevate fare? Devo forse spiegarlo a mia figlia, che pare una vergine Maria votata alla castità? Tra un uomo e una donna cosa si fa? Mi pare una sola cosa e voi niente .. Ci potreste ricavare un bel po’ di fiorini d’oro e forse altro. Prima o poi deve capitare. Ed è meglio con nostro Duca che con un uomo qualsiasi. Fosse capitato a me! Invece ..”.

“Invece cosa, Madre?” domandò Laura che intuiva la risposta.

“Invece mi sono dovuta accontentare di ..”. Fece una pausa e stava per confessare il tradimento con quel conte, quando udì il tossire discreto del marito e si fermò in tempo.

“Ma non sono pentita di averlo fatto con Francesco” aggiunse voltandosi verso di lui.

“Beh, veramente .. forse non era la prima volta” replicò imbarazzato l’uomo.

“Ero illibata quando l’abbiamo fatto la prima volta! Non ricordi le macchie di sangue sul lenzuolo?”.

“In effetti mi sembrava pomodoro ma forse è meglio parlare di questi argomenti intimi e delicati in privato e non di fronte a nostra figlia”.

Paola arrossì violentemente mentre Laura sorrideva compiaciuta per lo scivolone della madre.

“Poi madre, mi racconterete tutto nell’intimità della mia stanza. Ora non mi sembra il momento adatto”. Si sedette e bevette la scodella di latte, ormai tiepido. Doveva imparare ancora molti segreti di come comportarsi con un uomo. Per il momento riteneva che l’atteggiamento assunto fosse quello più fruttifero.

“Aprire le gambe con troppa docilità non mi porta da nessuna parte. Il nostro Duca mi avrebbe liquidato con qualche fiorino, come usa con le donne di malaffare. E mi sarei sentita come loro. Una sottile differenza ci avrebbe diviso: io avrei provato vergogna, loro lo fanno per mestiere. Per contro negarsi con garbo ha suscitato l’interesse verso di me. Aspettiamo e vediamo i risultati” rifletté mentre inzuppava un pezzo di pane nel latte ormai freddo.

Capitolo 26

Laura nei giorni seguenti dovette rispondere a molte domande sia da parte della madre sia delle amiche. Un vero tormento, un autentico incubo.

“Cosa vi ha detto il Duca? Tornerete nella delizia? Quando?”. Erano solo alcuni dei quesiti con cui Paola subissò la figlia al suo rientro a casa sulla carrozza dalle tendine rosse.

Ovviamente la notizia che la ragazza era salita sulla mitica carrozza fece rapidamente il giro della strada di bocca in bocca e ogni volta arricchito con nuovi particolari, frutto dell’immaginazione collettiva.

Subito dopo che si era sparsa la voce che Laura era salita sulla carrozza ducale, le amiche, come il falco si getta sulla preda che si muove ignara della minaccia, così si presentarono per avere ragguagli e informazioni di prima mano dalla madre, senza trovarla disponibile ad aprire il cassetto delle novità.

“Dovete aspettare il rientro di Laura per avere ragguagli freschi”. Così le liquidò Paola.

Quando a pomeriggio inoltrato la carrozza percorse nuovamente Via di Ripa Grande, per depositare sull’uscio della bottega del berrettaio la ragazza, tutta la strada fu un ribollire di curiosi che affollò la strada e non si fecero pregare nel dire la loro: frecciate, neppure troppo velate,

sorrisi maliziosi, commenti acidi.

“E’ andata a letto col Duca e non lo nasconde nemmeno”. “Ha sempre fatto l’altezzosa come se lei fosse diversa. Alla fine è della stessa pasta delle altre”. “Ora non può più permettersi di criticare che lei non sarebbe mai andata a letto con qualcuno prima del matrimonio”. E le parole volavano come macigni. Tutti commentarono poco benevolmente.

Era da poco ritornata, estenuata dalle raffiche di domande di Paola, quando le amiche bussarono alla porta per ricevere le ultime notizie.

“Sono stanca. Stasera non ho nessuna voglia di chiacchierare” disse quando furono ammesse al suo cospetto.

“Stanca?” e un risolino perfido spuntò sulla bocca di Anna. “Io sarei al settimo cielo. Passare la giornata con nostro Duca? Un sogno. Dimmi. E’ stato bello? Che sensazioni hai provato”

“Il nostro Duca è un bell’uomo forte e gagliardo come dicono?” incalzò Beatrice.

“Raccontaci. Moriamo dal desiderio di conoscere tutti i particolari” continuò Isabella.

“Vi prego, andatevene. Domani e nei giorni seguenti, prometto, risponderò a tutte le domande. Ora desidero stare in silenzio nella mia stanza” disse stancamente la ragazza, ben sapendo che non avrebbero mollato la presa con molta facilità.

“Il nostro Duca ti ha prosciugato. Ehm! Ehm! Immagino che il piacere sia stato pari alla passione visto che sei ridotta a uno straccio” aggiunse Ippolita velenosamente. Le domande diventavano sempre più mirate e indiscrete senza che Laura potesse mettervi un argine, finché non intervenne Paola a chiudere la discussione.

“Ora basta! Ho sopportato a sufficienza. O ve ne andate come siete venute oppure mi metto alla porta con questa scopa” disse con un tono che non prometteva nulla di buono, agitando una ramazza minacciosamente.

“Ma Madonna Paola ..” cominciò Anna.

“Niente ma. Ora fuori!” urlò minacciando di abbattere il manico su quella più vicina.

Visto che la situazione sembrava precipitare, Anna e le altre infilarono velocemente la porta abbandonando il campo.

“A domani” urlò Isabella prima di chiudere l’uscio dietro di sé.

“Grazie, madre. Ho la necessità di restare in silenzio e al buio nella mia stanza” disse quietamente Laura, incamminandosi verso le scale.

“Un momento” replicò Paola. “Ditemi. Siete passata dal letto del nostro Duca?”

La ragazza la guardò stranita, scuotendo il capo in segno di diniego e cominciò a salire i gradini, seguita dalla madre, che non mollava la presa, perché voleva sapere.

“E cosa avete fatto in tutte quelle ore? Vi siete guardati negli occhi senza dire o fare nulla? Non abbiate timore di parlare di questo con vostra madre. E’ normale che un uomo e una donna finiscano a letto, soprattutto se l’uomo è il nostro Duca”.

“Madre, vi giuro che il nostro Duca non mi ha nemmeno sfiorato con un dito. Sono ancora illibata. Abbiamo passato un piacevole pomeriggio insieme e nulla più. Ma ora, vi prego, lasciatemi sola. Ho necessità di silenzio e buio”.

Paola, visto che le sue insistenze non riuscivano a scalfire la determinazione della ragazza a voler rimanere sola, scese nuovamente in cucina, scuotendo il capo. Borbottava delle parole sconclusionate, poco convinta che la figlia avesse raccontato la verità. Credeva che Laura si vergognasse nel descrivere che era stata posseduta dal Duca. Non ci trovava nulla di disonorevole, perché le tornavano alla mente due episodi di molti anni prima, quando era giovane e piena di ideali sull’amore e sulla fedeltà coniugale. Questi pensieri tuttavia furono accantonati in due occasioni. Aveva solo diciotto anni ed era bella, una bellezza che piaceva agli uomini, che la corteggiavano assiduamente, come adesso facevano con Laura. Aveva già conosciuto Francesco ed era prossima al matrimonio, quando era passata dal letto di un conte che l’aveva discretamente assillata per molte settimane, finché non aveva ceduto per un paio di incontri né esaltanti né piacevoli. A ripensarci adesso col senno della maturità non ci trovava nulla di disdicevole, perché ne aveva ricavata una discreta somma di fiorini d’oro, che era stata un’autentica manna per la dote. Era tornato poi alla carica con insistenza anche dopo il matrimonio, senza che potesse dire di no: le avevano fatto gola i cinquanta scudi promessi. Così aveva ceduto ancora una volta. Questa volta il marito aveva mangiato la foglia, ma non disse nulla e finse di non accorgersi dei suoi maneggi. Quei soldi che arrivavano inaspettati in casa erano benedetti e avrebbero permesso loro di acquistare la casa dove abitavano adesso. Quella era stata l’ultima volta, anche perché qualche settimana dopo il conte era morto, stroncato dai suoi vizi. Paola si era sempre domandata se Francesco si fosse accorto dei suoi tradimenti col conte per via degli scudi che si erano materializzati dal nulla, senza mai trovare il coraggio di chiederlo apertamente. Pensò di sondare il marito cautamente stasera nell’intimità del letto ma un sussulto di dignità ebbe il sopravento e decise di non indagare oltre. Era meglio non riesumare una vecchia storia, ormai sepolta dall’oblio. Un sospiro di malinconia uscì dalle labbra, perché adesso, passati i quaranta e col fisico appesantito da tre gravidanze, non avrebbe più suscitato i desideri di qualche conte.

“E mia figlia fa la preziosa col nostro Duca. Potrebbe rimediare molti fiorini d’oro e forse anche possedimenti ma si nega come una novizia. Dovrò fare una bella chiacchierata con lei domani e svegliarla un po’”.

Giacomo rientrò all’indomani a metà giornata. Era sul viale d’ingresso, quando arrivò verso di lui una Ghitta po’ agitata. La corsa forsennata della ragazza non preannunciava nulla di buono così che due diversi stati d’animo si facevano strada dentro di lui. Era incuriosito di sapere se dovesse apprendere altri aspetti che non conosceva sulla sua nuova esistenza ma nello stesso tempo avvertiva un senso di inquietudine che cercava di mascherare.

“Messere” disse con la voce rotta per la lunga corsa. “Messere, la sua signora è fuori di sé. Ha urlato e strepitato tutto ieri, perché voi eravate sparito. Nessuno era a conoscenza dove eravate, quando sono giunti i messi del Duca. Ha minacciato di cacciarvi fuori di casa. Stamane era ancora più furiosa, perché siete rimasto fuori anche stanotte. Vuole vedervi subito. Così ha ordinato a tutta la servitù di condurvi da lei senza alcun indugio. Cosa faccio? Annuncio il vostro arrivo?”.

“Calma, Ghitta, calma. Riprendete fiato e vi ringrazio della premura che mi usate. Rientriamo insieme senza fretta. Madonna Isabella aspetterà paziente che mi sia lavato e profumato. Poi ..”.

