Disegna la tua storia con un’immagine di Etiliyle – Il tramonto

Ho finito di leggere una raccolta di racconti sul mare, scritti da più autori

che potete trovare qui.

Così m’è venuta la voglia di scriverne uno, molto ridotto, che ha come sfondo il mitico paese di Venusia e i suoi abitanti, alquanto bizzarri.

Per prende l’abbrivio mi ricordavo una splendida immagine di Etiliyle. L’ho cercata e la propongo.

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/04/etiliyle-luca-molinari-photo-beach-dark-sunset.jpg?w=685

e adesso buona lettura

Se qualcuno a Venusia sale sulla montagna, un rilievo alto poche centinaia di metri, non vede altro che una calma piatta intorno: la pianura di Ludilandia.

I venusiani pensano che la terra non sia rotonda, perché l’orizzonte è una linea diritta senza curve o gobbe.

Così per loro la montagna è quella piccola gobba adagiata alle spalle di Venusia. Le sue pendici sono ricoperte da un fitto bosco, quello che loro chiamano il Bosco degli Spiriti, e in cima sta il Castello, che appartiene a tutta la comunità.

Per chi osa salire fin lassù vede solo la pianura tutt’intorno e niente altro. Un’altra credenza è che il mare sia un’invenzione di qualche comico, perché per loro il mare è quel gruppo di stagni che stanno a occidente di Venusia. Non vedono altra acqua, a parte quel fiumiciattolo che scorre di fianco la strada che conduce a Ludi.

Il loro orizzonte è limitato. Così la terra è piatta e il mare è un’invenzione di qualcuno per burlarsi di loro.

Quando Ermete ha deciso di raggiungere il mare, i compagni di scopone lo hanno preso in giro alla partenza, dicendo che non l’avrebbe mai visto, perché non esiste. Lui ha mostrato un mappamondo dove il mare è colorato di azzurro e la pianura di verde. Nuove risate e altri lazzi per dimostrare il loro scetticismo.

Quando è ritornato per raccontare la sua esperienza, nessuno ha creduto alle sue parole. Ermete ha mostrato delle fotografie ma loro hanno continuato a dire che sono immagini manipolate con Photoshop. Così si è rassegnato a conservare la memoria del mare dentro di sé.

Proprio oggi in una scatola da scarpe ha ritrovato quelle vecchie, si fa per dire, immagini che documentano che il mare esiste. Ricorda bene il lungo viaggio attraverso contrade mai viste né sentite. Parole che assomigliano al venusiano ma pronunciate con una cadenza diversa. Poi la spiaggia l’ha affascinato con quella sabbia color miele, dove ha notato ombrelloni e lettini variopinti disposti in ordine lungo file parallele.

Quello che l’ha incuriosito di più è stato tutta quella gente nuda, distesa sotto il sole. Lui con le scarpe, i calzoni lunghi e la giacca ha intuito di essere fuori posto in quel luogo. Qui le donne indossano mutande ridottissime e il solo reggiseno, mentre gli uomini hanno i boxer, che lui porta sotto i pantaloni e che mai ha mostrato in pubblico.

A Venusia sarebbero finiti in prigione per oltraggio al pubblico pudore. “Ma ci sono le carceri a Venusia?” si è chiesto osservando quella moltitudine di persone quasi nude.

Ermete sorride a quel pensiero, perché si è informato su quella strana usanza, scoprendo che sulla spiaggia è l’abbigliamento usuale. Qui, gli hanno spiegato, sono visti come diversi le persone come lui, vestite con l’abbigliamento cittadino.

In un angolo della scatola trova un pugno di quella sabbia, che capricciosa si è infilata ovunque. Dentro le scarpe, nelle pieghe dei pantaloni. “Mi è sembrato un delirio eliminarla” ricorda sorridendo. “Ne ho trovato dappertutto, compresi i boxer”.

Però quello che gli è rimasto impresso con nitidezza è stato il tramonto.

Il sole è sceso sempre di più inabissandosi nel verde del mare. Si aspettava che sfrigolasse a contatto con l’acqua ma invece niente. Ha solo incendiato un paio di nuvole in cielo, mentre l’acqua ha cambiato colore. È diventata rossa a strisce. Una vera magia, che nemmeno il più bravo illusionista può realizzare.

La spiaggia si è spopolata con lentezza. Gli ombrelloni sono stati chiusi, i lettini accatastati.

Il silenzio è rotto solo dal suono del mare che come una ninna nanna accompagna le ombre sempre più scure.

Ermete ripone nella scatola questi ricordi e sospira, perché un giorno ripercorrerà quel tragitto per osservare di nuovo la magia del tramonto.

Disegna la tua storia – un’immagine di Etiliyle – lo stagno al tramonto

Una splendida immagine di Etiliyle e delle mie pessime parole a corredo

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/03/etiliyle-riserva-al-tramonto-luca-molinari-photo.jpg?w=685

Immagine tratta dal blog di Etiliyle

A ovest di Venusia ci sono una serie di stagni piccoli o grandi contornati da canne palustri, che spesso nascondono insidie. La riva, occultata dalla vegetazione, cede sotto il peso dei passi dell’incauto che si è avventurato in mezzo, rischiando di rimanere impantanato nel fango. Una situazione sgradevole perché si sprofonda sempre di più se qualcuno non l’aiuta a uscire.

I ragazzini conoscono il pericolo e saggiamente lo evitano ma gli adulti hanno più spocchia e ogni tanto qualcuno ci casca.

Poi in uno stagno c’è una lontra che sembra Arsenio Lupin tanto è inafferrabile. Tutti dicono averla vista ma nessuno ha prodotto le prove della sua presenza. Pino, un ragazzino dagli occhi grandi color nocciola, l’ha vista. Si sono guardati con sorpresa per qualche secondo, prima che lei fosse sparita nel folto del canneto.

“È inutile dire che l’ho incontrata” pensa mentre saltando percorre il sentiero che lo riporta a casa. “Tanto non mi crederebbe nessuno”.

Le canne andrebbero tagliate ma nessun venusiano lo vuol fare, perché gli stagni sono di tutti e di nessuno. E quindi alzano le spalle se qualcuno osa timidamente di accennare al loro taglio per eliminare i pericoli che nascondono.

«Perchè io?» afferma Roberto, alzando gli occhi al cielo. «Non è mica mio lo stagno. Appartiene a Giuseppe».

Giuseppe chiamato in causa scuote il testone riccioluto in segno di negazione.

«Non possiedo stagni» ribatte con un sorriso ironico sulle labbra. «Domanda a Pietro».