“Ma ha ordinato ..” tentò di replicare la ragazza.

“Ghitta, niente ma. Prima ho intenzione di fare un bagno e voi mi servite per preparare l’acqua e quant’altro. Poi avrete il mio permesso di annunciare a Madonna Isabella che l’andrò a farle visita prima del desinare. Così ..”

“Così le andrà di traverso il cibo” chiosò garrula.

“Siete impagabile” replicò sorridente Giacomo. “Avete compreso pienamente il mio disegno”.

Camminarono verso l’ingresso, quando all’improvviso la serva sbottò con un’affermazione che fece sorridere Giacomo.

“E’ vero che avete un’amante nella corte del Duca?”

Lui si fermò, corrugò la fronte e poi scoppiò a ridere. Non si aspettava una simile domanda.

“Un’amante? Siete per caso gelosa?”

“No, insomma sì.. Si dà il caso che ..”

“Siete troppo preziosa per me, perché mi possa permettere di farvi ingelosire. Un’amante? Non una ma mille. Una è troppo poco, mille sono troppe da soddisfare tutte. Però sapete come sono le donne. Ogni tanto hanno mal di testa e non sono disponibili. Quindi serve qualcuna di scorta. Contenta?” e una nuova risata risuonò nel viale alberato.

“Chi dice queste sciocchezze?” chiese serio l’uomo.

“Invero non saprei. Ma un’amica che lavora per il conte Costabili afferma che una cameriera di un palazzo di Ferrara vi ha visto entrare e uscire più di una volta dalla camera della sua signora”.

“Magari, Ghitta, magari. Mi devo accontentare di Madonna Isabella e senza di voi cosa farei?” ed entrò decisamente nel palazzo.

Giacomo era un po’ scocciato da queste chiacchiere. Non che gli creasse disturbo, perché definire Giulia un’amante era veramente troppo, anche se aveva passato più di una notte in piacevole compagnia ma essere al centro di pettegolezzi tra la servitù dei signori di Ferrara non gli garbava molto.

“Nel pomeriggio quando rivedrò Giulia gliene parlerò, anche perché le voci sono uscite dai suoi servitori” rifletté mentre entrava nelle sue stanze seguito da Ghitta.

“Ho forse fatto male a chiedervi questo? Avete cambiato umore”.

“No, anzi vi ringrazio per l’informazione”. E aggiunse con tono serio “Sarò più discreto quando frequenterò le camera da letto delle madonne. Ma ora pensiamo al bagno. Sento il bisogno di immergermi nell’acqua fresca e profumata che solo voi sapete preparare con molta abilità”.

La serva lo aiutò a togliersi i vestiti impolverati e sporchi dopo la ricognizione del cunicolo alla Porta degli Angeli.

“Dove siete andato stanotte per sporcare così corsetto e calzamaglia. Dovrò lavarli con molta cura per farli tornare a un aspetto decente. Sembra che ..” cominciò Ghitta riponendo gli abiti che si stava togliendo.

“Non siate impertinente. Sono l’ingegnere del Duca e ho ispezionato certe postazioni. Di notte si fanno altre attività e senza vestiti in dosso” replicò sornione, mentre la ragazza sorrise. Aveva intuito il messaggio piuttosto palese che aveva mandato.

Il bagno ristoratore fu piacevole e rilassante. Giacomo si sentiva rinato e profumava di acqua di rose. La serva era veramente abile nel miscelare gli aromi. Disteso sul letto, Ghitta lo massaggiava con delicatezza in ogni parte del corpo, quando udì un bussare discreto.

“Uffa. Non ci si può nemmeno rilassare che arriva qualcuno a distrarvi. Allungatemi quella tunica. E’ sconveniente farsi sorprendere nudo nel letto con una giovane che lo massaggia” disse indicando una veste da camera di lino bianco appoggiata su una sedia.

Dopo qualche istante la serva ricomparve annunciando che Zelinda, la cameriera personale di Madonna Isabella, aveva un’ambasciata per lui.

“Fattevi riferire cosa vuole. E se desidera una risposta, attenda finché non sono vestito” replicò contrariato.

Capitolo 25

Giacomo accompagnò Giulia nella trattoria, che distava cinquanta passi dalla Porta degli Angeli, al fresco sotto un pergolato di uva. Ormai era pomeriggio col sole che allungava le ombre e l’ora del desinare era scaduta da tempo: i tavoli erano quasi tutti vuoti coi resti del pranzo, mentre gli ultimi commensali stavano finendo di pranzare. L’oste, che aveva notato tutte le attenzioni del corpo di guardia verso la coppia, immaginò che fossero importanti personaggi di corte e li accolse con grandi inchini e con un ampio sorriso di circostanza, mentre li faceva accomodare in un tavolo sistemato in un posto di riguardo. Non usò le stesse cortesie verso altre persone che si erano affacciate speranzose di essere accettate per consumare il pranzo.

“E’ un grande onore avervi qui nella mia umile trattoria. Cosa posso servirvi?” chiese con deferenza e falsa umiltà il furbo trattore, mentre dispiegava sul tavolo una ricca tovaglia bianca ricamata.

“Subito una brocca di acqua fresca e del vino. Il migliore che avete e che non sia taroccato” replicò con cipiglio duro Giacomo, che era infastidito dai modi falsamente servili dell’uomo.

“Messere, il nostro vino è genuino. Mi offendete, pensando che sia adulterato” rispose con tono indignato, rabbuiato nel viso.

“Sarà meglio per voi! Abbiamo fame e sete. Portateci quanto di meglio esce dalla vostra cucina. A quest’ora non abbiamo preferenze”.

“Sarà un onore per me farvi assaggiare l’eccellenza dei nostri piatti” replicò asciutto l’oste. Si allontanò in silenzio un po’ scuro in viso, mentre la coppia cominciò a parlare sottovoce tra loro.

“Madonna Giulia. Sono veramente dispiaciuto che abbiate dovuto attendermi così a lungo ma i contadini ingaggiati per asportare la terra volevano essere pagati. Pensate! Non si fidavano delle promesse del nostro eccellentissimo Duca! Una vera mancanza di rispetto!” disse Giacomo accalorandosi un pochino, mentre rifletteva che tutto sommato avevano ragione. La donna gli prese una mano stringendola, mentre annuiva a queste parole, che la lasciavano indifferente. Ben altri pensieri frullavano per la testa, mentre lo osservava con cura. Le piaceva il modo di porgersi, di trattare le persone e lo trovava bello.

“Mio Messere, parliamo di cose più piacevoli. Di noi, di questo fine aprile così luminoso, della carrozza dalle tendine rosse, del nostro beneamato Duca” replicò guardandolo con due occhi ardenti.

“Avete ragione. Perché tediarvi col racconto di questi avvenimenti di così basso livello?” chiosò contento di avviare il discorso su altri binari più familiari e meno scivolosi.

Nell’attesa dei piatti caldi l’oste portò un vassoio finemente decorato, dove sopra stavano salami di porco inuestiti, vari tipi di mortadelle gialle dall’aspetto poco invitante, pezzi di persciutti e sommate con pane bianco di latte intorto e pagnotte nere con lo spacco centrale ancora fumanti. Giacomo osservò il piatto e selezionò con cura qualche tocco di quello che assomigliava vagamente al prosciutto che conosceva. Il profumo non era niente male e il pane appariva appena sfornato. La fame vinse la diffidenza verso quei salumi diversi dai suoi ricordi, mentre cominciava a mangiare.

“Madonna” cominciò aprendo un nuovo fronte di conversazione. “Vi trovo deliziosamente affascinante. Ma ditemi. Avete detto che siete nel cerchio delle dame di Laura d’Este. Vivete a corte? Non riesco a immaginarvi come dama di compagnia. Non so il perché ma vedo per voi un futuro diverso”.

Giulia rise delicatamente mentre spezzava un pezzo di pane bianco.

“No, non vivo a corte anche se qualche volta mi trattengo negli appartamenti di Madonna Laura. Però sono presente alle feste e alle serate organizzate nella sua dimora, mentre nel periodo estivo la seguo in una delle delizie per qualche settimana. Avete ragione, quando affermate che non mi vedete come dama di compagnia. Però la vicinanza presenta qualche vantaggio”.

Mentre parlavano, arrivò un fumante vassoio con pesce di fiume, variamente cotto, accompagnato da verdura fresca di stagione.

Giacomo e Giulia continuarono a conversare su molti argomenti durante il pranzo, finché sul finire non colse l’occasione per parlare sul vero obiettivo della sua venuta fin lì.

“Madonna Giulia, al termine di questo delizioso pranzo. Io mi devo trattenere qui, non prima di avervi accompagnata dove desiderate. Devo visitare le fondamenta della porta, perché qualcuno ha sussurrato che ci sarebbero sorprese. Fa parte delle mie incombenze. Però..”.

“Mio Messere, volentieri vi tengo compagnia nella vostra visita, perché fino a domani sono libera senza nessun impegno. Mi incuriosisce vedere all’opera un ingegnere del Duca, sempre che la mia presenza non vi sia d’impiccio” replicò sorridente, accarezzandogli le mani.

“Non osavo chiedervelo, Madonna Giulia. Sapervi al mio fianco mi fa molto onore e piacere. Siete sicura di volermi seguire? Non vorrei costringervi contro natura” chiese Giacomo con un tono soddisfatto.

“Messere, stare al vostro fianco mi procura gioia. Non avete osservato con quale deferenza le guardie mi hanno trattata? Come se fossi la vostra sposa” replicò con gli occhi luccicanti.

Pagato il pranzo, nonostante le insistenze contrarie dell’oste, la coppia si diresse nuovamente verso la Porta degli Angeli per il sopralluogo alla ricerca del cunicolo segreto.

Non dovete lottare troppo per vincere le resistenze del capitano del corpo di guardia per il permesso di scendere nella zona delle fondazioni. Dotati di una lampada a olio percorsero con cautela una stretta scala a chiocciola fino al punto più basso della porta e da qui cominciarono a esplorare le varie stanze che si aprivano su un lungo corridoio, finché non trovò una porta che dava su un passaggio basso e stretto. Lo percorse per qualche decina di passi ma poi rinunciò. Troppo pericoloso per la donna e per gli spiacevoli incontri che stavano facendo. Mentalmente conteggiò quanti passi lo dividevano dalla scala, imprimendosi la mappa dei locali sotterranei prima di riemergere alla luce del sole, che ormai era basso sull’orizzonte.

“Mio Messere, ora sono io che vi faccio la proposta di rimanere ospite stasera del mio palazzo. Così potete rendervi presentabile” domandò con tono ironico la donna.

“Veramente avrei altri impegni per la sera ..” replicò come per dare un peso maggiore a quello che avrebbe aggiunto dopo la sospensione. “Però rinuncio volentieri a tutto e vi faccio compagnia. A una Madonna come voi non si può negare nulla”.

Giacomo pensò che la notte sarebbe stata calda come il sole di luglio e questo lo intrigava non poco.

Nel padiglione i servitori si affaccendavano per servire il loro signore e la sua ospite. Laura si sentiva frastornata da tutto quell’andirivieni di portate e camerieri, perché non era abituata a essere servita e riverita come una principessa. All’inizio aveva provato una sensazione di disagio che era sparito non troppo in fretta come se il blocco psicologico dentro di lei si fosse sciolto gradualmente. Quel temuto potente sembrava meno orso di quello che si raccontava in giro. Era gentile e premuroso, mentre si adoperava per stemperare la sua sensazione di ansia. Si mostrava anche una persona romantica per come parlava e la trattava. La ragazza rifletté che pochi lo avevano conosciuto bene ma molti ingigantivano dei sentito dire.

Bloccata nel parlare, arrossiva per un nonnulla e il cibo rimaneva in gola, perché si rifiutava di scendere nello stomaco. Solo una cosa non aveva mai smesso di fare: era guardarlo fisso negli occhi senza tentennamenti. Tra una portata e l’altra, tra un segno di incitamento e una carezza Laura aveva trovato l’ardire di pronunciare qualche parola.

“E’ un posto splendido questo. Mi sembra di vivere in mezzo a una bella favola, dove in sogno penso di essere al vostro fianco, mio Illustrissimo Signore. Ma quello che mi darà vertigini è che al risveglio tutto sparirà e mi ritroverò accanto al camino spento”.

Alfonso la guardò, scosse il capo e replicò serio.

“Siete sicura che questo sia un sogno? Voi potete toccare con mano perché non sono un fantasma”.

Poi dopo la risposta esplose in una risata sonora per le affermazioni quasi ingenue di Laura, che gli piaceva sempre di più. Gli pareva che fosse una donna molto più matura della sua età e dotata di uno spirito acuto e osservatore. Però il tratto della personalità che più lo convinceva era quella sensazione di pulito misto a genuina sincerità che metteva nelle parole, pronunciate sempre senza mai distogliere lo sguardo. Era un aspetto che non aveva mai incontrato prima, perché o erano troppo altezzose oppure sembravano servili e dimesse come se avvertissero il peso del potere e del prestigio della sua persona.

“Mio Signore” disse con tono allarmato la donna. “Non volevo dire che voi siete un fantasma ma più sinceramente che non riesco ancora a capacitarmi di essere di fronte a voi, tanto da temere che stia facendo un bellissimo sogno”.

Il Duca rise nuovamente al goffo tentativo della ragazza di spiegare quello che era chiaro senza mezzi termini. Era proprio questa sorta di autentica e fresca ingenuità che lo attraeva sempre di più. Rappresentava una ventata di freschezza nella sua esistenza tanto intensa tanto da rischiare di esserne travolto.

Il suono melodioso di due liuti, invisibili agli occhi accompagnava queste schermaglie come se fossero due giovani amanti.

“Venite, Madonna” disse con gentilezza, prendendole la mano. “Usciamo a fare una passeggiata per il giardino. Ho qualcosa da mostrarvi”.

Si alzarono, uscendo dal padiglione verso il parco ricco di alberi e di laghetti, dove l’acqua scorreva placidamente.

“Non abbiate timore se vedete delle bestie feroci, ghepardi e leopardi. Sono libere di muoversi nel parco”.

Laura aveva sentito delle voci su questi animali dalla pelliccia maculata e dall’andatura flessuosa ma il pensiero di fare un incontro con loro le mise angoscia. Cercò di nascondere il terrore che le piegava le gambe, mostrando un coraggio che non possedeva.

Si fermarono nei pressi di un laghetto dove spuntavano i fiori di una pianta acquatica che non aveva mai visto in precedenza. Alfonso con una verga si divertiva a muovere l’acqua, mentre lei si specchiava tra i gorghi e i cerchi che il Duca si dilettava a produrre.

“E’ un posto delizioso ricco di animali e di fiori” disse con tono entusiasta e quasi sognante. “Un vero ambiente da favola”.

“Ma come ve lo immaginavate questo luogo?”

“Esattamente così. O forse un qualcosa in meno”.

Passeggiarono e conversarono a lungo, finché il sole non cominciò a trasformare il cielo in una tavolozza rossa, quando rientrarono nella delizia.

“Mio Signore, è stata una magnifica giornata” disse con un leggero inchino.

“E voi una deliziosa presenza” rispose garbato mentre faceva un cenno verso la carrozza dalle tendine rosse. “Sarete riaccompagnata alla vostra dimora. Conto di rivedervi presto. E’ stata una piacevole giornata, quella che abbiamo trascorso insieme”.

Al rientro a casa, Laura fu assalita dalla curiosità di Paola che le pose mille domande.

“Madre, è stata una giornata lunga. Vorrei ritirarmi col vostro permesso nella mia stanza. Domani vi risponderò in maniera esaustiva. Ora sono troppo frastornata per parlare con chiarezza”.

Però prima dovette rintuzzare gli attacchi delle amiche e le molte domande di Paola. Salita nella sua stanza, dopo essersi lavata sommariamente per non cancellare il profumo del Duca, si coricò, continuando il sogno interrotto brevemente dalle parole della madre.

La giornata aveva lasciato un segno tangibile.

Capitolo 24

Alfonso le prese la mano e la riportò sul bancale, sedendosi accanto a lei. Gli occhi brillavano nell’ammirare la grazia e la semplicità di Laura, che indossava un abito leggero da popolana, che metteva in mostra il seno acerbo. Il duca amava circondarsi di cose preziose e belle e la giudicava come tale. Osservandola con cura percepì che l’impressione di molti mesi prima era ben appropriata, perché, se nei panni ruvidi di lavoro aveva mostrato un fascino che contrastava l’algida avvenenza delle dame di corte, adesso con il vestito della festa trasudava di charme che conquistava il cuore.

Lui era un ruvido uomo di arme che apprezzava la bellezza femminile e non solo, perché, sfruttando il potere che deteneva, non mancava di passare da un letto all’altro senza troppe sottigliezze. Non faceva differenza tra una dama di corte e una donna che svolgeva il mestiere più antico del mondo, purché fosse bella e disponibile. Questa superficialità nei rapporti gli stava costando caro vent’anni prima, perché aveva contratto coi fratelli Ferrante e Sigismondo la sifilide. Era riuscito a guarire quasi miracolosamente dalla malattia, che l’aveva portato a un passo dalla morte, mentre il fratello Sigismondo aveva avuto la vita segnata per sempre e ancora adesso stava lottando per sopravvivere.

Con Lucrezia i rapporti non erano più quelli iniziali né i timori, che lei potesse sviarsi o tradirlo, erano più attivi. Era conscio di averla domata con gravidanze a ripetizione, tanto che la salute della Duchessa era diventata cagionevole e fragile come un vetro di Murano. Era riuscito a imbrigliarla e renderla innocua come se avesse stipulato un contratto che valeva in assoluto con lei. Gli serviva come immagine, perché i ferraresi l’adoravano per quello che faceva per loro. La stimava perché gli aveva portato in dote potere e ricchezze, perché aveva assicurato al ducato degli eredi, che avrebbero allontanato le mire papali sui suoi possedimenti. Però tutto finiva lì. Adesso aveva necessità di qualcosa di fresco, di giovane e Laura incarnava queste aspettative.

Ricordava, mentre osservava la donna che stava al suo fianco, che Lucrezia era stata piacevolmente docile e pieghevole ma come le canne di fiume che sotto la sferza del vento si piegavano e non si rompevano, anche quella moglie non desiderata e in un certo senso temuta aveva fatto uso della flessuosa passività femminile, che col tempo l’aveva sconcertato e irritato più di una volta, per difendersi da lui. Gli sembrava sempre più spesso e senza troppe finzioni di fare all’amore con un pupazzo piuttosto che con una donna tanto si dimostrava distante e distaccata.

Non conosceva i motivi ma percepiva che con Laura sarebbe stato totalmente diverso. Dopo due mogli, una Sforza, morta poco dopo il matrimonio, e una Borgia, che era ormai sfiorita, desiderava una donna semplice che potesse amarlo per quello che era e per la sua personalità massiccia e forte, apparentemente ruvida ma che era capace di grandi slanci e generosità verso gli altri. Dunque la vedeva deferente e umile mentre trasmetteva una grande determinazione attraverso quei grandi occhi scuri.

Immaginò che non sarebbe stata una passeggiata, perché già una prima volta gli aveva tenuto testa, guadandolo senza abbassare lo sguardo o timori reverenziali, rispondendo senza esitazioni e con voce ferma alle domande che le aveva posto. Questo gesto di sfida, nemmeno troppo occulto, anziché irritarlo lo aveva attratto. Amava le sfide e la tenzoni ma nessuna donna aveva mai osato sfidarlo prima di lei.

“Eccola qui, dunque” rifletté Alfonso mentre continuava a tenerle la mano. “Potrei prenderla con la forza ma trasmette una calma interiore che mi inibisce. Devo conquistarla e con lei anche il suo rispetto”.

Batté le mani per richiamare l’attenzione del paggio che stazionava fuori dal padiglione.

“Ho fame” disse asciutto.

Giacomo, raggiunto il posto di guardia, vide immediatamente la morella nera che tranquilla brucava l’erba del prato. Un palafreniere la condusse con lentezza verso di lui, che dissimulò con una certa fatica l’ansia e l’inquietudine della prossima cavalcata.

“Ecco la cavalla, Messer Giacomo” esclamò il giovane, indicando la cavalcatura.

Un brivido percorse la schiena dell’uomo, che per distrarre l’attenzione di chi lo circondava osservò la donna al suo fianco come per porgerle le sue scuse.

“Madonna Giulia, mi spiace dover lasciarvi qui sola e senza il pranzo promesso. Mi rincresce ma se ..”.