E così da una persona all’altra tutti negano di essere i proprietari degli stagni. Però se qualcuno mette nelle vicinanze il cartello ‘Proprietà privata. Vietato l’accesso’ si scatena un putiferio che è difficile da reprimere. Tutti protestano perché Ermete ha piantato il cartello di divieto senza averne i titoli. E la sciarada della proprietà diventa un rompicapo senza soluzione.

Le canne crescono rigogliose, sempre più fitte e lussureggianti per la gioia delle anatre che possono nascondersi ai predatori.

Insomma gli stagni sono abbandonati a se stessi ma i pochi ragazzini di Venusia gioiscono perché nessun può impedire loro di fare il bagno.

Però lo spettacolo è al tramonto quando il sole incendia le canne che si riflettono nell’acqua verde. La superficie acquista tonalità che dal verde diventa rossa per poi virare al nero, quando il sole troppo basso all’orizzonte smorza i toni e fa arrossire le nuvole in cielo.

Disegna la tua storia con un’immagine di Marzia -Una strana fotografia

Marzia di Alchimie mi ha mandato questa fotografia.

immagine inviata da Marzia

È una fotografia particolare ma vi lascio alla lettura.

Buona lettura

Pippo, che in realtà si chiama Ernesto, sta svuotando la casa di zia Gina, che anche lei aveva un nome diverso: Euridice. Sembra una costante ma nessuno della famiglia Nometti è conosciuto col suo vero nome.
Il padre di Pippo era Gino che faceva di nome Olao. La sorella di Gino, nonché zia di Pippo, è la famosa Gina, che morendo gli ha lasciato in eredità il casale di campagna e diecimila pertiche di campi, coltivati a maggese.

Pippo, aprendo l’armadio di noce della camera da letto di zia Gina, si è imbattuto in una scatola per scarpe piena di fotografie che sembrano piuttosto vecchie. Sono tutte in bianco e nero, qualcuna ingiallita, altre con gli angolini, quelli che un tempo si usavano per esporle negli album di famiglia. Altre ancora avevano delle date scritte da una mano femminile.

«È la scrittura di zia Gina?» mormorò, girando il retro di una fotografia di gruppo.

19 agosto 1919’ legge Pippo seguito dal nome della località ‘Venusia’ e dall’elenco delle persone del gruppo ‘Gino, Michele, zia Egle, zio Loris, Anneta, Nino, nonna Tina, nonno Bricco’.

Pippo sorride, perché a parte Gino, che era suo padre, gli altri sono dei perfetti sconosciuti. Stringe gli occhi per osservare meglio il viso di suo padre, che avrà avuto sì e no dieci anni.

«Forse Anneta e Nino sono i miei nonni» ammette a malincuore Pippo, perché in effetti non solo non li ha mai conosciuti ma ne ignora pure i nomi.

Mette a parte questa immagine sbiadita e vecchia di cent’anni e continua la rassegna facendo diversi mucchietti. Le immagini di famiglia a sinistra, quelle con paesaggi al centro e i viaggi a destra. Tutte le altre non catalogate sul coperchio.

Pippo si ferma nella selezione. Ha un sussulto e torna su quella fotografia con bisnonni e nonni e la gira.

«Venusia?» ripete con tono interrogativo. «Ma che paese è? Ma dove si trova? Mai sentito nominare».

Una reazione giustificata per una località che gli è sconosciuta.

Prende il fido telefono e fa una ricerca. Pensa che zia Gina gli abbia voluto tirare un bidone, inventandosi un paese fantasma.

Venusia è un minuscolo paese di Ludilandia, quasi impossibile da individuare sulle carte geografiche. Solo quelle molto dettagliate in scala 1:1000 è riportato dove si trova. Abitanti 369. A zero metri sul livello del mare…

«Ci devo andare» dice Pippo, riponendo l’immagine sul mucchietto famiglia.

Arrivato sul fondo della scatola vede una fotografia singolare, completamente diversa da tutte le altre. C’è una ragazza appesa in alto, in apparenza nuda nella parte inferiore, con la gonna che le copre il viso. La testa è in basso e le gambe in alto come se fossero a cavalcioni di un’asta.

Pippo ride. La posizione è innaturale. Guarda il retro è bianco o meglio c’è il timbro dello sviluppatore con una data. ‘19 ago 2019’.

«Mi prende in giro!» esclama basito Pippo. «Sviluppata oggi?»

Non può credere a quel timbro. Una foto vecchia, senza dubbio vista la grana del cartoncino e i bordi frastagliati, tipici di mezzo secolo prima.

Pippo l’osserva con attenzione. «Come può reggersi su quella traversa sottile col sostegno di una sola gamba?» esclama sorpreso, scuotendo la testa.

“Hanno usato Photoshop per confezionare un fake” riflette cercando di capire chi possa aver messo quest’immagine insieme alle altre.

«l casale di zia Gina è chiuso da almeno cinque anni» dice Pippo, infilando il cartoncino nella tasca interna della giacca. «Un burlone sapendo che venivo ha voluto tendermi un tranello».

Disegna la tua storia con un’immagine di Sabry – Carola o la ragazza che sogna

C’è una nuova entrata tra le muse ispiratrici per disegnare una storia che ha come sfondo Venusia. Sabry ha pubblicato sul suo blog questa immagine e mi è piaciuta.

Buona lettura

Carola è una ragazza, si fa per dire visto che ha venticinque anni, che sogna osservando gli oggetti che la circondano.

Lo era da piccola, che rimaneva per ore a guardare le nuvole in cielo sospinte dal vento che soffia da levante.

È cresciuta ma non ha smesso di sognare.

D’estate quando il vento toglie la calura da Venusia e rinfresca l’aria si avvia verso la fortezza che si erge sulla montagna come un blocco grigio contornato ai suoi piedi dal bosco degli spiriti. Definire montagna quel dosso appena pronunciato sulla piana di Venusia è un bel azzardo. Avrebbe la stessa valenza di considerare quel gruppo di case che compongono il paese una metropoli. Però per i venusiani è la montagna.

Carola nel periodo estivo fa ogni pomeriggio quella passeggiata di tre quarti d’ora attraverso il sentiero che taglia il bosco degli spiriti fino a raggiungere la fortezza.

Si siede sui gradini di ardesia grigia che portano all’ingresso e osserva la pianura. Una piana che si perde sull’orizzonte senza case o strade degne di questo nome.

Osserva il sole che tinge di rosso il cielo e imporpora le nuvole che da bianche cambiano colore. Dapprima rosate poi sempre più rosse. Una meraviglia. Allunga una mano per cogliere quel colore che assomiglia alla sua gonna.

Indugia mentre sogna un mondo diverso ricco di sfumature e di pensieri positivi. Si alza sospirando. Deve tornare prima che le ombre della sera rendano disagevole il sentiero nel bosco.