“Vi prego, Messere. Non preoccupatevi per me. Vi aspetterò fedele e paziente, come una sposa, in quel padiglione. Al vostro ritorno passeremo in trattoria” replicò sorridente e soddisfatta di aver trasmesso l’impressione agli astanti che fosse la legittima moglie. Si dava un contegno e si sforzava di tenere un atteggiamento come se lo fosse.

Giacomo con l’aiuto del palafreniere montò a cavallo col cuore che pompava in maniera esagerata e poi tenendo le redini si mise al piccolo trotto sugli spalti erbosi delle mura cittadine.

Si rallegrò che in effetti era veramente docile e che non poteva sbagliarsi nella direzione. Si domandò come avrebbe dovuto agire, qualora avesse avuto la necessità di farla voltare.

“Devo tirare le redini a destra o sinistra? E per fermarla, quali azioni devo compiere? L’importante in questo momento è non cadere dalla sella. Per il resto ci penserò. Una cosa per volta. Non avrei mai immaginato che sarei dovuto andare a cavallo”.

Dopo un tempo che gli apparve infinito e dopo aver risposto a molti cenni di saluto di persone a lui completamente sconosciute, arrivò in prossimità di un enorme ammasso di terra che si ergeva imponente sull’orizzonte. Era molto più impressionante di quello che ricordava nella sua epoca.

“Ma di quanti metri si innalza dal piano di campagna? Ops! Il metro non è ancora stato inventato. Forse ora si usano i piedi di Ferrara, perché mi pare di ricordare che nell’ingresso sud del Castello ci fossero delle misure e le relative diciture” rifletté nell’osservare quella enorme montagna di terra brulla e scura.

Il cavallo si fermò come se avesse percepito questa istanza dalla mente di Giacomo, mentre lui era concentrato su quella visione tanto diversa dai suoi ricordi. Era piacevolmente soddisfatto per il fatto che era arrivato fin lì senza problemi, quando vide venirgli incontro delle persone che si sbracciavano per richiamare la sua attenzione.

“La pace è finita. A quali altre incombenze dovrò sottostare?” si interrogò ansioso, mentre sbigottito scrutava chi gli stava venendo incontro.

Voci concitate si mescolavano tra loro, mentre lui captava solo frammenti di parole.

“Messer Giacomo, per fortuna .. Ci sono dei problemi .. La porta di Sotto .. Abbiamo trovato .. E’ una Madonna .. Il docile ..” erano i brandelli che giungevano a lui.

Avrebbe voluto scendere di cavallo ma il timore di una figuraccia lo costrinse a rimanere in sella.

“Messeri, parlate uno alla volta. Altrimenti non vi capisco” disse con voce chiara e autorevole, facendo zittire i più esagitati.

Uno, vestito più elegantemente degli altri, si avvicinò al cavallo e gli fece segno di scendere. Un piccolo flash gli sovvenne, ricordando in qualche film western come il protagonista con agilità balzava dalla sella e con un piccolo salto Giacomo si calò dalla cavalcatura che rimase docile e tranquilla a brucare l’erba dello spiazzo.

“Dunque ditemi. Quale problema vi affligge da richiedere il mio intervento?”

“Messere, come sapete il nostro eccellentissimo Duca ha costretto i contadini del contado che si estende fuori delle mura fino a Ponte Gradella e verso San Martino di venire coi loro carri per portare la terra estratta dal fossato per creare la grande montagna che sta di fronte a voi. Ora si dà il caso che abbiano deciso di tornare sulle loro terre, perché non sono stati saldati i fiorini promessi” disse tutto d’un fiato.

“Per quale motivo sono stati negati i fiorini promessi?” domandò con cipiglio autoritario Giacomo.

“Sono finiti i soldi” ammise l’uomo, abbassando il tono della voce.

“E io che dovrei fare? Mettere mano alla borsa per pagarli?”

“Beh! sarebbe la soluzione ottimale ma dubito che si possa attuare. Voi dovreste parlare con loro e promettere che ..”

“Promettere cosa?”

“Promettere che presto saranno saldate tutte le spettanze”. E aggiunse di non preoccuparsi per la cavalla.

Aggrottò le sopracciglia e osservò l’assembramento di persone che stavano di fronte a lui a una decina di passi. Rifletté che una promessa non sarebbe costata nulla, memore dei suoi tempi. Erano solo qualche parole rassicuranti, ma che poi il mantenimento sarebbe stato problematico, perché, se erano finiti gli scudi, difficilmente sarebbero comparsi all’improvviso.

“Una bella gatta da pelare” si disse in silenzio. “Prima il Duca mi ordina un sopralluogo ben sapendo che mi sarebbe stato negato in virtù degli ordini impartiti alle sue guardie. Ora sono alle prese con degli scioperanti che reclamano il dovuto, e non hanno delle facce rassicuranti. Era molto meglio la mia epoca. Si scioperava e basta. In questa si rischia la vita”.

Trasse un profondo sospiro prima di arringare quel piccolo assembramento riottoso e poco incline ad ascoltare delle vuote parole.

“Messeri” cominciò. “Messeri tornate alle vostre occupazioni. Non posso saldare le vostre spettanze, perché nessuno mi aveva informato di questo. Ma al mio rientro ne parlerò con nostro eccellentissimo Duca delle vostre giuste lagnanze ..”.

Un mormorio preoccupante iniziò a salire da un gruppetto che stava in disparte, quasi staccato dal resto. Giacomo inghiottì la saliva e fissò quello che pareva il capopopolo con uno sguardo che non prometteva nulla di buono. Doveva mantenere un certo contegno se voleva tornare da Dama Giulia in buona salute.

“Non ho la bacchetta magica per fare i miracoli, né ho la zecca dietro la schiena per coniare le lire marchesane. Se volete andare, andate pure. Sapremo rimpiazzarvi con altri lavoranti meno rumorosi di voi. E ..”.

“E i nostri soldi?” replicò un omaccione poco rassicurante.

“Passate nei prossimi giorni. Con me non ho una lira ..” e si interruppe, prima di dire una corbelleria. Ma si riprese in fretta. “Non posso dare quello che non ho. Dunque chi non vuole proseguire il lavoro se ne può andare. Gli altri riprendano lo scavo. Deve essere finito in fretta. Non oltre la fine dell’estate”.

Il silenzio calò sullo spiazzo erboso, mentre qualcuno si staccò e si allontanò. Giacomo chiamò verso di sé chi lo aveva accolto e sottovoce gli disse di prendere nota di coloro che non proseguivano i lavori.

“Saranno liquidati dopo tutti gli altri” e andò verso la morella nera, fingendo disinteresse e sufficienza verso di loro, mentre dentro tremava dalla paura.

Salendo a fatica, disse alla cavalla: “Ora portami docile da Dama Giulia che mi sta aspettando”.

Si avviò per ritornare alla Porta degli Angeli, dove era partito.

Capitolo 23

La carrozza dalle tendine rosse attraversò la Porta degli Angeli, salutata dal corpo di guardia, e proseguì in un nugolo di polvere sul ponte di legno che scavalcava il canale Gramicia. Un fitto bosco l’accolse e l’inghiottì velocemente fino all’ingresso della delizia, dove trovò un piccolo esercito di paggi e servitori pronti ad accoglierla.

Laura avvertì che si era fermata ma non osava scostare la tendina per osservare fuori. Sapeva rispettare le consegne.

“Sono arrivata oppure è solo una sosta provvisoria?” si domandò curiosa ma timorosa per quello che le aveva intimato l’uomo che le aveva fatto compagnia per un breve tratto di strada. Però la curiosità prevalse per un attimo sul rispetto degli ordini e scostò un lembo della tendina rossa sbirciando fuori. Poi la lasciò ricadere al suo posto, restando immobile. Aveva intravvisto un gran movimento intorno alla carrozza con paggi e servitori in frenetico movimento. Le era stato sufficiente un rapido sguardo per dedurre che il posto le era completamente sconosciuto ma sembrava l’eden terrestre tanto era ricco di fiori e di alberi rigogliosi.

Col cuore che galoppava per le emozioni rimase ferma, aspettando gli eventi, mentre udiva uno scalpiccio di passi e un gran strepitare di voci sovrapposte provenienti dall’esterno. Vide la maniglia girare lentamente mentre uno spiraglio di luce si insinuava, illuminando l’interno.

“Madonna”. Una voce aggraziata l’accolse prima che potesse scorgerne il viso e la mano che la invitava a scendere.

Per un attimo gli occhi non esaminarono nulla, abbagliati dall’improvvisa luce dopo il tragitto nella penombra. Scese con cautela dalla carrozza sorretta da mille mani. Un senso di sgomento e di piacere la pervase: le pareva di vivere un sogno. Il posto era da favola, molto di più di quello che aveva fantasticato con le amiche, che non avrebbero mai condiviso con lei questo spettacolo.

Un paggio tenendola per mano l’accompagnò verso un grande padiglione posto in mezzo a un prato colorato di rose e altri fiori primaverili. Scostò un lembo e la fece accomodare.

“Madonna, gradite qualcosa?” chiese premuroso, mentre Laura si sistemava su un bancale con schienale ricoperto di morbidi cuscini.

“No, grazie”.

Il ragazzo sparì velocemente in silenzio, mentre si udì il suono di un liuto che inondava di musica l’interno. Si osservò intorno ma non notò nessun musicante. Nella luce incerta nella quale era immersa dedusse che fosse appostato all’esterno alle sue spalle e che quindi suonasse per lei.

Laura si sentiva inquieta nell’attesa di vederlo, perché sapeva che sarebbe apparso quanto prima, mentre si domandava come avrebbe reagito alla vista di lui. Era nel contempo anche eccitata, perché le emozioni e le sensazioni erano troppo intense per essere tenute a freno.

Fuori si ascoltavano voci concitate e grande movimento di persone senza che lei potesse vederle. Poteva solo intuire che stava arrivando, perché all’improvviso tutto quel frastuono cessò di colpo.

L’apertura del padiglione fece comparire un uomo non molto alto e con una folta barba nera ma decisamente affascinante, molto di più di qualche mese prima, quando lo aveva visto per la prima volta.

Si alzò di scatto per andargli incontro ma una voce potente, profonda e decisa la fermò: “Restate dove siete”.

Quello fu il primo impatto e le tremarono le gambe.

Giacomo e Giulia erano all’incirca a metà di Via dei Piopponi, quando videro arrivare di gran carriera un cavaliere.

“Messer Giacomo! Che fortuna vedervi” urlava approssimandosi sempre di più, finché non si fermò dinnanzi a loro, che erano stupiti da questo incontro.

“Messer Giacomo, vi stiamo cercando in tutta Ferrara, perché dovete recarvi immediatamente al baluardo della Montagna. E’ richiesta con urgenza la vostra presenza. Nella vostra casa la camariera personale ci ha detto che eravate al Castello dal nostro eccellentissimo Duca. Ma lì nessuno sapeva dove eravate diretto dopo la vostra uscita” disse senza fermarsi un attimo con la voce in affanno per la veloce galoppata.

“Il baluardo della Montagna? E dove sarebbe? Conosco solo il Montagnone, che è tutto fuorché una montagna” rifletteva Giacomo senza lasciar trapelare le sue perplessità su questa richiesta.

“Veramente ..” cominciò ma fu interrotto subito dal cavaliere.

“Al posto di guardia è pronta una cavalla docile e veloce che vi porterà in un baleno al baluardo ..”.

L’uomo quasi sbiancò dalla paura, perché non aveva mai cavalcato. Stava per aprire bocca, quando la guardia ducale proseguì.

“Non dovete aver timore: la morella nera, che vi sta aspettando impaziente, vi condurrà senza quasi la necessità di usare le redini. E’ la cavalla prediletta della nostra amata principessa Laura”.

“Non abbiate paura, Messer Giacomo” disse Giulia rimasta in silenzio fino a quel momento. “La cavalla è veramente docile. Si lascia guidare senza la necessità degli speroni. Madonna Laura la cavalca senza preoccupazioni. Lei è una cavallerizza assai scarsa, perché preferisce guidare la carretta” soggiunse con un leggero sorriso beffardo.

“E va bene” replicò rassegnato al peggio. “Ma voi, dama Giulia cosa farete durante la mia assenza? Vi avevo promesso un pranzo ma vi sto abbandonando senza nessuna certezza che possa onorarvi”.

La guardia affermò che Madonna avrebbe alloggiato al fresco nel padiglione, riservato per gli ospiti di riguardo, accanto alla porta, prima di avviarsi velocemente verso il posto di guardia.

“Sono mortificato” disse con tono contrito per dissimulare l’ansia che stava crescendo dentro di lui.

“No, Messer Giacomo. Aspetterò il vostro ritorno e poi ci recheremo in trattoria. Mi sono sentita importante al vostro fianco. La guardia ha creduto che fossi la vostra sposa. Se fosse vero..” e sospirando, si strinse maggiormente a lui, mentre riprendevano il cammino verso la Porta degli Angeli.

“Dunque tra i miei compiti c’è anche quello di badare alle fortificazioni. Scopro sempre nuovi tasselli della mia vita. Però spero che il baluardo della Montagna sia quello che ricordo” rifletté velocemente.

“Avere una così bella e giovane Dama al mio fianco mi riempie d’orgoglio come sapere che voi sospirate per non essere la mia consorte”aggiunse galante ad alta voce.

Adesso doveva capire come si sta a cavallo senza cadere rovinosamente, mentre osservò un palafreniere che si avvicinava con una bella morella nera di piccola taglia.

“Almeno non è imponente come pensavo. Ma questo non mi aiuta di certo”.

Capitolo 22

Un capitano della guardia ducale si parò dinnanzi minaccioso, intimandogli di fermarsi. Giacomo acconsentì prontamente, perché la missione era delicata e non doveva far trapelare i motivi delle sue ricerche.

“Dove state andando? Chi siete?” domandò scortesemente, mentre due guardie lo affiancavano.

“Al rivellino nord. Forse è proibito? Sono l’ingegnere del Duca e dovrei controllare ..”.

“Controllare cosa? Non sapete che quell’area è interdetta a tutti per ordine del nostro eccellentissimo Alfonso I? Nessuno può avvicinarsi o penetrare quell’area senza il permesso scritto del nostro amatissimo Duca”.

Giacomo rimase basito e senza parole. Il duca non consentiva a chicchessia di entrare nel rivellino nord o persino di avvicinarsi ma gli aveva ordinato di procedere alle verifiche dello stato dei passaggi segreti e di costruirne uno nuovo. Gli sembrava una follia, ben sapendo che nessuno sarebbe riuscito a rompere il vincolo senza uno scritto di Alfonso. L’impresa gli sembrava impossibile e ineseguibile per raggiungere le soluzioni richieste. Si trovava in un vicolo cieco.

“Se non posso attivarmi, senza un permesso scritto, per la verifica, come riuscirò a soddisfare la commessa ricevuta?” si domandava Giacomo senza ottenere una risposta soddisfacente.

“Comprendo pienamente le vostre disposizioni e la loro applicazione, ma come faccio a rispettare la commessa del nostro eccellentissimo Duca?” chiese Giacomo, abbassando il tono della voce a semplice sussurro.

“Gli ordini sono ordini e li faccio applicare alla lettera. Quindi voi chiedete al nostro amato Duca il permesso scritto per controllare …Non so cosa, visto che non avete avuto l’accortezza di comunicarmelo” replicò austero e deciso il capitano delle guardie ducali.

“Non lo sapete perché mi avete interrotto la spiegazione. Dunque dovrei controllare la stabilità del rivellino nord, perché sono giunte al nostro amatissimo duca delle informazioni su possibili crolli del manufatto per via di certe crepe notate in una parete” disse inventandosi una scusa più che plausibile per le orecchie del capitano.

Detto questo senza aspettare una risposta, che non sarebbe mai pervenuta, si girò incamminandosi verso l’uscita che dava in Piazza de’ Pollaioli per il rientro a casa. Non poteva tornare dal duca per farsi rilasciare un permesso di accesso, che di certo non glielo avrebbe concesso, perché, se questa fosse stata l’intenzione e se la missione avrebbe dovuto svolgersi alla luce del sole, di sicuro glielo avrebbe firmato al termine del colloquio e non successivamente. Doveva trovare un’altra strada per percorrere i due cunicoli e rispettare l’impegno imposto senza troppe discussioni. Quello che lo preoccupava maggiormente era la costruzione del terzo cunicolo da eseguire in gran segreto.

“Come? E dove trovo maestranze fidate alle quali affidare il compito di costruirlo?”

Era immerso in questi pensieri per nulla allegri, quando udì una voce familiare chiamarlo. “Messer Giacomo! Messer Giacomo!”

Alzò il capo, facendo fuggire tutti i cattivi pensieri che lo stavano accompagnando da qualche minuto, e girò il viso in direzione di quel suono gradevole che gli ricordava qualcosa di piacevole.

“Oh! Dama Giulia! Che piacere rivedervi1 Come state? Sempre più bella e attraente!” disse con stupore misto a galanteria, mentre l’uomo si avvicinava alla ragazza per baciarle la mano.

“Sempre galante, Messer Giacomo. Siete un vero signore. Peccato che ..” rispose civettuola la donna, accettando complimenti e baciamano.

“Lasciatevi ammirare! Siete un toccasana per gli occhi e per lo spirito”.

“Solo quello?”

“No! Anche per il corpo!” replicò sorridente e sornione. “Sto andando alla Porta degli Angeli per via dei Piopponi. Posso avere la grazia della vostra compagnia? Nelle vicinanze c’è una trattoria, L’Abbondanza, dove si mangia divinamente. Potremmo fermarci sotto il pergolato a pranzare vista l’ora. Avrò questo onore, dama Giulia?”

La ragazza sembrò pensarci un po’ ma in cuor suo aveva già deciso di accettare l’invito, perché Laura d’Este non era di buon umore nella giornata odierna per via del suo malessere di donna. “E’ intrattabile oggi come capita sempre quando ha il suo ciclo. Ma oggi è meglio girarle alla larga. Irascibile com’è si rischia qualcosa. Mi sembra più piacevole la compagnia del Messere e poi ..” rifletté sorridente, mentre accettava il braccio che le porgeva Giacomo.

Rispose con un cenno del capo che era più chiaro di un «Sì», mentre allegra si incamminava al fianco dell’uomo.

“Non vi ho più rivista dopo la grande nevicata di gennaio. Ho sperato di vedervi con vostra cugina Ginevra. A proposito. Come sta? Ha superato il lutto della vedovanza?”.

“Ginevra? Sta bene, almeno l’ultima volta che l’ho vista. Ora è a Mantova alla corte di Francesco e Isabella Gonzaga, perché al termine della vedovanza convolerà a nozze con Aloiso Gonzaga. Vi ricorda sempre come un uomo arguto e gentile, che le ha donato istanti di grande felicità e serenità”.

Continuarono a chiacchierare mentre lentamente percorrevano via dei Piopponi, dove in lontananza si vedeva la Porta degli Angeli, quando Giulia esclamò sorpresa.

“Ma quella è la carrozza ducale! Quella che usa il nostro amatissimo Duca per i suoi spostamenti verso le delizie. E al di là della Porta c’è quella di Belfiore. E’ strano, vista l’ora. Però le tendine rosse impediscono di vedere chi ospita. C’è lui in persona o qualcun’altra, che non desidera essere riconosciuta”.

“Perché strano? Non ci trovo nulla di singolare. Oggi è una giornata calda che merita di essere trascorsa all’aria aperta” replicò cautamente Giacomo, che non ricordava che fuori delle mura ci fosse una delizia estense. Nella sua epoca c’era solo un grande parco urbano senza ruderi antichi.

“Però vedo che siete ben informata sull’uso della carrozza. Forse ..” e fece una pausa per non irritare la compagna.

“No! No! Messer Giacomo. Non è come pensate voi” replicò ridendo, mentre si stringeva con maggior vigore all’uomo. “Vivendo a corte, i pettegolezzi si sprecano. E tutte hanno raccontato storie incredibili su quella carrozza dalle tendine rosse. Quanto di vero ci sia non lo so ma le chiacchiere girano e si agitano come bandiere al vento. Però Laura d’Este, una cugina del nostro amatissimo Duca, afferma che il cugino la usa per questi scopi e io le credo”.

Giacomo e Giulia continuarono a conversare mentre la carrozza li superò, allontanandosi verso la Porta.