Non ha paura come la maggioranza dei venusiani ad attraversarlo. Per lei non ci sono spiriti. Né buoni, né cattivi. C’è solo il bosco con i suoi rumori e le sue ombre, gli animali che osservano il suo passaggio e il canto degli uccelli nel folto degli alberi.

La discesa è più rapida della salita e deve arrivare a casa prima che Riccardo, il suo compagno, ritorni da Ludi, dove lavora come grafico.

I raggi del sole filtrano tra le chiome degli alberi e ogni tanto un’apertura tra i rami mostra le nuvole che corrono nel cielo.

Si ferma, solleva il capo e osserva. Sogna di essere sul quel destriero bianco che galoppa nell’azzurro verso mete lontane.

«Chissà dove arriverà?» esclama a bocca aperta con l’aria sognante. «Verso il mare che non ho mai visto ma so che c’è oppure la montagna che qualche volta dalla fortezza ne scorgo le cime più alte?»

Carola riprende a camminare di passo svelto, perché l’oscurità infittisce e la strada da percorrere è ancora lunga.

 

Disegna la tua storia – immagine di Etiliyle – Le nuvole

Giusto con omaggio ferragostano vi delizio – ma sarà vero – con questa storia. L’immagine è di Etiliyle ed è splendida.

https://etiliyle.files.wordpress.com/2019/04/img_20190407_11204021278689794752291104..jpg?w=685

Buona lettura.

Pino ha sempre la testa fra le nuvole e si perde con la fantasia a rincorrerle nel cielo.

Sì, insomma, ha una bella immaginazione. Non che sia un difetto ma qualche volta lo è. Fantasticare fa bene ma non deve esagerare, perché potrebbe capitare, come è capitato, di rischiare di farsi male.

Pino è il figlio di Roberto, che non ha mai sopportato Venusia, senza trovare la forza di tornare a Ludi. Non ci sono molti bambini a Venusia, anche perché quei pochi che nascono, quando cominciano a frequentare le superiori a Ludi, non vedono l’ora di crescere un po’ e abitare là.

A Venusia non esiste nessun tipo di scuola o di asilo, perché sarebbe uno spreco. Bambini in età scolare sono in media una dozzina ma tutti spaiati con l’età. Quindi si radunano in casa dell’uno e dell’altro dove alcuni venusiani, quelli più istruiti, impartiscono le lezioni. Li preparano da privatisti per l’esame di quinta elementare e quello di terza media. A quattordici anni un scuola bus li viene a prendere per condurli a Ludi a frequentare le superiori. Quelli più bravi frequentano anche l’università, ma gli altri cominciano a lavorare.

Pino è uno dei pochi bambini nati a Venusia. Gli altri sono d’importazione. Non sorridete al pensiero che i bambini assomiglino alle mercanzie, perché arrivano coi genitori quando hanno quattro o cinque anni e poi restano lì finché non fuggono a Ludi.

Ci sono due cose che i venusiani faticano a digerire: i neonati e gli animali.

Di animali non ce ne sono molti. Giusto un paio di cani. Di gatti ce ne è uno solo che vive la sua indipendenza con sussiego. Va e viene e difficilmente accetta qualche carezza. Per i neonati la situazione è leggermente complicata, perché coppie disposte a mettere al mondo prole ce ne sono poche e le poche nicchiano alquanto.

Quindi quando Pino è nato da Roberto e Andrea c’è stata una piccola rivoluzione. Non nel senso di rivolta ma di cambio di abitudini. Erano anni che non si festeggiava una nascita e così fu festa grande. Venusia quasi non si riconosceva perché le feste erano abolite da un pezzo.

Tornando a Pino e alla sua fervida immaginazione, bisogna dire che la fantasia lo porta lontano inseguendo le anatre che si fermano nello stagno. Una sera di fine settembre, è appostato tra i canneti a sbirciare il moto delle anatre. Si levano in volo per poi tornare eleganti a posarsi sulle acque placide. Immergono la testa mettendosi a perpendicolo con la superficie. Tutte attività che Pino ha sempre osservato. Però questa sera sembra che ci sia più movimento e le anatre appaiono inquiete come se avvertissero un pericolo.

Il ragazzino si avvicina ancora di più verso l’acqua per osservare meglio i movimenti, quando… Splash cade in acqua e le anatre volano via starnazzando “Quac, quac, quac”.

Pino annaspa cercando di riguadagnare la riva, quando una mano robusta lo agguanta riportandolo sulla terra gocciolante.

«Pino, ti è andata bene» dice una voce familiare, mentre lui arrossisce sputando l’acqua ingoiata.

“Domani nella battaglia pensa a me”

Il post che pubblico era stato pensato per un contest che scade domani. L’unico vincolo posto era che il racconto di 3500 battute doveva finire con la frase “Domani nella battaglia pensa a me”.

Oggi ho deciso di non partecipare per un dettaglio del regolamento che riporto integralmente.

DIRITTI D’AUTORE: gli autori, per il fatto stesso di partecipare al concorso, cedono il diritto di pubblicazione in ogni tipo di formato al promotore del concorso senza aver nulla a pretendere come diritto d’autore. I diritti rimangono comunque di proprietà dei singoli autori. Eventuale materiale inviato non sarà restituito e resterà a disposizione degli organizzatori per l’utilizzo a fini promozionali.L’ammissione al concorso implica infatti l’accettazione dell’utilizzo, della pubblicazione e della diffusione della propria opera sia in luoghi pubblici che privati con ogni mezzo attualmente conosciuto (a mero titolo esemplificativo: tv, radio, internet, telecomunicazioni, sistemi analogici e/o digitali, on line e off line) o che verrà inventato in futuro, in tutto il mondo, sia unitamente al contest contest “PODCASTORY –Domani nella battaglia pensa a me” (anche al fine di attività di comunicazione e promozione dell’evento delle edizioni successive) sia collegata a future attività degli organizzatori a favore della propria utenza. Tutto ciò senza ricevere e/o pretendere alcun corrispettivo a proprio favore, essendo ogni pretesa dell’utente soddisfatta dall’opportunità di partecipare.

In pratica conservo i diritti ma non li posso sfruttare.

Quindi ho pensato bene di pubblicarlo qui.

Buona lettura.

tratta da wiki commons – licenza Creative Commons 4.0 – riproduzione in scala della piana di Waterloo. autore Chris Mckenna

A Venusia le feste non sono mai gradite, diciamo sopportate. Quindi il Carnevale passa quasi inosservato ma neppure Natale o Capodanno sfuggono alla regola.

A Venusia ognuno fa gli affari suoi senza mischiare il diavolo e l’acquasanta. I venusiani sono personaggi strani ma Roberto lo è doppiamente.