All’interno Laura avrebbe voluto osservare fuori ma le era stato proibito. “Tenete sempre le tendine tirate e non mostrate il vostro viso. Potrebbe essere pericoloso” le disse Bernardino de’ Prosperi, prima di scendere all’inizio di via dei Piopponi. E lei non replicò, rispettando il divieto.

Curiosità mista a timore cresceva dentro di lei, perché intuiva chi l’avrebbe accolta nella delizia.

Capitolo 21

Giacomo si svegliò presto, prima del solito. Un’insolita frenesia, mista a curiosità, lo pervadeva senza che potesse metterci un freno. La stanza era buia ma dai pesanti tendaggi filtrava una bella luce luminosa a indicare che la giornata era serena e soleggiata. Ghitta dormiva nella stanza della servitù collegata alla sua con una porta semisocchiusa, dalla quale si udiva distintamente il sonno rumoroso della ragazza, rientrata la sera precedente al vespro stanca, sudata e accaldata dopo aver partecipato alla festa di San Giorgio. L’aveva ascoltata rincasare garrula e allegra e dopo un sommario lavaggio si era buttata sul letto, addormentandosi immediatamente come un sasso nello stagno.

“Dorme profondamente” disse sorridente, mentre si alzava per cominciare i preparativi per la vestizione. Era una delle incombenze che amava di meno o meglio che odiava. Rimpiangeva la sua epoca dove bastava un paio di pantaloni con la zip e una camicia di Oxford per essere pronto in dieci minuti. In questa il rituale era assai più complicato e nella migliore ipotesi non durava meno di un’ora. Una calzamaglia aderente, pesante o leggera, si indossava sopra delle braghe che fungevano da mutandoni, scomodi e poco pratici, specialmente per certe incombenze. Era disagevole da indossare e richiedeva l’aiuto di un cameriere. «Per fortuna ho Ghitta e l’operazione è più confortevole» si diceva tutte le mattine. Poi il corsetto e la blusa erano un altro supplizio, perché rosicchiavano da tutte le parti, specialmente nel collo. Calzava comode scarpe spagnole, così dicevano, per la loro forma. Queste erano le uniche che non creavano problemi.

Dunque Giacomo scivolò silenzioso fuori dal letto, scostò le tende di un pesante broccato rosso per far entrare la luce del nuovo giorno. Si annunciava una giornata calda per essere solo il 24 aprile. Nella giornata odierna avrebbe conosciuto finalmente il Duca, il suo datore di lavoro, e avrebbe imparato quali erano le sue reali funzioni.

“Dicono che sono l’ingegnere del Duca. Ma probabilmente è un mestiere differente da quello di cui ho nozione. Un nuovo tassello si aggiungerà agli altri che ho scoperto in questi mesi”.

Nel formulare questi pensieri la sua mente andò su Giulia e Ginevra e sui quei dieci giorni trascorsi nel loro palazzo. Il ricordo era indelebile e gli sarebbe piaciuto ripeterlo ma non era possibile. Ginevra, la vedova caldissima, aveva trovato un nuovo spasimante, Aloiso Gonzaga, marchese di Castel Goffredo, e terminato il lutto sarebbe convolata a nuove nozze. Giulia era diventata la dama prediletta di Laura d’Este e non aveva più tempo di dedicarsi a lui, ammesso che ne avesse avuto tempo e voglia.

Si stava dando una rinfrescata, usando l’acqua preparata la sera precedente, quando Ghitta irruppe nella stanza avvolta in un goffo e ruvido camicione da notte. A Giacomo venne un moto di ilarità nel vederla a piedi nudi, scarmigliata e assonnata, mentre si affannava ad affermare che la doveva chiamare, che la doveva comandare, che era sveglia da un pezzo, che fingeva di dormire come i gatti.

“Ghiita, state tranquilla. Mi sono levato dal letto e ho cominciato a prepararmi. Un’ora prima del tocco il nostro Duca mi riceverà ..”

“Andate a corte? Al Castello al cospetto del nostro Duca?” diceva sgranando due grandi occhi color nocciola, mentre l’aiutava nel completare la vestizione.

“Certamente. Andrò ad ascoltare quello che mi dovrà dire”.

Quel camicione dal colore indefinito per i troppi lavaggi dava un tocco di sensualità alla ragazza, facendo intuire che sotto non ci fosse niente. Giacomo era troppo concentrato sul prossimo incontro con Alfonso per accorgersi del messaggio sessuale che emanava. La salutò sfiorandole la fronte con le labbra e si avviò verso l’ingresso.

Puntuale si presentò a corte al cospetto del segretario del Duca, scoprendo che era lo stesso personaggio incontrato qualche mese prima nel palazzo della contessa Giulia. Stranamente ne ricordava il nome, perché era un nome familiare.

“Buongiorno, Messere Bernardino. Il nostro eccellentissimo Duca mi ha convocato nel suo studio” esordì quando ne fu al cospetto.

“Vi annuncio. Il nostro illustrissimo Duca vi sta aspettando”.

Entrato nello studio ducale, Giacomo lo osservò seduto sulla sua savonarola, mentre gli faceva un ampio gesto di accomodarsi di fronte a lui. Gli fece una strana impressione, o almeno così gli sembrò, di una persona burbera e rude ma dal temperamento benevolo, imprevedibile e alquanto lunatico. Lo ricordava vagamente in un quadro del Dossi imponente e con la folta barba nera. Però dal vivo gli appariva meno prestante, più mingherlino con le mani affusolate come quelle di un artista. Sicuramente era un personaggio sensibile al bello e all’arte, confortato nell’idea dopo aver scrutato con cura lo studio ducale. Si riscosse dai pensieri che l’avevano trasportato in un’altra realtà e ascoltò quello che il Duca diceva.

“Vi ho convocato, perché intendo affidarvi un incarico delicato e molto riservato. Mettetevi comodo” e gli allungò un rotolo dove erano segnate vie e piazze con segni colorati che partivano dal Castello.

“Come vedete dal rivellino nord si dipartono delle linee. Sono due uscite segrete che conducono una verso la porta degli Angeli e l’altra in un parco in fondo alla Zuecca” e fece una sosta per consentire a Giacomo di mettere a fuoco i segni della pianta.

“Vedo, mio Signore. Ma se esistono cosa posso fare per voi?” mormorò cauto l’uomo non sapendo dove voleva andare a parare con queste informazioni.

“Voi dovrete con personale di vostra fiducia e muti come un pesce fare una ricognizione dello stato nel quale versano i due percorsi. Dovrete fare in modo che possano essere percorsi in tutta sicurezza, assicurando un’illuminazione efficiente e la possibilità di camminare ritti e armati” continuò ignorando le parole di Giacomo.

“Infine dovrete predisporre una deviazione del percorso della Porta degli Angeli sull’angolo del Monte di Pietà di via Spazzarusco verso la casina delle rose, un edificio che è qui indicato con una croce” e mostrò a Giacomo sbigottito e un po’ allarmato un vistosa croce quasi sull’incrocio tra via Spazzarusco e via delle Rose.

L’uomo era in agitazione per diversi motivi. Il primo era che non aveva manovalanza capace, riservata e muta. Per dirla tutta e in breve non esisteva per nulla e non sapeva come procurarsela. Il secondo non era in grado di valutare la rischiosità dell’ispezione. Il terzo ignorava le motivazioni di collegare il percorso di via degli Angeli con quell’edificio ma questo era un dettaglio irrilevante, degno solo della sua curiosità. Quarto particolare, ma non sicuramente il più trascurabile, era con quali fiorini avrebbe finanziato l’impresa, visto che la borsa. inizialmente piena, adesso stava scarseggiando e non sapeva come rimpinguarla.

Cercò di non manifestare dubbi e preoccupazioni, annuendo energicamente, come se tutto fosse chiaro. Ci sarebbe stato tempo per risolvere i quesiti che si stava ponendo.

“Quando devo fare, quanto da voi richiesto, o mio eccellentissimo Duca?” chiese con un filo di voce non privo di apprensione.

“Da subito!” replicò spazientito Alfonso, che faticava a fornire spiegazioni su quello che aveva intenzione di fare nel futuro.

“Siete pagato per questo lavoro. E anche lautamente” aggiunse irato il Duca e con un gesto lo congedò.

Giacomo fece un profondo inchino e camminando a ritroso guadagnò la porta di uscita. Teneva in mano la pianta con le segnalazioni che aveva discusso col Duca e nella testa tutti i dubbi sorti col colloquio. Quel «pagato lautamente» continuava a galleggiare pericolosamente nella testa, perché non gli risultava di aver ricevuto scudi o fiorini d’oro in questi mesi. Adesso che doveva assolvere a un compito, della cui portata non immaginava le proporzioni, doveva estrarre dalla borsa che portava in cintura un bel po’ di lire marchesane per assoldare personale in grado di lavorare per lui, sperando di averne a sufficienza.

Sceso nel cortile d’onore, lo attraversò dirigendosi verso il rivellino nord alla ricerca dell’ingresso dei due cunicoli. Non aveva molte speranze di ritrovarli senza l’aiuto di qualcuno. Doveva confidare nella sua buona stella.

Capitolo 20

L’orto era un ampio spazio di terreno ricavato tra i vecchi argini del Po di Ferrara e l’attuale alveo fluviale. Il terreno era ricco di humus favorendo la crescita delle piante. In un angolo c’era diverse piante da frutto in fiore che d’estate mitigavano la calura con la loro ombra. Uno stradello erboso correva lungo l’argine e consentiva di accedere all’abitazione di Francesco anche dal retro.

Laura era all’ombra dell’albicocco, carico di piccoli frutti e pieno di foglie nuove, mentre rifletteva sulla sua situazione. Non era felice non perché fosse triste ma perché il tempo passava e le carrozze non si fermavano davanti alla porta di casa. Passavano e sparivano alla vista, mentre le poche erano carretti malandati o carrozze di malaffare.

Teneva le braccia a proteggere il corpo, quando udì la voce della madre che la cercava.

“Sono qui, madre” disse con un tono alto per farsi sentire. “Sono sotto l’albicocco a riposare”.

“Laura” disse quasi urlando Paola. “Laura, il segretario del Duca vi manda questa missiva e domani al tocco passerà a prendervi. La destinazione è la delizia di Belfiore! Prendete” e le allungò un foglio piegato in quattro e sigillato con la ceralacca.

La ragazza prese dalle mani della madre il messaggio e appariva indecisa se aprirlo o conservarlo chiuso come un ricordo prezioso da non sciupare. Paola rimaneva ferma e decisa di conoscerne il contenuto. Un osservatore l’avrebbe paragonata al falco che artiglia il braccio di cuoio del falconiere pronto a spiccare il volo e ghermire la colomba.

“Che c’è ancora, madre?” chiese con un filo di voce la ragazza, vedendola lì impalata e muta.

“Non l’aprite? Non la leggete?” replicò senza rispondere alla domanda.

“Certamente ma volevo rifiatare. L’emozione mi ha obliato i pensieri”.

Poi con lentezza rotto il sigillo e dispiegato il foglio cominciò a leggere con una leggera fatica, perché ci metteva tempo a focalizzare il senso delle parole. Aveva imparato a far di conto, leggere e scrivere sotto l’occhio attento di suor Lucia, la madre badessa del monastero di Sant’Agostino. La religiosa aveva sperato che Laura prendesse il velo di novizia ma le sue aspettative andarono deluse.

“Madre Lucia, voi sperate che io prenda i voti di novizia ma la vita del monastero non si addice alla mia indole. Amo gli spazi aperti e sopporto a stento le imposizioni dall’alto. Sono uno spirito libero che vuole vivere la sua vita nel rispetto dei precetti della Santa Madre Chiesa. Vado a Messa tutte le domeniche e le feste comandate. Mi comunico ogni settimana e ascolto le prediche di padre Francesco. Alla sera prima di coricarmi dico tre Ave Maria, due Pater Noster e un Confiteor per ringraziare Dio della giornata che mi ha concesso e per rimettere i peccati commessi. Però qui si ferma la mia devozione”. Fu questo il discorso che Laura a quindici anni fece alla badessa per sottrarsi al pressing non troppo velato affinché entrasse nel monastero. La sorella Lucrezia, invece non seppe resistere e abbracciò la vita conventuale.

“Vi prego, non tenetemi sulle spine. Cosa dice il messaggio?” continuò Paola, perché la figlia tardava a rivelare l’argomento della missiva.

“Nulla, madre. E’ un semplice invito a trascorrere il pomeriggio di domani nella delizia di Belfiore in compagnia della corte ducale. Il Duca offrirà un banchetto per onorare il Santo Patrono. Niente di speciale, dunque. Un banale invito” disse arrossendo alquanto per nascondere l’imbarazzo di recarsi a corte, sia pure nella delizia.

La madre, raggiante, non stava più nella pelle e sbottò.

“Come niente di speciale? Un invito a corte e voi lo classificate come se fosse una bagattella. Ma quale colpa devo espiare, per aver partorito una figlia come voi?”

“Madre, è un semplice invito a trascorrere un pomeriggio nella delizia e nulla più. Anzi sono imbarazzata e mi sento inadeguata, perché non ho vesti da indossare adatte all’occasione”.

“Potresti indossare quell’abito con la scolatura a U bianco e blu con quelle scarpine di panno rosso.”

“Ma madre, non mi sembra adeguata all’occasione e alla giornata. E’ leggero per la stagione e poi mostra il petto. Farebbe una pessima figura come se ..”

“Cosa come se ..? Dovete colpire l’immaginazione del nostro Duca e quella veste di lino e mussola fa proprio il caso vostro” replicò decisa Paola.

“Ma è sconveniente! Mostra le braccia nude e poi è troppo scollato. Non sai i commenti degli altri?”

“I commenti malevoli, pettegoli e invidiosi degli altri non importano. Quello che conta è l’opinione del Duca. Questa deve essere la migliore possibile. Dunque veste e scarpe saranno quelle. Ora salgo e la metto ad arieggiare. Domani dovete essere bellissima. Chiamerò la Jolanda per acconciarvi i capelli, raccogliendoli a treccia sul capo”.

“Madre, se lo dite a Jolanda, lo saprà tutta la contrada in un battere di ciglia” disse spaventata Laura.

“E’ quello che voglio. Tutta la contrada di San Paolo deve sapere che Laura, la figlia di Francesco, è invitata a corte per festeggiare San Giorgio” e girati tacchi, rientrò in casa.

La ragazza rifletté a lungo, rileggendo la missiva. Non aveva confessato che l’incontro alla delizia di Belfiore era solo col Duca senza la corte. Di banchetto e festeggiamenti di San Giorgio non se ne parlava minimamente. Però quello che la preoccupava era il tono che non lasciava molto spazio al vero obiettivo: era la sua persona e questo la spaventava molto.

“Se mi chiede di andare a letto con lui cosa devo rispondere? Se è sì, come andrà a finire? Se fosse no, tanto varrebbe rifiutare fin da subito. Non credo di avere molte scelte o frecce nel mio arco ma devo vendere cara la pelle dell’orso. Come? Non lo so. Ora prepariamoci mentalmente all’incontro. Avrò bisogno dell’aiuto di Dio per superare questa prova”.

E si alzò per salire nella sua stanza. Doveva scaldare un po’ d’acqua per un bagno purificatore.

“Domani sarà una giornata difficile”.

Capitolo 18

La vigorosa nevicata di gennaio, l’interminabile gelo di febbraio erano ormai un pallido ricordo e avrebbero costituito l’argomento dei racconti dei vecchi nelle lunghe veglie serali dei prossimi inverni attorno al camino, quando racconteranno come i canali fossero gelati e il Po ricoperto da una lucida lastra di ghiaccio immersi in uno spettrale sfondo innevato. Era stato un carnevale in tono minore, quello terminato il 24 febbraio, perché neve e freddo avevano paralizzato la città, impedendo le consuete manifestazioni di gioia chiassosa nelle vie cittadine. I predicatori in chiesa dicevano che era il castigo divino per i costumi lascivi e disordinati dei suoi abitanti. Una visione dell’aspetto meteorologico differente e divergente tra chi predicava e chi subiva le intemperie di febbraio.

Una bizzarra e capricciosa primavera era subentrata al rigido inverno con un’alternanza di splendide giornate di sole e di corrucciati giorni di pioggia. La natura sembrava apprezzare questa variabilità, trasformando il paesaggio in un tripudio di verde e di colori.

Arrivò un maggio, che fu particolarmente tiepido, tanto che la duchessa Lucrezia si preparò per il consueto trasferimento nella delizia del Belriguardo. Il Duca aveva dato il via libera e il clima era diventato più stabile verso il bello. Tutto congiurava favorevolmente per l’inizio delle vacanze estive, che sarebbero terminate a settembre inoltrato o in ottobre, se il tempo si manteneva temperato e sereno.

Lucrezia con la sua piccola corte di donne, Laura Rolla, Angela Valla, la contessa Strozzi e coi musici e le danzatrici, che avevano allietato le lunghe serate invernali, traslocò in campagna sul barcone fluviale trainato dai cavalli. Era un trasferimento lieto e scanzonato, che durava qualche giorno con soste programmate e altre improvvisate, attraverso la campagna ferrarese. Era un momento festoso e molto atteso dalla Duchessa, che poteva lasciare l’appartamento ducale freddo e noioso per un mondo agreste e rilassante. Era corroborante per la sua salute che peggiorava anno dopo anno.

Nelle stanze del Castello Alfonso riprendeva le abituali attività di governo e gli incontri galanti. Si sentiva libero mentalmente con la partenza di Lucrezia, anche se nessuno poteva imporgli qualsiasi impegno o restrizione. Lui spaziava tra la delizia di Belfiore e quella del Verginese, sfogava la voglia di menare le mani nel boscone della Mesola, andando a caccia di cervi e cinghiali. Però erano gli incontri amorosi che erano al centro dei suoi interessi, quando le guerre non lo catturavano.

Di Laura si era scordato il viso e l’aspetto, inghiottiti dalla coltre nevosa, finché un giorno il segretario non gli ricordò quel lontano impegno.

Adesso aveva altre priorità ma presto ci avrebbe fatto un pensiero.

Giacomo fece ritorno a casa al termine della nevicata non senza qualche difficoltà. Lo aspettavano i rimproveri della moglie e le attenzioni di Ghitta.

“Madonna Isabella” disse presentandosi sull’ora centrale nelle stanze della moglie al suo rientro. “Siete troppo severa nei giudizi. Se avessi potuto, sarei rientrato quella notte stessa. Ma ..”

“Niente scuse” sentenziò acida. “Siete rimasto fuori da questa casa per quasi due settimane, lasciando a me tutti gli oneri di gestirla per assicurare che ogni cosa funzionasse a dovere”.

“Mi sembrate ingenerosa nei miei confronti. Non mi pare che la gestione della casa ricadesse sulle mie spalle”. E azzardò un pensiero su chi governava, anche se ignorava se fosse vero oppure no. “Credo che voi, madonna Isabella, abbiate sempre diretto con mano ferma sia servitori che serve. Avesse scelto i camarieri personali di ognuno di noi. Io mi sono ritrovato Ghitta senza nessuno mi abbia chiesto nulla”. Mentì spudoratamente, perché quella servetta gli garbava e come.

La donna rimase in silenzio, come se Giacomo avesse colto nel segno. Forte di questo successo si accomiatò da lei.

“E ora, col vostro permesso, mi ritiro nelle mie stanze. Sento la necessità di un bagno ristoratore” e si avviò verso la porta.

“Messer Giacomo. Noi abbiamo già pranzato. Mandate Ghitta nelle cucine a vedere se è avanzato qualcosa. Stasera si cena al tocco del vespro”.

L’uomo annuì, accennando un «va bene, manderò Ghitta. Ma non ho molta fame», mentre usciva velocemente dalla stanza.

Aperto l’uscio delle sue camere, trovò Ghitta che lo aspettava sorridente.

“Messer Giacomo! Ben tornato!” e l’abbracciò con molto calore. “Abbiamo sentito la vostra mancanza in questi giorni ..”

“Chi noi?” domandò stupito e un po’ ironico.

“Volevo dire solo io, che non vi ho potuto curare e servire in ogni dettaglio” rispose senza batter ciglio, mentre l’aiutava a togliersi gli indumenti infangati e bagnati.

“Avete necessità di un bagno caldo e di vestiti puliti. Chi vi ha ospitato non vi ha curato come si deve”.