Quando qualcuno si chiede il motivo, dovete sapere che Roberto è arrivato per sbaglio a Venusia. Aveva solo cinque anni e da allora è sempre rimasto a Venusia. Solo per sbaglio? Calma e gesso se avete la pazienza di leggere le spiegazioni, altrimenti fate come volete.

Venusia è un piccolo puntino anonimo nella vasta pianura di Ludilandia. I suoi abitanti vivono nel loro minuscolo mondo e oltre alle feste non amano i bambini ma nemmeno gli animali. Ne nascono pochi, perché non sopportano i loro pianti da neonati, dover cambiare i pannolini e tante altre amenità del genere.

«Inquinano» affermano in coro i venusiani per giustificare il loro ostracismo. «E poi costano una fortuna mantenerli».

Così quei pochi che nascono, più per un errore materiale che per l’amore tra una coppia, una volta adulti scappano a Ludi, la capitale della regione. Non tutti per amor di verità ma gran parte. Alcuni restano, qualcuno arriva al seguito dei genitori.

Sembrerà strano ma se i giovani scappano, gli adulti arrivano. I rari viaggiatori che tornano da Venusia, una volta a Ludi ne decantano i pregi.

«È un posto da favola» spiegano convinti. «Si vive tranquilli. I ritmi sono lenti. Niente stress».

Non solo questo. Aggiungono: «Con poca spesa si vive molto meglio che a Ludi».

Quindi qualche famiglia, stanca dei rumori di Ludi e delle difficoltà di vivere, decide di trasferirsi a Venusia. Dapprima prendono in affitto una casa e se si trovano bene con pochi venusi la comprano. Non mancano le buone occasioni e l’offerta supera di gran lunga la domanda, facendo rimanere basso il prezzo. Sono case basse di legno e mattoni col giardino davanti e l’orto sul retro.

Quando Roberto è arrivato a Venusia, anche se aveva solo cinque anni si è messo di traverso, perché doveva giocare senza compagni. Questo lo scocciava non poco. Era felice perché fino a quattordici anni la scuola era in casa. Non esistono scuole a Venusia per mancanza di materia prima. Poi se qualcuno vuol continuare, deve fare il pendolare con Ludi dove si trovano le superiori e l’università.

«Quando sono grande» aveva promesso Roberto col cipiglio dello scontento, «me ne torno a Ludi. Qui pare di essere in prigione».

Roberto è diventato grande: lo scontento non è mai passato ma non è mai andato via da Venusia. Ha trovato l’anima gemella che sopporta la sua malinconia e le sue paturnie. Lui col muso lungo e lo sguardo torvo, lei solare e sempre allegra. Come abbiano potuto fare coppia, è un mistero per tutti i venusiani. Da loro è nato un bel bambino, Pino, che adesso ha dieci anni. Roberto, tanto per mostrarsi diverso dagli altri, adora il figlio e gli ha trasmesso la curiosità di conoscere la natura. A differenza degli altri venusiani non frequenta Sghego, l’unica osteria del paese. Odia giocare a carte ed è astemio. Preferisce curare l’orto e lavorare il legno con molta abilità. Intaglia mobili e altri oggetti, che vende ai venusiani per pochi venusi. Il costo della materia prima. Da qualche mese sta lavorando a creare un esercito di legno. Man mano che comandanti e soldati sono pronti, li dispone con cura su un tavolaccio che riproduce la piana dove si è svolta la battaglia di Waterloo con l’esatta disposizione dei due eserciti contrapposti.

Roberto ha lasciato per ultimo Napoleone, che sistemato sul campo di battaglia urla soddisfatto: «Domani nella battaglia pensa a me».