L’uomo sorrise e la lasciò fare. Non c’era confronto con la moglie, fredda, boriosa e ispida come un riccio. Ripensò alle nottate con Giulia e con Ginevra e sospirò, perché era stata una parentesi piacevole e gradevole.

“Messer Giacomo” riprese Ghitta. “Vi sento sospirare come se rimpiangeste qualcosa o qualcuna. Ora siete di nuovo a casa e non dovrete rammaricarvi di quello che avete lasciato”.

“Siete gentile nei pensieri, Ghitta. Ma ora desidero un bagno caldo e poi riposarmi un po’”.

E così fu, anche se il riposo non arrivò subito.

Laura lentamente aveva ripreso le sue consuete attività, quando finalmente aveva potuto mettere il naso fuori della bottega. La strada era un immenso scivolo ghiacciato, percorribile solo a piedi e con cautela.

La visita del Duca era un lontano ricordo dimenticato e impolverato, mentre i vecchi e nuovi spasimanti tornavano alla carica.

Era una ragazza formosa e piena di fascino, che appariva agli occhi di tutti come una torre d’avorio inespugnabile. L’assedio continuava anche se era meno assillante per via delle condizioni climatiche che ostacolavano i movimenti delle persone e delle cose.

La ragazza era serena come la primavera che avanzava a grandi passi. La madre mugugnava non poco, perché passavano i giorni senza che la figlia decidesse di scegliere il partito da sposare.

“Madonna Paola” le diceva il marito. “Se vogliamo maritare nostra figlia dobbiamo sborsare molti scudi d’oro come dote. E non li abbiamo”.

“Messer Francesco, cosa dite! Ci sono facoltosi commercianti che sarebbero disposti a pagare loro molti fiorini pur di avere in sposa la nostra Eustochia! Volete che rimanga zitella tutta la vita? Allora sarebbe meglio che entri in un convento come Lucrezia, sua sorella”.

Il padre scuoteva la testa perché non era d’accordo.

“Nostra figlia è un prezioso aiuto in bottega. E poi la vorrei pensare maritata con qualcuno di suo gradimento e non col primo vecchio bavoso, pieno di lire marchesane”.

“Se è vecchio, tanto meglio. Così diventa vedova ancora giovane e piacente, ereditando il patrimonio del defunto marito” replicò seria la madre.

“Madonna Paola, mi sembrate molto venale! Per fortuna col mio lavoro sono in grado di mantenervi decorosamente”.

“Avete ragione, messer Francesco. Ma Laura rischia di rimanere zitella”.

Erano intenti in questa discussione, che ormai dominava i loro dialoghi, quando entrò un paggio del Duca.

“Messere, è questa la casa di dama Laura?” chiese risoluto, mentre osservava le due persone che stavano in quel momento nella bottega.

“Sì” rispose pronta Paola.

“Ho un messaggio per lei. Domani al tocco passerà la carrozza del conte Bernardino de’ Prosperi per condurla alla delizia di Belfiore”.

“Il segretario del Duca?” domandò stupito Francesco.

“Sì” e consegnò una pergamena sigillata col timbro del conte prima di andarsene.

“E Laura dov’è andata?” chiese la madre e cominciò la ricerca.

Era il 23 di aprile, il giorno di San Giorgio, patrono della città.

Capitolo 17

Laura ammirava sconsolata la grande distesa bianca che aveva ricoperto ogni cosa: la strada come l’orto. Da diversi giorni era confinata in casa tra la bottega e la sua stanza, prigioniera della neve. Doveva condividere quegli angusti spazi coi genitori e il fratello e provava un senso di angoscia e oppressione. Ebbe un’associazione logica con la sorella, Lucrezia, che era suora nel convento di Sant’Agostino.

“Starà bene? Lei dice di sì ma dubito che affermi la verità. Sarà sostenuta da una grande fede ma gli spazi ristretti non aiutano di certo lo spirito. In questi giorni mi pare di essere rinchiusa in convento, dove la madre badessa è mia madre. E non è un bel vivere ma solo un sopravvivere per necessità”.

Non riusciva a comprendere perché la clausura forzosa di questi giorni avesse risvegliato questa associazione di pensiero. Non era la prima volta che una nevicata copiosa l’aveva costretta a vivere nel poco spazio casalingo, dove tutti erano nervosi per via della mancanza di libertà di movimento. Si pestavano i piedi a vicenda, incendiandosi per un nonnulla. Però mai aveva collegato il convento con la casa come questa volta. Ricordava con senso di angoscia, come la partenza della sorella per il monastero fosse stata vissuta in famiglia peggio di un funerale. Da quel giorno nessuno di loro nominava il nome come se fosse stata inghiottita nel nulla.

Per i genitori era morta ma per lei era viva, perché era l’unica in famiglia che a intervalli regolari l’andava a trovare. L’incontro nel refettorio le metteva tormento nell’anima, vedendola vestita da novizia nella veste bianca e la ghirlanda verginale in testa. Lucrezia diceva di essere felice a contatto col Signore, ma a lei pareva triste e impaurita. Non la convincevano quelle parole, pronunciate stancamente, come se stesse salmodiando.

Qualche volta aveva accennato timidamente a Paola le sue impressioni ma non aveva risposto, ignorando le domande. Non capiva questo mutismo, perché, quando andava a messa in San Paolo, il frate predicatore non faceva altro che glorificare le suore dei monasteri di Ferrara, additandole come fulgidi esempi di carità cristiana. Però aveva rinunciato a pensarci, anche perché aveva ascoltato delle voci non propriamente tenere e benevole sulle suore nei conventi.

Le amiche raccontavano che si tenevano dei festini con vino e uomini, mentre le novizie perdevano la loro verginità. Non aveva compreso bene in che modo, perché era convinta che fosse l’uomo a privarle, mentre ke dicerie non includevano l’elemento maschile. Per lei quindi il mistero era fitto e impenetrabile.

“Ma come è possibile?” si domandava incredula. “E’ possibile che questo avvenga per opera di un’altra donna? E come?”.

La curiosità era enorme ma le risposte le apparivano stravaganti. Pertanto Laura non voleva prestare fede a quello che ascoltava e continuava a immaginare il monastero come a un’oasi di pace e spiritualità.

Appoggiata al davanzale della finestra, smise di associare la sua attuale condizione a quello della sorella e si dedicò all’osservazione di quello che doveva essere l’orto, completamente nascosto alla vista. Mentre prendevano forma questi pensieri, che di norma erano relegati in un angolo senza possibilità di uscire allo scoperto, il ricordo della visita del Duca era diventato un pallido ricordo che era sbiadito giorno dopo giorno. Ormai non ci pensava più.

Con un lungo sospiro si staccò dalla finestra e tornò da basso al tavolo di lavoro, anche se ormai non c’era quasi più niente da sistemare. Se non fosse cambiato nulla nei giorni successivi, percepiva il rischio di perdere la testa tra il non far niente e il continuo pensare alla sorella.

Giacomo rimase piacevolmente prigioniero di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro per conquistare l’attenzione dell’uomo. Non si annoiava sicuramente ma provava un senso di ansia perché era sicuro che sarebbe finito in qualche trabocchetto, che avrebbe smascherato la sua presenza anomala in questo periodo.

Lo staffiere era riuscito a raggiungere l’abitazione fuori delle mura per informare i famigliari che stava bene e che era impossibilito a fare ritorno a casa. L’aspetto, che avesse dato notizie alla famiglia, gli risultava indifferente perché non la percepiva come un luogo che gli suscitasse particolari emozioni. Giulia gli assegnò la stanza degli ospiti in un’ala defilata del palazzo, relativamente vicina alla sua e a quella di Ginevra. Questa sistemazione avrebbe consentito alle due donne di raggiungerlo senza dare troppo nell’occhio.

Durante la giornata Giacomo si comportava in maniera irreprensibile, cercando di soddisfare la curiosità dei padroni di casa.

“Siete l’ingegnere idraulico del Duca?” gli chiese a tavola il padre di Giulia.

“No, no. Non sovraintendo agli argini di fiumi e canali. Mi occupo di altro” mentì con la speranza di non dover spiegare le reali mansioni, che ignorava.

“Di cosa vi occupate?” lo incalzò la madre tra una portata e l’altra.

“Beh! il mio è un operato molto riservato. E il nostro Duca non ama che sia divulgato. Mi spiace essere così reticente ma dovete capire la mia posizione” si inventò per tagliare corto su questa discussione, che rischiava di prendere una piega non propriamente felice.

“Oh!” esclamò sorpresa e dispiaciuta la moglie del padrone di casa.

“Madre!” esclamò Giulia che sino a quel momento non era intervenuta. “Messer Giacomo è una persona discreta e riservata. Non ama parlare dei lavori assegnati dal nostro amato Duca. Dunque parliamo d’altro. Gli argomenti non mancano”.

Questo intervento aveva messo fine a una questione assai scivolosa, mentre lui poteva rilassarsi sicuro che non sarebbe stato più toccato.

Si informò sulle origini della casa, scoprendo che erano originari di Verona.

“Gran bella città è Verona” pensando a come la ricordava nella sua epoca. Com’era attualmente lo ignorava completamente.

“No. Ferrara è molto meglio. Il duca Ercole I l’ha trasformata in una città moderna con strade rettilinee e ampie. E’ tutto un cantiere. Anche questo palazzo è sorto da pochi anni. Qui un tempo c’era il mercato del bestiame”.

“Avete ragione. La città sta cambiando forma. Quasi non la riconosco più” aggiunse rinfrancato.

“Ma voi, messer Giacomo, dove abitate?” domandò maliziosamente la madre di Giulia.

“Fuori la mura. Nella tenuta dei Crispi” disse pronto, ricordando di averlo udito da Ghitta. “Io, mio fratello Ercole e le nostre famiglie. Non molto distante dal canale Naviglio. In una bella villa con annessa la chiesetta”.

Giacomo non aspettava altro che alzarsi da tavola per mettere fine allo stillicidio di domande ma doveva pazientare.

“Spero che presto possa togliere il disturbo ..”.

“Quale disturbo?” esclamò Giulia. “Sei un ospite graditissimo con il quale è piacevole discorrere”.

Un sorriso illuminò il viso dell’uomo per l’ennesima ciambella di salvataggio che gli aveva gettato.

Era la sera che era intrigante e gradevole con le attenzioni di Giulia e Ginevra che gareggiavano tra loro con sua grande soddisfazione.