Un'emozione indelebile: la prima guida

tratta dal web - Conceptcarz.com
tratta dal web – Conceptcarz.com

Avevo quasi diciotto anni quando ho imparato a guidare l’auto con tutta l’incoscienza di quell’età.
Erano i primi anni sessanta; le vacanze estive iniziavano all’incirca a metà giugno per terminare a ottobre, quasi quattro mesi senza fare niente. Era un tempo infinito tra calura e noia. Così molti noi si erano trovati un’occupazione estiva che da un lato riempiva una parte del tempo, dall’altro permetteva di mettere in tasca qualche liretta, che non faceva mai male.
Anch’io non ero sfuggito alla regola. Mentre alcuni andavano in campagna a raccogliere la frutta e altri lavoravano nello zuccherificio della zona, io andavo a lavorare nel distributore di benzina di zio Lino. In realtà non si chiamava così. Però per me era sempre stato lo zio Lino, anche se scoprì qualche anno più tardi che il suo vero nome era un altro: Olindo.
Dalle mie parti è sempre esistita una curiosa usanza, che consisteva nel dichiarare all’ufficiale dell’anagrafe un nome, del quale appena il padre era uscito se ne perdevano le tracce. I nomi non erano i soliti, ai quali siamo abituati, come Paolo, Mario, Anna, e così via. Ma reminiscenze scolastiche come Penelope, Laerte o per i melomani Aida, Radames oppure quelli pseudo esotici Widmer, Wilmer. Però avveniva anche un’altra curiosità, che era meno spiegabile del caso precedente. Il nome anagrafico era tradizionale ma era sostituito da un altro. Per cui un Paolo diventava Vittorio senza nessuna spiegazione logica. Nessuna intenzione di produrre la lista delle varianti ma una semplice casistica, perché la fantasia non aveva limite.
Come d’incanto dunque i neonati assumevano sembianze umane, come se al momento della nascita non lo fossero. Da quel attimo topico dell’uscita dall’ufficio anagrafe credevano di chiamarsi coi nomi standard, come tutti i comuni mortali. Poi scoprivano al momento del matrimonio che il loro vero nome era di tutt’altro genere. Un alzata di spalle accompagnava la scoperta, che ignoravano fino al momento del trapasso. Ma questo oramai non aveva più alcuna importanza, a parte il necrologio. Ferrari Radames detto “Gino”. Quindi anche lo zio Lino non era sfuggito a questa consuetudine. Per me è rimasto sempre lo zio Lino.
Visto che siamo in argomento accenno a un’altra curiosa abitudine: quella degli Scutmâj ovvero di identificare una persona con un sopranome, il più delle volte curioso e inspiegabile. Diciamo che erano i nickname ante litteram. Anche in questo caso il vero nome, di norma tradizionale e banale, si perdeva nella notte dei tempi per riaffiorare come d’incanto sull’annuncio funebre affisso all’angolo della strada.
Ma torniamo a quella lontana estate. Il distributore dello zio Lino era situato in una posizione altamente strategica. Di autostrade non se ne parlava e tutti percorrevano le statali che collegavano le varie città. Dunque da quel punto passava tutto il traffico dei turisti tedeschi, austriaci, olandesi che dal Brennero e dal Tarvisio raggiungevano i luoghi di villeggiatura lungo l’Adriatico. In luglio e agosto il lavoro non mancava, anzi spesso c’era un ingorgo pauroso.
Naturalmente mi facevo bello col mio tedesco scolastico, distante anni luce da quello parlato realmente, mentre loro rispondevano in un italiano degno di Sturmtruppen del mitico Bonvi. Sembrava di assistere alle comiche di Ridolini. Però in compenso sganciavano sempre la mancia dopo ogni rifornimento con mia grande soddisfazione per questo guadagno extra.
Il distributore aveva un enorme piazzale sempre ingombro di auto e camion. C’era anche un punto per il lavaggio delle autovetture. Un uomo mingherlino e minuto, che ho conosciuto come “Pipi”, era l’addetto a lavare le macchine. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché l’ho sempre sentito chiamare così.
Poco distante stava una baracca di legno verde, dove vendevano gelati Alemagna, granite colorate e angurie, di modeste dimensioni, rotonde, che adesso sono state sostituite da quelle oblunghe enormi senza sapore. C’era sempre la coda a comprare qualcosa. Le granite erano preparate all’istante macinando pezzi di ghiaccio staccati da enormi stecche che un camioncino portava due o tre volte al giorno. Poi venivano colorate con gli sciroppi Toschi alla menta, al lampone o al limone. Io preferivo quella alla menta, che trovavo dissetante.
Pipi era un lavoratore infaticabile, perché a volte sembrava un automa. Prendeva la macchina da lavare tra quelle parcheggiate sotto il sole implacabile di luglio, la metteva sull’elevatore all’interno del modulo in muratura, la lavava, la riportava nel punto dove io e l’altro ragazzo provvedevamo ad asciugarla, non prima di una sgommata e relativa brusca frenata per asciugare i tamburi dei freni. E questo decine di volte al giorno con regolarità da cronometro svizzero,
Un giorno mancavano poche settimane ai diciott’anni mi disse: “Metti questa al posto di quella che prendo” e mi allungò le chiavi. Io lo guardai sgomento, mentre le chiavi sembravano di fuoco sulla mano e la testa cominciava a ribollire come un pentolone sulla fiamma per l’agitazione di fare quei cinque metri che dividevano i due posti. Sono stati i cinque metri più lunghi della mia vita, perché sembravano cinquemila chilometri. Avviato l’auto, a balzelloni, come se stesse facendo la danza del ventre, parcheggiai la cinquecento rossa nel posto designato. Avevo fatto un’autentica doccia di sudore, tanto ero bagnato per il terrore di sfasciare qualcosa. Dopo tre o quattro tentativi con relativo spegnimento del motore, riuscì a compiere le successive operazioni senza intoppi, mentre la macchina docile come un agnellino percorreva quei pochi metri prima di essere parcheggiata.
Il passo successivo fu quello di portare fuori dal lavaggio l’auto per portarla nel buco lasciato libero da quella prelevata da Pipi: un’operazione svolta con precisione e sicurezza. Le vampate di calore per l’agitazione stavano diventando un pallido ricordo.
Infine il ciclo completo: prelevavo l’auto da lavare, la mettevo sull’elevatore, avendo cura di centrare con precisione i bracci retrattili, la riportavo fuori ad asciugare.
A parte le prime volte che sentivo il cuore battere come la grancassa della marcia di Radetzky, poi percepivo un senso di appagamento, di essere leggero come una piuma, di non provare emozione alcuna.
Pipi possedeva una vecchia Topolino, che adesso farebbe la gioia di molti collezionisti, sempre perfetta e oliata. Mi consentiva, nei rari momenti di relax, di fare qualche giretto nel piazzale sempre guardato a vista per non combinare guai.
Un giorno disse: “Vieni con me. Andiamo al deposito a prendere delle lattine di olio”. E mi mise in mano le chiavi della Topolino, mentre si sedeva lato passeggero. Lo guardai storto e preoccupato, perché un conto era girare in un piazzale fra macchine ferme a bassa velocità ma fare una decina di chilometri in mezzo al traffico cittadino era ben altro affare. Inoltre non avevo un benché minimo straccio di documento che mi autorizzasse a circolare su strade pubbliche.
Nonostante le mie rimostranze fu irremovibile e molto incosciente, perché non aveva la minima idea di come avessi potuto reagire di fronte a una situazione di pericolo oppure intricata.
La Topolino aveva una particolarità, come molte delle auto della sua epoca. Per cambiare marcia serviva la famosa “doppietta” ovvero un leggero tocco dell’acceleratore per consentire agli ingranaggi di sincronizzarsi senza udire quel terribile rumore di ferraglia detta in gergo “grattata”. Eseguita senza l’assillo del traffico mi riusciva abbastanza bene in virtù di una certa sensibilità uditiva e tempismo coordinato, frizione – cambio. Però adesso ero ansioso e nervoso con la testa in fiamme, un senso di angoscia che mi premeva sul petto per la paura che un vigile mi fermasse per un controllo, mettendomi in galera.
Percorsi poche centinaia di metri, tutte le ansie e le paure erano svanite, dissolte come la neve al sole, mentre con somma incoscienza andavo verso un punto critico che non avevo preso in considerazione. C’era da passare un sottopasso, dove al termine della risalita era posto un semaforo, che creava code infinite. Se avevi fortuna, trovavi il via libera senza fermarti, ma poiché la sfiga ci vedeva benissimo, apparve un bel rosso fuoco con l’auto a metà salita. Panico, nervosismo, angoscia erano le prime avvisaglie che penetravano nella mia testa, perché sapevo che col verde sarebbe stata la catastrofe.
Lo guardai con aria interrogativa, mentre lui disse serafico: “Tacco e punta. E tutto andrà bene”.
Tacco e punta?” replicai con la bocca secca e arida come il deserto del Sahara.
Si” proseguì tranquillo e sereno “Tieni pigiata la frizione con la marcia innestata, metti la punta del piede destro sul freno e il tacco sull’acceleratore. Quando viene il verde lasci la frizione dolcemente e accelera col tacco, prima di togliere la punta dal freno”.
Detto così sembrava tutto facile, ma per me, in preda al panico e con le mani strette al volante, era come scalare l’Everest. Naturalmente fu un flop colossale, perché riuscì a spegnere anche il motore con il concerto di clacson dietro di me che non finiva più. A balzelloni e a strattoni dopo due verdi persi per colpa mia riuscì a superare l’ardua salita, accompagnato da insulti e maledizioni di decine di automobilisti inviperiti.
Arrivati a destinazione, senza altri inconvenienti, mi sembrava di essere uscito dalla doccia senza asciugarmi, tanto ero sudato per l’agitazione. Avevo la testa svuotata da ogni pensiero, che si erano nascosti subdolamente in qualche angolo remoto, e la pressione arteriosa a livelli pericolosi. Poi queste sensazioni svanirono per incanto, perché la soddisfazione intima di avere guidato senza provocare danni, salvo le maledizioni di qualcuno, e per giunta in maniera impeccabile era veramente enorme.
Il viaggio di ritorno filò tutto liscio, perché il terribile sottopasso, affrontato in senso inverso, era totalmente innocuo per l’assenza di un odioso semaforo nella rampa di risalita.
Per quell’anno non ci furono altri esperimenti di guida senza rete, né a rischio di infarti, a parte i soliti giretti nel piazzale. Coi soldi guadagnati sotto il sole cocente a riempire di super tanti serbatoi o asciugare faticosamente delle auto lavate mi ero pagato l’autoscuola e le relative lezioni di guida. Ovviamente le guide erano più rilassanti, con l’appendice di un documento rosa che mi abilitava a condurre un’auto.
L’idea di guidare significava molto per me, perché ero convinto che avere la padronanza di un’auto mi aiutasse a crescere e maturare psicologicamente e una maggiore consapevolezza dell’importanza della propria vita. Non potevo permettermela, perché costava troppo, ma per la guida dovevo ringraziare Pipi, che consciamente o incoscientemente mi aveva consentito di memorizzare movimenti e di valutare spazi e tempi nel condurre una macchina.

Elena world's

Tratto da ilturista.info
Tratto da ilturista.info

L’azzurro del cielo impallidiva, accecato dal sole di luglio che da giorni picchiava duro. Nei giorni scorsi la temperatura aveva sfiorato i quaranta gradi e il vento era una lama rovente. Nella giornata odierna non sarebbe arrivato nulla a mitigare il clima. Questo lo sapeva anche Elena, quando si avviò verso l’Università. Indossava un vestito leggero di lino bianco e calzava dei sandali bassi. I capelli raccolti dietro la nuca. Occhiali da sole per attenuare il riverbero della luce violenta di luglio.

Per lei oggi era importante: il giorno della laurea, attesa da cinque anni. Il 16 Luglio 2004 si sarebbe laureata in lingue con una tesi tutta in inglese sui grandi poeti britannici. Era stata preparata con cura nei mesi precedenti in tutti i dettagli, compresa la pronuncia. Per migliorarla aveva trascorso a maggio tre settimane a Londra. Un full immersion nello spirito british. Che magnifica vacanza! Quanti ricordi piacevoli! Non era la prima volta che andava all’estero. Era stata con gli amici in Grecia e in Croazia, con un gruppo di studenti di lingue a Malta e Monaco di Baviera in un progetto di scambio tra università europee. Però mai le era stato permesso di fare un viaggio fuori dell’Italia senza il contorno di persone conosciute e fidate. Questa volta ci andava sola soletta senza accompagnatori o guardie del corpo,

I genitori non avevano visto di buon occhio queste tre settimane da affrontare senza il supporto di persone affidabili. Non erano propensi, perché, secondo loro, lei avrebbe rischiato di incappare in mille pericoli. Pensavano che una giovane ragazza di ventitré anni avrebbe fatto chissà quali e quanti brutti incontri in una grande metropoli piena di insidie. Stupri, violenze, sequestri e, mah!, quant’altro ancora. Elena invece era eccitata e non vedeva l’ora di imbarcarsi per Londra. Anche il viaggio in aereo era per lei una novità. Insomma quante nuove esperienze erano concentrate in queste tre settimane!

Era arrivata la prima volta anche per lei… Inghilterra e Londra, una città, vista finora nelle cartoline e basta, un autentico mito. Racconti fantasiosi, meraviglie da esplorare e gustare. Erano gli ingredienti delle narrazioni di chi c’era stato o millantava di esserci andato. Tuttavia era difficile spiegare a un osservatore esterno, cosa provava alla vigilia della partenza Elena, una laureanda in lingue, che raggiungeva un sogno cullato da molti anni.

Il battesimo del volo andò benissimo senza problemi o apprensioni particolari. La partenza non le mise i brividi, come Giulia, un’amica, le aveva detto. Si sentì proiettata verso il cielo, mentre la terra si allontanava sotto con rapidità. Le Alpi dai colori scuri, macchiate qua e là da puntini bianchi. Il verde dei boschi della Francia. Un braccio di mare, superato in un baleno. Poi la picchiata verso Heathrow. A terra le fece impressione l’aeroporto, immenso e pieno di gente di tutte le razze e nazionalità, dove era facile perdersi nei corridoi, punteggiati di ricchi negozi. Un autentico porto di mare, che dista un quarto d’ora da Londra Paddington, prendendo Heathrow Express. Durante il trasferimento in treno ebbe modo di conoscere e apprezzare la verde campagna inglese. A maggio è nel suo massimo splendore. Gliene avevano parlato ma la vista superò di gran lunga le descrizioni. Sarebbe stato difficile esprimere con parole quello che lo sguardo vedeva.

Aveva prenotato una camera in un hotel nel centro a Londra. Giunta a Paddington doveva prendere due metrò, i famosi “tube” londinesi, scendendo a Bond Street. Il primo impatto con questi mitici mezzi di trasporto fu forte, perché sono diversi dalle U-bahn di Monaco di Baviera, bianche quasi asettiche. Qui erano tutto un colore dagli ingressi alle carrozze. Era impossibile il paragone con la metropolitana romana, sporca e asfissiante per il calore. Sotto la superficie di Londra si respirava aria pulita e fresca. Già da subito aveva cominciato ad amare questa città. L’impatto l’aveva stordita favorevolmente.

Scesa a Bond Street, Elena camminò col naso all’insù per la curiosità di osservare tutto quello che la circondava. Una breve passeggiata la condusse in Manchester Street, dove stava l’omonimo hotel. Quello che per tre settimane sarebbe stata la sua casa. L’albergo era carico di anni. Un grazioso edificio del 1919 in mattoni rossi, piccolo e raccolto, vicinissimo a famosi locali di attrazione e di shopping, a due passi da Regent’s Park e dalle sponde del Tamigi.

Era mattino inoltrato, quando si presentò alla reception del Hotel per espletare le incombenze della registrazione. Elena scalpitava per tornare fuori, per conoscere Londra. La stanza non era grande ma comoda e funzionale. Deposti i bagagli, una breve rinfrescata, un cambio di vestiti per stare più comoda e via per le strade di Londra a fare la turista. La giornata odierna l’avrebbe sfruttata per fare conoscenza con questa città, che amichevole le stava dando del tu. Dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, perché doveva frequentare la scuola per perfezionare la sua dizione e per approfondire le basi grammaticali e sintattiche.

Al termine del secondo giorno le era bastato per capire che tre settimane non sarebbero state sufficienti per godersi Londra nella sua interezza.

La scuola ospitava circa ottocento studenti, provenienti da oltre sessanta paesi. Tutti impegnati a rifinire la loro pronuncia e la conoscenza della lingua.

Una babele di idiomi e persone diverse tra loro per cultura e abitudini. Elena si guardò intorno smarrita. ”Non mi basteranno le tre settimane per conoscerli tutti!”.

Il pacchetto che aveva scelto prevedeva, oltre a dieci ore di intenso studio in aula, anche molteplici attività. La giornata cominciava presto e finiva tardi senza un attimo di sosta. Una frenesia senza fine. Tra queste l’aspettava la gita in barca sul Tamigi, visitare monumenti e musei, trascorrere alcune serate al pub insieme ai compagni. Tuttavia non era tutto, perché nei momenti di libertà, pochi a dire il vero, voleva andare in giro per la città a fare shopping.

La gita sul Tamigi fu emozionante ma non solo. Fu un qualcosa che superò la sua immaginazione. Aveva pensato, leggendo il depliant che fosse la solita uscita su un barcone, come talvolta le era capitato d’estate sulle spiagge del Gargano. In realtà l’enorme imbarcazione, che solcava lentamente un fiume sporco e grigio, sembrava più una discoteca semovente che la classica barca turistica. Ragazze e ragazzi ballavano sotto raffiche di musica sparate a mille watt tra luci al laser e ombre cinesi, intervallate da una breve sosta nel capiente ristorante posto nella parte superiore. Musica, birra, allegria mescolate tra loro come ingredienti di una torta della nonna accompagnarono questa serata speciale, tanto che per molti mesi a Elena rimase stampata nella sua mente, mentre faceva il resoconto agli amici.

Come conviene in tutte le aule scolastiche, Elena aveva stretto amicizia con un gruppetto di ragazze e ragazzi di colore e razze diverse, con cui trascorreva gran parte del suo scarso tempo libero. Per magia scoccò quell’empatia che rende familiare la vicinanza e l’affiatamento, nonostante le palesi differenze esistenti tra loro di linguaggio e cultura. Però lo stare insieme, il trascorrere le ore libere in gruppo cementò la loro amicizia, superando tutte le diversità e le barriere culturali e religiose.

Purtroppo, come tutte le cose belle, anche queste tre settimane finirono. Anzi volarono via in un baleno. A Elena sembrò ieri di essere atterrata a Heathrow. ”Tutte le esperienze, che per un attimo ti portano via dal mondo in cui vivi, ti restano per sempre nel cuore” si disse, mentre preparava il bagaglio per tornare a casa. “Al di là del posto in sé, che alla fine resta lì immutabile, si può tornare sempre a Londra. Ma per quanto si possa pianificare il ritorno, non sarà mai come queste tre settimane. È il momento che conta, sono le persone che incontri, che costituiscono almeno il 70% di ciò che vivrai. La stessa cosa è stata per i miei due mesi a Monaco di Baviera, le mie tre settimane a Malta. Niente sarebbe stato senza le persone che hanno incrociato il mio cammino”.

Il rientro fu con tanti rimpianti e molti abbracci. “Scrivimi” fece col gruppo di amici, ben sapendo che dopo un po’ i contatti si sarebbero sfilacciati. ”Alla prossima volta, Londra!” disse mentre l’aereo si staccava da terra.

Le giornate di esercizio con la lingua, con le prove di esposizioni, con le registrazioni della sua voce riempirono i giorni che mancavano alla laurea. Il 16 luglio Elena festeggiò con i genitori e gli amici il traguardo raggiunto.

Era felice ma preoccupata, perché sarebbe cominciata la parte più difficile della sua vita. Finita la sbornia dei festeggiamenti, delle meritate vacanze senza il pensiero degli esami autunnali, si domandò inquieta e smarrita: ”Che lavoro intraprenderò?”

I genitori premevano, affinché lei trovasse un’occupazione nella scuola. Questo non era il suo pensiero e nemmeno l’obiettivo a breve. La domanda continuava a ballare nella testa di Elena. Si piegò malvolentieri alle loro pressioni e presentò alle scuole medie e superiori, disseminate nel Gargano, la domanda per insegnare lingue (inglese o tedesco). Non aveva molte speranze, che fossero accolte. Anzi in cuor suo avrebbe voluto che la chiamata non arrivasse mai. Invece, ironia della sorte, le diedero un incarico annuale in una scuola media di un paesino non molto distante da San Severo, dove risiedeva. Accettò a denti stretto solo per accontentarli.

Iniziò a insegnare.

L’anno scolastico fu travagliato, perché non riuscì a tenere a bada quei ragazzini, che la mettevano in difficoltà nonostante avessero solo dodici anni. Finii a giugno stremata e stressata. La sua corporatura già esile di per sé divenne ancora più diafana. Era sull’orlo di una crisi depressiva. Durante i mesi estivi cancellò dalla mente la scuola, sperando che il nuovo anno cominciasse senza di lei. Avrebbe avuto la scusa valida per dedicarsi alla ricerca di un lavoro, che lei definiva “serio”. Le sue preghiere non furono esaudite e si ritrovò con un altro incarico in un paesino della provincia di Foggia.

Se il primo anno fu angosciante, il secondo fu un’esperienza terribile. Quei ragazzini erano davvero delle pesti e i genitori ancora di più. Aveva degli incubi notturni e, quando prendeva la macchina per arrivare a scuola, era preda di attacchi di panico. Sull’orlo di una crisi di nervi, decise di cercare un posto come receptionist in uno dei tanti hotel della costa pugliese e di chiudere l’esperienza disastrosa nella scuola. Non ci pensò due volte: alla conclusione dell’anno scolastico sarebbe partita la ricerca. Addio scuola. Addio ragazzini pestiferi e mortiferi. Addio genitori invadenti e permalosi.

Non fu facile ma, come tutte le esperienze di ricerca di lavoro, le permise di acquisire esperienza nel trattare con le persone. Fece numerosi colloqui, conobbe molti albergatori e alla fine fu premiata. Un hotel, che lavorava prevalentemente con clientela straniera, praticamente tutto l’anno, la assunse in prova, vista l’ottima conoscenza del tedesco e dell’inglese.

Così terminò la sua carriera di insegnante e iniziò quella di receptionist.

L’hotel era molto grande e dotato di molte risorse: dalla piscina alla palestra, dalla sauna al kindgarten, dagli animatori agli insegnanti di ballo. Si trovava sulla costa, nella zona di Peschicci, ed era un grande edificio con annessi bungalow e piccole costruzioni destinate al divertimento in tutto immerso nel verde.

Le erano stati offerti due locali con bagno nel seminterrato dell’edificio principale, dove all’occorrenza poteva trattenersi per la notte o riposarsi durante le pause.

All’inizio non pensava che dopo il periodo di prova la confermassero, perché aveva pasticciato in più di una occasione ma con suo grande stupore e gioia le dissero che sarebbe rimasta.

Il personale era numeroso anche nei momenti di maggiore calma, perché era come un minuscolo villaggio. Con alcuni di loro legò fin da subito, con altri i rapporti rimasero freddi e distaccati.

Col primo stipendio si fece un regalo: un bel portatile su cui scrivere tutto quello che le passava per la mente tanto da diventare il suo compagno fidato e inseparabile.

Questi sono stati i suoi primi appunti.

L'innocenza colpevole

da visionarium-3d.com
da visionarium-3d.com

Con questo atto suggello la mia innocenza colpevole, che, sebbene fino all’ultimo non poté essere provata, perlomeno affrancherà e santificherà il mio spirito. Mi libererà da un pesante fardello: quello di sapere di essere innocente e colpevole allo stesso tempo. Sono io l’assassina di Cassandra. Era un angelo, che ho dissolto nell’aria. Quando? Non lo rammento ma sicuramente il ricordo si perde nella notte del tempo. Sì, sono io la donna che gli amici, i parenti, i conoscenti cercano giorno e notte. Tra affanni e voglia di vendetta. Ebbene sì, ho ucciso Cassandra! Sono la persona che dovete incolparsi, perché solo a me spetta l’amaro onere del titolo di omicida. Tuttavia, mentre il sangue mi scorre via impazzito e macchia questo biglietto di addio, c’è una cosa che devo ancora dire a mia discolpa”.

Era maggio 2012. Il cielo era pulito senza una nuvola. Il sole picchiava duro. Faceva troppo caldo per non essere ancora estate. La terra si era seccata e spaccata, perché la pioggia tardava a venire. L’erba intorno al casolare nella campagna emiliana stentava a crescere, diventando gialla e secca.

Si erano date appuntamento in quella casa rurale dai muri scrostati e dagli interni che odoravano di chiuso e di muffa.

“Vieni alle cinque del pomeriggio” aveva detto.

“Ci sarò” le rispose.

Rebecca non aveva un’idea sui motivi dell’incontro ma la curiosità era forte. Quando arrivò, Cassandra non c’era ancora. Una zaffata di abbandono e di aria viziata la avvolse. Aprì le finestre per fare entrare l’afa del pomeriggio.

“Sempre meglio di questa puzza” si disse.

Girò per le varie stanze per ingannare il tempo che non passava mai. Aspettò a lungo l’arrivo di Cassandra. Il sudore le aveva appiccicato la camicia di lino al corpo, mostrando che non aveva nulla sotto. La vide arrivare in bicicletta coi capelli rossi al vento.

Rebecca le aprì la porta per farla entrare. Si accomodarono in quella che una volta era la cucina. Un tavolo sporco di polvere, tre sedie rustiche e impagliate, una vecchia stufa economica arrugginita, una madia con uno sportello di sghimbescio e tante, tante ragnatele.

“Siediti” le disse imperiosa, indicando la sedia.

“Perché siamo qui?” le chiese.

“Sei troppo curiosa. Sii paziente e lo saprai”.

Rimanerono in silenzio, finché non udirono dei passi all’esterno. Rebecca si voltò verso la porta ma non fece in tempo a voltarsi. Non poté vedere chi stava entrando. Cassandra le legò le mani dietro lo schienale e le mise un bavaglio sulla bocca. Non poteva muoversi ma poteva ascoltare. I passi si fermarono alle spalle mentre lei si dispose davanti.

“Ti aspettavo” disse con voce ferma.

“Sono venuta” rispose una voce sconosciuta.

Una breve pausa mise termine quello scambio di battute. Rebecca non capì chi fosse. Le sembrava una voce che provenisse dall’oltretomba.

“Allora si comincia. Hai paura?” le chiese la donna.

“No. Sono serena” replicò ferma Cassandra.

Rebecca si domandò cosa avessero in mente le due donne ma non poteva parlare. Il bavaglio le impediva di dire una sola parole. Era costretta a sentire le loro voci.

Non è un’apologia della morte di Cassandra. Non è nelle mie intenzioni. Troppo tempo è passato e voglio svelare una verità che è rimasta sepolta, mezza fuori e mezza dentro, ignorata e marcita nei meandri di me stessa per tutti questi anni. C’era dunque una persona con noi. Una donna sconosciuta. Udì solo la voce ma la riconoscerei tra milioni di uomini. Un diavolo torvo, una serpe, una sfinge, che cantava parole d’Inferno, così cariche di polvere e d’invidia che sembrava che le lettere dovessero prendere fuoco. Tuttavia a Cassandra suonavano così soavi e sublimi che rimaneva incantata ad ascoltare, colpita violentemente da quelle parole vuote, come niente l’aveva mai scossa prima d’ora”.
Lei gli ha detto che doveva morire tra i dolori dell’inferno, osservando la sua vita che scorreva via col sangue delle sue vene. Gli ha detto: “Muori e strappati il cuore. Mettici un cervello al suo posto”.

Ero annichilita ma incapace di scongiurare e disperdere quelle parole. Immobile ascoltavo quei deliri senza comprenderne i motivi. Finora ho vissuto nel rispetto del silenzio e dell’omertà che Cassandra mi aveva imposto. Guardavo con le mani legate e ascoltavo con la bocca bloccata dal bavaglio, mentre Cassandra era libera di uccidere se stessa in nome dell’atrocità. Disse che questo era il ‘progresso’ che l’avrebbe resa una donna migliore, più felice. Non potevo fare nulla, mentre il suo personale demone batteva le mani in segno di soddisfazione. La osservai fare quello che le aveva richiesto con orrore e disperazione. Quando si afflosciò sul pavimento, la vidi, rapita nelle spire nero pece di quella donna. Lei si dimenava contenta, mentre quella diavolessa sghignazzava in maniera orribile. Svenni per il terrore. Quando rinvenni, era già sera ed ero nuovamente libera. Non vidi il corpo di Cassandra. La cercai ovunque ma invano. Solo una chiazza rosso scuro era il segno dell’amica. La bicicletta era ancora appoggiata al muro esterno. Disperata ritornai a casa e non riuscì a dormire per molte notti. Udivo ancora le parole di Cassandra e di quell’essere infernale. Ero disperata perché non ero riuscita a salvarla dalla dannazione eterna. Sono passati molti anni ma il rimorso è cresciuto nel tempo. Non posso tacere ancora a lungo senza spiegare a chi in tutto questo tempo non ha mai disperato di vederla tornare sorridente e felice”.

Il foglio cadde per terra, raccogliendo alcune stille di sangue.